Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Dheepan è un combattente Tamil che di fronte alla sconfitta ormai prossima fugge in Europa, portando con sé
una donna e una bambina che non conosce. La piccola "famiglia" arriva a Parigi, dove spera di costruire una
nuova vita. Ma l'Europa degli immigrati non è un territorio facile, e la convivenza tra i tre deve superare molti
ostacoli. Palma d'Oro a Cannes 2015. Audiard attraversa i generi cinematografici in modo soprendente,
seguendo le peripezie verosimili di tre rifugiati.
scheda tecnica
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
musiche:
distribuzione:
109 MINUTI
FRANCIA
2015
JACQUES AUDIARD
MONTESQUIEU
JACQUES AUDIARD, THOMAS BIDEGAIN, NOÉ DEBRÉ
EPONINE MOMENCEAU
JULIETTE WELFLING
NICOLAS JAAR
BIM
interpreti:
JESUTHASAN ANTONYTHASAN (Dheepan), KALIEASWARI SRINIVASAN (Yalini), CLAUDINE
VINASITHAMBY (Illayaal), VINCENT ROTTIERS (Brahim), MARC ZINGA (Youssouf).
Premi e nomination:
2015 – Festival di Cannes, Palma d'Oro.
Jacques Audiard
Sceneggiatore e regista, nasce a Parigi nel 1952. Figlio di Michel Audiard, anch'egli sceneggiatore e regista, dopo
aver abbandonato gli studi di Lettere entra nel mondo del cinema come montatore. All'inizio degli anni Ottanta si
dedica alla sceneggiatura, collaborando con il padre per il film Mia dolce assassina diretto da Claude Miller.
Esordisce alla regia nel 1994 con il noir Regarde les hommes tomber, tratto dal romanzo Triangle di Teri White e
interpretato da Jean-Louis Trintignant, Mathieu Kassovitz e Jean Yanne. Presentato nella Settimana
Internazionale della Critica del 47º Festival di Cannes, il film conquista tre Premi César, fra cui quello per la
migliore opera prima.
La sua opera seconda, Un héros très discret (1996), di nuovo con Trintignant e Kassovitz, viene presentata in
concorso al 49º Festival di Cannes, dove riceve il premio per la miglior sceneggiatura.
Nel 2001 realizza Sulle mie labbra (Sur mes lèvres), con Emmanuelle Devos e Vincent Cassel, candidato a nove
Premi César, tra cui miglior film e miglior regista, e vincitore di tre premi (migliore attrice, miglior sceneggiatura e
miglior sonoro).
Il suo quarto film, Tutti i battiti del mio cuore (De battre mon coeur s'est arrêté) (2005), con Romain Duris,
remake del film statunitense Rapsodia per un killer di James Toback, viene presentato in concorso al Festival di
Berlino, dove riceve un Orso d'argento per la colonna sonora, e trionfa ai Premi César, vincendo otto premi (su
dieci candidature), tra cui quelli per il miglior film e il miglior regista.
La definitiva consacrazione arriva con Il profeta (Un prophète) (2009), vincitore del Grand Prix Speciale della
Giuria del 62º Festival di Cannes e di nove Premi César, nonché candidato all'Oscar al miglior film straniero.
In occasione del 67º Festival di Cannes ha tenuto una masterclass aperta al pubblico durante la quale ha parlato
della sua idea di cinema e del lavoro del regista. Nel 2015 vince la Palma d'oro al 68º Festival di Cannes con il film
Dheepan.
La parola ai protagonisti
Intervista a Jacques Audiard
Quale è stato il punto di partenza del suo film?
