sulla precarietà
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sulla precarietà
EDITORIALE capitalismo globalizzato e comunismo rifondato «Detto tra noi, perché la Banca Mondiale non dovrebbe incoraggiare una maggiore migrazione delle industrie “sporche” verso i Paesi meno sviluppati? I costi dell’inquinamento pernicioso per la salute dipendono dai profitti che possono andare perduti a causa dell’aumento della morbilità e della mortalità. Considerata la cosa da questa angolazione, una quantità data di inquinamento dannoso alla salute dovrebbe prodursi nei Paesi che hanno i costi più bassi, che sono gli stessi ad avere i salari più bassi. Credo che la logica economica esistente nell’esportazione di un carico di residui tossici verso un Paese di bassi salari sia impeccabile. E noi dobbiamo prenderla in considerazione». Da un memorandum a uso interno datato 12-12-1991 a firma di Lawrence Summers, vicepresidente della Banca Mondiale. Un tracollo annunciato uoviamo da questa autorevole nonché disgustosa dichiarazione, vecchia di diciassette anni, e chiediamoci: qual è la «logica economica» di cui essa parla e che così bene compendia? In riferimento a tale logica, c’è nel presente qualcosa di diverso rispetto ad allora? La percezione del passare degli anni favorisce, per così dire, uno sguardo strutturale sui problemi dell’oggi. Ed oggi abbiamo un gran bisogno di scavare oltre la superficie del quotidiano commercio politico, poiché – a quanto pare – arriva l’ora di scelte non lievi. Abbiamo da poco lasciato alle nostre spalle il fragore mediatico di una campagna elettorale segnata dalla spinta verso un’autoritaria e brutale semplificazione del quadro politico e, parimenti, funestata dal collasso della coalizione di sinistra, prodottosi al di là di ogni più nera immaginazione: un esito che ha fatto registrare il bel record di az- M * DIRETTORE DELLA RIVISTA «ESSERE COMUNISTI» B RUNO S TERI * zerare, per la prima volta nel nostro Paese, la presenza nel Parlamento nazionale di comunisti e socialisti (o, come suole dirsi in forma ellittica, della «sinistra»). In proposito, è stata comprensibilmente chiamata in causa la sciagurata operazione di Veltroni, il quale dopo aver scavato la fossa a Prodi e al suo governo ha fatto terra bruciata alla sua sinistra, ottenendo per sé un ben magro risultato e lasciando incontrastato il clamoroso decollo elettorale delle destre. Ciò è vero. Tuttavia, in primo luogo, il deflusso di voti sul lato «destro» in direzione del Pd, addebitabile al richiamo del cosiddetto «voto utile», non può oscurare la fuga di consenso sul versante «sinistro» (prevalentemente approdata a una scelta astensionista) da parte di un elettorato popolare disorientato e deluso: un elettorato duramente provato dall’involuzione delle proprie condizioni di vita, cui la sinistra non ha potuto né saputo offrire alcuna tutela. Ma, soprattutto, non possono essere sottaciuti, a monte di tutto, i fallimentari effetti di un’operazione politica – di cui la vicenda elettorale della Sinistra l’Arcobaleno è solo l’ultimo devastante tassello – tesa ad annichilire uno a uno i riferimenti identitari della rifondazione comunista. Fino all’ultimo colpo di maglio, che ha cancellato dalla scheda elettorale il simbolo del lavoro. In merito a ciò, ben si è espresso Luigi Vinci, sul numero 5 di questa rivista: «Quando un’identità collettiva viene persa (distrutta, dissolta) gli esseri umani che ne erano partecipi facilmente tendono a trovarsi senza identità, culturalmente deprivati, anomici, passivizzati, quindi ai margini del tessuto sociale, non già a cambiare identità». E prosegue: «Occhetto aveva in mente di avviare con il Pds una formazione antisistemica di tipo nuovo», ma ha ottenenuto soltanto «la dispersione di un enorme patrimonio militante (quando in capo a un paio d’anni Pds e Rifondazione comunista si assesteranno, si potrà constatare 1 2 l’uscita dalla militanza politica, rispetto a quella di cui disponeva il Pci, di qualcosa come 700.000 persone)». Come si sa, la tragedia tende a ripetersi sotto forma di farsa. Ora, il congresso di Rifondazione comunista è chiamato a pronunciarsi sulla prospettiva a medio termine aperta da questo disastro elettorale e politico: a tale assise spetterà una valutazione degli errori commessi e delle relative responsabilità. Su questa rivista proponiamo ulteriori «riflessioni sulla catastrofe della sinistra», su come raddrizzare la rotta di Rifondazione dopo il naufragio, sui compiti a breve che attendono i comunisti. E torneremo ancora su tutto ciò nel prossimo numero. Qui invece ci interessa subito aggiungere qualche considerazione circa il destino del Prc e, in generale, l’esistenza o meno di una forza comunista nel contesto politico del nostro Paese. La discussione di questi ultimi mesi ha riservato ampio spazio a chi, come Fausto Bertinotti, ha dichiarato (anche nel vivo della campagna elettorale) che si debba procedere risolutamente a un «nuovo inizio» e che in qualche modo ciò contempli il «superamento» del Prc e il suo confluire in un (supposto) più largo consesso: quello appunto della Sinistra l’Arcobaleno. Occorre sottolineare che una tale proposta non è di natura meramente congiunturale, nel senso preciso che essa – se vuole essere sostenuta da ragioni adeguate – non può semplicemente poggiare in negativo sulle urgenze della congiuntura politica, per quanto impellenti possano essere (poniamo: la costituzione del Pd e la sua capacità attrattiva). Se fosse adottata, la suddetta scelta verrebbe infatti a modificare progettualità di lungo corso, assetti strategici, riferimenti simbolici e ideali: occorre dunque indicare in positivo le condizioni sufficienti, i tratti fondamentali della sua realizzabilità. Mettendo per un attimo tra parentesi il micidiale responso dei fatti recenti, è al suddetto livello strutturale che l’ipotesi di «andare oltre» il coordinamento di singole forze autonome, per dare vita a una nuova e unica organizzazione politica genericamente di sinistra, mostra tutta la sua fragilità e inefficacia. Sancendo di fatto la liquidazione del potenziale strategico e ideale dell’opzione comunista. Ma torniamo al nostro interrogativo di partenza. Si può certo essere più eleganti, evitare sgradevoli punte di cinismo; tuttavia la «logica economica» che ha mosso gli avvenimenti del mondo in questi anni non è cambiata nei suoi caratteri di fondo. E il ragionamento dell’allora vicepresidente della Banca Mondiale esplicita senza fronzoli il principio che a tale logica sovrintende: in sintesi, la spasmodica ricerca del massimo profitto, condotta con rapacità, avidità, disprezzo dell’etica. Una logica sistematicamente applicata a danno del benessere dei più e ponendo a repentaglio gli equilibri ambientali del pianeta; se necessario (ed è stato necessario) col sacrificio di intere popolazioni, immolate sull’altare dell’approvvigionamento energetico e della supremazia geopolitica. Di tali sopraffazioni, di una tale violenza di sistema siamo costretti quotidianamente a prendere atto. Senza andare troppo lontano, si sfogli anche solo il presente fascicolo. Si legga ad esempio quel che Simone Oggionni rileva nella sua introduzione all’inserto che dedichiamo alla precarietà: precarietà della vita e del lavoro di tanta gente, colpita dall’offensiva capitalistica di questi ultimi decenni. Oppure, sul fronte esterno (la metafora bellica è appropriata, poiché qui si tratta di una vera e propria guerra sociale), si mediti su quanto ci ricorda Gianmarco Pisa a proposito della condizione sociale dell’India e di un malinteso «miracolo» dell’economia globalizzata che, in quell’immenso Paese, produce quattro tra i dieci signori più ricchi del pianeta e, nel contempo, la condizione di indigenza estrema del 78% della sua popolazione, ridotta a vivere con meno di 10 dollari al mese. Simili considerazioni alludono alle due domande dirimenti, cui occorre rispondere se si vuole collocare la ragione di una scelta al livello strutturale che le compete: 1) dal lato dell’oggettività, quali sono i dispositivi di funzionamento, i tratti fondamentali della realtà sociale in cui siamo immersi e 2) sul piano delle risorse soggettive, quali sono gli strumenti che riteniamo imprescindibili, posto che la si voglia cambiare radicalmente? Se diciassette anni fa – quando appunto avviammo l’impresa della rifondazione comunista – mi avessero chiesto di dare un titolo alle due conseguenti risposte, avrei proposto: per la prima, la società capitalistica globalizzata; e per la seconda, un partito comunista rifondato. Avrei detto così, esattamente come direi oggi. Capitalismo e crisi Dobbiamo guadagnare il piano d’analisi richiesto dai sud- EDITORIALE detti interrogativi. I momenti critici, durante i quali rallenta o drasticamente si interrompe il processo di accumulazione del capitale, costituiscono altrettante privilegiate visuali per osservare i meccanismi profondi che presiedono al funzionamento della compagine sociale e del suo modo di produzione. E, in effetti, nel corso di questi anni, il ritornello delle «magnifiche sorti e progressive» del capitalismo trionfante è stato sistematicamente smentito dall’irrompere di acute crisi di sistema. L’ultima, quella che sta ora investendo l’economia reale a partire dagli Usa e che non ha ancora manifestato tutte le sue conseguenze, è a detta di molti la più drammatica dall’ultimo dopoguerra: così la pensa Alan Greenspan, ex presidente della Federal Reserve. E c’è chi, come George Soros, evoca sulla medesima lunghezza d’onda il terribile ’29 del secolo scorso. Nei fatti, si fa consistente la tendenza alla recessione: negli Stati Uniti, si prevede che quest’anno 28 milioni di persone richiederanno la tessera annonaria (è questo uno dei principali parametri che misura lo stato di crisi: erano 17 milioni nel 2001). Accanto a ciò, perdono seccamente quota le vendite dei colossi automobilistici e considerevoli porzioni di capitale sono bruciate nei mercati finanziari. È la crisi dei famigerati subprime: a oggi, calcoli approssimativi la quantificano in perdite complessive per oltre cento miliardi di dollari. Così, scriviamo mentre sta andando clamorosamente in pezzi uno dei più tenaci miti del neoliberismo. L’intervento pubblico in economia – tacitamente apprezzato nella forma di trasferimento di denaro pubblico al sistema delle imprese, ma formalmente relegato dall’ideologia dominante tra le anticaglie della pianificazione socialista e del compromesso socialdemocratico – torna visibilmente sulla scena del mondo. È la vecchia storia della «socializzazione delle perdite» in tempi di crisi (altra faccia della privatizzazione degli utili in tempi di vacche grasse). Quando si tratta di soccorrere profitti e rendite finanziarie, non si bada a spese. Si veda in proposito la vicenda della Bear Stearns, quinta banca d’investimenti d’America: si è mosso in prima persona l’attuale presidente della Fed, Ben Bernanke, a garantirne il salvataggio tramite l’intervento di un altro colosso bancario, la J.P. Morgan Chase, per il cui servizio le casse pubbliche hanno assicurato una linea speciale di credito attraverso cui è fluito il prestito di una somma enorme a condizioni di estremo favore. Provvidenza che, tuttavia, non mette affatto al riparo dal licenziamento i 14.000 dipendenti della banca «salvata». Il suddetto caso rende conto emblematicamente delle dinamiche dell’attuale «capitalismo da casinò». La Bear Stearns è trascinata al collasso in quanto esposta verso la Carlyle, la potente finanziaria dei private equity (seconda nel mondo dopo Blackstone), la quale a sua volta aveva subìto il tracollo di uno dei suoi principali fondi d’investimento. I private equity sono gruppi specializzati in operazioni puramente speculative: comprano aziende manifatturiere per poi valorizzarle (leggi: ristrutturazioni e licenziamenti) e rivenderle entro due o tre anni. Ma perché ciò avvenga, occorre un’economia che giri, con consumi in crescita. In tempi di magra, la Carlyle ha investito nella cartolarizzazione (trasformazione in obbligazioni) di mutui immobiliari apparentemente sani: non dunque di soli titoli-spazzatura si tratta, ma di titoli pregiati del mercato immobiliare, garantiti dal riconoscimento delle «tre A» (il massimo indice di affidabilità) da parte delle società di rating. Invece, il fondo Carlyle – e con esso la Bear Stearns – è stato travolto da una crisi fatta di pignoramenti immobiliari, rate di prestito non pagate, obbligazioni invendute. Alla base di tutto – ha ragione Galapagos – c’è «l’esigenza di milioni di cittadini Usa di avere una casa; l’aver accettato, per questo, di pagare tassi d’interesse altissimi sui mutui e poi di aver fatto diventare la casa stessa una sorta di borsellino dal quale estrarre soldi per coprire bisogni primari (sanità, istruzione) non forniti dallo Stato, acquistabili privatamente rinegoziando il mutuo, mano a mano che il boom immobiliare faceva salire il valore delle case». In definitiva, alla base della crisi c’è ancora una volta «la pessima distribuzione dei redditi». E quando la «bolla» scoppia, mentre i poveri cristi restano col classico cerino in mano, lo Stato corre in soccorso del sistema finanziario: ricapitalizzando le banche private con i soldi dei contribuenti, comprando dalle banche le attività in mutui immobiliari, praticando tassi bassissimi alle banche in difficoltà e facendosi dare in garanzia obbligazioni senza valore. Oggi è lo Stato che copre la speculazione, assumendo su di sé il rischio finanziario: «La rimonta dei mercati finanziari è da ascrivere pressoché interamente al ruolo dello Stato e dei poteri pubblici, 3 4 i quali stanno dando luce verde istituzionalizzata al “rischio morale” e al gioco d’azzardo» (Joseph Halevi). Questo è il capitalismo (globalizzato), bellezza. Certamente, anche se per la grande maggioranza dei comuni mortali gli effetti di una crisi generalizzata si concretizzano sempre allo stesso modo, come compressione di redditi e diritti, i momenti critici non sono però tutti uguali, non sono attivati sempre dai medesimi fattori, essendo ciascuno configurabile secondo determinate caratteristiche di fase. Lo stesso vale per i periodi di espansione economica. Negli anni Novanta abbiamo assistito al boom dei prodotti informatici, dunque a un’espansione dell’economia classicamente trainata dall’innovazione tecnologica: anche qui, vi furono crescita degli investimenti e dei consumi aggregati, bengodi degli extraprofitti. E, come sempre, superfetazione di fenomeni speculativi, straripamento nel superfluo e nell’eccesso. Poi, alla fine del decennio il tonfo, il deprezzamento verticale dei titoli e la crisi delle dot-com, le società del comparto tecnologico: una crisi protrattasi fino al 2002. Anche quel tracollo trascinò via con sé, assieme al valore delle azioni, un’inossidabile mitologia che era tornata a farsi largo nelle file della sinistra tecnocratica, ma anche tra alcuni epigoni dell’operaismo nostrano: il vecchio mito del progresso tecnologico, riproposto nelle scintillanti vesti della «new economy». La crisi mise a nudo la fragilità di un tale ottimismo apologetico, mostrando quello che Marx più di cent’anni prima già sapeva: e cioè innanzitutto il fatto che il progresso tecnologico, applicato al processo produttivo, è lungi dall’essere esente da contraddizioni. Da un lato, c’è il contenuto obiettivamente progressivo dell’innovazione, in quanto essa rende tecnicamente possibile risparmiare tempo di lavoro, accrescere il tempo libero disponibile (disposable time) e, insieme, disporre di una maggiore quota di beni e servizi. Ma d’altro lato c’è l’uso sociale, specificatamente capitalistico, che contraddice il carattere «naturalmente» progressivo di questa stessa opportunità tecnica. Così, la con- cezione mitologica del progresso tecnico ha oscurato il fatto che esso non è identico alla (né si traduce immediatamente in) redditività, nel senso che la sua utilizzazione tecnicamente ottimale – misurata in base a spese in ricerca e sviluppo, grado di intensità del capitale, contenuto di informazione nei diversi cicli produttivi, grado di sofisticazione tecnica – non necessariamente coincide con le esigenze del processo di valorizzazione del capitale. Tanto è vero che può darsi la disponibilità di nuove tecniche unita alla loro non utilizzazione (o sottoutilizzazione). Nel caso specifico, la mobilità delle nuove tecnologie (informatica, microelettronica, telecomunicazioni) aveva già palesato dei precisi limiti: la loro diffusione era stata condizionata dagli alti costi occorrenti per metterla in opera e dall’alto livello di acquisizione tecnologica che l’acquirente doveva complessivamente assicurare. La saturazione del mercato dei prodotti hi-tech ha poi fatto il resto. Sta di fatto che la macchina produttiva, che sembrava lanciata alla massima velocità, a un certo punto si è bruscamente fermata, ingolfata da un eccesso di produzione che il mercato non ha potuto smaltire (anche qui, una vecchia storia ottocentesca: crisi di sovrapproduzione). EDITORIALE Slowdown, un rallentamento strisciante declino di profitti e investimenti, produttività e occupazione. La produttività globale, parametro che misura l’efCome si vede, i fattori che hanno prevalentemente condi- ficienza del sistema capitalistico, considera il valore (non zionato la crescita e, successivamente, la crisi nel decen- dunque la grandezza fisica) dell’output prodotto in rapnio scorso sono diversi da quelli che hanno caratterizzato porto a quello dell’input, costituito dai mezzi necessari la ripresa dei successivi anni 2003/2005, fino all’attuale alla produzione. A partire dal ’73, la pluridecennale tenfase recessiva. È stato sottolineato che nell’attuale con- denza negativa dell’indicatore produttività è stato il segiuntura non è in gioco – come invece lo fu