Capitolo II LA SCUOLA - CISADU
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Capitolo II LA SCUOLA - CISADU
Scuola e culture. Materiali di antropologia della mediazione scolastica Marzia Canofari Contributi antropologici per un'educazione interculturale: un'esperienza di ricerca nella scuola primaria Tesi di laurea Università degli Studi di Roma 'La Sapienza' - Facoltà di Lettere e Filosofia - Corso di laurea in Lettere - a.a. 2001/2002 Relatore: prof. Laura Faranda - Correlatore: dott. Mauro Geraci Documento pubblicato sul sito del Dipartimento di Studi glottoantropologici e Discipline musicali il 12 luglio 2004 http://rmcisadu.let.uniroma1.it/glotto/index.html 1. Il mondo scolastico in Bulgaria. Scuola italiana e bulgara a confronto. Per quanto concerne la struttura del sistema di istruzione in Bulgaria, c’è da sottolineare il valore che viene attribuito ai “principi della scuola dell’obbligo”: - diritti umani - diritti dell’infanzia - tradizioni della cultura bulgara - conquiste della cultura mondiale - valori della società moderna - libertà di pensiero e di decisione L’insegnamento generale prevede un corso di studi articolato in quattro fasce: TIPO Materna DURATA CLASSI ETA’ PREVISTE PREVISTA 3 anni Dai 3 ai 7 anni Elementare* Media * 4 anni 4 anni Dalla 1° alla Dai 7 agli 11 4° classe anni Dalla 4° alla Dagli 11 ai 61 Superiore 3; 4/5 anni 8°/9° classe 15 anni Dalla 7° alla Dai 15 ai 12° classe 18/19 anni * istruzione obbligatoria 62 63 Figura 1 Struttura generale del sistema d’istruzione. L’istruzione prevede libri gratuiti solo per la 1° elementare. La frequenza della scuola materna non è obbligatoria. Oltre al settore statale che è del 95%, ne esiste uno privato, non rilevante ma in crescita. L’età di obbligo scolastico è stabilita fino a 16 anni. La scuola dell’obbligo è costituita da un ciclo, definito genericamente scuola di base e unificato da un punto di vista amministrativo. Nei primi quattro anni sono previsti uno o due insegnanti, dal quinto anno è previsto un insegnante per area disciplinare. L’età di inizio è fissata a 7 anni. Non ci sono esami intermedi. 64 Allo stesso livello di istruzione c’è la possibilità di avere una qualifica professionale complementare tramite programmi tecnici dopo il termine della 8°, 7° o 9° classe. L’ordinamento scolastico prevede i rapporti scuola-famiglia, tramite comitati genitori-insegnanti e colloqui periodici. L’istruzione risulta gratuita, tuttavia sono presenti alti costi per i libri e le tessere per i mezzi di trasporto pubblico. L’anno scolastico è diviso in due semestri: dal 15 settembre fino al 7 febbraio e dal 10 febbraio al 30 giugno. L’apertura dell’anno scolastico è uguale per tutti, mentre le lezioni terminano: -il 24 maggio per le scuole elementari, festa nazionale di Santi Cirillo e Metodio creatori dell’alfabeto cirillico; -il 15 giugno per la scuola media; -il 30 giugno per le scuole superiori. Sono previsti vari periodi di vacanze: natalizio della durata di 15 giorni, primaverile di 10 giorni, pasquale di 3 giorni, vacanze estive di 75 giorni. La frequentazione scolastica va dal lunedì al venerdì. Le lezioni hanno una durata di 45 minuti con intervalli di 10 minuti; è prevista una pausa più lunga a metà giornata di 20 minuti circa. Attualmente non esiste una votazione per la condotta. Mediamente una classe è composta da: 30 alunni nelle elementari, 28 nelle medie, 26 nelle superiori. Il 90% del personale pedagogico è femminile. Durante ogni semestre sono previsti da 2/3 incontri tra professori e genitori, in alcuni casi gli studenti possono essere presenti. 65 PROSPETTO DEL PROGRAMMA SCOLASTICO N CLASSI TOTALE CLASSI TOTALE ORE Classi Settimane scolastiche I II III IV I - IV 31 32 32 32 217 7 224 7 224 7 224 7 889 64 2 96 3 96 3 256 ORE V VI VII VIII V - VIII 34 34 34 34 17 0 5 170 5 170 5 680 17 0 5 85 2,5 85 2,5 68 2 68 2 306 68 2 68 2 68 2 68 2 272 136 4 136 4 544 Materie A Preparazione obbligatoria 1 Lingua bulgara e letteratura 2 Lingue straniere Prima lingua Seconda lingua 3 Matematica, informatica, tecnologie informatiche Matematica 124 4 112 3,5 112, 3,5 128 4 476 36 4 13 6 4 Informatica Tecnologie informatiche 4 Scienze sociali Paese nativo 31 1 31 1 L’uomo e la societa’ 48 1,5 32 1 80 Storia delle civilta’ 51 1,5 51 1,5 51 1,5 51 1,5 204 Geografia ed economia 51 1,5 51 1,5 51 1,5 51 1,5 204 Psicologia e logica Etica e giurisprudenza Filosofia L’universo e l’umanita’ 5 Scienze naturali ed ecologia Il mondo 32 32 66 L’uomo e la natura 6 7 32 1 48 1,5 80 85 2,5 85 2,5 Biologia e base della sanita’ 68 2 68 2 136 Fisica e astronomia 51 1,5 51 1,5 102 Chimica e protezione della natura 51 1,5 51 1,5 102 Arte Musica 62 2 64 2 48 1,5 48 1,5 222 68 2 68 2 51 1,5 51 1,5 238 Arte figurativo 62 2 48 1,5 64 2 48 1,5 222 68 2 68 2 51 1,5 51 1,5 238 31 1 32 1 32 1 32 1 127 51 1,5 51 1,5 Costumi e tecnologie Vita domestica Tecnica e tecnologia domestica Tecnologie 8 B C 170 Educazione fisica e sport 62 2 64 2 80 2,5 80 2,5 286 Totale preparazione obbligatoria (A) 589 19 640 20 736 23 736 23 2701 Preparazione di scelta obbligatoria * 93 3 64 2 64 2 64 2 285 Preparazione di scelta libera * * 124 4 128 4 128 4 128 4 508 85 2,5 85 2,5 91 8 27 91 8 27 10 2 3 10 2 3 13 6 4 13 6 4 102 34 1 34 1 68 68 2 68 2 306 918 27 918 27 3672 102 3 102 3 408 136 4 136 4 544 * Preparazione di scelta libera sono: lingua straniera, lingua madre, danza e nelle scuole professionali arte, sport.... ** Su programmi stabiliti dal Preside (compreso religione) 67 La scuola superiore si divide in tre settori: Superiore di istruzione Superiore Superiore generale professionale tecnica Livello 3A Livello 3C Livello 4B Scuola Scuola Scuole Business, superiore di profilo tecniche scienze di base (liceo) bancarie, (ginnasio) finanza, trasporto, industria Durata 3-4 Durata Durata 3-4 Durata 4 anni 4-5 anni anni anni Accesso Accesso Accesso dopo Istruzione libero dopo la 3° e 4° ulteriore esame di media concorso Diploma di Diploma Qualifica istruzione di professionale superiore maturità con maggiori cognizioni pratiche A seguito del crollo del vecchio sistema politico (nell’inverno del 1989 in Bulgaria) la scuola nazionale deve fare i conti con fenomeni conosciuti e molto complessi della democrazia: disoccupazione – che raggiunse uno dei massimi europei - inflazione, corruzione, depressione. Il processo di riforme è lungo e richiede sacrifici. Si presenta un’enorme disuguaglianza sociale. È da notare che fino al 1989, il 25% del budget