Nel cuore ferito del Caucaso (Speciale: dal Mar Nero al

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Nel cuore ferito del Caucaso (Speciale: dal Mar Nero al
Il reportage
mercoledì 7 aprile 2010
Speciale
Dal Mar Caspio
al Mar Nero/2
A bordo di una stracarica
Lada caravan sfrecciamo davanti al nuovo ospedale di Beslan. La periferia della città –
teatro nel settembre 2004 di
una delle più grandi tragedie
degli ultimi decenni in Caucaso: una presa d’ostaggi nella
locale scuola che terminò con
386 morti (oltre la metà bambini) – è marcata dalla presenza
di moderni edifici pubblici e
di lucenti stabilimenti industriali.
È come se la cattiva coscienza delle autorità moscovite per
la drammatica conclusione
della criminale presa d’ostaggi
da parte dei guerriglieri ceceni, avesse fatto affluire fiumi
di rubli ai piedi delle montagne della catena caucasica. Ma
i soldi non potranno mai rimarginare simili ferite.
Voltate le spalle all’Ossezia
del Nord riprendiamo il filo
della nostra cresta montuosa
dal massiccio successivo, quello di Bezingi. È uno dei più
spettacolari dell’intera catena
con ben sette cime di oltre cinquemila metri e un muro di
ghiaccio alto duemila metri e
lungo almeno una decina di
chilometri. Uno scenario con
pochi rivali al mondo che nei
secoli passati ha attratto tutti i
grandi viaggiatori ed esploratori della regione, da Douglas
Freshfield a Vittorio Sella.
Prima di arrivarci facciamo
però tappa a Nalcyk, la capitale della repubblica di Cabardino-Balcaria dove ci raggiunge
un gruppo di amici svizzeri.
Sono alcuni forti sci-alpinisti
che hanno deciso di aggregarsi alla nostra avventura per un
paio di settimane. Tra di loro
anche l’amico Tiziano Schneidt, guida alpina ticinese
fresca di diploma, che ci accompagnerà fino a Soci.
Ogni avvicinamento da nord
alle montagne caucasiche inizia da una caserma. È così anche per il famoso e molto frequentato circo montagnoso di
Bezingi. Attraversato l’omonimo villaggio, la strada è chiusa da una sbarra affiancata da
una postazione di guardia. Anche qui tutto è nuovo fiammante.
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La grandiosità del paesaggio cela i drammi della Storia
La traversata sci-alpinistica del Caucaso
riprende da Beslan, teatro di uno dei più tragici episodi
delle guerre che hanno devastato la regione
dopo la caduta dell’Unione Sovietica
testo e foto
di Mario Casella
Nel cuore
ferito
del Caucaso
Al cospetto del Muro di Bezingi
Manca poco all’imbrunire
quando, dopo una calata in
corda doppia da una fascia rocciosa che ha interrotto la nostra discesa verso valle, entriamo nel campo alpinistico fantasma di Bashil. Le baracche
di epoca sovietica sono abbandonate e sommerse dalla
neve. Fischiamo e lanciamo
delle grida per capire se Eldar,
l’alpinista locale che ci assicura l’assistenza logistica dal
fondovalle per questa tratta, è
riuscito ad arrivare fin quassù. Poi, nella sorpresa generale, vediamo del fumo uscire dal
camino di un capanno verde di
legno.
Sulle tracce
di Mummery e Zurfluh
Mentre il soldato di turno
annota a mano in un registro
le nostre generalità, abbiamo
il tempo di scrutare l’interno
dell’alta recinzione che sotto
la nostra strada racchiude l’intera struttura militare. Non
c’è traccia della trascuratezza
e della desolazione tipiche di
molte caserme russe.
Tutto è nuovo, luccicante e
ipermoderno: telecamere comandate a distanza, antenne
paraboliche, gruppi generatori, vetri doppi termoisolanti, i
soldati vestono tute d’alta
montagna di qualità. Ogni parte metallica o di plastica esposta alle intemperie è accuratamente verniciata di verde. Un
verde nuovo per l’esercito russo. Non è più lo sciatto grigioverde del passato. È un verde
vivo e appariscente. Quasi
come se il Cremlino volesse segnalare a tutti il proprio ritorno capillare nella regione.