allora – alcun gnale di una riduzione (o sottoutilizzazione) delle capacieffetto dovuto all’innovazione tecnologica. Dal 2003, la tà produttive, a sua volta espressione della diminuzione ripresa è stata condotta all’insegna di «più moneta, più delle possibilità di investimento redditizio, della debospesa militare, meno tasse per i ricchi» e la crescita «è ri- lezza della domanda effettiva, dell’aumento dei prezzi partita grazie all’indebitamento delle imprese e delle fa- energetici, della consistenza del cosiddetto costo del lamiglie povere» (Riccardo Bellofiore): un fenomeno che voro. Questo è il ciclo lungo che ha fatto da sfondo al sucha evidenziato «la sussunzione alla finanza» degli stessi cedersi di fasi espansive e ricorrenti fasi critiche. redditi da lavoro. Da queste medesime fonti è poi defla- Ciò resta agli atti di una compiuta indagine analitica, nograta la crisi in cui siamo immersi. nostante alcuni rilevanti fattori di controtendenza e alcuTutto ciò è vero. E tuttavia occorre aggiungere che tutte le ne epocali novità, che hanno in qualche modo contenuto fasi critiche degli ultimi tre decenni vanno inquadrate su il trend negativo. Tra i fattori strategici messi in campo su di uno sfondo che è a esse comune: un «ciclo lungo» che scala planetaria dall’impresa capitalistica ed essenzialrende conto di una strisciante crisi strutturale del modo di mente finalizzati al contenimento dei costi c’è stata la difproduzione capitalistico. In un recente articolo, Imma- fusione dello sfruttamento del lavoro, ovvero la crescente nuel Wallerstein annotava: «Cosa fanno i grandi capitali- proletarizzazione della popolazione mondiale (con buona sti se vogliono fare soldi in tempi di bassi profitti? Inco- pace degli pseudo-teorici della «fine del lavoro») e, minciano a spostare i loro denari dalle imprese di produ- entro questa cornice, il profondo rimaneggiamento delzione alle imprese finanziarie». Va segnalato che la storia l’organizzazione del lavoro e il connesso dispositivo delle contemporanea di quel che lui chiama «bassi profitti» ha «delocalizzazioni». Attraverso la deverticalizzazione dei propriamente inizio oltre trent’anni fa. Infatti, così pro- processi produttivi, si è sostituita in primo luogo la prosegue Wallerstein: «La storia implicita, dal 1970 a oggi, è duzione in patria di semilavorati e componenti a elevato stata un’altra: quella del debito, un sempre maggiore de- contenuto energetico con il loro acquisto dall’estero, così bito. Le corporations chiedono prestiti, gli individui chie- da attenuare gli effetti della dipendenza energetica. In sedono prestiti, gli Stati chiedono prestiti. Tutti vivono al di condo luogo, sono stati decentrati i processi produttivi sopra delle proprie possibilità, delle proprie entrate. […] particolarmente labour intensive, onde ridurre il costo del Ma i debiti hanno un piccolo problema: a un certo punto ci lavoro per unità di prodotto. L’attività manifatturiera si è si aspetta che vengano restituiti. Se questo non avviene c’è tendenzialmente ridotta al montaggio di parti del prodotuna crisi o una bancarotta oppure se sei una nazione un to la cui fabbricazione è stata delegata a Paesi che garandrammatico calo dei cambi monetari. Questo è quello che tissero un minor costo del lavoro (ossia un maggiore chiamiamo una bolla». Wallerstein in realtà allude al fatto sfruttamento). In definitiva la parcellizzazione produttiva che c’è, dietro le crisi, uno sfondo ove agisce una propen- ha portato, in patria come all’estero, abbattimento di disione al rallentamento dell’accumulazione capitalistica e ritti e aumento dell’intensità del lavoro: è precisamente una tendenza alla caduta del saggio di profitto. questa incessante ricerca di surplus a buon mercato ad Dopo la crescita sostenuta degli anni Cinquanta e Ses- aver gettato nel gorgo della precarietà lavorativa ed esisanta (tra il 1960 e il 1973 con un tasso di sviluppo medio stenziale i milioni di persone che popolano le periferie del 5%), la quale permise in Occidente l’accesso al con- interne ed esterne al cosiddetto Primo mondo. A questo sumo di beni durevoli alle fasce medio-basse della popo- espediente anti-crisi se ne è aggiunto un secondo, podelazione, oltre che un sostegno ai redditi assicurato dai roso e diffusamente posto in opera in tutti questi anni: meccanismi di welfare, le aree «centrali» del mondo im- quello che va sotto il nome di «keynesismo bellico». Esso boccano una strada stretta, segnata da un rallentamento è risultato doppiamente utile: a monte, come volano deleconomico persistente e generalizzato (slowdown). Le ri- l’economia (trainata dalla produzione di armi) e, a valle, levazioni statistiche concordano nell’indicare la metà nel suo esito operativo, con il controllo manu militari deldegli anni Settanta come l’inizio di un lento ma costante l’approvvigionamento energetico e del suo prezzo. Che un 5 6 tale espediente abbia comportato alcune centinaia di migliaia di morti è cosa evidentemente considerata normale sulla via del «progresso» dell’Occidente. Sul versante degli eventi epocali, un sicuro effetto sullo stato di salute dell’economia capitalistica hanno avuto, per un verso, l’implosione del «socialismo reale» e, per altro verso, l’irruzione sulla scena economica della locomotiva cinese. Quanto al primo, non vi è dubbio che l’89 abbia segnato il decollo dell’epopea neoliberista, il dispiegarsi senza più remore delle politiche monetariste e dell’attacco frontale alle conquiste operaie dei decenni precedenti. In proposito, mi pare molto pertinente l’avvertenza di Emiliano Brancaccio: «Ritengo che andrebbe maggiormente indagato il legame tra la crisi dell’Unione Sovietica di Breznev – della quale emerse palese l’incapacità di inseguire gli Stati Uniti nella corsa all’egemonia politico-militare – e la svolta monetarista del 1979-80. La questione assume un certo rilievo se si ritiene – come io credo – che la minaccia sovietica entrasse in modo niente affatto trascurabile nella «funzione di produzione» del compromesso keynesiano e socialdemocratico dell’Europa occidentale». Tutt’altro discorso merita il ruolo della Cina e del suo «socialismo di mercato» nell’attuale panorama internazionale. Si tratta di un tema decisivo per le sorti del mondo, su cui peraltro questa rivista avrà modo di pronunciarsi più diffusamente, cercando di privilegiare l’informazione puntuale e il rigore problematico che una tale complessa questione richiede. Nell’ambito del nostro ragionamento, interessa solo rilevare il fondamentale sostegno che l’impennata produttiva cinese ha sin qui offerto non solo al Pil mondiale ma anche alla copertura del crescente debito statunitense: una gigantesca partita di giro, che però per gli anni futuri è appesa a una contesa per l’egemonia globale, economica e militare. Un’ultima osservazione: la messa in opera dei suddetti dispositivi anticrisi nonché la conquista di nuovi mercati, di nuovi acquirenti solvibili (si pensi appunto ad immense platee di consumatori potenziali quali la Cina, l’India o la stessa Russia), posto che arrivino a contrastare il declino economico latente, sono comunque destinate a porre seriamente in questione la tenuta ambientale del pianeta: in questo senso, c’è un gigantesco problema di qualità dello sviluppo e non pare proprio che la «spontaneità del mercato» sia il contesto più idoneo ad indicare soluzioni. Per un comunismo rifondato Ci fermiamo qui nell’illustrazione dei devastanti guasti che affliggono la nostra contemporaneità e che definiscono l’insostenibilità dell’attuale «equilibrio» globale. Un equilibrio strutturalmente fondato sul disequilibrio: sulla generale regressione del vivere associato, sull’esponenziale involuzione delle condizioni sociali e di lavoro, sulla sistematica violazione delle compatibilità ambientali. In un tale contesto, l’oggettività del conflitto di classe non è forse mai stata così drammaticamente visibile. Di qui, dalla pesantezza di questi dati, nasce la consapevolezza dell’insostenibilità dell’ordine vigente e, con essa, della necessità di una prospettiva radicalmente alternativa. Di quella che noi continuiamo a chiamare una prospettiva comunista. Fa bene Vladimiro Giacché a insistere, nel contributo che presentiamo su questa rivista, su tale «necessità». Non avrebbe senso discutere sull’opportunità di mantenere aperto anche nel nostro Paese il progetto politico del consolidamento di una forza comunista organizzata – che agisce nella società non semplicemente come EDITORIALE un’opzione culturale o una vaga intermittenza del cuore – se a monte non vi fossero ragioni di fondo che hanno a che vedere con una società diversa da quella in cui, nostro malgrado, ci troviamo a operare. Una prospettiva generale, che oggi appare indubbiamente appannata. I nostri quotidiani comportamenti, i singoli atti politici, le lotte sociali e territoriali, condotte su temi specifici, sarebbero molto meno forti se – accanto al loro valore vertenziale – non rinviassero a un orizzonte, a un senso più profondo che le connetta a una progettualità politica (o storico-politica) più generale. Se le parole non sono dei meri suoni al vento, cos’altro dovrebbe essere quella che abbiamo chiamato un’«alternativa di società»? Persino negli attuali santuari del potere economico si riconosce che ancora oggi capiremmo molto poco della struttura dell’odierna compagine sociale e delle sue dinamiche profonde senza la potente lente d’ingrandimento offerta dall’impianto analitico marxista. E indiscutibilmente i comunisti, nonostante i drammi storici e le sconfitte subìte, più di ogni altra tradizione di pensiero e di azione hanno provato a operare alla luce della forza analitica di quell’impianto e a sondare la possibilità di una reale alternativa al modo di produzione capitalistico. In Italia, nell’ultimo quindicennio, Rifondazione comunista ha preso su di sé l’arduo compito di innovare senza disperdere la ricchezza di questa tradizione. Ha provato a connettere il meglio del passato con una necessaria apertura sperimentale, volta al presente e al futuro. Ha ritenuto che una forza comunista, nell’attuale panorama europeo, potesse realisticamente disporre di un potenziale elettorale che gravitasse tra il 10 e il 15 per cento. Lo pensava Libertini, quando fondò il Prc: e non era andato lontano dal vero, prima che altri – qualcuno sin dall’origine dell’impresa meno convinto, qualcun altro arrivato più tardi – ci mettessero lo zampino (in proposito, non si rifletterà mai abbastanza sul peso che hanno nel corso storico le responsabilità dei gruppi dirigenti). Due decenni fa eravamo convinti che una strategia comunista possibile e decisiva dovesse esprimersi (e ottenere consensi) in uno dei punti alti dello sviluppo capitalistico. Oggi, credo, si debba in parte aggiornare questa visione: c’è un mondo unificato dalla globalizzazione capitalistica. Le periferie sono «interne» ed «esterne» al Primo mondo e quello che avviene all’esterno riguarda molto più da vicino l’interno: basta vedere, per non fare che un esempio, il peso dei «fondi sovrani» cinesi nel sostegno all’equilibrio economico e finanziario anche dell’Occidente. Tuttavia, ritengo che un pezzo essenziale di quell’impostazione resti valido: una parte importante della partita si decide «al centro». Da questo punto di vista, occorre essere consapevoli del fatto che oggi non si può dire che esista una proposta comunista per le società cosiddette avanzate che sia articolata e compiuta. I conti con il passato non sono stati davvero fatti (intendo nel dettaglio di una riflessione scientifica sull’esperienza novecentesca); e l’idea di una società davvero alternativa al capitalismo è oggi più evocata che praticata. Avanzo la tesi che tale attuale deficit non dipenda tanto da un’intrinseca insufficienza delle finalità generali di chi si dichiara comunista (le quali, in estrema sintesi, sono sorrette dalla convinzione che, se resta questo modo di produzione, l’umanità è fottuta); quanto piuttosto da una fragilità del fattore soggettivo. Fragilità che ovviamente è anche il frutto di una dura sconfitta storica. Tutto ciò è attualmente dentro i simboli e il nome del comunismo: per così dire, fa parte della sua storia contemporanea. Sappiamo che la situazione (ideologica) odierna non è soddisfacente; e sappiamo che nel mondo ci sono espressioni tra loro assai diverse del «comunismo». Ciò non impedisce di ritenere che i destini dei diseredati e del mondo come tale – oggi persino a maggior ragione – debbano essere affidati a questa prospettiva generale (che, come ho detto, andrebbe affinata e consolidata). Conseguentemente, non penso che ci si possa accomodare dentro un «campo» (che oggi non c’è); né che dei comunisti che operano in un Paese come l’Italia possano semplicemente funzionare da terminali di un coerente movimento comunista internazionale (che, in un senso rigoroso, non c’è). C’è invece – dove si è – da ricostruire un insediamento sociale, da ricucire un impianto ideale che sia patrimonio di larghe masse, da promuovere la forza di un «senso comune» (che purtroppo, oggi, i nostri avversari hanno rimodellato). E c’è anche, ovviamente, il necessario compito di curare i rapporti e mantenere un’attenzione particolare nei confronti delle forze comuniste che, a vario titolo, operano nel mondo. Anche quando si tratti di realtà che ci appaiono controverse. In definitiva, come sempre abbiamo sostenuto, noi distinguiamo tra un atteggiamento problematico e uno liquidatorio. Ci atteniamo al primo. Questa è stata e continua a essere la carta d’identità di «Essere comunisti». 15 aprile 2008 7 riflessioni sulla catastrofe della sinistra 8 el 1892 veniva eletto il deputato romagnolo Andrea Costa. Era il primo deputato socialista nella storia d’Italia: la sinistra di classe entrava in Parlamento. Nel 1921 con la nascita del PCd’I la Camera dei Deputati vedeva per la prima volta la presenza dei comunisti. Sarà solo la dittatura fascista a fare sì che i comunisti, come tutti i democratici, non facessero più parte degli organi politici dello Stato. Con la vittoria della Resistenza ed il ritorno del nostro Paese alla democrazia i comunisti ed i socialisti conquistano oltre il 35% dell’Assemblea Costituente. Trent’anni dopo, nel 1976, i comunisti raggiungono da soli tale percentuale e fa la sua apparizione nel Parlamento italiano anche la cosiddetta Nuova sinistra. Si mantiene una pattuglia di deputati e senatori comunisti anche quando nel 1991, dopo il «terremoto» del 1989, la leadership del Pci, al seguito di Achille Occhetto, oggi presidente di Sinistra democratica, decide di sciogliere il più grande partito comunista d’Occidente e di trasformarlo in una formazione dall’identità politica incerta ed indefinita, ma di cui oggi vediamo i veri obiettivi, o almeno gli esiti della deriva moderata con esso iniziata. Il 13 e 14 aprile 2008 un’indistinta alleanza di sinistra denominata Sinistra l’Arcobaleno con al suo interno i comunisti (che ne rappresentano l’80% del potenziale elettorale), raccoglie solo poco più del 3% dei voti ed esce dal Parlamento. Si conclude (speriamo solo temporaneamente) un ciclo di 116 anni di lotte, di speranze, di sogni, di grandi conquiste sociali. Le elezioni del 13 e 14 aprile sono probabilmente di quelle che passeranno alla storia, proprio per l’affermarsi del modello bipartitico e per l’uscita dal Parlamento della sinistra di classe, che ha subito una débâcle tanto catastro- N * CAPOGRUPPO P RC CONSIGLIO P ROVINCIALE DI P ISTOIA R OBERTO F ABIO C APPELLINI * fica quanto inaspettata. E anche il fatto che fosse «inaspettata» una débâcle simile, che ha portato i consensi della sinistra dall’11 al 3%, che nessuno neppure lontanamente ne avesse avuto sentore, già ci dice molto sullo stato di salute del nostro partito. Una sconfitta elettorale come quella che abbiamo subìto è un fenomeno complesso e quindi necessariamente dipende da una molteplicità di fattori. Certamente il voto utile ha avuto un suo peso, come d’altra parte si è perso circa un punto percentuale verso liste come Sinistra critica e Pcl. Ma queste cause fanno parte del «gioco» della politica. Non si possono addossare ad altri, che si chiamino Ferrando o Veltroni, le responsabilità delle proprie sconfitte. Casomai si può dire quanto sia stato dannoso (non solo per noi) il richiamo al voto utile, che ha avuto l’effetto di far uscire la sinistra dal Parlamento e non ha permesso comunque a Veltroni di fermare Berlusconi. La gran parte della responsabilità è da addossare a noi stessi ed in particolare a chi ha gestito il processo di costruzione della Sinistra l’Arcobaleno. Tutti abbiamo notato quanto tale operazione sia stata verticistica, quanto non abbia coinvolto gli iscritti di nessuno dei quattro gruppi politici che ne fanno (o facevano) parte. Così si voleva far nascere una sinistra realmente unita e realmente plurale nel Paese: con una decisione dei gruppi dirigenti ristretti senza un percorso condiviso e democratico che coinvolgesse le centinaia di migliaia di militanti dei quattro partiti ed i milioni di elettori che vi si riconoscevano. Vero è che il precipitare della situazione politica del Paese e lo scioglimento anticipato delle Camere ha costretto a «fare in fretta», come ammoniva Pietro Ingrao, a unire la sinistra. Vero è anche che non c’era nessun obbligo di creare (o di dare l’impressione di volerlo fare) un partito in pochi mesi avviando di fatto, senza nessuna discussione, EDITORIALE lo scioglimento dei quattro partiti, partiti che peraltro avevano connotazioni politiche, identità e riferimenti internazionali ben diversi. Credo che questo sia stato un altro elemento che ha portato a questa sconfitta. Niente ci vietava di dire chiaramente agli elettori: «vogliamo unire la sinistra di questo Paese, mantenendone le identità; si tratta di un