nazionale era diretto al settore scolastico. L’analfabetismo sfiorava nemmeno il 5%. Quasi il 100% degli studenti 68 concludeva la scuola superiore, non solo quella dell’obbligo. Il vecchio sistema d’istruzione -compresi gli studi universitari- era gratuito. (C’è da sottolineare che comunque le fonti di ricerca erano limitate per motivi politici e ideologici). Oggi la realtà è molto diversa e pochi sono i fondi stanziati per il sistema scolastico. In Bulgaria i programmi scolastici si basano principalmente su una vasta preparazione scientifica, linguistica, umanistica; viene largamente studiata la storia mondiale oltre a quella nazionale, la letteratura classica mondiale (compresa quella italiana), così come per la musica, l’arte, la geografia. L’aspetto del sistema scolastico bulgaro appare dai dati forniti piuttosto rigido e distaccato, sia durante il vecchio regime che oggi giorno. Ciò trapela anche dalle parole degli intervistati (i genitori delle due bambine presenti in III elementare), i quali la prima cosa che sottolineano parlando di come si trovano in Italia, è il clima di calore e confidenza che è presente nella scuola. Diario martedì 5 Giugno 2001 All’uscita di scuola Ivanka ed io aspettiamo sua madre che non tarda ad arrivare all’appuntamento. Non parla italiano perciò iniziamo a conversare in inglese. Le chiedo com’è la scuola in Bulgaria e mi rivela che è un’insegnante del liceo. È entusiasta della scuola italiana sia per i testi utilizzati a suo dire molto chiari, sia per il rapporto molto confidenziale che si instaura tra alunni e professori. Mi confessa : “Ivanka dice che tu sei molto gentile…” 69 Parla di questo contatto così umano e socievole come un qualcosa di molto positivo, che riesce ad invogliare e spronare lo studente facendo sì che si applichi di più. Comportamenti questi, molto diversi da quelli in uso oggi nella scuola bulgara, dove spesso si utilizzano metodi di punizione e castighi che sortiscono effetti contrari. Fa l’esempio di Ivanka che odiava la matematica poiché aveva a Sofia una maestra che ad ogni disattenzione picchiava gli alunni con il righello sulle mani, mentre invece da quando è alla scuola italiana l’accetta più volentieri… “qui le maestre ti domandano se hai il ragazzo, ti fanno qualche carezza e ti sorridono, al contrario che in Bulgaria dove non esiste questo calore umano…forse perché siamo in Italia!” e sorride. 70 2. I bambini e le maestre. Da sempre si è consapevoli dell’importante ruolo formativo degli insegnanti sin dalla scuola elementare, all’interno della quale inizia il processo formativo caratteriale e lo sviluppo delle capacità relazionali in un contesto comunitario. Il distacco dal nucleo familiare, guscio di protezione, iniziato con l’avvio alla scuola materna, acquisisce un carattere fortemente educativo poiché introduce il bambino in una dimensione in cui viene a contatto con i comportamenti e le opinioni di coetanei (spesso discordanti dalle proprie). Un nuovo mondo dunque, dove confrontarsi e imparare ad ascoltare. È qui che le maestre ricoprono un ruolo fondamentale, mediare tra i caratteri, tra gli atteggiamenti di ogni singolo individuo, dando vita ad un atteggiamento di rispetto reciproco all’interno della classe stessa. È evidente che gli insegnanti abbiano il compito di educare gli alunni ma non più di quanto spetti agli stessi genitori. Ed è proprio su questa trilogia che si incentra il dibattito: bambini-scuola-famiglia, tre poli fondamentali senza i quali non avrebbe senso parlare di mediazione interculturale. Purtroppo il polo di riferimento “insegnanti” (dato il carente intervento dei ministeri e degli organi preposti) non è posto nelle condizioni di riuscire facilmente ad interpretare e soprattutto 71 prevenire, quegli attriti che -se sottovalutati o non adeguatamente sanati- possono tramutarsi in veri e propri pregiudizi. Approvazione e rimprovero, unici parametri a disposizione degli alunni per misurarsi tra loro, sono strumenti da utilizzare con oculatezza, per non dar adito ad interpretazioni errate da parte dei bambini e dei genitori stessi. Ho avuto occasione di rilevare come in aula, banali screzi possano provocare malintesi determinando la lettura di taluni comportamenti come “discriminatori”. Episodi spiacevoli del genere, dimostrano che l’istituzione scolastica si trova ad affrontare una situazione per la quale non è stata dunque preparata, poiché l’Italia solo nell’ultimo decennio si è bruscamente trasformata da paese di emigrazione, a paese di immigrazione. Alle nuove esigenze si è tentato negli anni di far fronte in vari modi, non sempre adatti a risolvere le questioni che di volta in volta si presentavano. Si è cercato di mettere a punto strategie compensative per insegnare la lingua del paese ospitante il più in fretta possibile e colmare così lo scarto fra le abilità/competenze possedute da chi è diverso e quelle richieste dalla società/scuola. Purtroppo però questo multiculturalismo ingenuo parte dalla constatazione degli insuccessi scolastici delle minoranze, con lo scopo di integrare nella cultura dominante chi non ne fa parte. In questo modo si presuppone che le cause di questi fallimenti dipendano dalle lacune presenti nei ragazzi. 72 Non si giunge a mettere in relazione gli insuccessi dei bambini con l’impostazione pedagogico-didattica e l’approccio metodologico degli insegnanti. In realtà l’apprendimento della seconda lingua è favorito dal rinforzo della lingua madre, in più imparare una seconda lingua da chi produce errori di pronuncia, grammatica e sintassi, induce il bambino ad interiorizzare e perpetuare gli errori stessi,1 (infatti si chiedeva ai genitori di parlare in italiano anche a casa), e si sa che è molto più complicato correggere gli errori, piuttosto che imparare correttamente da subito. Seppur necessario uno sguardo particolareggiato per chi ha bisogno di essere seguito con maggiore attenzione, l’ostentata differenziazione in classe non aiuta affatto il bambino straniero, anzi lo emargina ancor di più racchiudendolo in una sfera in cui la maggior parte delle volte entra (per richiesta delle maestre stesse) “l’insegnante di sostegno”. Questa figura viene impiegata per agevolare il lavoro dell’insegnante di ruolo nella classe, affiancando quegli elementi che non riescono a stare al passo con il quotidiano svolgimento delle lezioni. Di solito ne viene fatta richiesta in presenza di alunni con difficoltà di apprendimento, oppure il suo intervento è mirato a specifiche