Il fattore fedeltà

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Il fattore fedeltà
IL FATTORE FEDELTA’
Da decenni ormai l’approccio del marketing, che è generalizzato in quasi tutte le aziende,
ha focalizzato la gestione dell’impresa sulla conquista di nuovi clienti o segmenti di mercato
attraverso la giusta combinazione di fattori quali il prodotto, il prezzo, la pubblicità e la
promozione (le mitiche "4 P"). Una volta conquistato il cliente, non sembra che l’impresa
debba fare uno sforzo particolare per tenerselo, almeno fintanto che un concorrente non
riesce a trovare una combinazione di "P" più efficace. Di fronte a un tale approccio
"markettaro" vengono inevitabilmente giudicate vecchie e obsolete quelle aziende che si
basano su un parco clienti stabili, un approccio commerciale consolidato dal tempo e dalla
consuetudine, e su impiegati fedeli legati da rapporti stagionati con clienti altrettanto fedeli.
Le ricerche di Reichheld hanno ribaltato questi giudizi. Sono infatti vincenti le imprese che
comprendono veramente l’importanza di sviluppare nel tempo con i propri clienti un
rapporto di fedeltà reciproca, se non altro perché tali clienti sono i più redditizi: comprano di
più, costano di meno nel servizio, non si lamentano quando il fornitore sbaglia (purché non
lo faccia troppo spesso).
Detto così il concetto è intuitivo e sembra persino ovvio; ma tutta la cultura del marketing è
una cultura aggressiva dedicata alla conquista di nuovi clienti e poco rispettosa del lungo e
meticoloso lavoro di serietà, attenzione, dedizione che è necessario per tenersi i clienti in
un mondo sempre più competitivo. Dopo tutto sono decenni che i venditori ricevono
incentivi per acquisire nuovi clienti; un nuovo cliente fa notizia, specie se grande, mentre un
cliente "non perso" non è normalmente rilevabile dalle statistiche aziendali, almeno fino a
quando accade l’irreparabile.
Il recente filone del pensiero aziendalistico focalizzato sulla "loyalty" non si limita al
rapporto azienda-cliente, ma include tutti gli altri rapporti che congiuntamente costruiscono
la capacità di soddisfare i clienti nel tempo: il rapporto fra azienda e propri fornitori di
prodotti e servizi, fra azienda e dipendenti, fra azienda e tutte le altre interfacce esterne che
contribuiscono a creare un prodotto o un servizio di qualità (si pensi per esempio alle linee
aeree che devono di- pendere dai controllori di volo, dal personale aeroportuale, dai
pompieri ecc). Ecco quindi che diventa evidente l’analogia fra i concetti di "loyalty" e i
concetti di "qualità totale": la qualità totale costa meno della rincorsa a risolvere i problemi
generati dalla non qualità. Nelle aziende di servizi la non qualità equivale a un cliente perso
e sapersi tenere i clienti equivale a un approccio di qualità totale.
Se ci si ferma all’affermazione o all’analisi non si va oltre a quello che a molti può sembrare
ovvio; inoltre, si tratta di un’affermazione non agibile, cioè non trasformabile in un’azione
concreta. Se non si incomincia con un cliente nuovo come si fa successivamente a
trasformarlo in un cliente fedele? Bisogna quindi andare oltre all’analisi (verificata in ogni
azienda e comunque necessaria per motivare i necessari cambiamenti) del fatto che i
migliori clienti siano quelli fede- li (valgono per l’azienda fino a venti volte di più degli altri in
termini di margine sul ciclo di vita!) per mettere in azione tutti i cambiamenti necessari ad
aumentare la probabilità di mantenere i clienti fedeli nel tempo. Se si avrà successo con i
clienti esistenti, è probabile che anche i nuovi clienti tendano a diventare fedeli; la
fidelizzazione della clientela diventa così un "modo di essere" dell’impresa che permea il
modo di pensare e il comportamento di ogni lavoratore.
Nel campo della customer loyalty la chiave di lettura è focalizzarsi sul successo degli altri, e
cioè sul far sì che l’impresa sia capace di anticipare le esigenze dei propri clienti e aiutarli a
funzionare meglio; bisogna ovviamente che sia il top management a dare l’esempio,
comportandosi in modo da fare capire che le preferenze di ogni singolo cliente non sono
seccature ma doveri (e opportunità) dell’azienda. Naturalmente, il comportamento deve
corrispondere a una profonda e vera convinzione altrimenti il personale dell’azienda si
accorge che tutto è una finzione e si comporta di conseguenza.