processo che ha bisogno di passaggi democratici che richiedono tempo. Per il momento ci presentiamo come una coalizione (magari mantenendo i simboli dei vari partiti in un simbolo unico), ma il cammino dell’unità della sinistra – per quanto lungo – è iniziato». Insomma, Roma non si costruisce in un giorno. Invece si è fatto il contrario: abbiamo forzato verso il partito unico accentuando i malumori presenti in almeno tre dei quattro partiti, in un percorso a tappe forzate nel quale i grandi esclusi sono stati i militanti ed i dirigenti di base. Non solo, tre giorni prima del voto, muovendosi come un elefante in una cristalleria, Bertinotti ha avuto la bella idea di dire che nel nuovo partito (già lo si dava per scontato: per sciogliere il Pci sono stati necessari due congressi e due anni e mezzo di tempo, per sciogliere il Prc sarebbe bastata la decisione di un ex Segretario nazionale) «il comunismo sarà presente solo come tendenza culturale», esasperando ancora di più i malumori di coloro che materialmente avrebbero dovuto fare campagna elettorale nei territori. E quanto poi queste forze fossero realmente unite lo si vede oggi: il Pdci si sfila, i Verdi iniziano a guardare al Pd. Solo Sinistra democratica non abbandona il progetto di una formazione che sia costruita a propria immagine e somiglianza ma solo più in grande, mentre una parte del Prc continua a riproporre masochisticamente una formula che si è rivelata disastrosa. Anche la questione del simbolo non è stata, probabilmente, irrilevante. Mettendo frettolosamente in soffitta simboli storici come la falce ed il martello e, a suo modo, il sole che ride e presentandosi con un simbolo nuovo ma estraneo ai nostri elettori, proprio nel momento in cui fare leva sull’identità e sull’orgoglio di dire «io sono di si- nistra» poteva essere un antidoto al richiamo al voto utile, abbiamo lasciato campo aperto alle scorribande del Pd fra la nostra gente. I nostri elettori tradizionali, trovandosi di fronte due simboli nuovi e poco eloquenti, hanno scelto quello che almeno poteva sconfiggere Berlusconi, contribuendo così all’affermarsi di un sistema bipartitico e all’affossamento (forse irreversibile) dell’unità della sinistra, perdendo un’occasione storica e forse irripetibile. A questo poi si aggiunge una grandissima disillusione del nostro popolo, deluso da un’ulteriore esperienza di governo fallimentare dove alla prima fase, quella del risanamento economico, non è seguita la fase della redistribuzione. Di questo non abbiamo colpa, ma abbiamo lasciato che altri ci addossassero queste responsabilità senza controbattere. E anche un fatto, marginale ma significativo, non è sfuggito ai nostri elettori: l’unica volta in questi due anni che abbiamo minacciato la stabilità del governo è stato quando si sono manifestate resistenze da parte dei settori moderati della maggioranza del governo Prodi all’elezione di Bertinotti alla presidenza della Camera dei Deputati. La situazione in cui ci troviamo oggi è, senza mezzi termini, catastrofica. Trovandoci fuori dal Parlamento la nostra agibilità politica è prossima allo zero, specialmente in una situazione di gravissimo arretramento organizzativo del partito, il cui radicamento non è più quello di dieci anni o più fa. E non lo è più un po’ perché il mondo è effettivamente cambiato negli ultimi dieci anni, ma un po’ anche perché lo abbiamo trascurato, considerandolo quasi una zavorra, puntando tutto, di volta in volta, sull’internità ai movimenti o sulla nostra presenza istituzionale. Per cinque anni almeno saremo assenti o quasi dalla televisione che, come tutti sappiamo, riveste un ruolo di primaria importanza nella formazione delle opinioni dei cittadini. Per cinque anni, almeno, non saremo in grado di partecipare alla formazione delle leggi dello Stato, non potremo mettere in pratica nessuna opposizione parlamentare. Quando si privatizzerà, quando si decideranno missioni all’estero, quando si precarizzerà, noi non ci saremo a dire di no. Se avremo le forze lo potremo dire in piazza, ma c’è il rischio che i nostri megafoni non siano abbastanza per farsi sentire. Cinque anni almeno in cui saremo meno che marginali. Saremo assenti. Cinque anni almeno in cui dovremo, come forza politica ma anche come individui, rifuggire da due rischi mortali: rifluire nel ribellismo e nell’identitarismo oppure nell’omologazione al Pd. Ammetto (e me ne vergogno) che il mio primo pensiero a caldo, dopo aver visto i dati elettorali, è stato: «che senso ha essere nella Sinistra l’Arcobaleno adesso? Se devo stare in un partito che non 9 10 incide per nulla, allora meglio stare nel Pcl che almeno ha un bel simbolo e si richiama alla mia identità politica; altrimenti se devo stare in un partito che nega la mia identità politica allora meglio stare nel Pd, dove almeno c’è la possibilità di parlare a più persone e di incidere di più nella vita politica». Questo modo di ragionare va combattuto e lo si può fare solo dando fiducia all’efficacia nella nostra azione politica di tutelare i ceti sociali che ci proponiamo di rappresentare e di difendere. Per questo non esistono ricette precostituite, nessuno sa esattamente cosa fare. Da parte mia, faccio alcune proposte. Certamente un primo passo, per quello che ci riguarda, è che gli iscritti e le iscritte riprendano la parola, che si vada subito al congresso e che chi ha guidato il partito verso questo disastro si prenda le proprie responsabilità. Non si tratta di tagliare teste o di trovare capri espiatori, si tratta di prendere atto che una linea politica è fallita in modo tragico, portando il partito alla catastrofe. Un dirigente politico con un minimo di senso di responsabilità e anche di dignità ha il dovere morale di farsi da parte. È ora di cambiare rotta. Basta con le suggestioni immaginifiche, basta con le «mosse del cavallo», basta con il liquidazionismo nei confronti della nostra storia e della nostra identità che ha solo mortificato, demotivato e spiazzato i nostri militanti invece che i nostri avversari. Ma, anche dopo aver fatto emergere un nuovo gruppo dirigente (e bisogna farlo in fretta), cosa fare per sopravvivere per questi (almeno) cinque anni di «invisibilità»? Credo che un nodo sia ormai ineludibile: ha ancora senso che nel nostro Paese ci siano due partiti comunisti, peraltro con la stessa collocazione? O meglio: ha senso che i comunisti in Italia non siano uniti? Credo che ricostruire una soggettività comunista autonoma ed unitaria sia condizione necessaria per la ricostruzione di una sinistra in Italia, per ragioni storiche, ma anche per la necessità di unire le nostre (deboli o debolissime) forze organizzative, che non ha senso disperdere per divisioni che, risalendo a tutt’altra fase politica, non hanno oggi alcun senso se non quello di renderci ancora più deboli. Occorre poi necessariamente essere in grado di elaborare una proposta politica che sia in grado di coniugare la nostra identità con i bisogni cui vogliamo dare risposta, una proposta di classe e anticapitalista che parli ai nostri ceti sociali di riferimento. Una proposta che proponga realmente un’alternativa di società ma che sia anche sufficientemente pragmatica da essere credibile. Soprattutto una proposta che sfugga ai due rischi che citavo prima: il riflusso ribellista-identitario e l’omologazione. Mi rendo conto che è il compito più arduo, ma è un nodo che non possiamo fare a meno di affrontare. Altrimenti non si capirebbe cosa ci stiamo a fare e perché non facciamo l’ala sinistra del Pd. Dobbiamo risolvere il nostro problema di visibilità. Da questo punto di vista grande responsabilità dovranno avere i nostri eletti nelle istituzioni: Parlamento europeo, regioni, province, comuni. In qualche modo queste compagne e questi compagni dovranno farsi carico di dare visibilità all’attività istituzionale del partito, compensando, almeno in parte, il vuoto lasciato dalla mancanza di parlamentari. Queste compagne e questi compagni dovranno cercare di essere presenti sulla stampa, di «tenere botta», di avere sempre qualcosa da dire, stando attenti a trappole e passi falsi. Uguale attenzione andrà rivolta al sindacato. Dobbiamo essere in grado di inserire quante più persone possibili nel sindacato, spingere i nostri compagni ad assumersi ruoli sindacali nei posti di lavoro. Si può dare un minimo di visibilità, se non al partito, a una proposta politica, a una cultura politica, anche parlando ad assemblee di lavoratori. Lo stesso, dove e quando è possibile, va fatto negli organismi rappresentativi delle scuole e delle università. Anche le strutture di partito devono sopperire a questa mancanza di visibilità: ben venga un comunicato stampa al giorno, giornalini locali, newsletters per email al maggior numero di indirizzi possibili, proliferazione di siti internet e blog, senza trascurare i più classici volantinaggi ai mercati, davanti alle fabbriche. Oggi fortunatamente la tecnologia ci permette di raggiungere con poco sforzo tante persone con costi modesti. Ma soprattutto occorre ricostruire il partito. Il nostro partito è stato organizzato tradizionalmente come un classico partito di massa di ispirazione togliattiana. Oggi siamo la caricatura di un partito di massa, ma senza essere neppure un partito di avanguardia di tipo leninista. Infatti quando si sono cessati gli sforzi per costruire un partito di massa si è semplicemente lasciato che il partito morisse d’inedia. Non se ne è curato il radicamento, non si è fatto partecipare alle decisioni di linea politica, EDITORIALE si è usato solo come comitato elettorale e come mezzo di legittimazione plebiscitaria per decisioni già prese che creavano sconcerto in larga parte dei militanti e che avevano l’unico scopo di liquidare tutta l’esperienza storica del comunismo. Occorre curare particolarmente il tesseramento, ma soprattutto occorre rimotivare e formare i nostri dirigenti di base e i segretari di circolo. Compagni che sono stati sulle barricate, spesso da soli, a difendere il partito dagli assalti predatori dell’Ulivo prima e del Pd poi, dagli assalti del berlusconismo e della sua egemonia culturale. Compagni esposti alle imprevedibili mutazioni di linea politica del capo senza poterne discutere. Bene, questi compagni oggi sono la nostra ultima speranza. Questi compagni hanno bisogno, per poter continuare a fare quello che hanno fatto fino a oggi, di una linea politica chiara e coerente. Solo così potremo avere un minimo di corpo militante che possa tornare a far politica sui territori, sui luoghi di lavoro e del conflitto in modo stabile, limitando il turn-over dovuto ai cambiamenti frequenti di linea, per cui durante le fasi «movimentiste» si avvicinava un certo tipo di compagni che poi si allontanavano durante le fasi «istituzionaliste», durante le quali però si avvicinavano altri compagni. È chiaro come questo, alla lunga, «sfibri» il partito e lo renda poco credibile. Non mi si dica che il tipo di partito che prospetto, basato sul radicamento territoriale e sociale e anche sull’identità, è superato, vecchio, impossibile oggi da realizzare e inefficace: è vero o no che in queste elezioni il partito che più ha puntato sull’identità e sul radicamento, cioè la Lega, è quello che ha ottenuto il miglior risultato? È vero o no che in vasti settori popolari l’identità territoriale offerta dalla Lega ha soppiantato quella di classe, cui noi, in questi anni, abbiamo costantemente (e colpevolmente) messo la sordina? Nei prossimi cinque anni ci aspetta un duro lavoro, ma ci sono i margini di recupero. Il misero 3% ottenuto alle elezioni non rappresenta tutto il bacino della sinistra. Sarebbe disperante. Non a caso alle amministrative il dato, pur non brillante (anzi, decisamente brutto), della Sinistra l’Arcobaleno (talvolta del Prc da solo) è molto migliore di quello nazionale. È evidente che in sistemi elettorali a doppio turno la trappola del voto utile scatti di meno. Scattano altri tipi di trappole (come quella del non fare accordi con noi confidando in un voto contro le destre al secondo turno) che però, in una fase come quella attuale, dove dobbiamo vincere (ancora una volta) la sfida dell’esistenza, sono meno perniciose. D’altra parte dobbiamo essere consci della necessità di recuperare questi margini per poter sperare di sopravvivere. Ci aspettano cinque anni di lavoro duro, anzi durissimo. Ma vanno affrontati. Va affrontata questa lotta come se fosse l’ultima, e per quanto mi riguarda forse lo sarà se saremo sconfitti. Perché se saremo sconfitti non ci sarà più nessuno con cui lottare, e lottare da soli per me ha poco senso. Dobbiamo combattere la battaglia della vita. Come dice il testo francese dell’Internazionale «c’est la lutte finale», è la lotta finale. In alto le bandiere, compagni. 17 aprile 2008 11 Russia, sarà davvero una «tandemokratija»? 12 L uogo comune dei media occidentali è considerare la Russia un Paese incapace per sua natura di favorire un regime interno di democrazia di stile occidentale. Ecco perché sostengono che il suo sistema politico sia orientato verso «un ritorno all’Urss». A dimostrazione di ciò vi sarebbe il consolidamento di una pratica autoritaria e di uno spirito nazionalista da super-potenza motivato, tra l’altro, dal ruolo sempre più attivo della Russia sullo scacchiere mondiale. In realtà, oggi assistiamo in questo Paese a un tipo di modernizzazione e occidentalizzazione perseguite con il centrismo, l’autoritarismo e il nazionalismo. La Russia ha un peso geopolitico sempre più incisivo nel mondo. Ha riserve considerevoli di petrolio, gas e minerali preziosi che la pongono fra i fornitori leader delle materie prime nel mondo, e ha dato vita a un giovane capitalismo che sta sempre più espandendosi, capace d’investire all’estero in molte parti del globo. Sta, quindi, definendo un profilo volto al futuro e non «al ritorno al passato». Dopo otto anni di guida del Paese, Putin si è guadagnato il titolo di presidente più popolare a livello mondiale. La rivista americana «Time» lo ha indicato per il 2007 come «Man of the Year». Spiegare il suo prestigio con le condizioni restrittive e antidemocratiche che egli stesso ha introdotto nel Paese (realizzazione di una verticale del potere e instaurazione di una democrazia guidata) è giusto solo in parte, se è vero che i suoi successi sono stati conseguiti grazie anche a una serie di cambiamenti che lui e il suo entourage hanno implementato e che hanno sostanzialmente modificato il volto della Russia governata da El’cin e dalla sua cricca. L’ex-presidente Putin ha portato a termine il processo di stabilizzazione interna, ha risollevato le sorti del Paese mettendo fine alla disintegrazione nazionale e ne ha costruito una nuova immagine a livello internazionale. Certo, il Paese è ostaggio di una crescita fondata sugli alti prezzi del greggio e sulla regolare estrazione delle materie prime. Molti problemi di natura strutturale restano ancora aperti e senza risposta: la disoccupazione, la sperequazione sociale, la povertà che è in calo, ma che rimane endemica. Tuttavia, all’inizio del 2007 il Pil della Russia è di nuovo ritornato al livello del 1990 e negli ultimi sei anni c’è stato un aumento costante, mediamente del 6% l’anno. In aggiunta alla «manna» degli idrocarburi, ci sono stati altri fattori positivi che hanno fatto da ricostituente per la fragile economia russa: la riduzione dei capitali in libera uscita, lo sviluppo del complesso militare industriale, l’aumento dei consumi interni, il completo rimborso del debito estero pubblico. A causa della sua precedente carriera nei servizi segreti, Putin è percepito come un uomo rimasto fedele al tipo di gestione del sistema sovietico. Questa fedeltà si manifesta nel ruolo attualmente svolto dai «silovki» – gli uomini dei servizi speciali (servizi segreti, esercito, milizia, ecc.) – dentro l’amministrazione. Essi occupano, inoltre, almeno un terzo delle posizioni più alte C RISTINA C ARPINELLI * Il governo Putin ha lavorato in direzione del ripristino e del rafforzamento dell’economia pubblica nazionale (in particolare dei settori strategici dell’energia e delle comunicazioni), restringendo al tempo stesso le libertà democratiche e politiche * R ICERCATRICE CENTRO S TUDI P ROBLEMI I NTERNAZIONALI DI MILANO ESTERI del management economico pubblico. Ma Putin può anche essere visto come un modernizzatore di stampo occidentale. Ha lavorato nello staff del sindaco liberale di San Pietroburgo, A. Sobčak, che è stato suo mentore e maestro, e il primo presidente russo post-sovietico, B. El’cin, lo ha designato suo erede. Putin ha beneficiato del crollo delle istituzioni statali nel 1990 e delle tragiche conseguenze delle riforme di El’cin. In seguito al crollo dell’Urss, la Russia ha attuato un piano di aggiustamento strutturale, i cui effetti sono stati lo smantellamento dello Stato sociale, la marginalizzazione e la pauperizzazione di ampi strati sociali, l’aumento della corruzione e della criminalità, l’attentato alle istituzioni democratiche, l’esplodere di conflitti etnici, la perdita di prestigio internazionale. In questo clima di sfascio generale, la maggior parte dei russi ha perso stima e fiducia nei confronti di El’cin. Le politiche del suo governo sono ora generalmente ricordate come ciniche e infruttuose. La differenza fra tutti i mali degli anni Novanta e la situazione più stabile degli anni 2000 è spesso personificata nelle distinte figure di El’cin e Putin. Questa differenza non deve, in ogni caso, offuscare la continuità politica che pure vi è stata tra le due gestioni di governo. Il presidenzialismo in Russia – una struttura politica che affida un potere quasi illimitato al presidente – è stato consolidato nel ’93 con l’approvazione della nuova Costituzione. El’cin è stato eletto presidente della Repubblica russa nel giugno ’91 con il 57% dei