Capitolo II LA SCUOLA - CISADU

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Capitolo II LA SCUOLA - CISADU
Scuola e culture. Materiali di antropologia della mediazione scolastica
Marzia Canofari
Contributi antropologici per un'educazione interculturale: un'esperienza di ricerca nella scuola primaria
Tesi di laurea
Università degli Studi di Roma 'La Sapienza' - Facoltà di Lettere e Filosofia - Corso di laurea in Lettere - a.a. 2001/2002
Relatore: prof. Laura Faranda - Correlatore: dott. Mauro Geraci
Documento pubblicato sul sito del Dipartimento di Studi glottoantropologici e Discipline musicali il 12 luglio 2004 http://rmcisadu.let.uniroma1.it/glotto/index.html
1. Il mondo scolastico in Bulgaria. Scuola italiana e bulgara a
confronto.
Per quanto concerne la struttura del sistema di istruzione in
Bulgaria, c’è da sottolineare il valore che viene attribuito ai “principi
della scuola dell’obbligo”:
-
diritti umani
-
diritti dell’infanzia
-
tradizioni della cultura bulgara
-
conquiste della cultura mondiale
-
valori della società moderna
-
libertà di pensiero e di decisione
L’insegnamento generale prevede un corso di studi articolato in
quattro fasce:
TIPO
Materna
DURATA
CLASSI
ETA’
PREVISTE
PREVISTA
3 anni
Dai 3 ai 7
anni
Elementare*
Media *
4 anni
4 anni
Dalla 1° alla
Dai 7 agli 11
4° classe
anni
Dalla 4° alla
Dagli 11 ai
61
Superiore
3; 4/5
anni
8°/9° classe
15 anni
Dalla 7° alla
Dai 15 ai
12° classe
18/19 anni
* istruzione obbligatoria
62
63
Figura 1 Struttura generale del sistema d’istruzione.
L’istruzione prevede libri gratuiti solo per la 1° elementare. La
frequenza della scuola materna non è obbligatoria. Oltre al settore
statale che è del 95%, ne esiste uno privato, non rilevante ma in
crescita.
L’età di obbligo scolastico è stabilita fino a 16 anni. La scuola
dell’obbligo è costituita da un ciclo, definito genericamente scuola di
base e unificato da un punto di vista amministrativo. Nei primi
quattro anni sono previsti uno o due insegnanti, dal quinto anno è
previsto un insegnante per area disciplinare. L’età di inizio è fissata a
7 anni. Non ci sono esami intermedi.
64
Allo stesso livello di istruzione c’è la possibilità di avere una
qualifica professionale complementare tramite programmi tecnici
dopo il termine della 8°, 7° o 9° classe.
L’ordinamento scolastico prevede i rapporti scuola-famiglia,
tramite comitati genitori-insegnanti e colloqui periodici. L’istruzione
risulta gratuita, tuttavia sono presenti alti costi per i libri e le tessere
per i mezzi di trasporto pubblico.
L’anno scolastico è diviso in due semestri: dal 15 settembre fino
al 7 febbraio e dal 10 febbraio al 30 giugno. L’apertura dell’anno
scolastico è uguale per tutti, mentre le lezioni terminano:
-il 24 maggio per le scuole elementari, festa nazionale di Santi
Cirillo e Metodio creatori dell’alfabeto cirillico;
-il 15 giugno per la scuola media;
-il 30 giugno per le scuole superiori.
Sono previsti vari periodi di vacanze: natalizio della durata di 15
giorni, primaverile di 10 giorni, pasquale di 3 giorni, vacanze estive di
75 giorni. La frequentazione scolastica va dal lunedì al venerdì. Le
lezioni hanno una durata di 45 minuti con intervalli di 10 minuti; è
prevista una pausa più lunga a metà giornata di 20 minuti circa.
Attualmente non esiste una votazione per la condotta.
Mediamente una classe è composta da: 30 alunni nelle
elementari, 28 nelle medie, 26 nelle superiori. Il 90% del personale
pedagogico è femminile. Durante ogni semestre sono previsti da 2/3
incontri tra professori e genitori, in alcuni casi gli studenti possono
essere presenti.
65
PROSPETTO DEL PROGRAMMA SCOLASTICO
N
CLASSI
TOTALE
CLASSI
TOTALE
ORE
Classi
Settimane scolastiche
I
II
III
IV
I - IV
31
32
32
32
217
7
224
7
224
7
224
7
889
64
2
96
3
96
3
256
ORE
V
VI
VII
VIII
V - VIII
34
34
34
34
17
0
5
170
5
170
5
680
17
0
5
85
2,5
85
2,5
68
2
68
2
306
68
2
68
2
68
2
68
2
272
136
4
136
4
544
Materie
A
Preparazione
obbligatoria
1
Lingua bulgara e
letteratura
2
Lingue straniere
Prima lingua
Seconda lingua
3
Matematica,
informatica, tecnologie
informatiche
Matematica
124
4
112
3,5
112,
3,5
128
4
476
36
4
13
6
4
Informatica
Tecnologie informatiche
4
Scienze sociali
Paese nativo
31
1
31
1
L’uomo e la societa’
48
1,5
32
1
80
Storia delle civilta’
51
1,5
51
1,5
51
1,5
51
1,5
204
Geografia ed economia
51
1,5
51
1,5
51
1,5
51
1,5
204
Psicologia e logica
Etica e giurisprudenza
Filosofia
L’universo e l’umanita’
5
Scienze naturali ed
ecologia
Il mondo
32
32
66
L’uomo e la natura
6
7
32
1
48
1,5
80
85
2,5
85
2,5
Biologia e base della
sanita’
68
2
68
2
136
Fisica e astronomia
51
1,5
51
1,5
102
Chimica e protezione
della natura
51
1,5
51
1,5
102
Arte
Musica
62
2
64
2
48
1,5
48
1,5
222
68
2
68
2
51
1,5
51
1,5
238
Arte figurativo
62
2
48
1,5
64
2
48
1,5
222
68
2
68
2
51
1,5
51
1,5
238
31
1
32
1
32
1
32
1
127
51
1,5
51
1,5
Costumi e tecnologie
Vita domestica
Tecnica e tecnologia
domestica
Tecnologie
8
B
C
170
Educazione fisica e
sport
62
2
64
2
80
2,5
80
2,5
286
Totale preparazione
obbligatoria (A)
589
19
640
20
736
23
736
23
2701
Preparazione di
scelta obbligatoria *
93
3
64
2
64
2
64
2
285
Preparazione di scelta
libera * *
124
4
128
4
128
4
128
4
508
85
2,5
85
2,5
91
8
27
91
8
27
10
2
3
10
2
3
13
6
4
13
6
4
102
34
1
34
1
68
68
2
68
2
306
918
27
918
27
3672
102
3
102
3
408
136
4
136
4
544
* Preparazione di scelta libera sono: lingua straniera, lingua madre, danza e nelle
scuole professionali arte, sport....