materie nelle quali il bambino mostra maggiori difficoltà. Secondo queste necessità all’interno di una classe può dunque verificarsi la compresenza di più maestre fino anche a tre. Con 73 estrema facilità dunque, si ricorre all’insegnante di sostegno, qualora in classe si presentino uno o più bambini stranieri, il più delle volte prevedendo –non sempre a torto- difficoltà linguistiche (legate cioè alla comprensione della lingua italiana; il ruolo dell’insegnante di sostegno in questo caso è quello di ripetere più lentamente e con più chiarezza i concetti, di spiegare i significati dei termini ancora sconosciuti). Proprio su questo punto spesso iniziano ad inasprirsi i rapporti tra i genitori dei bambini immigrati e la scuola. Cercare in tutti i modi di sottolineare che il “non poter fare” qualcosa, (come non mangiare maiale, o non fare lezione di religione cattolica insieme al resto della classe), definisce un individuo per negazione e gli impedisce di entrare in quel “gruppo”, per mezzo di una completa accettazione, obiettivo ben più importante che imparare perfettamente l’italiano. Spiegare invece le motivazioni delle differenze, le particolarità e gli aspetti di un’altra etnia, induce i bambini a scoprire le caratteristiche di altre culture, senza identificarle come incapacità ma riconoscendole come peculiarità del loro nuovo compagno. In questo modo il bambino straniero si sente spronato a parlare del suo mondo, del suo paese d’origine, della sua religione, senza vergognarsene. Ed è ovvio, quando qualcosa si conosce non c’è più motivo di temerla e perciò di escluderla. Per questo aspetto cfr. E. Nigris, (a cura di) Educazione interculturale, Milano, Bruno Mondatori editore, 1996. 1 74 Sono tante le discriminazioni inconsce comuni al nostro modo di parlare. Anche solo il descrivere un individuo dalla pelle, come “un bambino di colore” fa sorgere spontanea la domanda “di che colore?”, un atteggiamento errato già distacca i “bianchi” non inserendoli in quel gruppo di “bambini di colore”, di colore nero, marroncino, rosso, giallo, verde…tutti, ma non bianco, differenziando ancora una volta. L’educatore si situa nel complesso scenario del processo educativo di trasmissione culturale e di costruzione delle identità e delle conoscenze come operatore di un processo educativo intenzionale ed orientato. Insieme ai saperi, metodi obiettivi propri al suo specifico sapere, egli mette in gioco, così come il soggetto in formazione, saperi, credenze, valori maturati al di fuori della situazione educativa. Per indicare questo insieme di conoscenze si è parlato di pedagogia nascosta, di teorie soggettive, di rappresentazioni, di visioni del mondo.2 A questo punto ci si domanda quale debba essere l’immagine di straniero di cui un educatore è portatore; in nome di quali parametri alcuni individui sono considerati stranieri ed altri no; quali rappresentazioni e quali spiegazioni delle differenze culturali informano più o meno implicitamente la prassi educativa; qual è l’immagine di “cultura” che sostiene un progetto che si definisce interculturale. 2 R. Massa (a cura di), La clinica della formazione, Milano, Franco Angeli, 1992, ivi p.145. 75 Spesso l’identificazione di un qualcuno come straniero è del tutto indipendente dalla presa in considerazione del suo statuto giuridico. Come una persona parla, come si veste, il colore della pelle, il suo comportamento, sono gli indizi con cui si attua la categorizzazione sociale nella vita quotidiana. È un processo socio-cognitivo di interpretazione della realtà. “Se la categorizzazione dipende dagli scopi dell’agire, ciò significa che essa ha dei margini di flessibilità e revocabilità ma quando una categoria sociale è fortemente specificata mediante l’attribuzione di tratti o caratteristiche differenziali considerate emblematiche, rappresentative e costitutive della categoria siamo di fronte alla produzione di uno stereotipo.”3 La psicologia sociale distingue gli stereotipi dai pregiudizi. Mentre “i primi sarebbero forme di generalizzazione in sé neutre, i secondi si articolano sullo stereotipo dei giudizi di valore.”4 Allport è considerato il riferimento obbligato per la teoria del pregiudizio sociale. Egli si è soprattutto occupato del pregiudizio etnico, cioè del dispositivo per cui reagiamo negativamente o attribuiamo caratteristiche negative a una persona in quanto appartenente a un gruppo che a sua volta è stato definito attraverso delle caratteristiche su cui abbiamo prodotto un giudizio negativo. Lo stereotipo etnico è l’attribuzione di alcune qualità alla categoria. A partire dalla generalizzazione di tratti propri a qualche individuo della categoria, quei tratti diventano attributi caratteristici 76 di tutti i membri della categoria. È evidente che il pregiudizio implichi lo stereotipo, al contrario lo stereotipo non implica il pregiudizio ma emerge in un mondo sociale carico di pregiudizi e di immagini valorizzate o svalorizzate a loro volta. Sia gli stereotipi che i pregiudizi sono sempre prodotti attraverso il discorso, infatti l’analisi del discorso mette in luce che “ogni individuo classifica il mondo secondo una variazione all’interno di un repertorio interpretativo che si adatta agli scopi e alle circostanze.”5 Tale approccio rende conto delle contraddizioni implicite al discorso: ad es. il discorso comune sull’immigrato può prevedere sia il “pregiudizio” che egli non lavora, che “viene qui a non far niente”, sia il pregiudizio contrario: “gli immigrati ci portano via il lavoro”. Tali contraddizioni evidenziano quanto, volta per volta, il pregiudizio sia costruito in funzione di scopi e circostanze particolari. Purtroppo quando i pregiudizi, seppur latenti, entrano in classe, la questione si fa più complicata perché i bambini si sentiranno autorizzati a far propri questi stereotipi, intrappolando in categorie prestabilite alcuni loro compagni: “immigrati”. Nei colloqui informali con alcuni dei docenti ho notato che durante la presentazione degli alunni, si accennasse anche alla loro condizione sociale sia nei confronti dei bambini italiani che di quelli stranieri: 3 4 5 H. Tajfel, C. Fraser, Introduzione alla psicologia sociale, Bologna, Il Mulino, 1979, ivi p. 153. G. Allport, La natura del pregiudizio, Firenze, La Nuova Italia, 1973, ivi p. 155. E. Nigris (a cura di), Educazione interculturale, op. cit. pp.169. 