voti, quando il partito comunista era agonizzante. Dalla scomparsa dell’Urss (dicembre 1991), egli ha dovuto sostenere un duro confronto con il Parlamento, che non approvava il suo piano scellerato di riforme liberiste avviato nel gennaio ’93. Alla ferma opposizione della Duma, El’cin ha reagito aggressivamente: ha sciolto il Parlamento che, come risposta, ha votato per l’impeachment del presidente. Ha proclamato lo stato d’emergenza e mobilitato militari e truppe a lui fedeli, che hanno sferrato un duro attacco armato al Parlamento, provocando più di 150 morti. El’cin e i suoi zelanti consiglieri temevano soprattutto la ripresa dei comunisti, ed è proprio da questa paura che è nata l’idea di una presidenza forte. Molti russi, pensando che il Paese fosse sull’orlo della guerra civile, hanno appoggiato con il referendum il piano voluto da El’cin di affidare più poteri al presidente. Dopo il tragico soffocamento della Duma nel ’93, si è aperta in Russia una lunga stagione di étatisme (letteralmente «statalismo»), mentre la competizione dei gruppi di potere ha iniziato a temere più di ogni altra cosa la polarizzazione ideologica e politica. La vittoria schiacciante del partito ultranazionalista liberal-democratico di Žirinovskij (Ldpr) e la significativa percentuale di voti ottenuti dal partito comunista di Žjuganov (Kprf) alle elezioni della Duma del dicembre ’93 (rispettivamente 22,92% e 12,4%) hanno spinto i leader di un ampio spettro di partiti politici, nello sforzo di unire il Paese, a fare propria una nuova idea politica, che può essere definita di «centrismo patriottico», tesa a eliminare le frange «estremiste», e in primo luogo quella comunista, per favorire l’avvicinamento delle varie componenti di partito attraverso la retorica patriottica. Alle elezioni parlamentari del dicembre ’95, il Kprf si è classificato come prima forza politica della Federazione, ottenendo il 22,31% dei voti, mentre il Ldpr ha subìto un visibile ridimensionamento (11,2%), confermando la scelta del governo di proseguire sulla strada del compattamento del consenso politico attorno al «centro», facendo leva sul nazionalismo per erodere sempre più voti al partito di Žirinovskij e mettendo in guardia sulle conseguenze di un revanscismo comunista. Durante la campagna presidenziale del ’96, i sostenitori di El’cin hanno trasformato i mass-media in un servizio di supporto al potere presidenziale: un evento che ha precorso il controllo odierno sui mezzi di comunicazione da parte dell’ex-presidente Putin. Il dominio sui media ha consentito a El’cin di riempire le notizie con messaggi tesi a terrorizzare gli elettori con il pericolo rosso in ag- 13 Le presidenziali del 2008 sono state una grande vittoria per Zˇjuganov che ha ottenuto il 17,72% delle preferenze. Nei centri industriali e scientifici, dove la presenza operaia è alta, ha raggiunto anche il 30-35% del consenso e, in alcuni casi, il 40%. Dunque, l’incognita comunista rimane 14 guato rappresentato dal consenso di cui godeva in quel momento il suo principale avversario politico, il comunista G. Žjuganov. Queste elezioni sono state tutte giocate sulla coppia «El’cin-Žjuganov». Anche il patriarca Alessio II era sceso in campo a perorare la causa del presidente uscente, invitando tutti i credenti a «riconoscere il ruolo decisivo di El’cin nella costruzione della nuova Russia». Al secondo ballottaggio tutti i voti dei candidati esclusi al primo turno sono confluiti nella lista del presidente. Decisivi a far pendere l’ago della bilancia a favore di El’cin sono stati i voti del generale A. Lebed, prepotentemente entrato nella scena politica per rafforzare la nuova ideologia patriottica sostenuta dal governo. Alla fine degli anni Novanta, la maggior parte della gente ha preso atto che la situazione nel Paese era sull’orlo del precipizio. El’cin era alla testa di una grande potenza, ma era troppo malato e incapace di esercitare qualsiasi funzione. Altri blocchi di potere si stavano avvantaggiando del vuoto di comando. Lo Stato centrale non era all’altezza di controllare le dinamiche degli eventi. I governatori regionali avevano istituito propri feudi, mettendo in pericolo l’unità della Federazione, mentre alcune repubbliche nazionali minacciavano regolarmente l’autorità di Mosca parlando di secessione. A livello internazionale, lo Stato russo aveva perso carisma e i suoi interessi geopolitici non erano più chiaramente definiti. L’espansione della Nato ad est era stata facilitata, da un lato, dalla gestione occidentale della crisi jugoslava negli anni Novanta e dal processo di allargamento dell’Ue, dall’altro, dalla mancanza di un progetto strategico della Russia. Tra il ’97 e il ’99 elementi populisti di nazionalismo sono già presenti a intensità diverse in ogni segmento dello spettro politico e quasi tutte le coalizioni sono impegnate in un confronto elettorale dal tono visceralmente anticomunista. Con le elezioni parlamentari del dicembre ’99 il Kprf si conferma di nuovo primo partito della nazione con il 24,29% dei voti. Tuttavia, la formazione Russia Unita (Jr) – il nuovo partito che d’ora in poi sosterrà Putin – gli tiene testa con il 23,32% delle preferenze. Candidato come indipendente, Putin, forte dell’appoggio di Jr, è eletto nel 2000 presidente della Russia con il 52,94% dei voti (contro il 29,2% di voti di Žjuganov). Russia Unita era nata dalla fusione di due precedenti formazioni politiche: Madrepatria e Tutta la Russia – frutto a sua volta dell’unione, nel 1998, tra Madrepatria di J. Lužkov, sindaco di Mosca, Tutta la Russia di E. Primakov, ex-premier, e Partito Unito di Russia di S. Šoigu e A. Karelin. Putin sa che per esercitare il potere e per tenere testa ai comunisti ha bisogno del sostegno di personaggi potenti come Lužkov e Primakov, che da tempo avevano preso le distanze da El’cin. Sostanzialmente, le elezioni del ’99 e del 2000, con le quali il neo-eletto presidente entra a pieno titolo nella scena politica, mostrano per la prima volta la grande convergenza che si è ormai creata in quasi tutto l’arco politico sull’idea che lo sviluppo della Russia debba seguire un percorso autonomo nazionale orientato al proseguimento delle riforme neo-liberiste ma dentro un piano simultaneo di rafforzamento dell’ordine e della stabilità interna. I fallimenti degli anni Novanta hanno avuto un urto indelebile sulla situazione odierna e hanno contribuito a screditare i partiti liberal-democratici. Raggruppamenti come l’Unione delle Forze di Destra (Sps) si sono resi colpevoli dei drammi di quegli anni. Nella pubblica opinione, queste forze politiche hanno rappresentato l’ultraliberismo senza regole e contrappesi, l’impatto brutale delle privatizzazioni, la spoliazione della ricchezza nazionale, con la politica predatrice dei «prestiti in cambio di azioni» da parte dei boiardi e degli oligarchi di prima fila, che si erano abbarbicati a El’cin. La nuova opposizione attualmente rappresentata dal partito Altra Russia, capeggiata dall’ex-campione di scacchi G. Kasparov, non ha alcuna base sociale e scarsa legittimazione popolare. È un’entità politica composita, filo-occidentale, che s’ispira alle «rivoluzioni colorate» di Ucraina e Georgia ed è finanziata da organizzazioni statunitensi (Carnegie Center for Endowement of Democracy e Fondazione Soros). Raccoglie al suo interno il partito nazional-bolscevico dello scrittore E. Li- ESTERI monov e fino a poco tempo fa anche l’Unione Democratica Nazionale di orientamento liberal-liberista, fondata da M. Kasjanov, personaggio controverso legato prima agli oligarchi e alla famiglia di El’cin, poi premier di Putin nel 2001-2004 (con cui rompe a seguito della vicenda della compagnia petrolifera Jukos) e, infine, concorrente per le presidenziali 2008, ma escluso perché privo dei requisiti di legge. In questo contesto traumatico, che ha scosso il primo decennio post-sovietico, si è spianato il trionfo di Putin. Se gli anni Novanta sono quelli della polarizzazione politica e ideologica, della nascita di una tendenza verso il «centrismo patriottico» e verso la costruzione di un sistema dei poteri forti, gli anni Duemila sono, invece, quelli della perdita progressiva del carattere iniziale multipolare del sistema partitico e della centralizzazione attorno a ciò che è ritenuto «politicamente necessario»: l’affermazione di una retorica e di una propaganda politica a sfondo populista e nazionalista e di un partito presidenziale come unico motore della vita politica. La riforma elettorale del 2005, che stravolge il profilo della Duma, sancisce definitivamente il centralismo politico. Tutti i seggi sono ora assegnati su base proporzionale con uno sbarramento del 7%, premiando i partiti vincitori a livello federale e gli uomini da questi prescelti. Nel corso degli ultimi quattro anni, il governo Putin ha lavorato sodo per fare della Russia uno dei leader mondiali del XXI secolo, che compete sul mercato globale e sa come trarne vantaggio. Si è battuto per la modernità tecnologica, la necessità di essere efficiente e concorrenziale in un’economia di mercato in rapido movimento, e per l’effettivo utilizzo del potenziale umano e delle risorse naturali del Paese. Per il gruppo di Putin, il successo economico non solo ha portato ricchezza alle élite politiche e del mondo degli affari, ma anche potere politico e autorità internazionale. L’ex-presidente ha lavorato in direzione del ripristino e del rafforzamento dell’economia pubblica nazionale (in particolare dei settori strategici dell’energia e delle comunicazioni), restringendo al tempo stesso le libertà democratiche e politiche. Ha migliorato il tenore di vita dei russi, legittimando il suo percorso che sta portando vantaggi materiali. I positivi cambiamenti 15 nella vita quotidiana dei russi hanno prodotto una base crescente di consenso e di entusiasmo per la traiettoria assunta dalla Russia. Putin ha stabilito un patto sociale: in cambio dell’appoggio allo staff presidenziale e alle politiche correnti, il popolo russo riceverà benessere materiale e rinnovato orgoglio per il proprio Paese. Alle elezioni legislative del 2003 Russia Unita ottiene il 38% dei suffragi. Con questo esito, la neonata Jr diventa il primo partito di Russia, distanziando in modo significativo il Kprf secondo classificato (12,6% dei voti). Nel 2004 Putin si ricandida come presidente sostenuto, oltre che dall’apparato statale, anche da Jr, e stravince con il 71,3% dei voti. Tale successo è reso possibile dal fatto che i partiti minori rappresentati alla Duma hanno apertamente appoggiato Jr e, quindi, Putin. La popolarità di quest’ultimo e la comparsa del nuovo «partito del potere» interrompono la sorprendente cavalcata in avanti del Kprf. Il calo dei consensi del Kprf è l’effetto del controllo governativo e del monopolio da parte del Cremlino dei media, ma soprattutto di una nuova tendenza emersa in seguito, nell’ottobre 2006, sotto la parola d’ordine «unificazione». Com’è stato detto, la nuova legge elettorale pone uno sbarramento del 7% per entrare alla Duma. Da qui la necessità dei partitini di unire le forze. Patria (ex leader D. Rogozin – carismatico e fiero critico del Cremlino, noto per il suo sciopero della fame nel 2005 contro la riforma del welfare, che portò in piazza migliaia di persone – sostituito con A. Babakov, ricco uomo d’affari molto vicino a Putin), il Partito della Vita (creazione diretta di Putin; suo leader S. Mironov, presidente del Consiglio della Federazione e vecchio amico del presidente) e il Partito dei Pensionati (ex leader V. Gartung, rimpiazzato con I. Zotov, considerato più fedele al Cremlino) avevano deciso di fondersi in un unico partito d’opposizione di centro-sinistra denominato Russia Giu- 16 sta (Sr). Nelle parole dei loro leader, la mossa mirava a formare «un’alternativa di sinistra significativa a Russia Unita», contrapponendosi all’idea di «una forza politica monopolizzatrice». Di «sinistra» vi era l’interesse generico mostrato per i problemi sociali e per le classi povere. Tuttavia, a detta di autorevoli commentatori russi e stranieri, questa unificazione era stata una manovra architettata dal Cremlino per strappare definitivamente voti al partito comunista, unica opposizione reale a Russia Unita. Il partito xenofobo di Žirinovskij era ormai avviato al costante seppur lento declino. Per ammissione dello stesso Mironov, leader della nuova formazione, Sr (detta anche partito del potere n.2) avrebbe sostenuto per le presidenziali 2008 il candidato indicato da Putin. Che Russia Giusta fosse un’operazione d’ingegneria politico-istituzionale condotta dal Cremlino per neutralizzare ultranazionalisti e comunisti è dimostrato anche dal risultato delle elezioni amministrative del marzo 2007, con le quali il Kprf si confermava secondo partito in sette regioni e terzo in altrettante, rimanendo quindi il secondo partito di Russia. Nel frattempo, Putin, condannando con durezza la politica antirussa delle repubbliche Baltiche, dove nel corso del 2007 vi erano stati dei pogrom contro i russi residenti, ha accentuato la retorica del nazionalismo e della difesa della «diversità russa». La questione nazionale, espressa sotto l’etichetta di «patriot- tismo», diventava l’unico linguaggio politico accreditato in Russia. Oggi, nessun personaggio pubblico è in grado di acquisire legittimità politica senza menzionare il suo attaccamento alla madrepatria e senza giustificare la sue scelte politiche come supremo interesse della nazione. Chiunque sia sospettato di scarso patriottismo e scarsa fedeltà, e che non sia devoto alla Chiesa ortodossa russa, è messo fuori gioco. Proseguendo sulla linea tracciata da El’cin, che con un gesto plateale sancì la santa alleanza tra patria e fede ortodossa (con esequie di Stato, in sua presenza, fece tumulare nel luglio ’98 a San Pietroburgo, nella Cattedrale dei SS. Pietro e Paolo, le spoglie dell’ultima famiglia imperiale, che ora giacciono con tutti gli onori accanto a quelle degli altri zar di Russia), Putin si è convertito nel ’93 alla religione ortodossa, e non si è più tolto la croce battesimale che la madre gli ha messo attorno al collo prima che lui partisse per un viaggio in Israele. Nel settembre 2006, sempre nella Cattedrale dei SS. Pietro e Paolo a San Pietroburgo, venivano tumulate le spoglie mortali riportate in patria dell’imperatrice M. Fëdorovna, madre dell’ultimo zar di Russia Nicola II. Si è trattato – aveva affermato Putin – «di un evento di grande importanza storica che ha assunto un significato simbolico per un Paese come la Russia che, dopo più di sette decenni di regime comunista, guarda ora al proprio passato imperiale con serenità». Il neoeletto presidente D. Medvedev, nel 1988, proprio quando entrava a far parte della squadra di Sobčak e la Russia festeggiava il suo millennio nel cristianesimo, aderiva alla Chiesa ortodossa, facendosi battezzare. Ciò gli ha consentito di ricevere la benedizione speciale del patriarca Alessio II alle elezioni presidenziali del marzo 2008, che, pur invitando i fedeli a votare secondo coscienza, ricordava l’appoggio della Chiesa a Medvedev. L’accento sul nazionalismo è un chiaro segno di depoliticizzazione. La vita politica non è più strutturata sulla base della concorrenza tra diverse ideologie e visioni del mondo come nei primi anni Novanta. La politica russa è ridotta alle divisioni tra fazioni e clan collegati al Cremlino, le cui dinamiche sono spesso guerre intestine dentro la burocrazia di Palazzo. L’esito elettorale di Russia Unita alle elezioni parlamentari del dicembre 2007 non è stato in realtà un vero successo. Questo partito prevedeva di ottenere oltre il 70%, e non il 60% dei voti che ha ottenuto. Il tanto atteso plebiscito non ha soddisfatto le aspettative. A Mosca e a San Pietroburgo, Jr non ha superato il 50% dei voti, confermando che una parte della classe media russa non appoggia l’élite di Putin. A dispetto delle sue dimensioni elefantiache, sta mostrando un’intrinseca fragilità, derivante dalla pressoché totale mancanza di una dottrina di partito, forte invece del legame che ha con gli oligarchi di seconda fila (prevalentemente amministratori ESTERI delle grandi imprese rinazionalizzate che, nello stesso tempo, occupano posti al vertice dell’apparato statale controllato dallo stesso ex-presidente) e della popolarità di Putin. Inoltre, le presidenziali del 2008, che pure hanno visto un plebiscito a favore di Medvedev con il 70,28% dei voti, sono state una grande vittoria per Žjuganov che, potendo contare su una solida organizzazione territoriale e una fitta rete di comitati locali, ha ottenuto il 17,72% delle preferenze. Nei centri industriali e scientifici, dove la presenza operaia è alta, ha raggiunto anche il 30-35% del consenso e, in alcuni casi, il 40%. Dunque, l’incognita comunista rimane. Il controllo dell’ex-presidente sul potere centrale è del tutto contingente. Esso richiede una politica attenta agli equilibri fra i diversi gruppi e interessi di potere. Se il potere politico ed economico è di fatto concentrato nelle mani del Cremlino, i movimenti dentro il Palazzo sono assai complessi. L’amministrazione presidenziale non è un monolite. È popolata da molteplici clan, che sono più o meno in aperto conflitto. La «Petersbourgeois» si oppone ai «silovki». Gazprom lotta per il controllo delle risorse energetiche contro Rosneft. L’idea che lui solo regga la fiaccola del Paese è illusoria: egli è sia il manovratore sia l’ostaggio di questi clan, che potrebbero non appoggiarlo una volta che sarà il premier del neo-eletto presidente Medvedev. Avvalora quest’idea il fatto che fino a qualche mese prima delle presidenziali 2008, il delfino designato di Putin non era Medvedev bensì S. Ivanov, uomo di apparato, che per sei anni ha retto il ministero della Difesa e ora è numero uno della United Aicraft Building Corporation, che rappresenta l’intera produzione aeronautica russa. Al di là dei convenevoli mediatici a cui ci ha abituato la coppia Putin-Medvedev (la rivista «Kommersant» definisce l’attuale situazione politico-istituzionale «tandemokratija», una democrazia che corre in tandem), tra i due esistono delle asimmetrie. Medvedev non è un «silovka»: vicino alla nuova imprenditorialità russa, per alcuni rappresenta il possibile protagonista della rivincita dei settori «compradori» della borghesia russa. Ancora prima delle presidenziali, Putin aveva già indicato i nomi del nuovo esecutivo. Tra essi figurano Zubkov (attuale premier e futuro presidente di Gazprom, al posto di Medvedev), I. Sečin (vicecapo dello staff del Cremlino), V. Ivanov e I. Šuvalov (consiglieri personali di Putin), A. Gromov (capo ufficiostampa). In pole-position ci sono anche i nomi di B. Gryzlov (leader di Jr), S. Sobjanin (capo-gabinetto del Cremlino) e dell’ideologo V. Surkov, al quale si deve gran parte delle idee che si riferiscono alla nuova dottrina «alla Putin» della «democrazia sovrana», secondo cui la supremazia dello Stato si esercita sui soggetti all’interno dell’ordinamento senza alcuna interferenza di altri enti: solo lo Stato può stabilire i limiti della sua competenza in ordine a determinate materie e organizzare i singoli e le comunità per il perseguimento dei fini volta per volta fissati. 