** Su programmi stabiliti dal Preside (compreso religione)
67
La scuola superiore si divide in tre settori:
Superiore di istruzione
Superiore
Superiore
generale
professionale
tecnica
Livello 3A
Livello 3C
Livello 4B
Scuola
Scuola
Scuole
Business,
superiore
di profilo
tecniche
scienze
di base
(liceo)
bancarie,
(ginnasio)
finanza,
trasporto,
industria
Durata 3-4
Durata
Durata 3-4
Durata 4
anni
4-5 anni
anni
anni
Accesso
Accesso
Accesso dopo
Istruzione
libero
dopo
la 3° e 4°
ulteriore
esame di
media
concorso
Diploma di
Diploma
Qualifica
istruzione
di
professionale
superiore
maturità
con maggiori
cognizioni
pratiche
A seguito del crollo del vecchio sistema politico (nell’inverno del
1989 in Bulgaria) la scuola nazionale deve fare i conti con fenomeni
conosciuti e molto complessi della democrazia: disoccupazione – che
raggiunse
uno
dei
massimi
europei
-
inflazione,
corruzione,
depressione. Il processo di riforme è lungo e richiede sacrifici. Si
presenta un’enorme disuguaglianza sociale. È da notare che fino al
1989, il 25% del budget nazionale era diretto al settore scolastico.
L’analfabetismo sfiorava nemmeno il 5%. Quasi il 100% degli studenti
68
concludeva la scuola superiore, non solo quella dell’obbligo. Il vecchio
sistema d’istruzione -compresi gli studi universitari- era gratuito. (C’è
da sottolineare che comunque le fonti di ricerca erano limitate per
motivi politici e ideologici).
Oggi la realtà è molto diversa e pochi sono i fondi stanziati per il
sistema scolastico.
In Bulgaria i programmi scolastici si basano principalmente su
una vasta preparazione scientifica, linguistica, umanistica; viene
largamente studiata la storia mondiale oltre a quella nazionale, la
letteratura classica mondiale (compresa quella italiana), così come
per la musica, l’arte, la geografia.
L’aspetto del sistema scolastico bulgaro appare dai dati forniti
piuttosto rigido e distaccato, sia durante il vecchio regime che oggi
giorno. Ciò trapela anche dalle parole degli intervistati (i genitori delle
due bambine presenti in III elementare), i quali la prima cosa che
sottolineano parlando di come si trovano in Italia, è il clima di calore
e confidenza che è presente nella scuola.
Diario martedì 5 Giugno 2001
All’uscita di scuola Ivanka ed io aspettiamo sua
madre che non tarda ad arrivare all’appuntamento.
Non parla italiano perciò iniziamo a conversare in
inglese. Le chiedo com’è la scuola in Bulgaria e mi
rivela che è un’insegnante del liceo. È entusiasta della
scuola italiana sia per i testi utilizzati a suo dire molto
chiari, sia per il rapporto molto confidenziale che si
instaura tra alunni e professori. Mi confessa : “Ivanka
dice che tu sei molto gentile…”
69
Parla di questo contatto così umano e socievole come
un qualcosa di molto positivo, che riesce ad invogliare
e spronare lo studente facendo sì che si applichi di più.
Comportamenti questi, molto diversi da quelli in uso
oggi nella scuola bulgara, dove spesso si utilizzano
metodi di punizione e castighi che sortiscono effetti
contrari.
Fa l’esempio di Ivanka che odiava la matematica
poiché aveva a Sofia una maestra che ad ogni
disattenzione picchiava gli alunni con il righello sulle
mani, mentre invece da quando è alla scuola italiana
l’accetta più volentieri… “qui le maestre ti domandano
se hai il ragazzo, ti fanno qualche carezza e ti
sorridono, al contrario che in Bulgaria dove non esiste
questo calore umano…forse perché siamo in Italia!” e
sorride.
70
2. I bambini e le maestre.
Da sempre si è consapevoli dell’importante ruolo formativo degli
insegnanti sin dalla scuola elementare, all’interno della quale inizia il
processo formativo caratteriale e lo sviluppo delle capacità relazionali
in un contesto comunitario.
Il distacco dal nucleo familiare, guscio di protezione, iniziato con
l’avvio alla scuola materna, acquisisce un carattere fortemente
educativo poiché introduce il bambino in una dimensione in cui viene
a contatto con i comportamenti e le opinioni di coetanei (spesso
discordanti dalle proprie).
Un nuovo mondo dunque, dove confrontarsi e imparare ad
ascoltare. È qui che le maestre ricoprono un ruolo fondamentale,
mediare tra i caratteri, tra gli atteggiamenti di ogni singolo individuo,
dando vita ad un atteggiamento di rispetto reciproco all’interno della
classe stessa.
È evidente che gli insegnanti abbiano il compito di educare gli
alunni ma non più di quanto spetti agli stessi genitori. Ed è proprio
su questa trilogia che si incentra il dibattito: bambini-scuola-famiglia,
tre poli fondamentali senza i quali non avrebbe senso parlare di
mediazione interculturale.
Purtroppo il polo di riferimento “insegnanti” (dato il carente
intervento dei ministeri e degli organi preposti) non è posto nelle
condizioni di riuscire facilmente ad interpretare e soprattutto
71
prevenire, quegli attriti che -se sottovalutati o non adeguatamente
sanati- possono tramutarsi in veri e propri pregiudizi.
Approvazione e rimprovero, unici parametri a disposizione degli
alunni per misurarsi tra loro, sono strumenti da utilizzare con
oculatezza, per non dar adito ad interpretazioni errate da parte dei
bambini e dei genitori stessi.
Ho avuto occasione di rilevare come in aula, banali screzi
possano provocare malintesi determinando la lettura di taluni
comportamenti come “discriminatori”.
Episodi spiacevoli del genere, dimostrano che l’istituzione
scolastica si trova ad affrontare una situazione per la quale non è
stata dunque preparata, poiché l’Italia solo nell’ultimo decennio si è
bruscamente trasformata da paese di emigrazione, a paese di
immigrazione.
Alle nuove esigenze si è tentato negli anni di far fronte in vari
modi, non sempre adatti a risolvere le questioni che di volta in volta
si presentavano.
Si è cercato di mettere a punto strategie compensative per
insegnare la lingua del paese ospitante il più in fretta possibile e
colmare così lo scarto fra le abilità/competenze possedute da chi è
diverso e quelle richieste dalla società/scuola. Purtroppo però questo
multiculturalismo ingenuo parte dalla constatazione degli insuccessi
scolastici delle minoranze, con lo scopo di integrare nella cultura
dominante chi non ne fa parte. In questo modo si presuppone che le
cause di questi fallimenti dipendano dalle lacune presenti nei ragazzi.
72
Non si giunge a mettere in relazione gli insuccessi dei bambini con
l’impostazione pedagogico-didattica e l’approccio metodologico degli
insegnanti.
In realtà l’apprendimento della seconda lingua è favorito dal
rinforzo della lingua madre, in più imparare una seconda lingua da
chi produce errori di pronuncia, grammatica e sintassi, induce il
bambino ad interiorizzare e perpetuare gli errori stessi,1 (infatti si
chiedeva ai genitori di parlare in italiano anche a casa), e si sa che è
molto più complicato correggere gli errori, piuttosto che imparare
correttamente da subito.