77 “…questo qui davanti è Jhonathan, è filippino e ha dieci fratelli, la mamma ha un banco di frutta qua vicino, si arrangia come può e all’uscita lo viene prendere la sorellina di undici anni; quello lì in fondo è Rafael, è ebreo e non parla bene italiano ma i genitori hanno un sacco di soldi, sono proprietari di una pellicceria in Via…. ; e loro invece sono le due bambine bulgare, una è qui da un anno e l’altra da pochi mesi ma sono figlie di ambasciatori, corpo diplomatico, non credo proprio che potrai lavorare con loro”. Sicuramente il fattore economico, per quanto mi è stato possibile notare, è il parametro principale che determina il rapportarsi a bambini non italiani e conseguentemente alle loro famiglie, ma certamente anche il paese di provenienza ha il suo peso. Il termine “immigrato” porta con sé una valenza principalmente economico-sociale, inquadrando sin da subito i bambini e le famiglie in una categoria disagiata; e allo stesso tempo ha un’accezione anche geografica, comprendendo paesi d’origine di fascia nordafricana, centroamericana, balcanica, o dell’Europa orientale. Ciò fa sì che chi non rientri nelle categorie sopra descritte non venga considerato poi, così “straniero”. Quel bambino marocchino di ceto medio-alto non sarà definito immigrato. Come nel caso di un bambino inglese che non viene considerato straniero da una maestra, in confronto ad esempio, ad una bambina nata in India e adottata nei primi mesi di vita. 78 L’esotismo e il colore della pelle guidano, in questo caso, la “costruzione discorsiva” di un bambino come bambino straniero.6 Cfr L. Caronia, “I modelli folk di “bambino straniero” e di “cultura” nel discorso degli educatori. Variazioni interpretative e costruzione congiunta della conoscenza nell’interazione di ricerca”, Tesi di Dottorato in Pedagogia, Università di Bologna, 1993-1994, ivi p.170. 6 79 3. Tra Ivanka e Nety Trovando due bambine di comune paese d’origine nella stessa classe e per di più residenti nello stesso palazzo, mi aspettavo di vederle al banco insieme, o comunque che fossero piuttosto legate, data anche la solidarietà linguistica e soprattutto alfabetica. Invece Ivanka e Nety non hanno un buon rapporto, anzi le maestre mi raccontano che sono stati i genitori dell’una a richiedere esplicitamente che non sedessero allo stesso banco. Nety, che già dall’anno precedente frequentava quella classe, non desiderava l’amicizia della sua connazionale, anzi la escludeva ed emarginava come poteva, in qualunque occasione. Anche per la difficoltà nella lingua che l’ultima arrivata mostrava, Nety si rifiutava di tradurre i termini più complicati ed era gelosa dei compagni che invece frequentavano Ivanka. Nety si vantava ed era orgogliosa di rispondere a domande circa la sua cultura o il suo paese solo se non entrava nel merito anche Ivanka. Un comportamento piuttosto insolito fra connazionali che frequentano lo stesso ambiente, in cui la solidarietà etnica è molto forte; i risentimenti esplodevano talora in accese liti, forse giustificabili anche dal comportamento di prima della classe che mostrava Niety. Gli attacchi di Nety ad Ivanka assumevano sempre di più caratteristiche discriminatorie di ordine etnico, infatti la accusava di 80 avere origini russe, che il suo nome fosse russo e anche quello di sua madre. A ciò Ivanka rispondeva stizzita che non era la verità e spiegava che il suo nome è la versione femminile del nome di suo nonno. Diario mercoledì 4 Apr 2001 Iniziamo oggi la parte sull’identità culturale, i primi punti da analizzare sono : ‘come mi chiamo?’ ‘perché mi hanno chiamato così?’ ‘dove sono nato’ etc. Ognuno scrive sul suo quaderno ma ad un certo punto Nety scatta in piedi e, indicando la sua connazionale, esclama : “Ivanka non è un nome bulgaro ma russo!!” Ivanka si infuria e, per la prima volta ad alta voce, “ Ivanka è un nome bulgaro! Mio nonno si chiama Ivanko ed è bulgaro perciò anche il mio nome è bulgaro!”. (D’improvviso ricordo che già in precedenza si era accennato ad un discorso simile ma in quell’occasione non mi era stato possibile approfondire, anche se avevo notato Ivanka molto contrariata tanto da sbattere l’astuccio sul banco stizzita.) e Nety ancora : “Non è bulgaro, anche mia madre lo ha detto, è anche un po’ spagnolo”, Ivanka : “Non è vero!” rivolgendosi a me cercando di convincermi. Come poteva, Ivanka cercava di smentirla, ma Nety rincarava la dose: “I russi fanno schifo, sono antipatici e dei ladri, ci hanno rubato a noi bulgari tantissime cose, anche le nostre lettere, il nostro alfabeto che è stato inventato dai nostri santi Cirillo e Metodio!” Il fatto che Nety fosse ben attenta affinché le maestre non assistessero a simili litigi, mostra come i bambini a questa età sappiano già che certe insinuazioni connesse alla diversità etnica sono da evitare, e che di conseguenza espressioni come “tu sei negro” possono essere usate come un’offesa. Alcuni termini come “marocchino” o “cinese” vengono così utilizzati per deridere, in questo 81 caso “tu sei russa, tu sei russa, non sei bulgara” è pesante come un insulto, ha lo scopo di prendere in giro la compagna e farle un dispetto. Approfittando di un colloquio con la mediatrice linguisticoculturale bulgara, ho cercato di arrivare alla fonte delle “accuse” rivolte da Nety alla sua connazionale. Durante la ricerca mi è appunto parso di capire che non era casuale insultare la compagna chiamandola “russa”, poiché sembrava che essere russo fosse un vero e proprio un insulto. Chiedendo maggiori delucidazioni su quella che era solo una mia impressione, la dott.ssa Kirkova mi ha infatti chiarito che attriti e risentimenti esistono realmente tra bulgari e russi; ha specificato che molti sono i popoli dell’Europa orientale che tentano di appropriarsi della paternità dell’alfabeto cirillico (che è -a suo dire- innegabilmente relativa ai santi bulgari Cirillo e Metodio). Diatribe sull’attribuzione dell’invenzione dell’alfabeto cirillico, esistono anche con i serbi e gli slovacchi, maggiormente però con i russi che, essendo già padri di molte invenzioni, tentano di arrogarsi anche quella alfabetica. L’astio comunque, va oltre la singola questione citata, piuttosto trapela dalle sue parole un risentimento nazionale ed un’avversione di ordine politico verso la Russia, acuita con la caduta del muro di Berlino, al seguito della quale la Bulgaria (come altri paesi satelliti) ha riportato gravi dissesti sociali e soprattutto economici. All’interno della classe i quattro bambini stranieri avevano raggiunto un differente grado di integrazione. Tenendo ovviamente 82 conto delle simpatie-antipatie umorali, tipiche dell’età scolare, le due bambine bulgare erano riuscite a loro volta a instaurare un buon rapporto con gli altri alunni, soprattutto tra le compagne. Chi invece aveva più difficoltà era il bambino filippino, che spesso era evitato per il colore della pelle. La discriminazione nei suoi confronti per via del suo colore era palese da parte dei bambini, fra tutti Nety e Fabrizio. Diario lunedì 19 febbraio 2001 Durante l’intervallo noto, mentre si formano più gruppetti, un’esasperata insofferenza di Nety quando Jonathan osa avvicinarsi a lei e, maggiormente, se osa toccarla; stizzita nervosa e urlante si pulisce facendo i capricci e pestando i piedi. Ad un certo punto Jonathan noncurante si accosta al suo banco mentre lei sta disegnando sulla lavagna, Nety se ne accorge e di corsa gli si avvicina urlando : “Dai! Jonathan levati, allontanati di qui!!”