Questo atteggiamento è particolarmente importante nelle aziende di servizi perché
l’insoddisfazione del cliente spesso non dà luogo a reclami (come invece avviene per le
aziende manifatturiere), ma si manifesta semplicemente con l’abbandono della relazione.
Ci sono però anche azioni specifiche che si devono intraprendere quando un cliente
minaccia di andarsene:
Prima di tutto bisogna mettere a punto un sistema di early warning e cioè un sistema
di ascolto tempestivo delle insoddisfazioni del singolo cliente; i mezzi utilizzati per vendere
(venditori, agenti, direct mail, Internet ecc.) devono essere utilizzati anche per ascoltare e
tenere seriamente in conto persino quelle che, a un’azienda non particolarmente
marketing-oriented, sembrano essere impuntature o esigenze irragionevoli. È spesso
possibile analizzare statisticamente i comportamenti della clientela e identificare i segmenti
nei quali le defezioni sono più probabili. Per contro, utilizzare chiavi di lettura banali come,
per esempio, elencare i clienti nei rapporti interni per ordine alfabetico o per dimensione è il
miglior modo per non evidenziare che alcuni, e cioè quelli fedeli, valgono molto di più di tutti
gli altri.
Bisogna poi che ciascun cliente sia riconosciuto e trattato individualmente (dal
venditore del grande magazzino e dal messaggio inviato con i direct mail o il numero
verde) come una persona fisica e non come un codice; è più difficile abbandonare un
fornitore che si conosce personalmente rispetto a uno anonimo.
Infine, bisogna intervenire in tutti i modi quando un cliente abbandona l’azienda
(cancella un conto, non compra più da un certo tempo ecc.). L’azienda deve avere un
atteggiamento di "scusa", in quanto certamente ha fatto qualcosa di non soddisfacente per
il cliente, e deve avere la determinazione di risolvere a ogni costo qualunque problema si
frapponga al ristabilimento del rapporto. Se l’azienda non ha fatto niente di male, ma un
concorrente ha fatto qualcosa di meglio, c’è comunque stato un difetto; l’azienda vincente
non può permettersi di rimanere indietro rispetto ai concorrenti.
Se poi l’azienda fa tesoro delle lezioni imparate da quei clienti che la volevano
abbandonare diventa possibile intervenire a monte, su prodotti, servizi o sistemi di gestione
del rapporto con la clientela, con investimenti o azioni mirate alle aree in cui si può avere il
maggior impatto. Da azione contingente a sistema, da problem solving a gestione
anticipata dell’opportunità, da influenza sull’azione del cliente a influenza sul rapporto
emotivo con il cliente: è questa la lezione importante della customer loyalty che possiamo
trarre dall’esperienza delle aziende vincenti.
Ma la lezione non può essere una serie di regolette che si imparano a memoria, come
spesso accade per le tecniche manageriali di origine americana; né la molla motivazionale
può essere un puro atteggiamento di convenienza che deriva dagli incentivi individuali o
dalle penalità che l’impresa potrebbe avere in conseguenza alla disattenzione per i clienti
esistenti. L’impresa che veramente “vive” un rapporto di qualità totale con i propri clienti,
fornitori, partner in business e dipendenti lo fa perché la sua leadership pensa veramente
che tutto ciò sia un dovere etico e non solo un interesse di medio periodo; la convinzione
deve entrare nel Dna collettivo e stimolare reazioni automatiche quando un qualunque
dipendente o cliente nota dei fatti distonici con la promessa implicita di “fare e continuare a
fare tutto quello che umanamente è possibile, nell’interesse del cliente, meglio di ogni altro
concorrente”.
Dedicarsi a realizzare nella propria impresa un approccio di “loyalty” è in Italia
contemporaneamente più difficile e più facile che in altri paesi. È più difficile perché
nessuno di noi ama seguire regole, non si fida dei numeri e cerca di truccarli (se gli
conviene), privilegia l’azione individualistica, non ha costanza nel controllo. È più facile
perché siamo particolarmente capaci di dare il meglio di noi stessi nel rapporto uno-a-uno,
di aggiungere un pizzico di fantasia nella soluzione dei problemi individuali, di seguire con
entusiasmo un’idea purché sia vera; nel rapporto con clienti, colleghi, fornitori e partner si
può quindi dare particolare risalto agli aspetti positivi del nostro individualismo.
Superare la difficoltà di un approccio sistematico e amplificare le inclinazioni naturali di noi
tutti è l’arte manageriale che serve per trasformare imprese normali in imprese eccellenti.
2000
Gianfilippo Cuneo