E’ un progetto che avevo messo in cantiere tempo fa, alla fine de Il profeta. E’ rimasto un po’ sotterraneo fino a
quando i miei co-sceneggiatori Noé Debré e Thomas Bidegain non lo hanno ritirato fuori. All’inizio si pensava
anche a un remake di Cane di paglia, anche se ora non ci assomiglia per niente. Desideravo più una storia
d’amore. In origine c’era l’idea di considerare il genere come un cavallo di Troia, e così è, ma con un cuore un po’
cupo. Ma risultava un film di genere "giustiziere", un genere un po’ stupido e reazionario. Quindi, molto presto
abbiamo ricentrato la sceneggiatura su una coppia e l’amore. Poi, c’è questa idea delle Lettere persiane di
Montesquieu: che cos’è un persiano? Fare un film francese, in Francia, in cui si parla tamil, era un progetto a
priori insensato. Ma ho preso degli attori stranieri e ho spinto le cose abbastanza lontano. Con questo progetto,
avevo presentito una grande libertà di creazione e di fabbricazione. E la sceneggiatura è molto cambiata durante
le riprese. Faccio sempre così, ma per un film come Un sapore di ruggine e ossa, ad esempio, l’improvvisazione
non funzionava. Qui, il 90% di quello che ho girato fuori sceneggiatura è nel film.
Dheepan è una storia piena di cose e tuttavia lineare. Come è arrivato a questo risultato e da dove era partito?
In Un sapore di ruggine e ossa, avevo una sceneggiatura estremamente costruita e serrata con una serie di
rimandi interni. Una costruzione forte. Avevo voglia di cambiare, sentivo il bisogno di fare un'operazione
completamente diversa. E con il mio co sceneggiature abbiamo inventato la sceneggiatura “sottoscritta”: questa
impostazione costringeva a sviluppare con gli attori tanti aspetti della storia durante il set. Per esempio
l’evoluzione sentimentale, la storia d’amore che nasce tra i due personaggi si è sviluppata nel corso delle riprese.
E devo dire che è stata un’idea eccellente perché lavorando con non professionisti se avessi usato una
sceneggiatura chiusa li avrei fatti sentire a disagio.
Il film racconta di una famiglia artificiale che ha lasciato una situazione di violenza, la guerra, per ritrovarne
un’altra, più urbana. Pertanto, resta molto allusivo su questi due tipi di violenza. Perché?
Questa è una cosa che si è evoluta durante lo sviluppo del film. Nelle prime stesure, Dheepan era più un
raddrizzatore di torti, ma non è questo che volevo. Non volevo fare un documentario sulla guerra in Sri Lanka, né
un documentario su una cité, bensì considerare questi elementi come una sorta di sfondo, senza bisogno di
descriverli. Quindi mi sono detto che sarei stato molto ellittico. Mi sono innanzitutto concentrato sul cercare un
modo per affrontare questa storia nei personaggi.
Anche se il film è incentrato sulla storia d’amore, la violenza resta tuttavia uno dei suoi temi prediletti.
Non capisco mai questa cosa. E’ davvero violento? Prendo semplicemente alla lettera la nozione di conflitto
drammatico al fine di esacerbare i sentimenti. Che cos’è una falsa famiglia, con un copione totalmente inventato
e che, alla fine, diventa una famiglia vera? Prima, Dheepan si batteva per ragioni politiche, ora si batte per le
persone che ama. C’è sempre la parola "battersi", è vero. Ma perché si tratta di una cosa che si deve conquistare,
niente è già dato.
Quali erano le sue intenzioni sul piano formale?
All’inizio avevo dei propositi per quanto riguarda l’immagine e la luce, ma mi sono dovuto adattare in fase di
riprese. Il film rifiutava alcuni effetti formali. Quello che era troppo pensato non si adattava alle riprese, la
steadycam, le forzate inquadrature in interni... Quindi alla fine, il film è piuttosto modesto in questo senso, ma ha
il cinemascope che dà un’immagine grande dei personaggi piccoli. Inoltre, era necessario fare dei cambi alla
direzione della fotografia e alla musica, perché quando lavori da troppo tempo con la stessa squadra, la gente sa
troppo bene quello che vuoi.
Il film attraversa in modo fluido molti generi cinematografici: storia d’amore, dramma, guerra.
Dal momento che l’azione di per sé era semplicissima ho avuto chiaro subito che il film doveva cambiare genere
seguendo i cambiamenti dei personaggi. Come se il vuoto d’azione si componesse evolvendo con i personaggi. Il
film inizia come di guerra, poi quasi di cronaca sociale, poi un film sulle banlieu, una storia amore, un film di
giustizieri. E mentre lo facevo non sapevo se sarei riuscito a fare tutto questo.