17 India: appunti di viaggio Estensione della democrazia e prospettive del socialismo: i compiti dei comunisti indiani 18 I n tempi di crisi economica internazionale, quali stiamo vivendo da alcune settimane e ai quali ancor più speditamente le previsioni ci consegnano per i prossimi mesi, è possibile verificare una serie di costanti macro-economiche che attraversano tanto il mondo delle produzioni quanto quello della finanza. Intanto, l’andamento anti-simmetrico delle due divise più forti sul mercato delle valute, con il deprezzamento del dollaro e il rafforzamento dell’euro (al punto che, oggi, occorrono tre dollari per acquistare due euro) e, sua conseguenza, l’apprezzamento di tutti i beni che ancora vengono scambiati in dollari sui mercati internazionali, come il petrolio, che ormai da settimane ha superato la «soglia psicologica» dei cento dollari a barile. Non meno rilevanti le ripercussioni sui mercati finanziari: basti seguire l’andamento dei futures, le opzioni di acquisto in prospettiva, praticamente «scommesse» sul valore «a breve» dei beni di mercato, nei quali si esercita la finanza speculativa determinando continue oscillazioni dei valori di scambio, per non parlare di quanto accaduto all’andamento dei cosiddetti mutui sub-prime statunitensi, nei quali si è voluta individuare una delle cause della stagnazione economica in atto che, più correttamente, al contrario, andrebbe ascritta alle condizioni strutturali del modo di produzione vigente. Se le condizioni «date» sono queste, la reazione dei mercati è come un Giano bi-fronte: per un verso rallentamento della produzione, per l’altro stagnazione della crescita, assurta ormai a «paradigma» della formazione economico-sociale dominante. Si tratta, in ogni caso, di caratteri macro-economici, che non vengono immediatamente registrati dal mercato al consumo e non sono direttamente percepiti dal consumatore finale. Ciò che viene drammaticamente inteso, piuttosto, è l’effetto sui prezzi: stagnazione della produzione e apprezzamento dei beni energetici spingono in alto i prezzi dei prodotti al consumo, tra cui i generi di prima necessità; e se a questo si accompagnano gli effetti della «moderazione salariale», la riduzione del potere di acquisto del reddito disponibile e l’inazione di politiche anticicliche «correttive», allora la crisi economica diventa anche crisi sociale, carovita e «sindrome della quarta settimana». Questo nei Paesi detti a «capitalismo maturo»: perché la situazione delle economie del Sud del mondo e dei Paesi «emergenti» è aggravata da altre condizioni strutturali, quali l’estensione dell’area della povertà ovvero la progressiva penetrazione del «libero mercato» nelle economie nazionali. È ciò che caratterizza, ad esempio, un gigante dell’odierno panorama internazionale quale è l’India. La premessa che abbiamo sin qui sviluppata serve per introdurre alcuni elementi di chiarezza alla riflessione contenuta nei paragrafi seguenti e per capire la qualità del dibattito politico ed economico che sta attraversando il campo delle sinistre del gigantesco Paese asiatico. G IANMARCO P ISA * L’India ospita quattro dei dieci super-miliardari del pianeta e, contemporaneamente, il 78% degli indiani spende meno di 10 dollari al mese * D IPARTIMENTO E STERI P RC -S E RAPPRESENTANTE DI R IFONDAZIONE COMUNISTA AL XX C ONGRESSO DEL P ARTITO COMUNISTA I NDIANO E AL XIX CONGRESSO DEL P ARTITO COMUNISTA I NDIANO (MARXISTA), TENUTISI RISPETTI VAMENTE DAL 22 AL 27 MARZO E DAL 29 MARZO AL 3 APRILE 2008 ESTERI Un ruolo assai importante è svolto dai comunisti, che, in India, sono sì divisi in due partiti, figli della scissione seguita al «dissidio cino-sovietico» della prima metà degli anni Sessanta, ma anche impegnati in un processo di costruzione di un blocco unitario (non un partito unico, evidentemente), teso a rafforzarne la proiezione sociale e incrementarne la capacità elettorale India: condizioni e contraddizioni Partire dall’economia serve se si vuole comprendere davvero cosa sta succedendo in Asia e, in particolare, in India. Serve sia come elemento di chiarificazione, sia come vettore dell’argomentazione: sotto il primo versante, in specie, tale presupposto concorre a sfatare una serie di miti di cui l’India è circondata – verrebbe da dire «assediata» – da quello dell’India mitica e leggendaria, terra di spiritualità e di «energia», che vorrebbe addirittura farne un’«idea» prima ancora che un Paese o, meglio, un sistema-Paese caratterizzato da una specifica formazione economico-sociale e strutturato secondo una ben definita composizione sociale di classe a forte polarizzazione interna; per finire con quello dell’India del «boom», della tigre asiatica, addirittura – come qualcuno si è spinto a idealizzare – della «shining India» (l’India splendente), in cui miracolosamente convivono l’area della «democrazia più grande del mondo» e il volume dell’economia, dopo la Cina, più vitale del pianeta. Non che non ci sia del vero, in queste raffigurazioni; il problema sta nel fatto che, come tutte le manifestazioni ideologiche, frutto di un certo pensiero dominante, esse alterano i contorni della realtà, il «come stanno effettivamente le cose». E le cose stanno in una maniera diversa da come possa sembrare. Arriviamo allora al secondo versante, quello della chiarezza dell’argomentazione, per cui non si può dire «idea» dell’India senza aggiungere il fatto che questa idea, da religiosa, sta diventando sempre più politica, con l’Induismo, in quanto religione maggioritaria, diffusamente strumentalizzato dalle formazioni di destra nel cosiddetto «comunalismo», idea di pseudo-democrazia nazionalreligiosa a dominanza «hindutva», fortemente regressiva, quando non dichiaramente fascista. Allo stesso modo, non si può dire «shining India» senza ricordare, per lo meno, le contraddizioni di quella «crescita senza sviluppo»: l’India ospita quattro dei dieci super-miliardari del pianeta e, nello stesso tempo, l’area della povertà più diffusa del mondo (non dimentichiamo che l’immenso Paese ospita una popolazione di 1,2 miliardi di abitanti); il super-imprenditore Tata, padrone dell’omonima industria automobilistica, si è recentemente prodotto nell’acquisizione di un marchio storico, come quello della Jaguar-Land Rover ma, contemporaneamente, il 78% degli indiani spende meno di 10 dollari al mese; il Pil viaggia a tassi di incremento annuo dell’8%, mentre l’inflazione del primo trimestre 2008 schizza al 7% e il Paese precipita dal 120° al 126° posto (su 190) della graduatoria mondiale dello sviluppo umano stilata dalle Nazioni Unite. È questo l’ordine di problemi con i quali si deve misurare il dibattito politico e, soprattutto, la riflessione delle sinistre indiane, tra l’altro impegnate, da quattro anni, in una difficile esperienza di «sostegno esterno» al governo nazionale guidato dal partito del Congresso e dal primo ministro Manmohan Singh, sulla base di un «programma minimo» che ha costruito la cosiddetta Upa (Alleanza unitaria progressista) intorno ad alcuni capisaldi condivisi quali: a) lo sviluppo di una democrazia secolare contro ogni deriva «comunalista», nazionalista e confessionale; b) la tutela delle minoranze interne, sia religiose sia linguistiche (non dimentichiamo che l’India è un Paese complesso, costituito dall’unione di 25 Stati, nei quali vivono numerose minoranze etniche, co-esistono induisti e musulmani, zoroastriani e giainisti, buddisti e cristiani, e si parlano 4 lingue maggiori: inglese, indi, bengoli e tamil, e ben 108 tra lingue e dialetti censiti); c) la salvaguardia della tradizionale politica di autonomia internazionale nella duplice direzione del non-allineamento e dell’anti-imperialismo. In questo dibattito, un ruolo assai importante è svolto dai comunisti che, in India, sono sì divisi in due partiti, figli della scissione seguita al «dissidio cino-sovietico» della prima metà degli anni Sessanta, rispettivamente il Cpi (Partito comunista indiano) e il Cpi(m) (Partito comunista indiano [marxista]), ma anche impegnati in un processo di costruzione di un blocco unitario (non un partito unico, evidentemente), teso a rafforzarne la proiezione sociale e incrementarne la capacità elettorale. La quale ultima, per di più, non è affatto irrilevante, dal momento che i comunisti indiani sono al governo di tre Stati dell’Unione, il Kerala, il 19 20 Tripura e, soprattutto, il Bengala Occidentale, che ospita la città di Calcutta e conta qualcosa come 80 milioni di abitanti. Insomma, a parte le questioni della moneta, della difesa e degli esteri (in India, di pertinenza del governo centrale), è come se i comunisti governassero un Paese delle dimensioni della Germania… I congressi dei comunisti indiani: unità plurale e democrazia progressiva Manifestazione evidente dello sforzo unitario è stata la celebrazione coordinata dei due congressi dei comunisti indiani: rispettivamente il XX Congresso del Cpi, dal 22 al 27 marzo a Hyderabad, nell’Andhra Pradesh, e il XIX Congresso del Cpi(m), dal 29 marzo al 3 aprile a Coimbatore, nel Tamil Nadu. La presenza di Rifondazione comunista non è passata inosservata, tra le 39 delegazioni internazionali intervenute, molte delle quali dall’Asia, a testimonianza dell’interesse che circonda l’esperienza politica dei comunisti indiani. L’elemento più interessante dello sviluppo congressuale «parallelo» del Cpi e del Cpi(m), consiste nella convergenza delle rispettive risoluzioni, le quali concorrono a evidenziare plasticamente lo sforzo di «unità della sinistra» che essi stanno producendo. Lo mostra l’impianto delle risoluzioni e il carattere della discussione circa lo sviluppo del processo costituente di quella che, mutuando dal nostro linguaggio, potremmo definire una «sinistra unitaria e plurale» in India. Per quanto riguarda il XX congresso del Cpi, le tre questioni politico-programmatiche che hanno costituito il corpo del mandato congressuale sono state: a) l’opposizione all’accordo di cooperazione militare tra Stati Uniti ed India, b) la questione del carovita dei generi di prima necessità e della crisi agraria – a sua volta connessa al tracollo del sistema di distribuzione pubblica dei beni fondamentali – e, non meno importante, c) la questione della separazione della regione di Telangala dove ampi settori della popolazione locale sono in lotta per i propri diritti, per il riconoscimento della propria specificità linguistico-culturale e per l’accesso alla terra. Il trattato di cooperazione militare bilaterale indo-statunitense (allargato recentemente alla questione del nucleare «civile») rappresenta una minaccia complessiva, dal momento che: a) àltera la tradizionale politica di non-allineamento internazionale dell’India (non è un caso che soprattutto i delegati da Cuba, Sudafrica e Cipro abbiano insistito su questo aspetto, essendo tutti parte del Nam, il raggruppamento dei Paesi non-allineati); b) vìola i contenuti, esplicitamente antimperialisti, della piattaforma che ha stabilito le condizioni dell’appoggio esterno dei comunisti al governo guidato dal Congresso; c) stringe l’India nell’abbraccio mortale dell’unilateralismo statunitense, minacciando non solo la stabilità della regione (con il rischio di fare del golfo del Bengala avamposto della «war on terror» dell’amministrazione Usa), ma anche lo sviluppo autonomo della politica di difesa indiana. Scossa dal punto di vista delle relazioni internazionali, l’India è anche alle prese con la questione del carovita, con un’impressionante crescita dei prezzi dei generi alimentari (incremento medio del 15%), cui il governo non sembra in grado di porre rimedio. Ad esempio, le proposte formulate dalla VI Commissione Parlamentare, proprio nei giorni del congresso del Cpi, risultano del tutto insufficienti di fronte alla gravità del problema, al punto che, alla richiesta di un incremento medio dei salari nel pubblico impiego del 40%, il governo ha risposto con una disponibilità a un sostegno salariale non superiore al 28% e lo stesso approccio alla questione dell’universalizzazione del sistema di distribuzione pubblica e della limitazione all’ingresso dei privati e della finanza risulta del tutto inficiato dall’orientamento complessivamente neoliberale – di generale e diffusa apertura al mercato e assunto dal Congresso. Infine, le questioni di carattere sociale e regionale: tra queste il sostegno manifestato dal Cpi all’autonomia della regione di Telangala, che punta a costituirsi in Stato autonomo, separandosi dall’Andhra ESTERI Pradesh, nell’ambito dell’Unione Indiana, sulla base della lotta, portata avanti dalla vasta maggioranza della popolazione, per maggiori diritti sociali e culturali e il pieno accesso alla terra, sempre più monopolizzata da grandi imprese private e dai contadini ricchi. Sull’altro versante, delle dieci risoluzioni approvate al XIX congresso del Cpi(m), è possibile individuare i tre blocchi principali in cui si è condensato l’orientamento congressuale, rispettivamente afferenti alla sfera istituzionale, alla sfera sociale e alla sfera culturale, un segno, se si vuole, delle prevalenti responsabilità politico-istituzionali cui il Cpi(m), in quanto maggiore tra i due partiti e in costante crescita politica e organizzativa, è chiamato a confrontarsi. Nella sfera istituzionale, il Cpi(m) reclama un intervento a correzione delle distorsioni nel rapporto centro-periferia, contro l’intervento unilaterale dell’esercito nazionale nei singoli stati dell’Unione e contro l’adozione unilaterale da parte del governo delle direttive del Fondo Monetario nelle questioni interne agli Stati medesimi, nonché per l’incremento dei trasferimenti statali dal centro alla periferia dal 29,5% al 50%. Nella sfera sociale, chiede in particolare un intervento contro il carovita per grano, riso, olio di palma, farine e zucchero, ri-universalizzando il sistema di distribuzione pubblica e inibendo il commercio speculativo nel settore (futures) per 25 prodotti agro-alimentari di base. Il che significa anche riformulare il targeting, dal momento che, al di là delle dichiarazioni ufficiali, è bene ricordare che il 78% della popolazione indiana spende meno di 10 euro a persona al mese. Un’altra questione affrontata è quella della razionalizzazione della cosiddetta economia informale (unorganized sector) che impiega il 50% degli uomini e ben il 95% delle donne, i quali non beneficiano ancora né di garanzie contrattuali né di adeguata protezione sociale. Il Cpi(m) chiede inoltre: a) il raddoppio dell’investimento pubblico (dal 3% al 6%) come misura anti-ciclica contro la crisi agraria, b) l’implementazione compiuta della legge di garanzia del lavoro agrario e c) la corretta implementazione della legge di protezione dei soggetti sociali castuali e tribali, a tutela in particolare di dalit (i cosiddetti «intoccabili», una realtà, al di là delle normative ufficiali, ancora tristemente viva in India) e adivasi (vale a dire le «tribù censite», oltre 70 milioni di indiani aborigeni, classificati in circa 500 tribù e parlanti circa 50 lingue). Infine, nella sfera politico-culturale, il Cpi(m) parte dal presupposto, peraltro decisivo, dello scontro di visioni («clash of visions») che si sta sviluppando tra i partiti maggiori in ordine al profilo della società indiana nel suo complesso: da una parte il Bjp, fautore di un «comunalismo» che si traduce nell’orientamento a un’autocrazia nazionale induista su base castuale, dall’altra il Congresso, che punta invece a una democrazia liberale secolare a egemonia borghese (quella frazione della borghesia indiana interessata all’apertura internazionale e al «mercato globale»). Alternativa a queste visioni, è quella della «terza via», vale a dire dell’«alternativa di sinistra» perseguita dal fronte delle sinistre, sebbene con alcune, significative ma non inconciliabili, divergenze tra il Cpi (fautore di una «alternativa democratica») e il Cpi(m) (sostenitore di un’alternativa progressista «di classe»): alternativa che, al di là di tali distinzioni, si concretizza comunque nella sostanziale affinità di vedute riguardo l’estensione della base materiale della democrazia indiana, lo sviluppo del processo di partecipazione popolare e di progresso sociale e il potenziamento del secolarismo come fattore di contrasto all’Induismo «hindutva» e presupposto per uno sviluppo democratico verso il socialismo. Ecco perché, in sintesi, il Cpi(m) propone: a) l’universalizzazione del diritto all’educazione pubblica di massa (il 52% della popolazione indiana è analfabeta o semi-analfabeta), b) il contrasto alla campagna etno-religiosa portata avanti dal Bjp e, non meno importante, c) la lotta contro il comunalismo in quanto fattore disgregativo anti-democratico dell’unità plurale che è contraddizione e forza, al contempo, dell’India odierna. Un programma minimo, ma non minimale, nel segno dello sviluppo di una democrazia progressiva orientata al socialismo, che tanto significativamente sta caratterizzando il dibattito unitario a sinistra dei comunisti indiani. 