. Di riflesso Jonathan poggia la mano sul banco, toccandolo in vari punti e lei ancora più isterica : “Noo! No, levati Jonathan!” strillando. Così mi avvicino e domando a Carla : “Ma che ha Nety?” e lei : “Non vuole mai che Jonathan la tocchi, non gli piace, nemmeno deve toccare il banco!”, allora mi avvicino a Jonathan che sorridendo come al solito mi abbraccia e, toccandolo più volte nelle guance e nelle mani, le mostro che non sono cambiate di colore le mie mani, che non succede nulla se lui tocca qualcosa. E le domando ; “Ma Jonathan non ti piace perché è un po’ marroncino? Perché è più scuro di te?” Non risponde scuotendo la testa e alzando le spalle, poi : “No perché non voglio”. Nell’ora seguente la m.Paola assegna il tema : “Come ho trascorso la domenica”. Ivanka descrive la giornata passata all’ambasciata dove si è recata per partecipare alla festa di battesimo di un bambino figlio di un collega dei genitori, si è divertita molto ed ha giocato con dei bambini bulgari che non conosceva prima. Domando a Nety se anche lei ha partecipato e mi risponde di sì ma con meno entusiasmo; precisa 83 contrariata che lei è andata via prima perché non era poi così divertente. Arriva la m.Bruna, è l’ora di ginnastica e tutti si tolgono il grembiule e si mettono in fila per scendere. In palestra si allineano sulla riga bianca per l’appello ma Marco ed Ivanka rimangono seduti sulla panchina accanto a me perché raffreddati. Tutti sono l’uno accanto all’altro, tranne che per uno spazio vuoto lasciato tra Jonathan e Nety. Mi volto verso Ivanka e le chiedo perché Nety non era più vicino a Jonathan, giacché tutti gli altri erano in fila e lei sostiene che non vuole che lui la tocchi; le domando allora se è per il colore della pelle ma scuote le spalle e dice che non lo sa. Marco allora interviene : “Nety non vuole che la tocca perché è nero, perché è razzista, invece io ci sono amico con Jonathan”. Le assistenti di turno, Carla e Cecilia, incaricate di aiutare la m.Bruna, fanno subito notare il distacco tra i due compagni : “Maestra, Nety non si vuole mai avvicinare a Jonathan perché non le piace il colore della sua pelle” e la maestra : “Perché? Cosa significa? Nety avvicinati!” ordina; e la bambina stizzita : “No!!” e ancora : “Oh, ti ho detto avvicinati! Perché non vuoi stargli accanto?!” , Nety si giustifica : “Perché prima mi ha dato una botta al braccio e mi ha fatto male…”. Incalzata dalle continue urla che rimbombavano nella palestra, Nety fa un piccolo passo verso il compagno filippino, “Ancora!!!” la esorta “Ancora!!”, solo dopo qualche minuto lei accenna, a piccoli passi, a ridurre la distanza con il compagno ma senza toccarlo, con gli occhi pieni di lacrime. Durante tutto questo Jonathan non ha aperto bocca ed è rimasto impassibile. La maestra allora rivolta a tutti : “Ma che è questa cosa?! Io non tollero il razzismo nella mia classe! Insomma, qui siamo tutti uguali! Ma che siete razzisti??” fa un passo avanti Fabrizio e alza la mano: “Mio padre è razzista!” ride soddisfatto e torna in riga. Nel frattempo Nety ha continuato a piangere e ad agitarsi cominciando a lamentare mal di pancia, così la m.Bruna le dice di sedersi sulla panchina accanto a noi e di stare calma. Più tardi Nety sentendosi meglio comincia a giocare con i compagni e non fa più caso alla presenza di Jonathan. Saliamo a mensa e cerco di approfondire il discorso del razzismo con Fabrizio, che mi dice che anche lui è razzista “…però tranne che con Jonathan, con lui sono amico” e gli dà una pacca sulla spalla chiamandolo 84 ‘fratello’. Gli chiedo se conosce il significato di ‘razzismo’ e lui : “Mio padre me lo ha spiegato però non me lo ricordo…” Molti pensano che il pregiudizio sia un fenomeno assente nell’infanzia, un fatto che compare e si afferma più tardi, durante l’adolescenza e l’età adulta. Se osserviamo nei bambini comportamenti e manifestazioni di chiusura e rifiuto verso gli altri, che testimoniano l’esistenza del pregiudizio, si pensa che siano l’imitazione degli atteggiamenti adulti, e non l’espressione di loro personali preferenze. In realtà, questa convinzione sembra venire smentita dai risultati di numerose ricerche7, che hanno anzi dimostrato come, nel corso degli anni, il livello del pregiudizio nei bambini di età compresa tra quattro e sette anni, non sia diminuito, ma sia rimasto costante. Non ha subito variazioni anche se è, invece, diminuito nel frattempo, quello dei loro genitori e degli adulti in generale. Ma, quali sono i fattori che favoriscono nei bambini l’apparire e il permanere del pregiudizio, se non sono responsabili solamente le attitudini dei loro genitori e l’imitazione degli adulti? Un’interpretazione sull’origine del pregiudizio infantile rimanda alla teoria dello “sviluppo socio-cognitivo”.8 A causa dei loro limiti cognitivi, i bambini sono quasi inevitabilmente affetti dal pregiudizio fino all’età dei sette anni. Lo sviluppo successivo di capacità cognitive Le ricerche alle quali ci riferiamo sono state condotte, a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta e fino ad oggi soprattutto negli Stati Uniti, in Canada, in Gran Bretagna, in paesi, cioè, da lungo tempo multietnici con una forte presenza di individui appartenenti alle 7 85 più vaste e un intervento mirato della scuola e degli insegnanti, possono contribuire a farlo venir meno fino ad eliminare del tutto ogni forma di attitudine negativa verso gli individui di gruppi diversi. Questa interpretazione deve essere un invito all’istituzione scuola, affinché assuma il problema e lo metta al centro del suo agire. In modo da arginare fenomeni