Le storie di profughi colonizzano i giornali, le tv, i documentari. Il suo è un film di finzione che è anche politico:
avvicinandoci all’umanità di queste persone.
Era questo il mio obiettivo. Evitando l’oggettività del telegiornale o dei documentari, volevo dare un volto e una
storia a queste persone, utilizzando il cinemascope. Quando ho avviato il progetto in Francia non è stato facile:
un film che batte bandiera francese, parlato in tamil. Trovare i fondi è stato difficilissimo, le televisioni non ne
volevano sapere. Dopo la Palma d’oro ovviamente passerà in prima serata.
La famiglia finta durante lo sviluppo della storia diventa un nucleo vero. Tra i due personaggi c’è una grande
sintonia.
Ho esitato molto prima di fare questo film, non riuscivo a decidermi. Quel che restava fissa era l’idea della falsa
famiglia, tema al cinema di solito da commedia, un classico matrimonio finto che poi diventa vero. E questo
aggancio con la commedia è servito a dare ironia al film e l’ironia ha permesso agli attori di essere a loro agio, di
sentirsi più liberi di recitare, cosa che non avevano mai fatto prima. Lui vive in Francia da vent’anni, lei è di
Madras. I due si sono incontrati sul set. Antony è stato il primo che ho visto il primo giorno delle audizioni. Ho
avuto colpo di fulmine ma lui era uno scrittore e per un regista è normale pensare di sbagliarsi: come è possibile
che si trova il primo giorno quello giusto? Così ne ho visti altri duecento, non trovando nessuno che mi
soddisfacesse. Poi il direttore del casting ha trovato Kali in India e mi ha portato un attore che avrebbe potuto
funzionare e che nel film è il colonnello. Quando ho provato questo attore e Kali non c’era chimica né erotismo
credibile. Mancavano dieci giorni all’inizio delle riprese. Allora ho detto che volevo rivedere Antony e appena
hanno provato loro due insieme le pareti vibravano: una grande sensazione di sensualità e scambio erotico che
ha funzionato. Se due persone non si piacciono non è credibile quel che interpretano. Sono diventati molto
amici, anche se non è scoppiata una storia d’amore tra loro.
Il racconto della banlieu e il finale salvifico in Inghilterra? Di certo lei non intendeva trasformare le prime
nell’inferno e la seconda nel paradiso...
“In realtà nel mio caso la banlieu è veramente un ambiente solo cinematografico, una scenografia. Perché cambia
dal giorno alla notte: a un certo punto sembra Las Vegas. Il problema è che se fai un film in Francia con un certo
tipo di personaggi non puoi astenerti dal trattare la banlieu anche da punto di vista sociale: io invece rifiuto
questo. Negli Stati Uniti viene accettata la teatralizzazione dei luoghi, che è quello che ho fatto io. Come è anche
teatralizzata la famosa scena finale in Inghilterra che non ho girato in Inghilterra ma in India, perché volevo che ci
fosse un sole indiano a riscaldare la coppia”.
Nel frattempo c’è stata l’onda dei profughi siriani in Europa e qualche muro innalzato.
Quel che posso dire è che mi stanca e mi infastidisce il dibattito sterile sulle frontiere ma nel caso specifico della
Francia di indentificare i rifugiati in politici o economici, li definirei semplicemente rifugiati climatici, perché è
quello che ci aspetta nei prossimi dieci anni. E non è stata elaborata nessuna riflessione profonda che invece è
quel che dovremmo fare. Quindici anni fa noi in Francia, soprattutto noi cineasti, manifestavamo per i sans
papiers perché si integrassero. E quel che ci aspetta nei prossimi anni è la situazione attuale moltiplicata per
dieci. Però bisogna riflettere sul fatto che le nostre società per come sono state concepite finora non potranno
continuare perciò è necessaria una metamorfosi.
Il suo non è un film sui rifugiati ma una storia di adattamento e integrazione. Usciti dalla sala lo sguardo verso
chi ci vende una rosa per strada sarà diverso.