Seppur necessario uno sguardo particolareggiato per chi ha
bisogno di essere seguito con maggiore attenzione, l’ostentata
differenziazione in classe non aiuta affatto il bambino straniero, anzi
lo emargina ancor di più racchiudendolo in una sfera in cui la
maggior parte delle volte entra (per richiesta delle maestre stesse)
“l’insegnante di sostegno”.
Questa
figura
viene
impiegata
per
agevolare
il
lavoro
dell’insegnante di ruolo nella classe, affiancando quegli elementi che
non riescono a stare al passo con il quotidiano svolgimento delle
lezioni. Di solito ne viene fatta richiesta in presenza di alunni con
difficoltà di apprendimento, oppure il suo intervento è mirato a
specifiche materie nelle quali il bambino mostra maggiori difficoltà.
Secondo queste necessità all’interno di una classe può dunque
verificarsi la compresenza di più maestre fino anche a tre. Con
73
estrema facilità dunque, si ricorre all’insegnante di sostegno, qualora
in classe si presentino uno o più bambini stranieri, il più delle volte
prevedendo –non sempre a torto- difficoltà linguistiche (legate cioè
alla comprensione della lingua italiana; il ruolo dell’insegnante di
sostegno in questo caso è quello di ripetere più lentamente e con più
chiarezza i concetti, di spiegare i significati dei termini ancora
sconosciuti).
Proprio su questo punto spesso iniziano ad inasprirsi i rapporti
tra i genitori dei bambini immigrati e la scuola.
Cercare in tutti i modi di sottolineare che il “non poter fare”
qualcosa, (come non mangiare maiale, o non fare lezione di religione
cattolica insieme al resto della classe), definisce un individuo per
negazione e gli impedisce di entrare in quel “gruppo”, per mezzo di
una completa accettazione, obiettivo ben più importante che
imparare perfettamente l’italiano.
Spiegare invece le motivazioni delle differenze, le particolarità e
gli aspetti di un’altra etnia, induce i bambini a scoprire le
caratteristiche di altre culture, senza identificarle come incapacità ma
riconoscendole come peculiarità del loro nuovo compagno. In questo
modo il bambino straniero si sente spronato a parlare del suo mondo,
del suo paese d’origine, della sua religione, senza vergognarsene. Ed è
ovvio, quando qualcosa si conosce non c’è più motivo di temerla e
perciò di escluderla.
Per questo aspetto cfr. E. Nigris, (a cura di) Educazione interculturale, Milano, Bruno
Mondatori editore, 1996.
1
74
Sono tante le discriminazioni inconsce comuni al nostro modo di
parlare. Anche solo il descrivere un individuo dalla pelle, come “un
bambino di colore” fa sorgere spontanea la domanda “di che colore?”,
un atteggiamento errato già distacca i “bianchi” non inserendoli in
quel gruppo di “bambini di colore”, di colore nero, marroncino, rosso,
giallo, verde…tutti, ma non bianco, differenziando ancora una volta.
L’educatore si situa nel complesso scenario del processo
educativo di trasmissione culturale e di costruzione delle identità e
delle
conoscenze
come
operatore
di
un
processo
educativo
intenzionale ed orientato. Insieme ai saperi, metodi obiettivi propri al
suo specifico sapere, egli mette in gioco, così come il soggetto in
formazione, saperi, credenze, valori maturati al di fuori della
situazione educativa.
Per indicare questo insieme di conoscenze si è parlato di
pedagogia nascosta, di teorie soggettive, di rappresentazioni, di
visioni del mondo.2
A questo punto ci si domanda quale debba essere l’immagine di
straniero di cui un educatore è portatore; in nome di quali parametri
alcuni individui sono considerati stranieri ed altri no; quali
rappresentazioni
e
quali
spiegazioni
delle
differenze
culturali
informano più o meno implicitamente la prassi educativa; qual è
l’immagine di “cultura” che sostiene un progetto che si definisce
interculturale.
2
R. Massa (a cura di), La clinica della formazione, Milano, Franco Angeli, 1992, ivi p.145.
75
Spesso l’identificazione di un qualcuno come straniero è del
tutto indipendente dalla presa in considerazione del suo statuto
giuridico. Come una persona parla, come si veste, il colore della pelle,
il
suo
comportamento,
sono
gli
indizi
con
cui
si
attua
la
categorizzazione sociale nella vita quotidiana.
È un processo socio-cognitivo di interpretazione della realtà. “Se
la categorizzazione dipende dagli scopi dell’agire, ciò significa che
essa ha dei margini di flessibilità e revocabilità ma quando una
categoria sociale è fortemente specificata mediante l’attribuzione di
tratti
o
caratteristiche
differenziali
considerate
emblematiche,
rappresentative e costitutive della categoria siamo di fronte alla
produzione di uno stereotipo.”3
La psicologia sociale distingue gli stereotipi dai pregiudizi.
Mentre “i primi sarebbero forme di generalizzazione in sé neutre, i
secondi si articolano sullo stereotipo dei giudizi di valore.”4 Allport è
considerato il riferimento obbligato per la teoria del pregiudizio
sociale. Egli si è soprattutto occupato del pregiudizio etnico, cioè del
dispositivo
per
cui
reagiamo
negativamente
o
attribuiamo
caratteristiche negative a una persona in quanto appartenente a un
gruppo che a sua volta è stato definito attraverso delle caratteristiche
su cui abbiamo prodotto un giudizio negativo.
Lo stereotipo etnico è l’attribuzione di alcune qualità alla
categoria. A partire dalla generalizzazione di tratti propri a qualche
individuo della categoria, quei tratti diventano attributi caratteristici
76
di tutti i membri della categoria. È evidente che il pregiudizio implichi
lo stereotipo, al contrario lo stereotipo non implica il pregiudizio ma
emerge in un mondo sociale carico di pregiudizi e di immagini
valorizzate o svalorizzate a loro volta.
Sia gli stereotipi che i pregiudizi sono sempre prodotti attraverso
il discorso, infatti l’analisi del discorso mette in luce che “ogni
individuo classifica il mondo secondo una variazione all’interno di un
repertorio interpretativo che si adatta agli scopi e alle circostanze.”5
Tale approccio rende conto delle contraddizioni implicite al
discorso: ad es. il discorso comune sull’immigrato può prevedere sia il
“pregiudizio” che egli non lavora, che “viene qui a non far niente”, sia
il pregiudizio contrario: “gli immigrati ci portano via il lavoro”.
Tali contraddizioni evidenziano quanto, volta per volta, il
pregiudizio sia costruito in funzione di scopi e circostanze particolari.
Purtroppo quando i pregiudizi, seppur latenti, entrano in classe,
la questione si fa più complicata perché i bambini si sentiranno
autorizzati a far propri questi stereotipi, intrappolando in categorie
prestabilite alcuni loro compagni: “immigrati”.