considerati irrisori in età scolare, ma che potranno ingigantirsi con il trascorrere degli anni. minoranze. Cfr in merito G. Favaro, T. Colombo, I bambini della nostalgia, Milano, Arnoldo Mondatori Editore, 1993. pp. 96-97 8 Frances Aboud, Children and Prejudice, Oxford, 1989, ivi p.97 86 4. Relazioni fra adulti: i rapporti tra i genitori e fra questi e gli insegnanti. Da gennaio l’unica riunione di classe tra genitori e maestre si è tenuta alla fine dell’anno scolastico. Alcune delle maggiori critiche mosse dai genitori era lo scarso livello di preparazione raggiunto e il non completamento del programma scolastico. Diario mercoledì 23 Maggio 2001 Oggi è il giorno della riunione di classe con i genitori e le maestre; sono riuscita a parteciparvi grazie all’aiuto della maestra Federica. Alle 15:30 arrivano i genitori, anche se già so dell’assenza della madre di Ivanka perché fuori città per lavoro, poco più tardi inizio per prima a parlare presentandomi. Tutti avevano sentito parlare di me, anche se non avevano ben compreso il mio ruolo; noto un certo disinteresse nella madre di Nety, solo più tardi ne comprenderò il motivo, legato al fatto che tutti (me compresa) parlassero troppo velocemente. Terminato il mio intervento inizia il dibattito con le maestre, portavoce principale del disagio è la madre di Cecilia, la quale lamentava l’impreparazione della classe intera e il non completamento del programma scolastico. Tutti concordano. Riprende la madre di Marta : “Non ci scordiamo, è vero, che questa è una classe complicata, difficile da trattare…non sono tutti allo stesso livello, non è omogenea” e il padre di Fabia : “…eppure è una classe piccola, costituita da pochi bambini dovrebbe essere più facile da seguire…” La madre di Carla allora : “Beh, certo su quattordici elementi quattro sono stranieri…” A questo punto la madre di Nety, che fino allora pareva disattenta interviene : “Ma perché, c’è qualche problema che Nety è straniera?” e, visibilmente infastidita : “…Nety è brava a scuola…” poi si accende una confusione generale. 87 Conclusa l’assemblea, in disparte la madre di Rafael mi confida : “…e insiste nel dire (riferendosi alla madre di Marta) che Rafael è straniero, mio figlio è italiano, è nato in Italia!” All’uscita trattengo la madre di Nety, la signora Lucila, mi fissa un incontro dopo scuola mercoledì alle 16:30 sempre assicurandosi la presenza della figlia per eventuali traduzioni. L’accettazione del proprio figlio in un ambiente scolastico è il principale obiettivo di ogni genitore che, o per motivi strettamente economici (immigrati in cerca di lavoro) o per scelta di vita o per motivazioni lavorative (vedi il caso di ambasciatori o consoli), si trova a dover crescere il proprio figlio in un ambiente socio-culturale diverso dal proprio. Per tutta la riunione succitata, si è parlato di alcune problematiche riguardanti determinati bambini come se i genitori di questi ultimi fossero assenti. Ed è proprio questo che ha fatto indignare ancor di più alcuni genitori, la noncuranza, la non considerazione e la non volontà di affrontare un problema, qualora ce ne fosse, con i diretti interessati. Mi è parso di notare, in questa come in altre occasioni, “l’invisibilità dello straniero”, soprattutto l’invisibilità di quei genitori che nessuno interpella su questioni di comune interesse ma che vengono chiamati in causa solo quando si chiede loro di parlare in italiano anche a casa, per permettere ai figli di esercitarsi nell’uso della lingua. Diventano così i genitori a dipendere dai figli per qualsiasi tipo di dialogo, sia con le insegnanti sia con altri genitori. 88 Figli traduttori che tentano, a fatica, di mettere in relazione le loro mamme e papà con quel mondo in cui, a forza, si sono inseriti. La formazione degli adulti immigrati costituisce indubbiamente uno dei campi di intervento prioritari delle politiche di inserimento dei cittadini extracomunitari in Italia. Dal momento del suo arrivo, congiuntamente ai bisogni primari (vitto, alloggio, occupazione), il bisogno di comunicare (di capire e di essere capito, di orientarsi nei luoghi sconosciuti e nei codici linguistici diversi) diviene per l’immigrato vitale. Sia che l’immigrato trovi risposta a queste esigenze comunicative nella relazione d’aiuto stabilita con i connazionali già inseriti (come avviene nelle maggior parte dei casi), sia che cerchi di imparare le “regole del gioco”, comunicative e culturali, osservando gli autoctoni, egli sperimenta subito il bisogno di apprendimento. 9 E lo sperimenta come bisogno primario, e come elemento fondamentale per l’inserimento nella nuova realtà. In questa prospettiva, l’insegnamento istituzionalizzato dell’italiano ed i corsi per il conseguimento dei titoli di studio, costituiscono una condizione necessaria, benché non sufficiente, ai fini del processo d’inserimento e dell’integrazione dei lavoratori immigrati. Fin dall’inizio la vita nel paese ospite si organizza attorno a due “poli”, sociali e linguistici: da una parte i connazionali, gli amici, i 9 D. Demetrio, G. Favaro, Immigrazione e pedagogia interculturale, Firenze, La Nuova Italia, 1992, pp. 79 e sgg. 89 legami con la lingua e con il Paese d’origine “la lingua degli affetti” 10; dall’altra, il polo del lavoro, degli obblighi burocratici, della lingua del Paese di residenza “la lingua dei doveri”.11 Un po’ per timidezza, un po’ perché non spronati, i genitori dei bambini stranieri si riducono a presenze isolate e sfuggenti all’uscita di scuola, che chiamano da lontano i loro figli riducendo al minimo la possibilità di contatto. Solo se si cerca di fermarli e scambiare qualche parola allora pian piano la coltre di diffidenza inizia a dissolversi. L’interazione stessa con i genitori è stata resa in taluni casi complicata dal corpo docente stesso che solo raramente permetteva, o comunque avallava, l’avvicinamento a loro reputandolo inopportuno: Diario lunedì 19 Marzo 2001 La situazione però si fa incandescente quando accenno alla mia esigenza di incontrare i genitori delle due bambine. La m.Elsa è molto contraria e assolutamente non ci presenterà, io: “Lo dicevo anche perché mi sembra opportuno informare i genitori della mia presenza, giacché vedendomi insieme alle loro figlie all’uscita di scuola potrebbero domandarsi chi sono…finora mi hanno solo salutato da lontano” e lei stizzita : “Beh, ti salutano perché sono persone educate, solo per quello” piomba il silenzio, e riprende : “E poi la prossima volta che esci anziché stare vicino a loro starai accanto a qualcun altro!”