Un cineasta fabbrica immagini e le elabora da una realtà: di fatto queste immagini, che sono ispirate dalla realtà
permettono poi allo spettatore di vedere il mondo in modo diverso. La cosa più bella del mio mestiere è riuscire
a fabbricare immagini che restano e che servono.
Intervista a Jesuthasan Antonythasan, scrittore e attore
Che cosa significano diritti umani per lei?
Non è un concetto univoco e universale. L'America dà una definizione, l'organizzazione per la liberazione della
Palestina né dà un'altra che non coincide con quella della Nazioni Unite. Per me, che sono un marxista convinto, i
diritti umani sono pura anarchia. Lo raccontiamo bene nel nostro film: partendo da passaporti ed esistenze in
prestito si costruisce una vera famiglia tra perfetti sconosciuti che mentono per sopravvivere.
Come ha vissuto l'arrivo dei profughi siriani in Germania tra gli applausi?
Sono felice, felicissimo di quella accoglienza ma non basta. Tutti sanno che i siriani scappano dal regime di
Bashar-Al Assad e dalle truppe dell'Isis. Non sono però gli unici: ci sono migliaia di persone che vivono le stesso
dramma e vorrebbero aver un posto che li accolga. Dovete ancora capire in Europa che nessuno vuole rubarvi la
ricchezza che avete ma i migranti sbarcano qui per salvarsi.
Ci racconta la sua storia di adolescente in guerra?
Io sono cresciuto con la guerra in casa. Avevo sette anni quando è scoppiata e vivevo a Nord dell'isola vicino e
Jaffna. Ho osservato con i miei occhi il massacro del popolo Tamil. Ho visto prima le librerie bruciare, poi il
massacro di Colombo e cinquantatré oppositori politici arrestati e uccisi. Non potevo stare con le mani in mano.
Per me era importante aiutare e difendere il mio popolo: per questo a sedici anni ho scelto di entrare a far parte
delle Tigri e imbracciare il fucile. Ho vissuto la guerriglia per tre anni e mezzo e ho visto il crescente controllo del
territorio e del potere dei vertici dell'organizzazione che puntava alla secessione. Ho deciso però di mollare
quando le Tigri hanno iniziato a colpire i civili singalesi e i musulmani. Era troppo per me: io combattevo per un
ideale socialista e il sogno di vivere senza differenze di religione, classi e cultura. Per me l'ideale era raggiungere
la parità per tutti non massacrare i nostri nemici.
Come ha vissuto da ex guerrigliero?
Nell'autunno del 1990 sono scappato da Jaffna per andare nella capitale, a Colombo, dove sono stato arrestato
per la mia militanza. Uscito dalla prigione ho raggiunto la Thailandia dove per tre anni ho vissuto come rifugiato.
Lo Stato ci garantiva un piccolo sussidio per poter vivere ma il visto era impossibile. Facevo ancora fuori e dentro
il carcere per l'assenza di documenti. Quando ho messo le mani su un passaporto falso francese sono scappato a
Parigi. Appena sbarcato in aeroporto i poliziotti hanno capito che i miei documenti erano palesemente fasulli e
mi hanno richiuso ancora in una cella e massacrato di botte. È stato il mio "benvenuto" in Europa.
Che idea si era fatto del vecchio Continente?
I miei amici che erano emigrati da anni mi ripetevano come un mantra "Non venire, non venire. È difficile
sopravvivere qui". Ma io dovevo scappare per salvarmi la vita e ricominciare da qualche parte. Per tanto tempo
ho aspettato buone notizie dal mio paese per poter tornare indietro. Nel frattempo però sono passati 25 anni.
Quando ha capito che il "nuovo mondo" poteva offrirgli la possibilità di diventare scrittore e attore?
Fin da ragazzo non avevo nessun piano di vita, nessuna idea per far evolvere la mia parte artistica. Io vivo senza
fare progetti: anche i guadagni del film li ho quasi terminati e non so come vivrò il prossimo anno. A gennaio si
vedrà.