Nei colloqui informali con alcuni dei docenti ho notato che
durante la presentazione degli alunni, si accennasse anche alla loro
condizione sociale sia nei confronti dei bambini italiani che di quelli
stranieri:
3
4
5
H. Tajfel, C. Fraser, Introduzione alla psicologia sociale, Bologna, Il Mulino, 1979, ivi p. 153.
G. Allport, La natura del pregiudizio, Firenze, La Nuova Italia, 1973, ivi p. 155.
E. Nigris (a cura di), Educazione interculturale, op. cit. pp.169.
77
“…questo qui davanti è Jhonathan, è filippino e ha dieci fratelli, la
mamma ha un banco di frutta qua vicino, si arrangia come può e
all’uscita lo viene prendere la sorellina di undici anni; quello lì in fondo
è Rafael, è ebreo e non parla bene italiano ma i genitori hanno un
sacco di soldi, sono proprietari di una pellicceria in Via…. ; e loro
invece sono le due bambine bulgare, una è qui da un anno e l’altra da
pochi mesi ma sono figlie di ambasciatori, corpo diplomatico, non credo
proprio che potrai lavorare con loro”.
Sicuramente il fattore economico, per quanto mi è stato possibile
notare, è il parametro principale che determina il rapportarsi a
bambini non italiani e conseguentemente alle loro famiglie, ma
certamente anche il paese di provenienza ha il suo peso.
Il termine “immigrato” porta con sé una valenza principalmente
economico-sociale, inquadrando sin da subito i bambini e le famiglie
in una categoria disagiata; e allo stesso tempo ha un’accezione anche
geografica, comprendendo paesi d’origine di fascia nordafricana,
centroamericana, balcanica, o dell’Europa orientale.
Ciò fa sì che chi non rientri nelle categorie sopra descritte non
venga considerato poi, così “straniero”. Quel bambino marocchino di
ceto medio-alto non sarà definito immigrato. Come nel caso di un
bambino inglese che non viene considerato straniero da una maestra,
in confronto ad esempio, ad una bambina nata in India e adottata nei
primi mesi di vita.
78
L’esotismo e il colore della pelle guidano, in questo caso, la
“costruzione discorsiva” di un bambino come bambino straniero.6
Cfr L. Caronia, “I modelli folk di “bambino straniero” e di “cultura” nel discorso degli
educatori. Variazioni interpretative e costruzione congiunta della conoscenza nell’interazione
di ricerca”, Tesi di Dottorato in Pedagogia, Università di Bologna, 1993-1994, ivi p.170.
6
79
3. Tra Ivanka e Nety
Trovando due bambine di comune paese d’origine nella stessa
classe e per di più residenti nello stesso palazzo, mi aspettavo di
vederle al banco insieme, o comunque che fossero piuttosto legate,
data anche la solidarietà linguistica e soprattutto alfabetica. Invece
Ivanka e Nety non hanno un buon rapporto, anzi le maestre mi
raccontano
che
sono
stati
i
genitori
dell’una
a
richiedere
esplicitamente che non sedessero allo stesso banco.
Nety, che già dall’anno precedente frequentava quella classe, non
desiderava l’amicizia della sua connazionale, anzi la escludeva ed
emarginava come poteva, in qualunque occasione. Anche per la
difficoltà nella lingua che l’ultima arrivata mostrava, Nety si rifiutava
di tradurre i termini più complicati ed era gelosa dei compagni che
invece frequentavano Ivanka.
Nety si vantava ed era orgogliosa di rispondere a domande circa
la sua cultura o il suo paese solo se non entrava nel merito anche
Ivanka.
Un comportamento piuttosto insolito fra connazionali che
frequentano lo stesso ambiente, in cui la solidarietà etnica è molto
forte;
i
risentimenti
esplodevano
talora
in
accese
liti,
forse
giustificabili anche dal comportamento di prima della classe che
mostrava Niety.
Gli attacchi di Nety ad Ivanka assumevano sempre di più
caratteristiche discriminatorie di ordine etnico, infatti la accusava di
80
avere origini russe, che il suo nome fosse russo e anche quello di sua
madre. A ciò Ivanka rispondeva stizzita che non era la verità e
spiegava che il suo nome è la versione femminile del nome di suo
nonno.
Diario mercoledì 4 Apr 2001
Iniziamo oggi la parte sull’identità culturale, i primi
punti da analizzare sono : ‘come mi chiamo?’ ‘perché
mi hanno chiamato così?’ ‘dove sono nato’ etc.
Ognuno scrive sul suo quaderno ma ad un certo
punto Nety scatta in piedi e, indicando la sua
connazionale, esclama : “Ivanka non è un nome
bulgaro ma russo!!” Ivanka si infuria e, per la prima
volta ad alta voce, “ Ivanka è un nome bulgaro! Mio
nonno si chiama Ivanko ed è bulgaro perciò anche il
mio nome è bulgaro!”. (D’improvviso ricordo che già in
precedenza si era accennato ad un discorso simile ma
in quell’occasione non mi era stato possibile
approfondire, anche se avevo notato Ivanka molto
contrariata tanto da sbattere l’astuccio sul banco
stizzita.) e Nety ancora : “Non è bulgaro, anche mia
madre lo ha detto, è anche un po’ spagnolo”, Ivanka :
“Non è vero!” rivolgendosi a me cercando di
convincermi.
Come poteva, Ivanka cercava di smentirla, ma Nety rincarava la
dose: “I russi fanno schifo, sono antipatici e dei ladri, ci hanno rubato a
noi bulgari tantissime cose, anche le nostre lettere, il nostro alfabeto
che è stato inventato dai nostri santi Cirillo e Metodio!”
Il fatto che Nety fosse ben attenta affinché le maestre non
assistessero a simili litigi, mostra come i bambini a questa età
sappiano già che certe insinuazioni connesse alla diversità etnica
sono da evitare, e che di conseguenza espressioni come “tu sei negro”
possono
essere
usate
come
un’offesa.
Alcuni
termini
come
“marocchino” o “cinese” vengono così utilizzati per deridere, in questo
81
caso “tu sei russa, tu sei russa, non sei bulgara” è pesante come un
insulto, ha lo scopo di
prendere in giro la compagna e farle un
dispetto.
Approfittando di un colloquio con la mediatrice linguisticoculturale bulgara, ho cercato di arrivare alla fonte delle “accuse”
rivolte da Nety alla sua connazionale. Durante la ricerca mi è
appunto parso di capire che non era casuale insultare la compagna
chiamandola “russa”, poiché sembrava che essere russo fosse un vero
e proprio un insulto. Chiedendo maggiori delucidazioni su quella che
era solo una mia impressione, la dott.ssa Kirkova mi ha infatti
chiarito che attriti e risentimenti esistono realmente tra bulgari e
russi; ha specificato che molti sono i popoli dell’Europa orientale che
tentano di appropriarsi della paternità dell’alfabeto cirillico (che è -a
suo dire- innegabilmente relativa ai santi bulgari Cirillo e Metodio).
Diatribe sull’attribuzione dell’invenzione dell’alfabeto cirillico,
esistono anche con i serbi e gli slovacchi, maggiormente però con i
russi che, essendo già padri di molte invenzioni, tentano di arrogarsi
anche quella alfabetica.