. La m.Paola e la m.Federica concordano con me, quest’ultima poi la accusa di non aver mai dialogato con loro, il che irrita ancora di più la m. Elsa che, rivolgendosi a me: “Ma tu che vuoi? Ma come ti permetti di andare lì e presentarti, e poi cosa gli dici?” 10 G. Favaro, “I percorsi formativi tra adattamento e promozione”, in G. Favaro, M. Tognetti, Politiche sociali e immigrati stranieri, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1989, in D. Demetrio, G. Favaro Immigrazione e pedagogia interculturale, op. cit. p.80. 11 Ivi. 90 rispondo che almeno potrei provarci poi, qualora non fossero disponibili al dialogo, lascerei andare e per tutta risposta lei : “No, tu non devi nemmeno domandare”. Faccio notare che in altre classi in cui il progetto è stato avviato, mie colleghe hanno già avuto un approccio iniziale con le famiglie “…come ad es. con la mamma di Jana” mi giustifico; la m. Elsa allora mi risponde : “Ma guarda che qui stiamo parlando di bulgari, non di Etiopi” con una gestualità che rimanda ai due piatti della bilancia, sottintendendo una differenza di tipo sociale. Il discorso viene interrotto e rinviato. L’incontro con la diversità, quale avviene quotidianamente tra insegnanti e genitori stranieri, impone, a mio avviso, una ricerca più serena di modalità relazionali positive ed efficaci, che sappiano rispettare le molteplici coordinate culturali di riferimento e che, nel contempo, inducano la scuola ad interrogarsi intorno al senso dell’educare e del promuovere il cambiamento in un contesto sociale complesso. 12 Una scuola, dunque, sensibile anche ai bisogni formativi degli adulti e capace di potenziare i propri interventi in una prospettiva interculturale. A. Infantino, articolo “ La comunicazione fra insegnanti e genitori stranieri. Il caso della scuola dell’infanzia” Animazionescuola Strumenti, sulla rivista Animazione Sociale, Cooperazione Educativa MCE, Dicembre 1995, pp.80-86. 12 91 5. Un’altra etnia in classe: ostacolo o risorsa? Riguardo l’inserimento degli alunni stranieri nella scuola dell’obbligo è soprattutto a partire dalla circolare ministeriale n. 301 dell’8 settembre 1989 che viene affrontato il problema; e conseguentemente la promozione e il coordinamento delle iniziative per l’esercizio del diritto allo studio.13 La citata circolare osserva che: l’immigrazione è fenomeno che esiste da tempo ma che, negli ultimi anni, ha assunto dimensioni quantitative e connotazioni qualitative che rendono necessarie, da parte della scuola, un’attenta considerazione ed una serie di interventi intesi a garantire alla generalità degli immigrati l’esercizio del diritto allo studio ed a valorizzare le risorse provenienti dall’apporto di culture diverse nella prospettiva della cooperazione fra i popoli nel pieno rispetto delle etnie di provenienza. […] La condizione primaria non può che fondarsi sull’uguaglianza delle opportunità formative: essenziale punto di partenza è, quindi la scolarizzazione dei giovani immigrati nella fascia dell’obbligo. Per quanto concerne l’aspetto organizzativo-didattico, la circolare n.301 fornisce indicazioni circa i criteri di massima cui dovranno ispirarsi i modi dell’intervento scolastico. Inoltre indica alcuni orientamenti per l’attività didattica: […] la programmazione didattica è fattore determinante nelle attività di insegnamento. Ove nella classe siano presenti alunni appartenenti a diversa etnia, la programmazione didattica generale sarà integrata con progetti specifici che disegnino percorsi individuali 92 di apprendimento, definiti sulla base delle condizioni di partenza e degli obiettivi che si ritiene possano essere conseguiti da ciascuno di quegli alunni. Notevole importanza didattica assume il clima relazionale da attivare nelle classi e nella scuola. Gli alunni appartenenti ad altre etnie, specie se di recente immigrazione, debbono trovare stimoli comunicativi dall’intervento di coetanei immigrati (che hanno già qualche consuetudine con la lingua italiana), dalla partecipazione di adulti che sono in grado di comunicare in lingua italiana e nell’altra lingua.[…] La scuola obbligatoria non può non avere come obiettivo educativo una sempre più acuta sensibilità ai significati di una società multiculturale. Ciò suggerisce attività didattiche orientate alla valorizzazione delle peculiarità delle differenti etnie. Sollecitare gli alunni ad accettare e capire quelle peculiarità contribuisce a promuovere una coscienza culturale aperta. In un suo libro14, la psicoanalista bulgara Kristeva s’interroga sul significato di essere straniero, nonché sul ruolo che l’estraneità svolge, sia per lo “sconosciuto”, sia per coloro che si imbattono con lui. “Lo straniero sembra proprio sorgere là dove inizia la coscienza della mia differenza, e finire quando riusciamo a riconoscerci tutti 13 Cfr. F. R. Ferraresi, F. Frabboni, E. Lucchini, Pedagogia programmi e ordinamenti della nuova scuola elementare, Firenze, La Nuova Italia, 1995, pp.84. 14 J. Kristeva, Stranieri a sé stessi, Milano, Feltrinelli, 1990, in F.R. Ferraresi, F. Frabboni, E. Lucchini, Pedagogia, programmi e ordinamenti della nuova scuola elementare, op.cit. pp.96 e sgg. 93 stranieri a noi stessi e a garantire a questo altro di noi la possibilità di una vita diversa”. Lo “sconosciuto” che è in noi è quindi evocato ogniqualvolta ci imbattiamo con stranieri reali: disposti ad accettare la convivenza con il diverso, o respingerla, si rivela così test di personalità, capace di spiegare le radice profonde della nostra riluttanza ad accettare un mondo multirazziale e multiculturale.15 Rispetto al multiculturalismo, secondo Poletti, gli apparati politico-amministrativi e formativi tendono ad adottare tre tipi di risposte, che possono presentarsi distintamente oppure intrecciarsi e sovrapporsi, a seconda de casi: a) 16 Assimilazione (dall’immigrato, dunque anche dall’alunno, ci si aspetta un rapido adeguamento al sistema/standard di vita, dove apparirà tanto più integrato quanto più vi si “mimetizzerà”, assumendone i tratti caratteristici e spogliandosi parallelamente di quelli di origine); b) Integrazione (in antitesi al modello precedente, viene affermato e per certi aspetti enfatizzato il diritto per chi proviene da “fuori” di salvaguardare la propria identità etnico-culturale, da riconoscere e 15 G. Favaro, “Oltre le scienze dell’educazione: per una pedagogia dell’erranza” in D. Demetrio, G. Favaro, Immigrazione e pedagogia interculturale. Bambini, adulti, comunità del percorso di integrazione; Firenze, La Nuova Italia, 1993, pp. 103-112. 