Che cosa pensa dello Sri Lanka di oggi, con le Tigri Tamil praticamente scomparse e l'isola proiettata verso una
nuova era di benessere?
Ben venga quello che fa l'attuale governo per lo sviluppo del Paese. Io lo vedo positivamente il nostro futuro. I
partiti degli estremisti tra le fila dei Tamil e dei singalesi hanno preso una sonora batosta nelle ultime elezioni
presidenziali di gennaio. Entrambe le fazioni devono dimenticare la violenza e i soprusi della guerra civile. Oggi
l'importante è l'uguaglianza. Il modello dell'India con tante etnie sotto la stessa bandiera può funzionare anche
da noi.
Quanto c'è di tutto questo vissuto nel film?
Dheepan è un film di Jacques Audiard e lui tre anni fa aveva già scritto tutto partendo da "Le lettere Persiane" di
Montesquieu, aveva un'idea precisa di quello che voleva realizzare. Io sono semplicemente un attore, non c'è
niente di mio in questa storia. Il regista non sapeva nulla del mio passato. Io ho semplicemente tradotto in lingua
Tamil dando dei nomi e situazioni reali. È una storia d'amore con una famiglia "falsa" che diventa una vera
famiglia. Sono contento che si faccia vedere la sofferenza dei rifugiati singalesi che arrivano fino a qui.
Come è stato il suo incontro con il regista Audiard?
Prima di incontrarlo avevo una grandissima paura. Ma al primo incontro si è sciolta immediatamente. Jacques
oggi per me rappresenta un amico sincero e trasparente. Il suo modo di vedere il mondo si riflette anche durante
le riprese: tutti eravamo liberi di dire la nostra opinione e aggiungere particolari.
Come ha vissuto la Palma d'Oro e la celebrità di un premio così importante?
Ho capito che c'era qualcosa nell'aria perché il venerdì, con il festival di Cannes ancora in corso, io ero già
rientrato a casa pensando che non avremmo vinto mai. La domenica però mi hanno telefonato per dirmi di
tornare indietro. E ho pensato: o mi danno il premio come migliore attore o ci siamo aggiudicati la Palma d'oro.
Quando però sono arrivato in aeroporto e ho trovato il mio collega attore Vincent Rottiers ho capito che il premio
non era per me. Dopo la premiazione non è cambiato assolutamente nulla. Anzi sì: ora mi riconoscono e non
posso più saltare i tornelli della metropolitana come facevo prima.
Dopo il vostro premio la rivista francese Cinema ha parlato di "vuoto politico del cinema francese". Si aspettava
una critica così spietata?
Non condivido questa critica. Il nostro film è stato molto importante per la cinematografia d'Oltrealpe: è stata la
prima volta di un attore in scena con un volto Tamil e con dialoghi all'80 per cento in lingua originale. Per Audiard
è stata una grande sfida: non poter sapere cosa gli attori dicono durante le riprese e scegliere di lasciar tutto in
una lingua così lontana dal francese era un un grosso rischio. In più all'interno del cast c'erano solo due
professionisti. Gli altri erano tutti all'esordio o quasi. Io credo che abbia vinto il coraggio di questa sfida.
Quanto c'è di Dheepan nella vita di Jesuthasan?
Tutti mi dicono che abbiamo ceduto alla voglia di fare un finale in stile americano, con il protagonista integrato e
felice. La mia però non è una storia con happy ending. Sono un perfetto apolide e quando il prossimo mese
presenteranno il film al festival di Colombo non potrò tornare nel mio paese
Recensioni
Roberto Nepoti. Repubblica
Ora che il film vincitore della 68ª edizione di Cannes arriva nelle nostre sale, anche lo spettatore italiano potrà
dire la sua sulle polemiche che accompagnarono la Palma d’oro assegnatagli dalla giuria dei fratelli Coen. A
legittimarle fu - almeno in apparenza - il soggetto, che secondo alcuni rimanda ai film di giustizia privata in voga
negli anni 70, con relativo sottofondo reazionario declinato in cinema di genere (la serie del Giustiziere della
notte, per intendersi). Il protagonista si chiama Dheepan ed è un profugo dello Sri Lanka, dove è stato soldato
nelle tigri Tamil durante la guerra civile. Per poter espatriare l’uomo simula di costituire una famiglia con la
giovane Yalini, che è più una rifugiata economica, e l’orfana di nove anni Illayaal. (…) Per difendere quel che ha
conquistato, l’uomo tenta prima di recintare uno spazio protetto; ma inutilmente. Allora in lui si risveglia l’antico
soldato, che impugna le armi per difendere sé e le persone amate.