21 in Kosovo tra serbi assimilati e albanesi in festa a stelle e strisce 22 P er le strade di Pec, Peje, e ancor più in quelle di Pristina si percepisce la presenza degli organismi internazionali più d’ogni altra cosa e non solo per i convogli militari di diversa provenienza che pattugliano le strade fatiscenti del centro e delle zone di campagna intorno. Sarà per gratitudine nei confronti di Washington, finanziatore e procacciatore di armi per i combattenti dell’Uck, che ogni negozio esibisce la bandiera degli Stati Uniti. Ma le minuscole botteghe artigiane – dove sopravvivono attività remote, altrove inesistenti, come quella della fabbricazione e messa a punto del tradizionale Cúlaf, piccolo cappello che si indossa come un berretto aderente, di colore bianco avorio, riservato agli anziani delle comunità – non recano traccia delle vicissitudini politiche che hanno preceduto e accompagnato l’unilaterale dichiarazione d’indipendenza del Parlamento di Pristina. La gente comune continua a fare i conti con i problemi di sempre (la mancanza costante di corrente elettrica, di acqua potabile, di smaltimento dei rifiuti, di fogne, di strade), che si traducono in povertà, disastro ambientale, arretratezza, mancato sviluppo. Il confronto con le istituzioni locali, affidate alla comunità internazionale dai primi anni Novanta, e l’assoluta e provata non trasparenza dell’Uck, su cui pesano le connivenze con le mafie albanesi per traffici illeciti legati a droga e prostituzione, non aiutano molto a comprendere la situazione politica e sociale in cui il Kosovo vive oggi. È difficile delineare il futuro della popolazione serba presente nelle enclavi isolate e in alcune regioni della provincia kosovara: Mitrovica nord, Zvečan, Gračanica, il villaggio di Goraždevac nel nord-ovest, la parte nord della città di Orahovac. Un’indipendenza, quella del 17 febbraio scorso, eterodiretta, che si fa discendere a fatica da un processo democratico, di lotta di popolo. Eppure, tutti gli attori internazionali coinvolti nella fase di costruzione del percorso di pace, si avvidero subito della difficoltà di trovare una soluzione equilibrata e praticabile per entrambe le parti. La risoluzione 1244 dell’Onu prevedeva, tra le altre raccomandazioni, al fine di impedire una completa pulizia etnica dei serbi rimasti, dopo i bombardamenti Nato e di quelli tornati dalla diaspora o intenzionati a tornare, la creazione di una possibile, concreta autonomia del Kosovo, nell’ambito della Iugoslavia e della Serbia, come a dire nulla di più lontano dall’indipendenza. A voler essere precisi, la risoluzione 1244 suggeriva apertamente il ritorno in Kosovo delle forze di sicurezza iugoslave per dare un segnale forte di tutela delle minoranze serbe, organizzando aiuti effettivi nella ricostruzione di alloggi e proprietà, andati distrutti o più spesso usurpati dagli albanesi. Certamente i serbi non costituiscono l’unica minoranza nel territorio, va ricordata la presenza dei rom kosovari, il 5% della popolazione, un gruppo etnico diviso al suo interno in diverse formazioni, che adottano lingue e religioni spesso in conflitto tra loro, ciò che frammenta l’identità e la forza di coesione necessarie a produrre fini e mezzi per una qualche rappresentabilità. Del resto, ovunque nel mondo il popolo P AOLA M ILLI * Questo è ciò che grida al mondo il capo villaggio: che più di ogni altra cosa vuole ricostruire la scuola, il centro culturale, affinché la gente torni a vivere qui, perché la terra divenga di nuovo fertile. La terra su cui ha piantato il grano, duecento ettari che potrebbero dare da vivere a molte famiglie che prima erano qui e che la guerra ha fatto fuggire * GIORNALISTA ESTERI rom è discriminato e vittima permanente di violazioni dei diritti umani più elementari. Qui non si è fatta alcuna eccezione, nulla è stato risparmiato prima e durante la guerra e nel dopoguerra a rom etnici, ashkaelia, egiziani, rom čergari e rom cattolici. È indubbio, per tornare alla questione serba, che alla forzatura di imporre, da parte della comunità internazionale, un’indipendenza del Kosovo, a cui non tutti i Paesi europei guardano con favore, è sotteso un identico disegno di penetrazione nel canale balcanico per soddisfare le mire espansionistiche occidentali degli Stati Uniti, che di fatto hanno anche manifestato l’intenzione di cooptare la Georgia e l’Ucraina nella Nato. La Russia aveva rilasciato dichiarazioni di fuoco per scongiurare la dichiarazione d’indipendenza del Parlamento di Pristina, affermando un’inevitabile ricaduta degli eventi sugli equilibri mondiali; la Serbia del leader Boris Tadic guarda all’Europa e sembra più incline a una situazione di compromesso sulla vicenda kosovara di quanto non lo fosse Tomislav Nicolic, esponente radicale nazionalista, uscito sconfitto dalle ultime elezioni. Viene di fatto da pensare, anche in questa vicenda «geografica», la distanza incolmabile tra le sorti della popolazione e l’agire della politica alta, dei governanti, di coloro che decidono le sorti di un popolo intero. Chi deciderà la sorte dei non vincitori? Di contadini, operai, piccoli artigiani, gente abituata alla povertà e al lavoro duro della terra, ma non in grado di resistere all’isolamento, anche linguistico, alla distruzione del proprio ambiente, alla cancellazione della propria storia, in un tempo votato all’ambiguità e al culto del profitto, dove a contare è sempre e solo il potere economico del più forte. Raccontano tutti la stessa esperienza a Klina i vicini di casa Radoje Mikiç e Radivojg Isalovic: ricordi di case usurpate con falsi atti di vendita, deportazione nel ‘99 di tutti gli abitanti del villaggio di Klina, massacri dei resistenti e spari- zione dei corpi, difficoltà di vivere a tutti i livelli, anche nell’approvvigionamento del cibo. Tentativi di brutale allontanamento continuano ancora, nel 2006 spari e bombe nelle case erano una costante. Adesso i non vincitori confidano nella cessazione delle ostilità nei loro confronti per la presenza del contingente internazionale del Kfor, ma paiono rassegnati e si sentono abbandonati dalla Serbia, che avvertono come lontana, seppure così vicina. Nel villaggio serbo di Belo Polje, accanto alle case messe in piedi da poco e con pochi mezzi, le macerie delle passate costruzioni sono ancora lì a testimoniare l’unico messaggio che la guerra ovunque può dare, un messaggio di morte e distruzione. Questo è ciò che grida al mondo il capo villaggio: che più di ogni altra cosa vuole ricostruire la scuola, il centro culturale, affinché la gente torni a vivere qui, perché la terra divenga di nuovo fertile. La terra su cui ha piantato il grano, duecento ettari che potrebbero dare da vivere a molte famiglie che prima erano qui e che la guerra ha fatto fuggire. In fondo la gente vuole solo vivere in un tempo di pace, fare progetti, vedere realizzati piccoli sogni di normalità che a volte paiono così lontani da dubitare che possano esistere. A Bica, villaggio serbo, nel ’99 c’erano duecento persone, oggi sono trenta, ricorda il capo villaggio Stojan Donĉic, una sorta di sindaco municipale; la gente, dice, qui è a casa propria, dal III secolo abita questo luogo, non può lasciarlo senza morirne, il Kosovo fa parte della Serbia dal 1912, questo la Comunità Europea dovrebbe saperlo, non può continuare a voler cambiare la Storia. I serbi – ci confida – in Albania hanno perso la loro identità, erano in centomila, ora sono diventati albanesi, questo è avvenuto quando l’Albania si è staccata dal Montenegro. Il suo pensiero corre veloce al 1982, quando serbi e albanesi ancora convivevano, i serbi sono sempre stati una minoranza, non avrebbero mai potuto contrastare il popolo albanese. Può essere utile, per agevolare una comprensione esauriente degli sviluppi futuri che attendono questo Paese, spostare l’attenzione sulla Chiesa ortodossa, presente in modo significativo, non solo simbolico, in Kosovo, e i suoi rapporti con la popolazione serba e il governo di Belgrado. La storia del Novecento li ha visti sempre in aperta opposizione. Ora la contingenza internazionale sfavorevole e il rischio di frammentazione del territorio e delle istituzioni politiche tradizionali serbe sembrerebbero creare una certa unità d’intenti. Ma per le enclavi serbe resta difficile la coesistenza pacifica, nella terra che è la loro terra di sempre, in un territorio che nel passato ha conosciuto anche valori di ogni tempo, la multietnicità e il rispetto di ogni essere umano, oltre le etnie e i modi infiniti di credere. 23 il sindacato nell’Europa dell’Est 24 C ome è facilmente intuibile, il lavoro costituisce oggi nei Paesi ex socialisti una problematica assai complessa. I sindacati che operano in queste realtà non riescono a farsi accettare dall’opinione pubblica come istituzioni dotate di importanza ed efficacia sociali. Non sono più cinghia di trasmissione di ideali e valori direttamente politici e sono alla ricerca del loro ruolo in società cambiate repentinamente. Le trasformazioni prodottesi negli stessi concetti di lavoro e lavoratore e l’evoluzione generazionale complicano il quadro. La Polonia è il più vasto dei Paesi ex socialisti entrati di recente nell’Unione europea. Le sue esperienze in ambito sindacale sono fortemente contrassegnate dall’attività svolta da Solidarnosc, l’organizzazione di matrice cattolica divenuta a suo tempo il simbolo della cosiddetta dissidenza: l’autorevolezza di tale organizzazione è stata scossa dal fatto che alcuni suoi settori hanno optato per un impegno politico diretto, partecipando alla creazione di un governo che in poco tempo è diventato impopolare, non solo per le scelte fatte sul terreno politico, economico e sociale, ma anche per essersi contrapposto all’organizzazione d’origine a causa dell’atteggiamento ostile di quest’ultima nei confronti dell’esecutivo stesso e del suo orientamento neoliberista. Questa circostanza ha aperto un dibattito interno sull’identità del sindacato e sul ruolo che esso deve assumere nel periodo post-comunista. Si è trattato di un problema per così dire esistenziale che ha riguardato anche l’Opzz, l’Alleanza di tutte le Unioni sindacali, organizzazione che vede la luce nel 1984, pur se diventa ufficialmente operativa l’anno successivo, e che ha un’ispirazione di sinistra. È significativo il fatto che Solidarnosc guardi a questo sindacato come al «vecchio sindacato di regime», il Crzz, riciclato con volto e nome nuovi. Accuse di questo genere, interne persino al mondo sindacale, fanno capire come il desiderio di una resa dei conti nei confronti di coloro che hanno avuto rapporti con le istituzioni e il potere del recente passato sia tutt’altro che estinto. Ciò evidentemente costituisce un serio ostacolo per la stessa attività sindacale. In Polonia, come negli altri Paesi dell’area, la transizione rovesciata dell’89 ha portato alla chiusura delle aziende statali considerate improduttive e imposto pesanti sacrifici alla maggior parte della popolazione. In poco tempo sono aumentati il tasso di disoccupazione e il malcontento sociale. D’altra parte, per i governi che da allora si sono avvicendati alla guida del Paese, si è trattato di costi da sostenere per la realizzazione di un’economia di mercato funzionante e in grado di dialogare con quelle dei Paesi occidentali. I sindacalisti polacchi raccontano che gli imprenditori stranieri, arrivati nel Paese per effettuare i loro investimenti, hanno in genere ritenuto di avere a che fare con una realtà priva di regole, nella quale potersi comportare a loro piacimento senza il minimo riguardo per i diritti dei lavoratori. Così, in Polonia, il problema è far rispettare un codice del lavoro al cospetto di esecutivi che hanno lasciato sistematicamente carta bianca a imprenditori senza M ASSIMO C ONGIU * I lavoratori dipendenti stentano a rivolgersi alle organizzazioni sindacali perché le considerano prive di potere contrattuale o perché hanno paura di perdere il posto di lavoro * R ICERCATORE E GIORNALISTA ECONOMIA E LAVORO scrupoli, stranieri o locali. Il tasso di sindacalizzazione del mondo del lavoro è diminuito notevolmente e oggigiorno l’opinione pubblica ha una vaga percezione dell’attività dei sindacati e della loro ragione di essere nella società. I lavoratori dipendenti stentano a rivolgersi alle organizzazioni sindacali perché le considerano prive di potere contrattuale o perché hanno paura di perdere il posto di lavoro: ciò vale specialmente per le donne, che se hanno figli piccoli risultano essere né più né meno che un peso per imprenditori i quali, come sempre, risultano essere molto poco sensibili agli aspetti sociali e molto attenti al profitto aziendale. Il problema grave è che c’è un deficit di sindacalizzazione e che quindi la maggior parte dei lavoratori ha meno strumenti per potersi tutelare a dovere. In un tale contesto, non è dunque affatto semplice inquadrare la dimensione lavoro, individuare una strategia operativa e impostare una lotta collettiva a tutela dei diritti e del salario. Qui, come nei Paesi vicini, la protesta e lo sciopero non sono strumenti di lotta particolarmente diffusi, anche se ciò non vuol dire che non ci siano stati in questi anni moti di protesta operaia, specie in Slesia, dove è tuttora acceso il dibattito sulla sorte del settore minerario e dei suoi addetti. Eppure, le condizioni di lavoro richiederebbero il massimo di capacità di mobilitazione: basti solo pensare che in determinati settori, quali ad esempio la grande distribuzione, si pone l’ele- 25 mentare problema del rispetto degli orari di lavoro, tutt’altro che garantito dalla proprietà. Nella Repubblica Ceca il sindacato più importante è la âmkos che, relativamente al suo Paese, tende a descrivere una situazione meno critica, caratterizzata dal fatto che l’istituzione sindacale gode di una maggiore credibilità presso l’opinione pubblica. I vertici della âmkos sottolineano la loro indipendenza dal governo e dai partiti e il loro impegno a migliorare le condizioni dei lavoratori, sia dal punto di vista dei salari, sia da quello della salubrità dei luoghi di produzione. Ma anche qui esistono problemi rilevanti. ll sindacato fa infatti parte, insieme al governo e agli industriali, di una commissione tripartita, incaricata di discutere e offrire soluzioni per le questioni del lavoro: nonostante tali premesse «concertative», in essa sono venuti progressivamente a latitare il dialogo e l’interazione fra le parti e, soprattutto, il confronto con i sindacalisti su argomenti di importanza decisiva quali la finanza pubblica e la riforma delle pensioni. Così, la âmkos ha dato priorità alla realizzazione di interventi per lo sviluppo regionale con la collaborazione dei sindacati locali. Anche nella Repubblica Ceca i governi battono sulla necessità di attuare riforme per modernizzare il Paese e renderlo più competitivo. Dal canto loro, i dirigenti del principale sindacato seguono un orientamento riformistico, di ricerca della mediazione sociale: essi sostengono di non essere pregiudizialmente ostili a cambiamenti, ma di volerne influenzare la direzione così che risultino meno gravosi per i lavoratori dipendenti e i pensionati. Questi ultimi rappresentano i settori più vulnerabili e maggiormente colpiti dalle riforme applicate in funzione dell’economia di mercato. In una realtà che come quelle limitrofe è caratterizzata da un processo di ridefinizione su base capitalistica degli equilibri socio-economici, dei modi di produzione e del ruolo dei lavoratori, l’attività sindacale cerca di capire come interagire con la società, portando avanti il difficile impegno per l’ottenimento di contratti collettivi e sollecitando il rafforzamento delle misure di tutela nei confronti dei soggetti più deboli presenti nel mondo del lavoro: i giovani, le persone in età pre-pensionabile, le donne, i diversamente abili. A complicare il quadro della Repubblica Ceca, c’è poi il fatto che in questo Paese non si può prescindere dalla considerazione degli scompensi territoriali, dei tassi di disoccupazione di diverse località della Moravia settentrionale, più alti del dato nazionale, e del recupero di zone gravemente segnate sotto il profilo ambientale dagli insedia- 26 menti industriali. La zona mineraria ha lasciato in eredità giacimenti a cielo aperto che, oltre a non concorrere più allo sviluppo economico del Paese, comportano danni ambientalmente considerevoli. La âmkos ha sollecitato interventi statali per recuperare e rilanciare queste aree che rappresentano la storia dell’industria ceca. In questi ultimi anni la Slovacchia ha attirato copiosi investimenti, soprattutto verso il settore automobilistico, che è diventato una realtà importante nel Paese. La produzione è consistente ed è destinata soprattutto ai mercati esteri. Tra gli attori presenti nel comparto ci sono le ditte asiatiche con le quali, secondo quanto afferma il Koz Sr, principale sindacato slovacco, i rapporti sono difficili, complicati da mentalità e concezioni del lavoro molto diverse. Il sindacato slovacco riferisce di difficoltà operative particolarmente rilevanti nel periodo dei due governi guidati da Dzurinda fra il 1998 e il 2006, i quali – il copione a quanto pare è sempre lo stesso – hanno privilegiato gli interessi degli imprenditori e