L’astio comunque, va oltre la singola questione citata, piuttosto
trapela dalle sue parole un risentimento nazionale ed un’avversione
di ordine politico verso la Russia, acuita con la caduta del muro di
Berlino, al seguito della quale la Bulgaria (come altri paesi satelliti)
ha riportato gravi dissesti sociali e soprattutto economici.
All’interno della classe i quattro bambini stranieri avevano
raggiunto un differente grado di integrazione. Tenendo ovviamente
82
conto delle simpatie-antipatie umorali, tipiche dell’età scolare, le due
bambine bulgare erano riuscite a loro volta a instaurare un buon
rapporto con gli altri alunni, soprattutto tra le compagne. Chi invece
aveva più difficoltà era il bambino filippino, che spesso era evitato per
il colore della pelle. La discriminazione nei suoi confronti per via del
suo colore era palese da parte dei bambini, fra tutti Nety e Fabrizio.
Diario lunedì 19 febbraio 2001
Durante l’intervallo noto, mentre si formano più
gruppetti, un’esasperata insofferenza di Nety quando
Jonathan osa avvicinarsi a lei e, maggiormente, se osa
toccarla; stizzita nervosa e urlante si pulisce facendo i
capricci e pestando i piedi. Ad un certo punto
Jonathan noncurante si accosta al suo banco mentre
lei sta disegnando sulla lavagna, Nety se ne accorge e
di corsa gli si avvicina urlando : “Dai! Jonathan levati,
allontanati di qui!!”. Di riflesso Jonathan poggia la
mano sul banco, toccandolo in vari punti e lei ancora
più isterica : “Noo! No, levati Jonathan!” strillando.
Così mi avvicino e domando a Carla : “Ma che ha
Nety?” e lei : “Non vuole mai che Jonathan la tocchi,
non gli piace, nemmeno deve toccare il banco!”, allora
mi avvicino a Jonathan che sorridendo come al solito
mi abbraccia e, toccandolo più volte nelle guance e
nelle mani, le mostro che non sono cambiate di colore
le mie mani, che non succede nulla se lui tocca
qualcosa.
E le domando ; “Ma Jonathan non ti piace perché è
un po’ marroncino? Perché è più scuro di te?”
Non risponde scuotendo la testa e alzando le spalle,
poi : “No perché non voglio”.
Nell’ora seguente la m.Paola assegna il tema : “Come
ho trascorso la domenica”.
Ivanka descrive la giornata passata all’ambasciata
dove si è recata per partecipare alla festa di battesimo
di un bambino figlio di un collega dei genitori, si è
divertita molto ed ha giocato con dei bambini bulgari
che non conosceva prima.
Domando a Nety se anche lei ha partecipato e mi
risponde di sì ma con meno entusiasmo; precisa
83
contrariata che lei è andata via prima perché non era
poi così divertente.
Arriva la m.Bruna, è l’ora di ginnastica e tutti si
tolgono il grembiule e si mettono in fila per scendere.
In palestra si allineano sulla riga bianca per l’appello
ma Marco ed Ivanka rimangono seduti sulla panchina
accanto a me perché raffreddati. Tutti sono l’uno
accanto all’altro, tranne che per uno spazio vuoto
lasciato tra Jonathan e Nety.
Mi volto verso Ivanka e le chiedo perché Nety non
era più vicino a Jonathan, giacché tutti gli altri erano
in fila e lei sostiene che non vuole che lui la tocchi; le
domando allora se è per il colore della pelle ma scuote
le spalle e dice che non lo sa. Marco allora interviene :
“Nety non vuole che la tocca perché è nero, perché è
razzista, invece io ci sono amico con Jonathan”. Le
assistenti di turno, Carla e Cecilia, incaricate di aiutare
la m.Bruna, fanno subito notare il distacco tra i due
compagni : “Maestra, Nety non si vuole mai avvicinare
a Jonathan perché non le piace il colore della sua
pelle” e la maestra : “Perché? Cosa significa? Nety
avvicinati!” ordina; e la bambina stizzita : “No!!” e
ancora : “Oh, ti ho detto avvicinati! Perché non vuoi
stargli accanto?!” , Nety si giustifica : “Perché prima mi
ha dato una botta al braccio e mi ha fatto male…”.
Incalzata dalle continue urla che rimbombavano nella
palestra, Nety fa un piccolo passo verso il compagno
filippino, “Ancora!!!” la esorta “Ancora!!”, solo dopo
qualche minuto lei accenna, a piccoli passi, a ridurre
la distanza con il compagno ma senza toccarlo, con gli
occhi pieni di lacrime.
Durante tutto questo Jonathan non ha aperto bocca
ed è rimasto impassibile. La maestra allora rivolta a
tutti : “Ma che è questa cosa?! Io non tollero il razzismo
nella mia classe! Insomma, qui siamo tutti uguali! Ma
che siete razzisti??” fa un passo avanti Fabrizio e alza
la mano: “Mio padre è razzista!” ride soddisfatto e torna
in riga.
Nel frattempo Nety ha continuato a piangere e ad
agitarsi cominciando a lamentare mal di pancia, così la
m.Bruna le dice di sedersi sulla panchina accanto a
noi e di stare calma.
Più tardi Nety sentendosi meglio comincia a giocare
con i compagni e non fa più caso alla presenza di
Jonathan.
Saliamo a mensa e cerco di approfondire il discorso
del razzismo con Fabrizio, che mi dice che anche lui è
razzista “…però tranne che con Jonathan, con lui sono
amico” e gli dà una pacca sulla spalla chiamandolo
84
‘fratello’. Gli chiedo se conosce il significato di
‘razzismo’ e lui : “Mio padre me lo ha spiegato però non
me lo ricordo…”
Molti pensano che il pregiudizio sia un fenomeno assente
nell’infanzia, un fatto che compare e si afferma più tardi, durante
l’adolescenza e l’età adulta.
Se osserviamo nei bambini comportamenti e manifestazioni di
chiusura e rifiuto verso gli altri, che testimoniano l’esistenza del
pregiudizio, si pensa che siano l’imitazione degli atteggiamenti adulti,
e non l’espressione di loro personali preferenze.
In realtà, questa convinzione sembra venire smentita dai
risultati di numerose ricerche7, che hanno anzi dimostrato come, nel
corso degli anni, il livello del pregiudizio nei bambini di età compresa
tra quattro e sette anni, non sia diminuito, ma sia rimasto costante.
Non ha subito variazioni anche se è, invece, diminuito nel frattempo,
quello dei loro genitori e degli adulti in generale.
Ma, quali sono i fattori che favoriscono nei bambini l’apparire e il
permanere del pregiudizio, se non sono responsabili solamente le
attitudini dei loro genitori e l’imitazione degli adulti?
Un’interpretazione sull’origine del pregiudizio infantile rimanda
alla teoria dello “sviluppo socio-cognitivo”.8 A causa dei loro limiti
cognitivi, i bambini sono quasi inevitabilmente affetti dal pregiudizio
fino all’età dei sette anni. Lo sviluppo successivo di capacità cognitive
Le ricerche alle quali ci riferiamo sono state condotte, a partire dalla seconda metà degli
anni Quaranta e fino ad oggi soprattutto negli Stati Uniti, in Canada, in Gran Bretagna, in
paesi, cioè, da lungo tempo multietnici con una forte presenza di individui appartenenti alle
7
85
più vaste e un intervento mirato della scuola e degli insegnanti,
possono contribuire a farlo venir meno fino ad eliminare del tutto
ogni forma di attitudine negativa verso gli individui di gruppi diversi.
