Ricordo di Raffaele Mattioli
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Ricordo di Raffaele Mattioli
RICORDO DI RAFFAELE MATTIOLI MILANO CASA DELLA CULTURA MCMLXXV INTLS4 S tlorlic)A0M Arch2itis:N RICORDO DI RAFFAELE MATTIOLI MILANO CASA DELLA CULTURA MCMLXXV GIULIO EINAUDI Parlando qui stasera di Raffaele Mattioli, parlandone io come amico e come organizzatore di cultura, che tanto da lui ebbe ad apprendere, debbo subito sfatare un luogo comune, quello che Raffaele Mattioli fosse un mecenate dei nostri tempi, anche se è vero che col banchiere Mecenate può essere facilmente paragonato. Ma egli non fu mecenate perché non chiese mai contropartite all'arte e alla cultura, ma le spronò sempre alla ricerca, all'approfondimento, e tese a liberarle d'ogni forma di servilismo. Il suo comportamento davanti ai potenti è una controprova del suo carattere di assoluta autonomia, fossero essi un Mussolini, o, in situazione mutata, uno Scelba, ad esempio. Solo chi visse e operò nel periodo fascista può comprendere nel pieno significato la testimonianza della compagna di Palmiro Togliatti, Nilde Jotti, che qui vi leggo: « Fu proprio parlando' di Gramsci che una sera [Mattioli] ricordò, con la modestia. di chi espone la più semplice e naturale cosa del mondo, come i Quaderni del carcere, sottratti dalla cognata Tatiana dalla camera della clinica Quisisana ove Gramsci era spirato, avevano trovato munito rifugio nella cassaforte della Banca Commerciale, per giungere poi, attraverso Scritti citati: A. ARCA111, Le due vite di Mattioli, «Epoca*, Milano 5 agosto 1973; N. JOTTI, Nascose ai fascisti i "Quaderni del carcere", 41 Rinascita,, Milano 3 agosto 1973; E. SCALFARI, Il banchiere che varcò le Alpi, *L'Espresso», Roma 5 agosto 1973. Per scritti di Raffaele Mattioli e su Raffaele Mattioli si veda il volume Raffaele Mattioli, a cura della Banca Commerciale Italiana, Milano settembre 1973. 53 le ben sicure mani di Piero Sraffa, a Togliatti, al centro estero del partito a Parigi ». Era un uomo modesto, un uomo a cui non piaceva né comandare né obbedire, un uomo che tuttavia ha svolto un ruolo fondamentale nella vita politica economica e culturale del nostro Paese, pur restandone sempre appartato. « Col capitalismo italiano di questi anni Mattioli non aveva nessun punto in comune: né simpatia ideologica, né integrazione vera e propria d'affari. Ma non perché fosse un uomo di sinistra: non inganni la dedica di Togliatti o l'aiuto dato a Gramsci. Semplicemente perché, in un capitalismo irrimediabilmente piccolo-borghese, era un grande borghese» ha giustamente ricordato Scalfari, « l'ultimo forse che l'Italia abbia prodotto ». « D'altronde le sue simpatie culturali parlan chiaro» ricorda ancora Scalfari: « la Firenze dei Medici, la Napoli dell'abate Galiani e del Genovesi, la Parigi dell'Enciclopedia. E poi David Riccardo (ecco Sraffa) e De Sanctis e Croce e Montale. Dovunque, nel Quattro, nel Sette, nell'Otto o nel Novecento, la borghesia ebbe un ruolo progressivo, Mattioli s'è identificato . . . Perché in verità questo abruzzese-napoletano che dava a tutti del tu, questa banca che sorge al centro di Milano, questo centro di potere finanziario, politico, culturale, che sembra così intrecciato alla storia del paese, sono rimasti sostanzialmente estranei, rappresentanti d'un'altra Italia, frutti maturati troppo tardi e troppo presto, epigoni di banchieri fiorentini del Quattrocento e precursori del nuovo uomo d'affari europeo che ancora non c'è ». 54 Questo ritratto di Raffaele Mattioli fa sentire, soprattutto nella sua parte finale, una identità tra cultura avanzata e capacità operativa avanzata, quale Mattioli rappresentava con la sua banca: frutti maturati troppo presto, precursori entrambi di un uomo nuovo europeo che ancora non c'è; ed è questa identità che Mattioli sentiva con le forze vive del Paese quella che lo portava ad operare così attivamente sul piano culturale, sia promuovendo la sua grande collana di classici, sia anche consigliando editori suoi amici e sostenendoli nelle difficoltà e criticandoli con amabile arguzia ove si discostassero dal terreno della verità. Ha ricordato Antonio Arcari a proposito della collana La Letteratura Italiana - Storia e Testi che « ogni volta che Mattioli andava a Roma per le necessità del suo lavoro di banchiere, non dimenticava mai di portare con sé qualche copia dell'ultimo volume uscito. Una di queste era dedicata a Luigi Einaudi, una a Togliatti. Togliatti gli aveva chiesto, in occasione di uno dei primi incontri, 'quale significato potesse avere, nel 1951, la realizzazione di una collana di classici italiani. Mattioli gli aveva risposto che con i volumi di quella collana voleva alzare un muro e che solo quando i comunisti avessero conquistato anche questo muro sarebbero potuti diventare classe dirigente ». E che Mattioli auspicasse — fornendone in tal modo i mezzi — una partecipazione attiva dei comunisti a una vita politica sociale del Paese, lui « grande borghese », come abbiamo sentito, « liberale anarchico », come diceva mio padre, è sintomatico, considerando la crisi dell'attuale classe dirigente. 