trasformato la commissione tripartita in un organo puramente consultivo, di fatto ininfluente e incapace di condizionare le politiche del lavoro. Anche il Koz Sr mantiene un’ispirazione di riformismo moderato e ha salutato favorevolmente la vittoria nell’estate del 2006 dei socialdemocratici di Robert Fico, con i quali aveva raggiunto un accordo di cooperazione per il ripristino di una soglia minima di equità sociale. L’Ungheria sta attraversando un momento caratterizzato da gravi difficoltà economiche, da malcontento sociale diffuso e da un confronto serrato tra il governo di centro-sinistra e l’opposizione populista di destra. L’esecutivo, riconfermato alla guida del Paese nella primavera del 2006, ha attuato misure economiche drastiche, come al solito motivate dalla necessità di rimettere a posto i conti: l’esito è ovviamente quello di imporre pesanti sacrifici a una larga fascia di popolazione, ma soprattutto a pensionati e a famiglie a basso reddito. L’Mszosz, principale sindacato del Paese, vicino al governo, ha criticato soltanto il «carattere unilaterale» di queste decisioni, prese a prescindere dal confronto con le parti sociali. Anche qui prevale da parte del sindacato un atteggiamento «costruttivo», capace di fornire la base per un rilancio della collaborazione con il gabinetto guidato da Gyurcsány. Da un lato, gli investitori lamentano lo scarseggiare di manodopera qualificata e temono per la stabilità del Paese, scosso da forti manifestazioni di protesta. Dall’altro lato, il presidente dell’Mszosz, Péter Pataky, parla di pacificazione sociale e politica della realtà magiara, ritenendo così di concretizzare un clima adatto a perseguire gli obiettivi fisiologici di un’attività sindacale (integrazione delle zone meno sviluppate del Paese, occupazione, controlli nei posti di lavoro, applicazione di contratti collettivi, adeguamento dei salari rispetto all’impennata del costo della vita). I lavoratori dal canto loro non ripongono alcuna fiducia in un tale orientamento sindacale e ritengono il sindacato inutile, considerandolo debole e temendo per il proprio posto di lavoro. Il risultato è che ognuno sviluppa una strategia personale per sopravvivere, senza alcuna strategia collettiva. Come nota la sociologa Erzsébet Szálay, i giovani sono apatici, non in grado di formarsi un’opinione su quello che sta succedendo e sui propri bisogni; i lavoratori hanno perso coscienza del loro essere soggetti di diritto e parte di una comunità solidale, di una classe. Il Fidesz incarna l’opposizione al governo, alle sue iniziative partecipano le organizzazioni sindacali di destra che di recente hanno organizzato scioperi e manifestazioni. Lo scorso 9 marzo ha avuto luogo, ad esempio, un referendum sull’abrogazione dei ticket negli ambulatori e negli ospedali e della tassa universitaria. La consultazione è stata promossa e vinta dal Fidesz e dalle destre: è questo il preoccupante prodotto di tutta la suddetta situazione. Le ultime due adesioni all’Unione europea sono state quelle della Romania e della Bulgaria, entrate nell’Organizzazione il primo gennaio del 2007. Figurano come i Paesi più poveri dell’Unione. Il numero dei rumeni che lavorano all’estero è di circa 3 milioni, la maggior parte dei quali si trova in Italia e in Spagna. Ma, a sua volta, la Romania si prepara a fronteggiare un fenomeno di immigrazione dovuto alla crescita locale del settore edile e alla scarsità di manodopera: a parere del sindacato settoriale, nei prossimi quattro anni la Romania sarà costretta a importare forza lavoro dalla Moldavia, dall’Ucraina, dalla Turchia, dal Pakistan e dall’India. Le organizzazioni sindacali rumene si ritroveranno dunque, con tutta probabilità, a dover gestire un’ulteriore complicazione della questione sociale già di per sé difficile. Anche la Bulgaria, che ha forti squilibri interni e settori sociali in grande affanno, conosce il fenomeno dell’emigrazione. Si calcola che oltre 800.000 bulgari si guadagnino da vivere all’estero. La media è costituita da persone di età compresa fra i trenta e i quarantacinque anni provviste di un livello medio di istruzione. La maggior parte lavora nell’edilizia, nella ristorazione e nel settore agricolo, di norma senza previdenza sociale, senza mutua e senza alcun versamento di contributi nel Paese ospitante. Per concludere: l’Europa sociale e del lavoro come valore non solo teorico è purtroppo ancora lontana. ECONOMIA E LAVORO 27 S E I RISULTATI ELETTORALI DI QUESTI GIORNI SEGNANO CON STRAORDINARIA NETTEZZA I CONTORNI DI UNA GRAVE SCONFITTA PER LE FORZE DELLA SINISTRA POLITICA, L’INCHIESTA OPERAIA DELLA FIOM CHE PRESENTIAMO IN QUESTE PAGINE (CON GLI ARTICOLI DEL SEGRE- TARIO GENERALE DELLA FIOM GIANNI RINALDINI E DELLA SOCIOLOGA ELIANA COMO) CI PONE IMPORTANTI SPUNTI SU COME CARATTERIZZARE UN RINNOVATO CONFRONTO DELLE FORZE CHE SI RICHIAMANO AL LAVORO DIPENDENTE CON I TEMI DELLA RAPPRESENTANZA E DEL CONFLITTO SOCIALE. A PARTIRE, OVVIAMENTE, DAL MONDO DEL LAVORO, DOVE È PIÙ EVIDENTE QUELLA CRISI. L’INCHIESTA, COME SPIEGA APPROFONDITAMENTE L’INTERVENTO DI ELIANA COMO, PRESENTA UN MONDO DEL LAVORO OPERAIO CHE HA SUBITO IL DURO COLPO DEGLI ARRETRAMENTI DEGLI ULTIMI inchiesta Fiom 20 ANNI: A SPESE NON SOLO DEI SALARI, MA ANCHE DELLA CONDIZIONE LAVORATIVA, LETTA NON – SPECIALMENTE – COME VOCE DEL VISSUTO QUOTIDIANO DI OLTRE DUE MILIONI DI OPERAI. RIPETITIVITÀ E PRECARIETÀ, AUTORITARISMO E FLESSIBILITÀ, AUMENTO DEI CARICHI DI LAVORO ED EMERGERE DI NUOVE MANSIONI DAL CARATTERE NON GENUINAMENTE ESECUTIVO, SI FONDONO IN UNA CONDIZIONE LAVORATIVA NELLA QUALE SOLO DAL PUNTO DI VISTA ORGANIZZATIVO, MA LA PRODUZIONE POSTFORDISTA ASSUME I CONTORNI DI UN FORDISMO PORTATO ALLE ESTREME CONSEGUENZE. L’INTERVENTO DI GIANNI RINALDINI TRATTEGGIA, POI, IL QUADRO A TINTE FOSCHE CHE FA DA CONTORNO ALL’INCHIESTA OPERAIA. LE CAUSE DELL’ARRETRAMENTO DELLE RAGIONI DEL LAVORO, LA DISTANZA DEL DIBATTITO PUBBLICO INCENTRATO SULLA RIFORMA DEL MODELLO CONTRATTUALE COME SUGELLO AI MUTATI RAPPORTI DI FORZA. LA DIFFICOLTÀ DELLA SINISTRA, POLITICA E SOCIALE, A FARSI INTERPRETE DI QUESTO BISOGNO. E INFINE IL RUOLO DEL SINDACATO: L’URGENTE BISOGNO DI UNA NUOVA CONTRATTAZIONE, CHE METTA AL CENTRO PROPRIO QUELLA DIFFICILE «CONDIZIONE OPERAIA» CHE L’INCHIESTA DESCRIVE. NON SOLO UNA FOTOUNO STRU- GRAFIA DELLA REALTÀ, DUNQUE, MA LA DIREZIONE DA SEGUIRE PER MODIFICARLA. MENTO DI DEMOCRAZIA, PERCHÉ RIALLACCIA IL DIALOGO E L’ANALISI DOVE PER ANNI HANNO REGNATO L’INDIFFERENZA E LA CRISI DELLA RAPPRESENTANZA. UNO STRUMENTO DI LOTTA, PERCHÉ SERVE A COMPRENDERE LE CONTRADDIZIONI DEL MONDO DEL LAVORO PER TRASFORMARLE IN AZIONE POLITICA. M ANUELE B ONACCORSI metalmeccanici condizioni di lavoro e di vita 28 L a Fiom ha recentemente presentato i risultati di una inchiesta sulle condizioni di lavoro e di vita delle lavoratrici e dei lavoratori metalmeccanici. Non si tratta di una semplice indagine campionaria né tanto meno di uno dei tanti sondaggi di opinione, ma di una vera e propria inchiesta di massa, che pone una domanda di partecipazione e di ascolto, ma anche di visibilità di una condizione troppo spesso dimenticata. L’inchiesta rimette al centro le condizioni di lavoro e risponde a quanti, negli ultimi decenni, con l’obiettivo di svalorizzare il lavoro e di marginalizzare il conflitto, hanno voluto far credere che la classe operaia fosse sparita; in un Paese in cui – è bene ricordarlo – le lavoratrici e i lavoratori sono, nel solo comparto metalmeccanico, circa 2 milioni, oltre 5 se si considera tutto il settore industriale. L’inchiesta è stata condotta con la partecipazione di tutte le strutture regionali e territoriali della Fiom che, attraverso le delegate e i delegati, hanno distribuito circa 400.000 questionari in oltre 4000 imprese metalmeccaniche, su tutto il territorio nazionale e in tutti i comparti del settore, dalla siderurgia all’informatica. Sono stati raccolti così circa 100.000 questionari, di cui circa la metà (44,6%) compilati da lavoratrici e lavoratori non iscritti ad alcun sindacato. Si tratta di un risultato enorme, ben superiore alle aspettative. Di fatto, è la più grande inchiesta di massa mai realizzata in una categoria: fatti i calcoli su quanti sono le lavoratrici e i lavoratori del settore (compresi quelli artigiani), si può dire che circa cinque metalmeccanici ogni cento hanno risposto al questionario; anche di più se si considera soltanto l’industria manifatturiera. Promuovere una diffusione tanto ampia e capillare di questionari – oltre ad avere un ritorno importate dal punto di vista della rappresentatività statistica – ha permesso a tante lavoratrici e lavoratori di parlare della loro quotidianità e di raccontare in prima persona le loro condizioni di vita e di lavoro; in qualche modo, persino di denunciarle. Entrando nel dettaglio, i risultati dell’inchiesta si basano sulle risposte di circa 70.000 operai e 30.000 tra impiegati, tecnici e coordinatori. Le donne sono 20.000, quasi 35.000 i lavoratori con meno di 35 anni, più di 10.000 i precari, oltre 3000 i migranti. I dati parlano di una condizione di profondo malessere, a cominciare dalla questione forse più nota, cioè quella dei redditi: il 30% della categoria ha un reddito mensile che non supera i 1100 euro; un operaio guadagna mediamente 1170 euro al mese, anche se sono anni che lavora; un impiegato 1370. I redditi delle donne sono sempre più bassi di quelli degli uomini, anche a parità di livello, di anzianità lavorativa, persino di orario di lavoro. Mediamente, che sia operaia o impiegata, una donna guadagna almeno 200 euro in meno rispetto a un suo collega maschio. E anche tra due lavoratori entrambi precari, una donna guadagna comunque meno di un uomo. Non soltanto: la differenza in busta paga tra un operaio con più di 45 anni e E LIANA C OMO * Sono stati raccolti così circa 100.000 questionari, di cui circa la metà (44,6%) compilati da lavoratrici e lavoratori non iscritti ad alcun sindacato. Di fatto, è la più grande inchiesta di massa mai realizzata in una categoria * COORDINATRICE NAZIONALE DELL ’ INCHIESTA F IOM ECONOMIA E LAVORO uno che ne ha meno di 35 è di appena 100 euro al mese. Ciò vuol dire che chi dice che nel nostro Paese i bassi salari riguardano soltanto i giovani si sbaglia, perché guadagnano poco tutti, anche quelli che hanno una maggiore anzianità di lavoro. Certo, i redditi più bassi sono quelli delle lavoratrici e dei lavoratori precari, che sono il 10% degli intervistati (il 16% se si considera soltanto chi ha meno di 35 anni) e che nel 60% dei casi non arrivano a 1100 euro al mese. Dall’altra parte, c’è il tema degli orari e dell’organizzazione del lavoro. Un intervistato su quattro (26,3%) lavora più di 40 ore a settimana e circa la metà (48%) vorrebbe lavorare meno ore. Al 16,5% del totale degli intervistati capita di lavorare la notte; anche di più se si considerano soltanto gli operai (20%) e in particolare gli operai maschi (23%). Ancora di più sono quelli che lavorano il sabato, soprattutto tra gli operai e in particolare tra gli uomini (57%). Per molti, poi, si aggiunge il peso degli spostamenti per raggiungere il posto di lavoro, soprattutto nel Sud, dove un lavoratore su quattro (22%) impiega più di un’ora per andare e tornare dal lavoro: su questo, l’esempio dei lavoratori di Melfi basta per tutti. Le donne fanno meno straordinario, lavorano meno spesso di sabato e molto raramente la notte. Ma poi recuperano tutto a casa, tra cura dei figli e lavoro domestico, impegno che – se pure è maggiore per le donne che lavorano meno ore in fabbrica o in ufficio – non risparmia affatto le altre, cioè quelle che hanno un orario di lavoro normale. Così, quasi un’operaia su tre (31%) tra il lavoro vero e proprio e quello di cura della casa e dei figli lavora oltre 60 ore a settimana. Per la maggior parte degli intervistati, poi, il lavoro è ripetitivo (65%) e molto parcellizzato (atti e movimenti ripetitivi durano anche meno di 30 secondi), monotono (53%) e con ritmi di lavoro elevati (51%), dettati soprattutto da obiettivi di produzione, ma spesso anche dalla velocità di una macchina e dal controllo dei capi. I margini di autonomia reale – soprattutto per gli operai ma in parte anche per gli impiegati – sono molto ridotti, tanto che un operaio su quattro (24,4%) dichiara di non poter fare una pausa quando ne sente il bisogno. Tutto ciò è vero per tutti, ma per le donne ancora di più, poiché il loro lavoro è persino più ripetitivo e più monotono, i loro ritmi di lavoro sono più incessanti e i margini di autonomia e di controllo della prestazione minori. Alle asprezze e alle monotonie del fordismo si aggiungono poi le pretese e i rischi del postfordismo. La maggioranza degli intervistati – sia operai che impiegati, sia di alto che di basso livello – dichiara infatti che il proprio lavoro comporta il rispetto di procedure di qualità (87%), l’auto-valutazione della qualità (73,4%), la soluzione autonoma di problemi imprevisti (67,2%), l’apprendimento di nuove nozioni (64,5%). Questi elementi non cambiano nella sostanza i contenuti del lavoro, ma lo rendono semmai più stressante. Cioè l’aggravio di fa- 29 tica e di responsabilità del post-fordismo si sovrappone – e non si sostituisce – a una organizzazione del lavoro tradizionalmente taylorista. Ma c’è anche di più, perché il lavoro non è soltanto più stressante ma anche meno sicuro: nel sistema taylor-fordista classico, gli operai scambiavano una condizione di lavoro monotona e ripetitiva con le garanzie del posto fisso e l’accesso alla società dei consumi. Oggi, un lavoratore su tre (34%) teme di perdere il posto di lavoro e non in un futuro più o meno remoto ma da qui ai prossimi due anni. A rispondere così non sono soltanto i precari, per i quali evidentemente l’incertezza è una condizione strutturale, ma tutti, anche i lavoratori stabili e indipendentemente dall’area territoriale e dal comparto in cui lavorano. Insomma, la catena di montaggio non è affatto sparita, ma si è trasformata, con un aggravio di fatica e di stress, ma anche di insicurezza sociale e di incertezza del futuro. Non soltanto. I dati sull’ambiente fisico parlano anche di condizioni di lavoro faticose, disagiate e rischiose: le operaie e gli operai sono, infatti, largamente esposti a rumori molto forti (56,5%), vibrazioni (50,3%), vapori, polveri e sostanze chimiche (43,3%), movimenti ripetitivi di mani e braccia (68%) e posizioni disagiate che provocano dolore (32%). Una parte consistente degli operai dichiara anche che nel proprio lavoro è molto alto il rischio di farsi male (20%), fare male ad altri (12%) e contrarre malattie (17,3%). Su questo aspetto i dati sono incontro- Il 30% della categoria ha un reddito mensile che non supera i 1100 euro; un operaio guadagna mediamente 1170 euro al mese, anche se sono anni che lavora, un impiegato 1370 30 vertibili: il rischio di farsi male e di fare male ad altri aumenta linearmente con l’orario di lavoro e in particolare quando si lavora oltre le 40 ore a settimana. Inoltre, ben un operaio su cinque (20%) non è soddisfatto delle informazioni ricevute sulla sicurezza e meno della metà (47%) ha avuto contatti con l’Rls. Colpisce ancora di più che soltanto il 58% degli operai consideri il proprio posto di lavoro a norma, cioè dotato delle protezioni necessarie e minime per lavorare in sicurezza (nella siderurgia si arriva addirittura al 68%, più di un operaio su tre). Così, anche dopo pochi anni che lavorano, circa la metà degli operai – e soprattutto le operaie – già pensa che la propria salute sia stata compromessa a causa del lavoro (40%) e già ritiene che non ce la farà a svolgere lo stesso lavoro di oggi quando avrà 60 anni (60%). I disturbi più diffusi sono quelli muscolo-scheletrici (il 40,2% ha dolori alla schiena; il 34,2% a spalle e collo; il 30,8% a braccia e mani; il 25% alle gambe). Il 23,5% ha problemi di udito, il 27,8% denuncia tensione e stanchezza, ma anche irritabilità (21,5%), ansia (19%), insonnia (14,2%) e dolori allo stomaco (12%). Gli impiegati – anche in questo caso soprattutto le donne – lamentano, invece, soprattutto una condizione generale di stanchezza (27%) e disturbi agli occhi e alla vista (27%), legati in particolare all’utilizzo continuativo del computer. Per finire, i dati sui rapporti sociali dentro i luoghi di lavoro ci mostrano un sistema di carattere tradizionale, dove gli uomini comandano sempre sulle donne (i capi donna sono rarissimi) e dove le gerarchie si traducono spesso in autoritarismo e discriminazioni, soprattutto al Sud e nelle grandi imprese (dove circa il 20% degli operai ha subito intimidazioni), ma anche tra i più giovani e – soprattutto – tra i migranti. Tra questi, una parte consistente ha ricevuto provvedimenti disciplinari (11,4%) e ha subito intimidazioni (20%), ma anche discriminazioni legate alla nazionalità (27,6%) e all’etnia o alla razza (21,7%). Insomma, l’inchiesta della Fiom ricorda, a chi non se ne fosse accorto, che gli operai esistono e lavorano come 50 anni fa. Non soltanto: ricorda che esistono le operaie e che – se possibile – lavorano peggio dei loro colleghi uomini. Infatti, anche a una lettura veloce, il dato che colpisce più di tutti è quello della condizione di maggior svantaggio e di maggiore fatica delle donne. È un dato trasversale, che emerge in quasi tutte le domande: anche quando va male per tutti, per le donne va peggio. D’altra parte, per qualcuno già sarà una sorpresa il fatto che in una categoria che comunemente si considera molto maschile e in cui spesso si trascura la presenza delle donne e la si considera marginale, ci sia invece una vera e propria questione di genere, sia tra gli operai che tra gli impiegati. È bene ricordare, allora, anche questo: le donne sono un quinto della cate- goria e in alcuni comparti manifatturieri le operaie sono addirittura la