16 F. Poletti, La sfida della differenza, in F. R. Ferraresi, F. Frabboni, E. Lucchini, Pedagogia, programmi e ordinamenti della nuova scuola elementare, op. cit. p.97. 94 valorizzare in quanto ritenuta vettore imprescindibilmente funzionale al successo scolastico); c) Approccio interculturale (non si rivolge soltanto ai soggetti migranti, bensì chiama in causa tutte le forze e gli attori sociali presenti nel territorio) Credo possa essere comune opinione che l’adozione del terzo punto, sia l’unico itinerario in grado di superare sia la semplice assimilazione dell’altro con l’annullamento delle sue prerogative, sia la sterile accentuazione delle differenze, producendo così i migliori frutti di una articolata e cosciente mediazione. Lo scambio interculturale, mobilitando l’intero contesto, stimola le diverse parti a confronto a mettersi in marcia e, lungo il viaggio, operare una trasmutazione del proprio essere verso una configurazione nuova.17 Secondo Demetrio, adottando una modalità interculturale, l’educatore considera l’immigrato (sia adulto che bambino) come “portatore di saperi”, che gli fornisce spunti per trasformare il luogo del lavoro educativo in un occasione di scambi e riflessioni sul mondo, sui mondi degli altri. In tal modo, l’insegnante si incammina verso la realizzazione di una pedagogia dell’interazione, più che dell’integrazione; dal momento che la valorizzazione delle culture altrui equivale alla messa 95 in campo di una pratica educativa che suscita interazioni, nella prospettiva di un’educazione alla convivenza e alla democrazia culturale. 18 Segna un notevole passo in avanti l’affermazione contenuta nell’art. 1 della legge di riforma della scuola elementare n. 148/1990, dove si precisa che la scuola elementare “concorre alla formazione dell’uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla Costituzione e nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità individuali, sociali e culturali”. Pertanto la “pedagogia interculturale” è impegnata a organizzare le condizioni più favorevoli a realizzare, insieme, l’integrazione e l’interazione fra mondi di diversa origine e tradizione etnica.19 Si preoccupa, quindi, di facilitare la conoscenza reciproca, e la disponibilità allo scambio e all’incontro, ma anche al cambiamento degli uni e degli altri. Di chi accoglie e di chi è accolto.20 La presenza di un’altra etnia in classe va vista dunque come una risorsa che spontaneamente e nel modo più naturale possibile, introduce gli alunni in una prospettiva di conoscenza prima, e di rispetto poi, del “diverso da me”. Alterità come ricchezza in cui identificarsi come “altro termine di paragone”; perciò non punti di partenza e di arrivo ma una continua 17 F. Poletti, La sfida della differenza, ivi. D. Demetrio, G. Favaro, Immigrazione e pedagogia interculturale, op. cit.p.28. Per questo argomento cfr. Consiglio d’Europa, “L’éducation interculturelle. Concept, contexte, programme”, Strasbourg, 1989, in F. R. Ferraresi, F. Frabboni, E. Lucchini, Pedagogia, programmi e ordinamenti della nuova scuola elementare, op. cit. p.98. 20Ivi. 18 19 96 osmosi che passa attraverso il bianco, il nero, il musulmano, l’ateo, il vegetariano. Per coloro che invece non sono abituati a guardarsi attraverso lo sguardo degli altri, una diversa cultura con cui relazionarsi provoca smarrimento; perciò si chiudono rifiutando quel confronto che disorienta. Ciò accade sia per gli adulti che per i bambini stessi. Abbiamo parlato precedentemente del pregiudizio nei bambini, certamente ancora più complessa sarà l’analisi di questo comportamento, inconscio o meno, negli insegnanti e nei genitori. Sorgono dunque i problemi nell’organizzare la recita del natale in una classe dove non tutti gli alunni sono cristiani : “beh, d’altra parte sono loro che hanno scelto di venire in Italia, quindi non possiamo cambiare le cose per loro! Non si può pretendere che si prendano in considerazione tutte le culture presenti in questa scuola, staremmo freschi! Già resto oltre l’orario per restare con un bambino che non frequenta l’ora di religione…! ” Il fatto che gli alunni stranieri vengano spesso considerati un impedimento nello svolgimento dell’attività didattica, è palesato ad esempio nella riunione di classe su citata (Diario mercoledì 23 maggio 2001), tale convinzione alberga fra i genitori e il corpo docente stesso che a volte ricorre a questa scusante per celare alcuni fattori di rallentamento dello svolgimento della didattica, quali le numerose escursioni e visite guidate. Alcuni genitori non vedono di buon occhio la presenza di alunni stranieri perché considerati la causa di un calo nel rendimento 97 scolastico della classe intera. Non hanno di solito relazioni con le loro famiglie, anzi spesso queste sono del tutto assenti. I genitori dei bambini stranieri prediligono infatti un rapporto individuale con gli educatori e il fatto che non partecipino alle riunioni di classe non migliora la situazione. Ma il sentimento di latente razzismo che volente o nolente pervade l’Italia, emerge in larga misura quando i genitori di bambini italiani si sentono rifiutare il proprio figlio dagli asili nido perché in esubero, e quindi sono costretti ad iscriverli in servizi privati d’infanzia. La motivazione principale del soprannumero è la presenza di bambini stranieri; la percentuale in questa fascia è in costante aumento. Se, infatti, l’accesso alla scuola materna viene assicurato a tutti i richiedenti poiché vi è un’ampia disponibilità di posti, non altrettanto avviene per i nidi, per i quali si attua una forte selezione, dato l’alto numero di domande e la scarsità dei posti. La tendenza che si può notare in questi anni, da parte delle famiglie immigrate, è quella di un uso piuttosto diffuso dei servizi per l’infanzia.21 Allora si innesca il processo per cui : “…mio figlio ha meno diritti di un bambino straniero! E devo pagare un asilo nido privato quando mi spetterebbe di diritto…” È questo un altro dei casi in cui, un’altra etnia in classe viene considerata un ostacolo, un impedimento nell’esercizio dei propri 98 diritti. Poiché si ritiene che nel tutelare le esigenze degli immigrati e dei loro figli, si neghino ai cittadini italiani i propri interessi. Su questo argomento vedi: G. Favaro,(a cura di) I colori dell’infanzia, Milano, Edizioni Guerini e Associati, 1990. 21 99