“Guardate, siamo qui e siamo
moderni, siamo high-tech!
Non siamo più gli stessi di un
tempo”, sembrano gridare i
verdi tetti alle montagne che li
circondano.
Tutto fila liscio e dopo una
ventina di minuti, arriviamo
con i due fuoristrada ad uno
dei campi alpinistici storici
dell’ex Unione sovietica: Bezingi. Il campo compie 50 anni
e sorge ai piedi di uno dei cinque più lunghi ghiacciai al
mondo. Dalle facciate di alcuni dei suoi cottages pendono
gli striscioni plastificati di
note marche internazionali di
materiale alpinistico.
laRegioneTicino
Un groppo in gola
al passo Granoskogo
Ushba, gioiello caucasico
Approfittiamo della bella
giornata per una sgambata di
mille metri di dislivello che ci
porta ai piedi dell’impressionante parte nord del DyKh
Tau, seconda cima per altezza
dell’Europa continentale e salita per prima nel 1888 da Albert Mummery e dalla sua guida svizzera Heinrich Zurfluh.
Il mattino dopo ci attende un
altro osso duro: il lunghissimo
ghiacciaio di Bezingi, che percorriamo fino ai piedi della
muraglia di neve e ghiaccio
alta due chilometri e sovrastata da sette cime di cinquemila
metri. Poco prima della verticale sotto l’enorme parete,
svoltiamo a destra per salire alla cima panoramica di
Kölbashi.
Un terrazzo alto oltre tremilaseicento metri dal quale pos-
siamo spaziare con lo sguardo
sulle montagne circostanti.
Ancora una volta i nostri occhi sono alla ricerca di un colle o di un passaggio che ci permetta di riprendere la nostra
traversata verso il Mar Nero
puntando, con i nuovi arrivati
all’obiettivo intermedio dell’Elbrus, la cima più alta della
catena che ci attende ad una
cinquantina di chilometri in
linea d’aria.
Dopo alcuni giorni, salite varie cime e attraversati numerosi passi il gruppo, attraverso
una remota vallata mai visitata da nessuno in precedenza
con gli sci, si avvicina al tetto
della traversata: la cima dell’Elbrus, che con i suoi 5642 m è
la vetta più alta dell’Europa
continentale.
All’interno Eldar e Irina, la
cuoca, trafficano con una vecchia stufa e stanno sciogliendo
la neve per preparare del tè!
Minestre, brodo e tè: è la dieta cui con Alexey siamo ormai
abituati, ma è proprio questo
l’unico modo per recuperare
in fretta i liquidi sudati durante il giorno.
Tutti sappiamo che l’indomani ci attende la giornata
chiave di questo tratto della
traversata: il passo Granoskogo e i suoi tremilaottocento
metri. Un ripido e isolato colle
che si trova a poche centinaia
di metri dal delicato confine
russo-georgiano. Ad aggiungere tensione ed incertezza vi è il
fatto che nessuno è mai salito
con gli sci al passo da questo
versante.
Alexey ha già ricevuto varie
telefonate da suoi colleghi guide alpine russe: tutti aspettano
di sapere se il passaggio è possibile. Se la salita si risolverà
con un successo, dal prossimo
anno saranno forse parecchi i
gruppi di appassionati che visiteranno la regione per compiere questa alta via sci-alpinistica che da Bezingi porta all’Elbrus.
Un tracciato spettacolare e
impegnativo che promette di
diventare una classica analoga
alla cosiddetta Haute Route alpina che collega Chamonix e
il suo Monte Bianco a Zermatt
con il suo Cervino.