Questa interpretazione deve essere un invito all’istituzione
scuola, affinché assuma il problema e lo metta al centro del suo agire.
In modo da arginare fenomeni considerati irrisori in età scolare, ma
che potranno ingigantirsi con il trascorrere degli anni.
minoranze. Cfr in merito G. Favaro, T. Colombo, I bambini della nostalgia, Milano, Arnoldo
Mondatori Editore, 1993. pp. 96-97
8 Frances Aboud, Children and Prejudice, Oxford, 1989, ivi p.97
86
4. Relazioni fra adulti: i rapporti tra i genitori e fra questi e gli
insegnanti.
Da gennaio l’unica riunione di classe tra genitori e maestre si è
tenuta alla fine dell’anno scolastico.
Alcune delle maggiori critiche mosse dai genitori era lo scarso
livello di preparazione raggiunto e il non completamento del
programma scolastico.
Diario mercoledì 23 Maggio 2001
Oggi è il giorno della riunione di classe con i genitori
e le maestre; sono riuscita a parteciparvi grazie
all’aiuto della maestra Federica.
Alle 15:30 arrivano i genitori, anche se già so
dell’assenza della madre di Ivanka perché fuori città
per lavoro, poco più tardi inizio per prima a parlare
presentandomi. Tutti avevano sentito parlare di me,
anche se non avevano ben compreso il mio ruolo; noto
un certo disinteresse nella madre di Nety, solo più
tardi ne comprenderò il motivo, legato al fatto che tutti
(me compresa) parlassero troppo velocemente.
Terminato il mio intervento inizia il dibattito con le
maestre, portavoce principale del disagio è la madre di
Cecilia, la quale lamentava l’impreparazione della
classe intera e il non completamento del programma
scolastico.
Tutti concordano. Riprende la madre di Marta : “Non
ci scordiamo, è vero, che questa è una classe
complicata, difficile da trattare…non sono tutti allo
stesso livello, non è omogenea” e il padre di Fabia :
“…eppure è una classe piccola, costituita da pochi
bambini dovrebbe essere più facile da seguire…”
La madre di Carla allora : “Beh, certo su quattordici
elementi quattro sono stranieri…”
A questo punto la madre di Nety, che fino allora
pareva disattenta interviene : “Ma perché, c’è qualche
problema che Nety è straniera?” e, visibilmente
infastidita : “…Nety è brava a scuola…” poi si accende
una confusione generale.
87
Conclusa l’assemblea, in disparte la madre di Rafael
mi confida : “…e insiste nel dire (riferendosi alla madre
di Marta) che Rafael è straniero, mio figlio è italiano, è
nato in Italia!”
All’uscita trattengo la madre di Nety, la signora
Lucila, mi fissa un incontro dopo scuola mercoledì alle
16:30 sempre assicurandosi la presenza della figlia per
eventuali traduzioni.
L’accettazione del proprio figlio in un ambiente scolastico è il
principale obiettivo di ogni genitore che, o per motivi strettamente
economici (immigrati in cerca di lavoro) o per scelta di vita o per
motivazioni lavorative (vedi il caso di ambasciatori o consoli), si trova
a dover crescere il proprio figlio in un ambiente socio-culturale
diverso dal proprio.
Per
tutta
la
riunione
succitata,
si
è
parlato
di
alcune
problematiche riguardanti determinati bambini come se i genitori di
questi ultimi fossero assenti. Ed è proprio questo che ha fatto
indignare ancor di più alcuni genitori, la noncuranza, la non
considerazione e la non volontà di affrontare un problema, qualora ce
ne fosse, con i diretti interessati.
Mi è parso di notare, in questa come in altre occasioni,
“l’invisibilità dello straniero”, soprattutto l’invisibilità di quei genitori
che nessuno interpella su questioni di comune interesse ma che
vengono chiamati in causa solo quando si chiede loro di parlare in
italiano anche a casa, per permettere ai figli di esercitarsi nell’uso
della lingua. Diventano così i genitori a dipendere dai figli per
qualsiasi tipo di dialogo, sia con le insegnanti sia con altri genitori.
88
Figli traduttori che tentano, a fatica, di mettere in relazione le
loro mamme e papà con quel mondo in cui, a forza, si sono inseriti.
La formazione degli adulti immigrati costituisce indubbiamente
uno dei campi di intervento prioritari delle politiche di inserimento
dei cittadini extracomunitari in Italia.
Dal momento del suo arrivo, congiuntamente ai bisogni primari
(vitto, alloggio, occupazione), il bisogno di comunicare (di capire e di
essere capito, di orientarsi nei luoghi sconosciuti e nei codici
linguistici diversi) diviene per l’immigrato vitale.
Sia che l’immigrato trovi risposta a queste esigenze comunicative
nella relazione d’aiuto stabilita con i connazionali già inseriti (come
avviene nelle maggior parte dei casi), sia che cerchi di imparare le
“regole del gioco”, comunicative e culturali, osservando gli autoctoni,
egli sperimenta subito il bisogno di apprendimento. 9
E lo sperimenta come bisogno primario, e come elemento
fondamentale per l’inserimento nella nuova realtà.
In
questa
prospettiva,
l’insegnamento
istituzionalizzato
dell’italiano ed i corsi per il conseguimento dei titoli di studio,
costituiscono una condizione necessaria, benché non sufficiente, ai
fini del processo d’inserimento e dell’integrazione dei lavoratori
immigrati.
Fin dall’inizio la vita nel paese ospite si organizza attorno a due
“poli”, sociali e linguistici: da una parte i connazionali, gli amici, i
9 D. Demetrio, G. Favaro, Immigrazione e pedagogia interculturale, Firenze, La Nuova Italia,
1992, pp. 79 e sgg.
89
legami con la lingua e con il Paese d’origine “la lingua degli affetti” 10;
dall’altra, il polo del lavoro, degli obblighi burocratici, della lingua del
Paese di residenza “la lingua dei doveri”.11
Un po’ per timidezza, un po’ perché non spronati, i genitori dei
bambini stranieri si riducono a presenze isolate e sfuggenti all’uscita
di scuola, che chiamano da lontano i loro figli riducendo al minimo la
possibilità di contatto.
Solo se si cerca di fermarli e scambiare qualche parola allora
pian piano la coltre di diffidenza inizia a dissolversi.