55 Tutti ricordano la sua battuta che un bilancio — di Stato e di azienda — dovrebbe essere letto come una poesia. Un bilancio è si lo specchio esatto di una situazione, ma è soprattutto uno strumento per fare una certa politica — e qui lascio parlare lui: « Se il bilancio fosse solo uno specchio mi darebbe tutt'al più un'immagine bidimensionale, mentre la realtà ha almeno tre dimensioni, perché è una realtà viva ». Non si creda con questo di ritenere che Raffaele Mattioli non esigesse bilanci e relazioni perfette dal punto di vista contabile, ma la sua « lettura)) esige una dimensione tridimensionale. Dimensione che egli ebbe sempre viva nelle analisi della situazione italiana e mondiale che accompagnano le sue relazioni annuali. Leggo da tre sue relazioni del '62, '66 e '70. Diceva nel '62: «I problemi che ancora assillano l'Italia sono tanti e tali che le risorse disponibili vanno inventariate e utilizzate secondo una ben graduata e concatenata scala di priorità. Solo in tal modo si arriverà a far si che la nostra capacità di produrre e di consumare cresca senza interruzione, ossia, nel linguaggio corrente, che il " miracolo " continui e diventi tanto normale e quotidiano che a nessuno venga più in mente di chiamarlo " miracolo " ». Da quella del '66 cito alcune frasi che forse meritano una particolare attenzione da parte del pubblico qui presente: « Liquidità non è liquido che stagna, ma liquido che scorre. È la capacità per gli imprenditori di trovare tempestivamente i fondi, fissi e circolanti, che occorrono per le loro iniziative. A questa noi ci inte56 ressiamo, e di questa, purtroppo, avvertiamo la carenza. La liquidità intesa in senso " statico " . . . ha un carattere difensivo, protegge e garantisce lo status quo, rispecchia e assicura l'equilibrio dei rapporti di dare e di avere. Ma è la liquidità effettiva, quella che ha una funzione dinamica, che promuove e garantisce il corso e lo sviluppo economico, che mantiene agile, sciolto e propulsivo l'organismo produttivo in tutte le sue articolazioni, la liquidità che soprattutto ci interessa ». E nel '70 in una delle sue relazioni, in un anno non facile, Mattioli scriveva: « Siamo stati sempre tacciati di ottimismo. E ottimisti siamo, perché il nostro ottimismo equivale allo sforzo assiduo di rintracciare, identificare, ubicare, ricuperare, valutare e tenere in condizioni di vitale sviluppo tutti gli elementi attivi che la situazione racchiude. Ma questo ottimismo è turbato da una certa amarezza quando dobbiamo constatare, per esempio, che un provvedimento come quello della sospensione dell'imposta sugli aumenti di capitale delle società, proposto dal Governo fin dai primi dello scorso settembre, alcuni anni dopo che fosse da noi invocato, è ancora di là da venire, e anche nella sua forma embrionale è inficiato da mortificanti debolezze; quando la legge sui " fondi d'investimento ", anch'essa da noi propugnata per tanti anni, si aggira come un fantasma negli ambulacri parlamentari, e comunque rimarrà sterile senza l'abolizione della " nominatività "; quando la blaterata riforma fiscale, come strumento efficace di politica economica, è ancora nel lavabo di Pilato. E smettiamo l'elenco perché, prolungato fin che 57 vogliamo, ci porterebbe soltanto a ribadire il punto che " el difeto xe nel manego " e cioè nella crisi politica che ci travaglia ». E ancora diceva: « Non possiamo rinviare — o, come si dice con letterario compiacimento, " projettare " — la preparazione e l'attuazione di un concreto " programma " a un mitico Duemila, o addirittura a quel " 2440 " che esattamente due secoli fa vagheggiava Louis- Sébastien Mercier: Rève s'il en fut jamais. E per rifarci alle meste note di questa succinta relazione, non possiamo " rassegnarci " agli eventi, per avversi che sembrino, né lasciarci da essi passivamente " condizionare ", ma dobbiamo capire e agire, o reagire, senza i pavidi tremori delle teste deboli e dei nervi fragili ». Queste critiche che Mattioli rivolgeva cinque anni fa alla classe dirigente, e non erano certo le prime in ordine di tempo, sono ancora valide oggi. Ci auguriamo solo che il risanamento dell'amministrazione pubblica, l'attuazione delle riforme, non debba essere proiettata al 2440. Ma qui vorrei chiarire il valore di certi uomini come Raffaele Mattioli, i quali accompagnando una continua « predica inutile » a un corretto operare e a una chiara visione dei problemi reali della società, riescono comunque a incidere profondamente nel tessuto stesso delle società in cui operano, e, senza che noi stessi ce ne accorgiamo, ce la fanno trovare modificata. Il tempo gioca a loro favore, e, nonostante tutte le aberrazioni e il disfacimento di una struttura in così gran parte corrotta, essi funzionano nella società come degli anticorpi vigorosi sapientemente e silenziosamente coordinati. 58