Partiamo poco dopo le quat-
tro alla luce delle pile. Ad aprire la strada nella neve fresca
c’è Alexey. La gola lungo la
quale corre il sentiero estivo è
però impraticabile e dobbiamo
percorrere, salendo in diagonale, un ripidissimo costone
erboso a picco sopra la gola del
fiume.
All’alba il sole riesce a malapena a formare un’aureola di
luce, attutita dalla densa nebbia. Poi con il passare dei minuti neve, nebbia e vento gelido prendono il sopravvento.
Continuare, ritornare? È
l’interrogativo che ci assilla
quando sbuchiamo su un vasto
pianoro che porta ai ripidi
pendii finali sotto il passo Granoskogo.
In montagna capita spesso
di trovarsi alle prese con questa importante decisione. Molti incidenti sono nati da un’errata scelta fatta in simili frangenti. Molte imprese della storia dell’alpinismo sono però
state favorite dalla cocciutaggine di chi ha optato per non
mollare.
Nel nostro caso non c’è alcuna impresa in ballo, ma il ritorno porrebbe una serie di
problemi logistici non da poco.
A Eldar abbiamo detto di
aspettare al campo Bashil,
duemila metri più in basso,
fino a mezzogiorno. Se non
vede tornare nessuno per quell’ora, l’ordine è di scendere a
valle. Non avremmo quindi
più nessun appoggio per la
notte. Quando guardo l’orologio è però già mezzogiorno.
Non ci rimane che puntare
verso l’alto.
Prendiamo le corde dagli
zaini e formiamo due cordate.
Per fortuna il gruppo è allenato e preparato. Avanziamo senza grossi problemi, ma tutti
sentiamo di essere al limite
della nostra resistenza fisica.
A motivarmi forse più degli altri vi è il fatto che un anno prima sono stato in ricognizione
sul passo salendo dall’altro
versante.
In quell’occasione avevo
scrutato con attenzione verso
il basso i pendii vergini del
versante nord-orientale. La
salita mi era allora sembrata
fattibile. Quest’anno però c’è
molta neve. E poi ci sono i dub-
bi legati all’orientamento. Siamo veramente saliti nel canale
giusto?
Alle 13 sbuchiamo su una
larga sella nevosa battuta dal
vento. Dopo quasi nove ore di
salita ininterrotta, siamo sul
passo Granoskogo! Mentre ci
abbracciamo l’un l’altro, un
groppo d’emozione mi sale in
gola. La tensione nervosa si
trasforma in una gioia incontenibile per l’obiettivo raggiunto. Ci attende una discesa
superlativa che ci godiamo nonostante la stanchezza nelle
gambe. Dopo una serie interminabile di ghirigori tracciati
nella neve fresca sbuchiamo
da un bosco davanti allo chalet
di Ullu Tau.
Nina, la custode del rifugio,
ha preparato per noi una tavola imbandita con uno spuntino
da favola. Era ormai certa di
non vedere nessuno arrivare
con questo tempo da lupi. E invece eccoci qua: “sapevo che
eravate pazzi, ma non credevo
a questo punto” dice ad Alexey
mentre ci togliamo i vestiti
fradici.
L’Elbrus
finalmente in vista
È incredibile, la struttura
rinnovata di questo ex campo
alpinistico sovietico, è ormai
dotata anche di una doccia.
Dopo una sciacquata rigeneratrice e una cena da sogno ci addormentiamo come sassi.
Sappiamo che domani ci attende ancora una giornata bella piena. È la caratteristica
delle traversate sci-alpinistiche di più giorni come quelle
che si compiono anche nelle
Alpi. Giorno dopo giorno si accumulano fatiche, acciacchi e
gioie. Se il tempo tiene si evitano giorni di riposo e di recupero fisico. Si va avanti imperterriti, puntando alla meta
finale.
E così sarà anche per noi.
Quando chiudiamo gli occhi
sappiamo che l’indomani ci attende la salita del Gumaci: una
maestosa piramide di neve e
ghiaccio dalla cui sommità vedremo finalmente il massiccio
Elbrus, meta di questa tappa
centrale della nostra interminabile traversata.