L’interazione stessa con i genitori è stata resa in taluni casi
complicata dal corpo docente stesso che solo raramente permetteva, o
comunque avallava, l’avvicinamento a loro reputandolo inopportuno:
Diario lunedì 19 Marzo 2001
La situazione però si fa incandescente quando
accenno alla mia esigenza di incontrare i genitori delle
due bambine. La m.Elsa è molto contraria e
assolutamente non ci presenterà, io: “Lo dicevo anche
perché mi sembra opportuno informare i genitori della
mia presenza, giacché vedendomi insieme alle loro
figlie all’uscita di scuola potrebbero domandarsi chi
sono…finora mi hanno solo salutato da lontano” e lei
stizzita : “Beh, ti salutano perché sono persone
educate, solo per quello” piomba il silenzio, e riprende :
“E poi la prossima volta che esci anziché stare vicino a
loro starai accanto a qualcun altro!”.
La m.Paola e la m.Federica concordano con me,
quest’ultima poi la accusa di non aver mai dialogato
con loro, il che irrita ancora di più la m. Elsa che,
rivolgendosi a me: “Ma tu che vuoi? Ma come ti
permetti di andare lì e presentarti, e poi cosa gli dici?”
10 G. Favaro, “I percorsi formativi tra adattamento e promozione”, in G. Favaro, M. Tognetti,
Politiche sociali e immigrati stranieri, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1989, in D. Demetrio,
G. Favaro Immigrazione e pedagogia interculturale, op. cit. p.80.
11 Ivi.
90
rispondo che almeno potrei provarci poi, qualora non
fossero disponibili al dialogo, lascerei andare e per
tutta risposta lei : “No, tu non devi nemmeno
domandare”. Faccio notare che in altre classi in cui il
progetto è stato avviato, mie colleghe hanno già avuto
un approccio iniziale con le famiglie “…come ad es. con
la mamma di Jana” mi giustifico; la m. Elsa allora mi
risponde : “Ma guarda che qui stiamo parlando di
bulgari, non di Etiopi” con una gestualità che rimanda
ai due piatti della bilancia, sottintendendo una
differenza di tipo sociale.
Il discorso viene interrotto e rinviato.
L’incontro con la diversità, quale avviene quotidianamente tra
insegnanti e genitori stranieri, impone, a mio avviso, una ricerca più
serena di modalità relazionali positive ed efficaci, che sappiano
rispettare le molteplici coordinate culturali di riferimento e che, nel
contempo, inducano la scuola ad interrogarsi intorno al senso
dell’educare e del promuovere il cambiamento in un contesto sociale
complesso. 12
Una scuola, dunque, sensibile anche ai bisogni formativi degli
adulti e capace di potenziare i propri interventi in una prospettiva
interculturale.
A. Infantino, articolo “ La comunicazione fra insegnanti e genitori stranieri. Il caso della
scuola dell’infanzia” Animazionescuola Strumenti, sulla rivista Animazione Sociale,
Cooperazione Educativa MCE, Dicembre 1995, pp.80-86.
12
91
5. Un’altra etnia in classe: ostacolo o risorsa?
Riguardo
l’inserimento
degli
alunni
stranieri
nella
scuola
dell’obbligo è soprattutto a partire dalla circolare ministeriale n. 301
dell’8
settembre
1989
che
viene
affrontato
il
problema;
e
conseguentemente la promozione e il coordinamento delle iniziative
per l’esercizio del diritto allo studio.13
La citata circolare osserva che:
l’immigrazione è fenomeno che esiste da tempo ma
che, negli ultimi anni, ha assunto dimensioni
quantitative e connotazioni qualitative che rendono
necessarie, da parte della scuola, un’attenta
considerazione ed una serie di interventi intesi a
garantire alla generalità degli immigrati l’esercizio del
diritto allo studio ed a valorizzare le risorse provenienti
dall’apporto di culture diverse nella prospettiva della
cooperazione fra i popoli nel pieno rispetto delle etnie
di provenienza. […] La condizione primaria non può
che fondarsi sull’uguaglianza delle opportunità
formative: essenziale punto di partenza è, quindi la
scolarizzazione dei giovani immigrati nella fascia
dell’obbligo.
Per quanto concerne l’aspetto organizzativo-didattico, la circolare
n.301 fornisce indicazioni circa i criteri di massima cui dovranno
ispirarsi i modi dell’intervento scolastico. Inoltre indica alcuni
orientamenti per l’attività didattica:
[…] la programmazione didattica è fattore determinante nelle
attività di insegnamento. Ove nella classe siano presenti alunni
appartenenti a diversa etnia, la programmazione didattica generale
sarà integrata con progetti specifici che disegnino percorsi individuali
92
di apprendimento, definiti sulla base delle condizioni di partenza e
degli obiettivi che si ritiene possano essere conseguiti da ciascuno di
quegli alunni.
Notevole importanza didattica assume il clima relazionale da
attivare nelle classi e nella scuola. Gli alunni appartenenti ad altre
etnie, specie se di recente immigrazione, debbono trovare stimoli
comunicativi dall’intervento di coetanei immigrati (che hanno già
qualche consuetudine con la lingua italiana), dalla partecipazione di
adulti che sono in grado di comunicare in lingua italiana e nell’altra
lingua.[…]
La scuola obbligatoria non può non avere come obiettivo
educativo una sempre più acuta sensibilità ai significati di una
società multiculturale. Ciò suggerisce attività didattiche orientate alla
valorizzazione delle peculiarità delle differenti etnie.
Sollecitare gli alunni ad accettare e capire quelle peculiarità
contribuisce a promuovere una coscienza culturale aperta.
In un suo libro14, la psicoanalista bulgara Kristeva s’interroga
sul significato di essere straniero, nonché sul ruolo che l’estraneità
svolge, sia per lo “sconosciuto”, sia per coloro che si imbattono con
lui. “Lo straniero sembra proprio sorgere là dove inizia la coscienza
della mia differenza, e finire quando riusciamo a riconoscerci tutti
13 Cfr. F. R. Ferraresi, F. Frabboni, E. Lucchini, Pedagogia programmi e ordinamenti della
nuova scuola elementare, Firenze, La Nuova Italia, 1995, pp.84.
14 J. Kristeva, Stranieri a sé stessi, Milano, Feltrinelli, 1990, in F.R. Ferraresi, F. Frabboni, E.
Lucchini, Pedagogia, programmi e ordinamenti della nuova scuola elementare, op.cit. pp.96 e
sgg.
93
stranieri a noi stessi e a garantire a questo altro di noi la possibilità
di una vita diversa”.
Lo “sconosciuto” che è in noi è quindi evocato ogniqualvolta ci
imbattiamo con stranieri reali: disposti ad accettare la convivenza con
il diverso, o respingerla, si rivela così test di personalità, capace di
spiegare le radice profonde della nostra riluttanza ad accettare un
mondo multirazziale e multiculturale.15
Rispetto al multiculturalismo, secondo Poletti, gli apparati
politico-amministrativi e formativi tendono ad adottare tre tipi di
risposte, che possono presentarsi distintamente oppure intrecciarsi e
sovrapporsi, a seconda de casi:
a)
16
Assimilazione
(dall’immigrato, dunque anche dall’alunno, ci si aspetta un
rapido adeguamento al sistema/standard di vita, dove apparirà tanto
più integrato quanto più vi si “mimetizzerà”, assumendone i tratti
caratteristici e spogliandosi parallelamente di quelli di origine);
b)
Integrazione
(in antitesi al modello precedente, viene affermato e per certi
aspetti
enfatizzato
il
diritto
per
chi
proviene
da
“fuori”
di
salvaguardare la propria identità etnico-culturale, da riconoscere e
15 G. Favaro, “Oltre le scienze dell’educazione: per una pedagogia dell’erranza” in D.
Demetrio, G. Favaro, Immigrazione e pedagogia interculturale. Bambini, adulti, comunità del
percorso di integrazione; Firenze, La Nuova Italia, 1993, pp. 103-112.