Ora, se si crede che un film coincida semplicemente col suo soggetto, i detrattori di quello di Jacques Audiard,
ossessionati dall’ideologia del politically correct, potrebbero anche avere ragione. Non è così, naturalmente. Il
regista francese non mette affatto in scena un dramma sociale per poi appiccicargli un finale da cinema di genere
alla Golan&Globus: porta invece la storia alle sue estreme conseguenze, evitando sia le ovvietà sociodemografiche dei film “socialmente impegnati”, sia la tirata reazionaria sui pregi della violenza autogestita. I tipi
come lui si contano sulla punta delle dita: quelli capaci di sposare cinema d’autore (con un punto di vista e uno
stile precisi) e spettacolo popolare, rivolgendosi al pubblico nella sua totalità senza prendere lo spettatore per un
idiota beato o volergli imporre una lezione di sociologia per principianti. Certo, Dheepan è un film costruito in
maniera insolita, articolando un finale violento intorno a una bella storia d’amore e alternando brani di realismo
con altri di un lirismo struggente (che ricorda un altro bel titolo controverso di Audiard, Un sapore di ruggine e
ossa ). Non mancano neppure le scene oniriche, nel sogno ricorrente dell’ex-soldato che allude alle sue origini:
un elefante, simbolo di saggezza cui l’uomo si appella inconsciamente. Soprattutto, però, Dheepan è un film
raccontato benissimo; una parabola di redenzione il cui protagonista reagisce a un’aggressione che è sì fisica, ma
che minaccia soprattutto il suo sogno di una vita diversa. E c’è una bella differenza tra la storia di un vigilante
urbano e quella di una famiglia finta che vuol diventare vera. Vedere per giudicare.
Gabriele Niola. Mymovies.it
(…) Qualsiasi storia nel cinema di Audiard per raggiungere il paradiso del sentimentalismo, quella punta emotiva
che suscita nello spettatore l'irrazionale sensazione di partecipazione alle vicende dei personaggi, deve passare
per l'inferno della violenza. Come se le due forze fossero inscindibili nei suoi film si attraggono a vicenda: gli atti
violenti o criminali chiamano amore e ogni amore per concretizzarsi prima o poi richiede di essere legittimato
dalla violenza, altrimenti sembra non poter essere davvero tale.
Destinato a mettere a confronto e a sovrapporre questi due estremi, questa volta Audiard decide di eliminare
ancora più del suo solito il primo livello di comunicazione. I protagonisti di Dheepan fanno molta fatica a parlarsi,
non solo spesso non si capiscono per problemi di lingua ma anche quando parlano lo stesso idioma è come se
non riuscissero ad essere chiari gli uni con gli altri. In un cinema in cui l'unica legge che conta è quella dei corpi,
strusciati o impattati, non sarà mai con le parole che si potrà risolvere qualcosa, in storie in cui l'unica verità è
quella espressa dagli istinti non è con il ragionamento che si può cambiare la propria vita.
I protagonisti di Dheepan hanno solo i fatti e le azioni per spiegarsi ma per Audiard bastano e avanzano. Il regista
non teme di scrivere una scena di dialogo, forse la più bella ed intensa del film, tra due persone che parlano
ognuno una lingua che l'altro non conosce, eppure sembrano stranamente sulla stessa lunghezza d'onda. Si tratta
forse dell'unico momento nel film in cui si intravede un lampo della capacità quasi ottocentesca che quest'autore
ha di raccontare gli uomini attraverso lo stordimento.