16 F. Poletti, La sfida della differenza, in F. R. Ferraresi, F. Frabboni, E. Lucchini, Pedagogia,
programmi e ordinamenti della nuova scuola elementare, op. cit. p.97.
94
valorizzare in quanto ritenuta vettore imprescindibilmente funzionale
al successo scolastico);
c)
Approccio interculturale
(non si rivolge soltanto ai soggetti migranti, bensì chiama in
causa tutte le forze e gli attori sociali presenti nel territorio)
Credo possa essere comune opinione che l’adozione del terzo
punto, sia l’unico itinerario in grado di superare sia la semplice
assimilazione dell’altro con l’annullamento delle sue prerogative, sia
la sterile accentuazione delle differenze, producendo così i migliori
frutti di una articolata e cosciente mediazione.
Lo scambio interculturale, mobilitando l’intero contesto, stimola
le diverse parti a confronto a mettersi in marcia e, lungo il viaggio,
operare
una
trasmutazione
del
proprio
essere
verso
una
configurazione nuova.17
Secondo Demetrio, adottando una modalità interculturale,
l’educatore considera l’immigrato (sia adulto che bambino) come
“portatore di saperi”, che gli fornisce spunti per trasformare il luogo
del lavoro educativo in un occasione di scambi e riflessioni sul
mondo, sui mondi degli altri.
In tal modo, l’insegnante si incammina verso la realizzazione di
una
pedagogia
dell’interazione,
più
che
dell’integrazione;
dal
momento che la valorizzazione delle culture altrui equivale alla messa
95
in campo di una pratica educativa che suscita interazioni, nella
prospettiva di un’educazione alla convivenza e alla democrazia
culturale. 18
Segna un notevole passo in avanti l’affermazione contenuta
nell’art. 1 della legge di riforma della scuola elementare n. 148/1990,
dove si precisa che la scuola elementare “concorre alla formazione
dell’uomo e del cittadino secondo i principi sanciti dalla Costituzione
e nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità individuali, sociali e
culturali”.
Pertanto la “pedagogia interculturale” è impegnata a organizzare
le condizioni più favorevoli a realizzare, insieme, l’integrazione e
l’interazione fra mondi di diversa origine e tradizione etnica.19
Si preoccupa, quindi, di facilitare la conoscenza reciproca, e la
disponibilità allo scambio e all’incontro, ma anche al cambiamento
degli uni e degli altri. Di chi accoglie e di chi è accolto.20
La presenza di un’altra etnia in classe va vista dunque come una
risorsa che spontaneamente e nel modo più naturale possibile,
introduce gli alunni in una prospettiva di conoscenza prima, e di
rispetto poi, del “diverso da me”.
Alterità come ricchezza in cui identificarsi come “altro termine di
paragone”; perciò non punti di partenza e di arrivo ma una continua
17
F. Poletti, La sfida della differenza, ivi.
D. Demetrio, G. Favaro, Immigrazione e pedagogia interculturale, op. cit.p.28.
Per questo argomento cfr. Consiglio d’Europa, “L’éducation interculturelle. Concept,
contexte, programme”, Strasbourg, 1989, in F. R. Ferraresi, F. Frabboni, E. Lucchini,
Pedagogia, programmi e ordinamenti della nuova scuola elementare, op. cit. p.98.
20Ivi.
18
19
96
osmosi che passa attraverso il bianco, il nero, il musulmano, l’ateo, il
vegetariano.
Per coloro che invece non sono abituati a guardarsi attraverso lo
sguardo degli altri, una diversa cultura con cui relazionarsi provoca
smarrimento; perciò si chiudono rifiutando quel confronto che
disorienta. Ciò accade sia per gli adulti che per i bambini stessi.
Abbiamo parlato precedentemente del pregiudizio nei bambini,
certamente
ancora
più
complessa
sarà
l’analisi
di
questo
comportamento, inconscio o meno, negli insegnanti e nei genitori.
Sorgono dunque i problemi nell’organizzare la recita del natale in una
classe dove non tutti gli alunni sono cristiani : “beh, d’altra parte
sono loro che hanno scelto di venire in Italia, quindi non possiamo
cambiare le cose per loro! Non si può pretendere che si prendano in
considerazione tutte le culture presenti in questa scuola, staremmo
freschi! Già resto oltre l’orario per restare con un bambino che non
frequenta l’ora di religione…! ”
Il fatto che gli alunni stranieri vengano spesso considerati un
impedimento nello svolgimento dell’attività didattica, è palesato ad
esempio nella riunione di classe su citata (Diario mercoledì 23 maggio
2001), tale convinzione alberga fra i genitori e il corpo docente stesso
che a volte ricorre a questa scusante per celare alcuni fattori di
rallentamento dello svolgimento della didattica, quali le numerose
escursioni e visite guidate.
Alcuni genitori non vedono di buon occhio la presenza di alunni
stranieri perché considerati la causa di un calo nel rendimento
97
scolastico della classe intera. Non hanno di solito relazioni con le loro
famiglie, anzi spesso queste sono del tutto assenti. I genitori dei
bambini stranieri prediligono infatti un rapporto individuale con gli
educatori e il fatto che non partecipino alle riunioni di classe non
migliora la situazione.
Ma il sentimento di latente razzismo che volente o nolente
pervade l’Italia, emerge in larga misura quando i genitori di bambini
italiani si sentono rifiutare il proprio figlio dagli asili nido perché in
esubero, e quindi sono costretti ad iscriverli in servizi privati
d’infanzia.
La motivazione principale del soprannumero è la presenza di
bambini stranieri; la percentuale in questa fascia è in costante
aumento. Se, infatti, l’accesso alla scuola materna viene assicurato a
tutti i richiedenti poiché vi è un’ampia disponibilità di posti, non
altrettanto avviene per i nidi, per i quali si attua una forte selezione,
dato l’alto numero di domande e la scarsità dei posti.
La tendenza che si può notare in questi anni, da parte delle
famiglie immigrate, è quella di un uso piuttosto diffuso dei servizi per
l’infanzia.21
Allora si innesca il processo per cui : “…mio figlio ha meno diritti
di un bambino straniero! E devo pagare un asilo nido privato quando
mi spetterebbe di diritto…”
È questo un altro dei casi in cui, un’altra etnia in classe viene
considerata un ostacolo, un impedimento nell’esercizio dei propri
98
diritti. Poiché si ritiene che nel tutelare le esigenze degli immigrati e
dei loro figli, si neghino ai cittadini italiani i propri interessi.
Su questo argomento vedi: G. Favaro,(a cura di) I colori dell’infanzia, Milano, Edizioni
Guerini e Associati, 1990.
21
99