Questa volta la riluttanza con cui il protagonista cerca di non farsi trascinare in un mare di efferatezza e di
scegliere di costruire il suo opposto con una donna sembra però meno potente del solito. Coadiuvato da due
interpreti decisamente meno abili e virtuosi di quelli cui Audiard ci ha abituato e caratterizzati con molta meno
umanità del solito, il suo ultimo film appare come il più lieve, quello che con più difficoltà riesce ad accendere un
fuoco sfregando i legnetti del suo arsenale.
Dall'altra parte però Dheepan involontariamente conferma cosa sia ad attirarci verso questa storia e questo stile
di racconto, anche quando meno riuscito. Si tratta della continua esistenza di un rumore di fondo tetro, la netta
sensazione che in ogni momento emotivo esista una sottile paura della morte, la consapevolezza che tutta la
passione mostrata possa prendere la strada del sangue come quella dell'amplesso e forse non esiste differenza.
Del resto nell'inferno del palazzone grigio e indifferente in cui si svolge il film si consumano sparatorie e guerre
fra bande nelle quali striscia la possibilità di tramutare una famiglia finta in famiglia vera. L'ultima possibile
eredità del cuore pulsante del noir (inseguire un amore nei luoghi e nelle situazioni che rendono più difficile
rimanere vivi) è forse davvero questa.
Alberto Cassani. Cinefile.biz
Con perfetto tempismo, Jacques Audiard porta in concorso al Festival di Cannes un film sugli immigrati. Lo fa con
la lucidità che gli è ormai naturale e lo fa ovviamente anche per raccontare i ghetti francesi che hanno già fatto
sfondo ai suoi due ultimi, splendidi, film. (…) Dheepan è un film duro e disturbante, certamente scomodo e per
nulla accomodante. Lo stile asciutto di Audiard aiuta a rendere perfettamente la crudezza dell’ambiente,
trovando ottima sponda nei volti dei suoi sconosciuti protagonisti e creando anche un personaggio secondario
particolarmente riuscito. Certo non siamo al livello del Profeta e di Ruggine e Ossa, ma si tratta comunque di un
film in grado di suscitare emozioni forti, nonostante sia più difficile immedesimarsi nei personaggi. Il finale
agrodolce tutt’altro che conciliante, poi, è un tocco politico non da poco. E anche per questo, è facile che il film
non piaccia a chi ha determinate idee ben radicate in testa.
Virginia Campione. Cinematographe.it
Discusso vincitore della Palma d’Oro alla passata edizione del Festival di Cannes, arriva nelle sale
cinematografiche italiane Dheepan - Una nuova vita, per la regia di Jacques Audiard (già trionfatore al Festival
francese nel 2010 con Il Profeta, titolare del prestigioso Grand Prix). Un’opera ispirata in parte alle Lettere
persiane di Montesquieu, manifesto della satira illuminista degli usi e costumi francesi, ma prettamente centrata,
un po’ come lo era stato già Il Profeta, sulla trasformazione di un uomo nel corso del suo travagliato percorso di
vita. Un uomo che diventa famiglia innanzitutto per necessità, accorgendosi in seguito di non potere rimanere
indifferente alla “beffa” che il destino ha architettato per la sua salvezza, progressivo motore di una realizzazione
molto più profonda.
Una Palma d’Oro un po’ più dinamica di quella dello scorso anno (...) che ha diviso critica e pubblico più per la
disponibilità di opere forse (o sicuramente) più immediatamente fruibili e godibili in Selezione Ufficiale, ma non
per questo non meritevole di apprezzamento, fosse solo per la capacità di unire alla denuncia (quella della
sanguinosa Guerra Civile in Sri-Lanka) l’ispirazione per parlare di un concetto di salvezza molto più ampio e
sottile, sullo sfondo delle differenze interculturali che- anche se spesso lo dimentichiamo – rappresentano una
difficoltà per entrambe le parti in causa. (...)
Con Dheepan, Jacques Audiard sceglie un linguaggio tanto semplice quanto ricco di suggestioni per far calare lo
spettatore nei panni dell’immigrato, costretto a farsi accogliere da una terra che spesso, purtroppo, non è molto
più civile di quella appena abbandonata. Il punto di vista si stringe e si allarga, alternando sapientemente lo
sguardo soggettivo dei protagonisti (numerose le riprese strettissime, atte a cogliere e sottolineare espressioni e
sentimenti spesso confusi e contraddittori) con una visione esterna, più ampia e meno direttiva, in cui spesso è
difficile interpretare le complesse dinamiche alla base di ciò che si vede, destinate a dipanarsi e a rivelarsi
completamente solo nel finale. La “guerra” parigina, se da una parte ricorda ai protagonisti (e agli spettatori) che
nessun luogo è sicuro, dall’altra eleva il concetto di “unità” ad unico vero espediente per salvarsi da una realtà
ostile e che costringe le persone a cambiare anche se, qualche volta, in meglio.
Le figure femminili della finta moglie Yalini (Kalieaswari Srinivasan) e della finta figlia Illayaal (Claudine
Vinasithamby) rappresentano, nell’economia della sceneggiatura, la cartina tornasole della trasformazione di
Dheepan che, spinto dall’umano desiderio di calore ed affetto, abbandonerà prima le armi materiali e poi quelle
emotive, smettendo di combattere per farsi vincere dall’unica forza per la quale valga la pena soccombere: quella
dell’amore. Un epilogo scritto solo in parte in copione, che affiora prettamente dal relazionarsi quotidiano dei
protagonisti attraverso sguardi e gesti, nel modo più realistico e meno ipocrita possibile.
Lungi dal proporre un lieto fine forzato e mieloso, Dheepan è quindi un film profondamente radicato al reale, il
cui merito è principalmente aver raccontato la complessità ed umanità dei sentimenti attraverso gli occhi stupiti
e confusi di una famiglia che non credeva di essersi scelta.
Mario Donzelli. ComingSoon.it
La conoscenza del diverso è tutta questione di punti di vista. In un periodo in cui l’immigrazione si pone come
una nuova occasione per misurare la capacità dell’occidente di mettersi nei panni di chi rischia tutto per
cambiare vita, il cinema sta cercando di fare la sua parte. Ispirandosi al primo grande esempio letterario di
capovolgimento di punto di vista, le "Lettere persiane" di Montesquieu, Jacques Audiard racconta in Dheepan
una turbolenta periferia parigina attraverso gli occhi di tre persone in fuga dalla guerra civile in Sri Lanka.
(…) Regolamenti di conti, spari in pieno giorno, rischiano di interrompere la quiete del processo iniziato da
Dheepan; quello del superamento di una vita segnata fin da ragazzino dalla violenza. Il rischio è di riattivare una
ritualità nascosta, che i canti di guerra lo portino di nuovo verso territori nascosti nel suo subconscio, portandolo
a regolare a colpi di pistola le vicende della sua vita.
Per interpretare questo rifugiato Audiard ha scelto un non professionista, nel campo della recitazione, ma ex
professionista in quello della guerra di indipendenza Tamil. Lui, che ama lanciare volti nuovi come Tahar Rahim in
Il profeta, si affida a Anthonythasan Jesuthasan, ragazzo soldato fino all’età di 19 anni, rifugiatosi poi in Francia.
Un personaggio eclettico, che ha iniziato a scrivere da ragazzo, durante la militanza, pubblicando poi in europa
alcuni libri pieni di riferimenti autobiografici.
In Dheepan le difficoltà di comprensione di abitudini di vita diverse dalle proprie occupa solo pochi minuti, anche
divertenti, lasciando poi spazio all’inevitabile elemento di rottura della tranquillità domestica, facendo tornare la
violenza nelle vite della famiglia per caso.
Audiard prosegue il suo racconto delle marginalità, sociali o emotive, realizzando un film minore, svolto con la
consueta abilità, anche se l’urgenza di raccontare questa storia sembra più che altro tematica. Affascinato da una
cultura da scoprire sembra preoccupato di rispettarne le peculiarità, finendo per rappresentare dei simboli più
che dei personaggi in carne ed ossa. Anestetizza il suo grande talento di narratore, sembra volerli proteggere,
portandoli docilmente verso una conclusione all’insegna di quella speranza che nella vita hanno solo sognato.