maggioranza (nell’industria degli elettrodomestici e dell’elettronica sono il 40%, nella produzione di micro-componenti il 60%). Eppure, sono sempre concentrate nei livelli più bassi di inquadramento, guadagnano sempre meno degli uomini, fanno sempre un lavoro più ripetitivo, più monotono e più parcellizzato. Non soltanto: hanno più spesso degli uomini un contratto di lavoro precario e, in genere, i loro contratti sono più brevi e il percorso di precarietà più lungo. E su di loro pesa ancora, oltre alla fatica del lavoro produttivo, tutta quella del lavoro riproduttivo. Ma in ogni modo, i risultati dell’inchiesta parlano chiaro e forte a tutti: in questi anni le imprese non hanno investito sull’organizzazione del lavoro e hanno invece sistematicamente prodotto un aumento dello sfruttamento, i salari hanno continuato a perdere potere d’acquisto, le leggi sul mercato del lavoro e le pressioni padronali hanno determinato un utilizzo ancora più flessibile degli orari di lavoro e un aumento esponenziale della precarietà e dell’incertezza. Il prezzo lo hanno pagato tutti, donne e uomini, e chi pensa oggi di migliorare i salari scambiandoli con la produttività, sta chiedendo loro di lavorare ancora di più e ancora peggio. Però, oggi, non esistono altri margini di scambio e chi li chiede o li pretende viene dai dati dell’inchiesta totalmente smentito. ECONOMIA E LAVORO VORRESTI I LAVORARE… LIVELLO DI INQUADRAMENTO DELLE OPERAIE E DEGLI OPERAI 31 PENSI CHE POTRAI FARE LO STESSO LAVORO DI ADESSO A IL 60 ANNI? REDDITO NETTO MENSILE DI OPERAIE E OPERAI PER IL TUO POSTO DI LAVORO, INTRAVEDI NEI PROSSIMI DUE ANNI UN RISCHIO OCCUPAZIONALE? IL LAVORO HA COMPROMESSO LA MIA SALUTE… il valore politico di una ricerca di massa 32 Q uando abbiamo deciso come Fiom di svolgere una ricerca di massa sulle condizioni di lavoro e di vita delle lavoratrici e dei lavoratori metalmeccanici, vi erano tra di noi perplessità sul come sarebbe stata vissuta: tanto più a fronte di un questionario di oltre 120 domande che richiede 20/30 minuti per la compilazione. Chi conosce le fabbriche e i luoghi lavorativi sa bene che le lavoratrici e i lavoratori in entrata e in uscita vanno di fretta. Inoltre il tutto è stato svolto con il lavoro volontario attraverso i delegati, contemporaneamente all’impegnativa attività sindacale, al conflitto sociale. Insomma una scommessa dall’esito non scontato, una scommessa vinta che ha superato le migliori aspettative. Su oltre 400.000 questionari distribuiti ne sono rientrati circa 100.000, di questi oltre 15.000 compilati da impiegati; 3000 da migranti e più di 20.000 da donne. Da qui una prima valutazione. Quando le lavoratrici e i lavoratori percepiscono che qualcuno s’interessa della loro condizione, essendo essi non oggetto di ricerca ma soggetto attivo della ricerca, partecipano, rispondono positivamente e anche in questo modo esprimono un’esigenza, una domanda di rappresentanza. È significativo il fatto che circa il 50% dei questionari sia stato compilato da lavoratori e lavoratrici non iscritti ad alcuna organizzazione sindacale, così come è sorprendente la risposta degli impiegati (circa il 30%) che sfata l’idea di una loro estraneità alle iniziative sociali. Quello che le lavoratrici e i lavoratori ci dicono, ci raccontano è ben diverso dall’immaginario, dalle sciocchezze che in questi anni, direi in questi decenni, sono state dette fino a diventare senso comune, sulle trasformazioni del lavoro. Del resto basti pensare all’esaltazione, all’ubriacatura del lavoro autonomo che è stato rappresentato da destra e sinistra come la modernità che erodeva e sostituiva il lavoro subordinato. In realtà è successo esattamente l’opposto. La ripetitività e la parcellizzazione dell’attività lavorativa non è scomparsa, anzi viene denunciata anche da una parte significativa di impiegati. Questo non vuol dire che il lavoro sia rimasto immutato nel tempo, ma ciò che abbiamo di fronte è un processo di altra natura che sovrappone al lavoro ripetitivo (tecnicamente mutato) il controllo della qualità senza alcun riconoscimento professionale. La revisione della tempistica da parte dei gruppi industriali, dagli elettrodomestici all’auto, è fondata sulla eliminazione dei tempi morti, che vuole dire incrementare i ritmi di lavoro con nuove metodologie internazionali. È questo un residuo del passato? Una razza in via di estinzione? I metalmeccanici come gli indiani d’America? A me pare che sia vero l’opposto: l’estensione del taylorismo che diventa sempre più pervasivo del sistema delle imprese, dall’industria al commercio, ai call-center alle imprese di pulizie. Un’organizzazione del lavoro così concepita porta con sé inevitabilmente una struttura piramidale, gerarchica del comando, che si esprime nella pioggia dei provvedimenti disciplinari e in varie forme di pressione au- G IANNI R INALDINI * Il tutto è stato svolto con il lavoro volontario attraverso i delegati, contemporaneamente all’impegnativa attività sindacale, al conflitto sociale * S EGRETARIO GENERALE F IOM -CGIL ECONOMIA E LAVORO è facile prevedere che questa offensiva si svilupperà nei prossimi mesi, appena il tempo per scrutinare le schede elettorali, perché la posta in gioco riguarda il futuro del sindacato toritaria che vengono denunciate nella ricerca. L’insicurezza sociale, la precarietà come condizione generale di lavoro e di vita è un aspetto strutturale dei processi sociali nella fase del neo-liberismo e della globalizzazione. Questo emerge non soltanto disaggregando i dati della ricerca per età anagrafica, come l’anzianità lavorativa, ma come timore per il futuro che attraversa buona parte dei lavoratori. In realtà la precarietà si esprime non soltanto nella molteplicità dei rapporti di lavoro atipici, ma nell’esercizio della prestazione lavorativa, nella mutevolezza dei cicli economici, con la Cassa integrazione e la mobilità fino al licenziamento individuale senza giusta causa che viene oggi riproposto nel confronto politico. La situazione retributiva è parte fondamentale di questa condizione complessiva e non presenta particolari divaricazioni tra giovani e anziani, tra diverse anzianità lavorative. Le stesse differenze tra operai e impiegati, tra le diverse qualifiche, non hanno la dimensione di una diversa evoluzione retributiva nel corso di questi anni rispetto al potere d’acquisto. Altra cosa sono i dirigenti e una parte dei quadri che hanno dinamiche retributive di tutt’altra natura a partire dalla diffusione delle stock-option che sono una vera e propria truffa legalizzata. Esiste una questione salariale che coinvolge l’insieme del lavoro dipendente che va ben oltre i dati ufficiali dell’Istat: il 64% degli intervistati sostiene spese per mutuo o affitto dell’abitazione che nella stragrande maggioranza dei casi equivalgono a oltre 1/5 del reddito familiare, mentre l’Istat assegna alle spese per abitazione (comprensiva delle bollette per elettricità, gas e acqua) il 9,5% della spesa familiare. Più in generale l’indice inflazionistico per come è concepito non rappresenta un riferimento per il potere d’acquisto. Basti pensare al Tfr che viene utilizzato a partire dagli anni Novanta per avere una pensione dignitosa e di fatto comporta la riduzione dell’equivalente di un’intera mensilità rispetto al sistema previdenziale preesistente. Adesso tutti riconoscono che esiste nel nostro Paese una questione retributiva e – aggiungo – una redistribuzione della ricchezza dal lavoro alla rendita e al profitto che ha pochi precedenti. Ma le risposte sono di natura totalmente diversa. La Confindustria e buona parte del mondo politico in modo assolutamente trasversale sostengono che la responsabilità di questa situazione è determinata dall’esistenza del Ccnl e che la soluzione consiste nella contrattazione aziendale subordinata a produttività, bilancio e redditività dell’impresa, con una ulteriore riduzione del ruolo e della funzione del Ccnl come elemento di solidarietà generale. È funzionale a questa ipotesi la proposta di detassare il premio di risultato aziendale. È facile prevedere che questa offensiva si svilupperà nei prossimi mesi, appena il tempo per scrutinare le schede elettorali, perché la posta in gioco riguarda il futuro del sindacato, della rappresentanza sociale che in questo modo sarebbe ridotto a una dimensione di sindacato collaborativo e di mercato. Ciò che si vuole mettere in discussione è la stessa possibilità che si possa esprimere un altro punto di vista a partire dal lavoro dipendente, diverso dalla subalternità al mercato e al profitto. Non è un problema di sistema di regole contrattuali come se fosse un fatto tecnico, d’ingegneria contrattuale, ma di costruzione di una nuova stagione d’iniziativa contrattuale aziendale, territoriale e nazionale in grado di intervenire concretamente sulla prestazione lavorativa nei suoi diversi aspetti, da quelli retributivi a quelli normativi. Su questo terreno siamo chiamati a misurarci rispetto ai processi sociali in atto mettendo al centro delle nostre scelte la ricomposizione del ciclo lavorativo sempre più frantumato dalle scelte di terziarizzazione e appalti che come si dice oggi compongono il sistema a rete delle imprese. La contrattazione di filiera e di sito è un obiettivo da perseguire come scelta fondamentale per il futuro della rappresentanza sociale. Questo obiettivo deve essere parte di un processo che assume l’orizzonte dell’Europa come ambito del nostro operare. Pensare globalmente per agire localmente sono aspetti inscindibili della costruzione di un altro punto di vista rispetto al neo-liberismo che ha una dimensione planetaria. Mettere al centro la condizione di lavoro non come atto di propaganda, ma come scelta a cui finalizzare l’iniziativa sindacale apre a tutto campo un confronto e una ricerca che mira esplicitamente a cambiare i riferimenti assunti negli ultimi anni e definire le nostre autonome compatibilità come parte di un progetto generale. Questa è la sfida, il bivio che avremo di fronte nei prossimi mesi e la ricerca che abbiamo svolto deve favorire una discussione collettiva sulle decisioni che dovremo assumere. Una ricerca che ci consegna un’infinità di dati che andranno disaggregati tenuto conto che tutto è stato predisposto per successivi approfondimenti, da quelli di carattere generale operai/impiegati; uomini/donne; lavoratori migranti, lavoratori atipici, fino a quelli territoriali e aziendali. Come pare evidente, non è una iniziativa una tantum ma un percorso che potrà trovare nelle diverse realtà aziendali e territoriali ulteriori implementazioni. 33 nucleare? no, grazie 34 S i stanno moltiplicando, sulla stampa e in Internet, documenti e scritti, spesso ammantati di una certa autorevolezza scientifica, che indicano l’opportunità di ritornare a produrre elettricità con centrali nucleari. Le tesi revisioniste filo-nucleari sono basate sui seguenti punti: – l’elettricità nucleare non è associata alla produzione di gas serra; – l’elettricità nucleare non è inquinante, a differenza di quella ottenuta bruciando prodotti petroliferi e carbone; – l’elettricità nucleare costa, per kWh, meno di quella ottenuta dai combustibili fossili e, a maggior ragione, dalle fonti rinnovabili; – la produzione di elettricità nucleare permette di affrontare con tranquillità il problema del graduale impoverimento delle riserve di petrolio; – il problema della sistemazione delle scorie radioattive è fastidioso, ma è risolvibile. Come tutte le operazioni di revisionismo, tali tesi nascondono errori e bugie dietro alcune verità: – è vero che l’uso dei combustibili fossili comporta un aumento delle emissioni nell’atmosfera di gas (i cosiddetti «gas serra») responsabili del lento, continuo, riscaldamento planetario dell’atmosfera e degli oceani e dei mutamenti climatici; – è vero che le riserve mondiali di petrolio (presto, anche di gas naturale) stanno impoverendosi e i problemi di scarsità e di relativo aumento dei prezzi si faranno sentire in uno o due decenni, anche come conseguenza della crescente conflittualità associata al controllo politico e militare delle riserve; – è vero che l’estrazione, il trasporto e la combustione degli idrocarburi e del carbone negli attuali motori, centrali e macchine termiche, immettono nell’ambiente sostanze nocive; – è vero che l’estrazione del carbone comporta un alto prezzo di vite umane; – è vero che il calore o l’elettricità ottenuti dalle fonti energetiche rinnovabili, tutte direttamente o indirettamente di origine solare – calore a bassa, media o eventualmente alta temperatura, elettricità fotovoltaica o termoelettrica, dal vento o dal moto ondoso, calore dalla combustione di materie organiche derivate dalle biomasse – hanno, con le attuali tecniche, un costo in euro, per joule o per kWh, superiore a quello delle corrispondenti forme di energia ottenute dai combustibili fossili. Inoltre, i revisionisti sostengono che l’energia nucleare è sicura perché nelle molte decine di anni in cui alcune centinaia di reattori hanno funzionato ci sono stati due soli incidenti «importanti», quello di Three Miles Island negli Stati Uniti (1979), in cui non è morto nessuno, e quello di Chernobyl, in Ucraina (1986), che si è verificato in forma catastrofica perché era stato costruito dai comunisti. Infine, sostengono che la tecnologia nucleare comporta le difficoltà che G IORGIO N EBBIA * La contaminazione futura si può solo intuire perché mancano proposte affidabili di sistemazione delle scorie radioattive in modo che, per migliaia e decine di migliaia di anni (tempi più lunghi di quelli che ci separano dall’alba della rivoluzione del Neolitico) le materie radioattive non vengano a contatto con le acque e con esseri viventi * UNIVERSITÀ DI B ARI SOCIETÀ vedremo fra poco in maggiore dettaglio, ma le difficoltà sono sempre state incontrate da qualsiasi nuova tecnologia e la scienza e la tecnica le hanno sempre superate. Non è vero che l’energia nucleare risolve o attenua i precedenti problemi. Essa infatti non è né economica né sicura né pulita. Non è vero che è «economica»: se si fanno i conti del costo – non del prezzo, che con il costo non ha niente a che fare – dell’elettricità nucleare si vede che esso è ben più alto del costo dell’elettricità ottenibile dai combustibili fossili, da fonte idroelettrica o geotermica e anche da fonti rinnovabili. I costi monetari dell’elettricità nucleare devono essere calcolati in riferimento al suo intero ciclo: si comincia con i costi relativi all’estrazione dei minerali di uranio e alla relativa concentrazione a ossido, yellow cake, con formazione di grandi quantità di scorie, sia pur blandamente, radioattive (per ora omettiamo le considerazioni sulla dimensione, tutt’altro che infinita, delle riserve di uranio economicamente recuperabili). Seguono i costi della trasformazione per via chimica dell’ossido di uranio in esafluoruro di uranio, con formazione anche qui di scorie, sia pur blandamente, radioattive. A questo punto vi sono i costi della trasformazione dell’esafluoruro di uranio in un concentrato di esafluoruro di uranio contenente dal 3 al 5% di uranio-235, con formazione di sottoprodotti di uranio «impoverito» contenente meno dell’1% di uranio-235. Tale «arricchimento» in uranio-235 può avvenire con il vecchio processo di diffusione gassosa o con il processo di centrifugazione, entrambi basati sul fatto che il fluoruro di uranio-235 è «un poco» più leggero del fluoruro dell’uranio-238 pre- sente in ragione di circa il 99,3% nel minerale. Una parte dei costi di arricchimento è pagata dal fatto che il residuo di fluoruro di uranio «impoverito» può essere trasformato in uranio metallico, blandamente radioattivo, che, essendo un metallo pesante, trova impiego come zavorra per battelli e aerei e, essendo piroforico, trova «utile» impiego come proiettile di cannoni o di aerei. Il ricavato di questo commercio va detratto dal costo (ben maggiore) del processo di arricchimento. A questo punto vanno contabilizzati i costi di trasformazione chimica dell’esafluoruro arricchito di uranio-235 in ossido, che viene introdotto nei reattori per liberare calore per fissione nucleare, nonché i costi relativi alla costruzione e all’installazione del reattore e della centrale, costi che incidono sul kWh dell’elettricità nucleare sotto forma di una frazione (ammortamento) del capitale investito. Con un’ardita operazione contabile si possono far apparire bassi i «costi fissi» dell’impianto facendo apparire bassi i costi dell’impianto, del denaro e la durata della vita utile della centrale: più a lungo la centrale produce e vende elettricità, meno i costi fissi incidono sul costo del kWh elettrico nucleare. Sfuggono a una reale valutazione del costo dell’elettricità nucleare i costi coperti da finanziamenti pubblici, da concessioni da parte di enti pubblici dei suoli, dell’acqua di raffreddamento, della protezione da assalti, delle norme di sicurezza dei lavoratori e altri costi ancora. Ogni uno o due anni il combustibile deve essere estratto dal reattore, sotto forma di «combustibile irraggiato», ed entra in un’altra parte del ciclo che genera costi da attribuire all’elettricità prodotta. Il combustibile irraggiato deve stazionare per mesi o anni in una piscina sott’ac- 35 Esistono in funzione oltre 400 reattori nucleari, alcuni già abbandonati, ma che finiranno la loro vita utile entro alcuni decenni, e alla fine della loro vita utile i milioni di tonnellate di cemento, metalli e residui, tutti radioattivi, dovranno essere sepolti «da qualche parte», nessuno sa come e dove 36 qua, e anche questo costa. In seguito può seguire due strade, quella del recupero del plutonio con la separazione dai prodotti di fissione o di irraggiamento, e dall’uranio, con i relativi costi a cui vanno aggiunti altri costi sconosciuti, ma elevati, per la sepoltura per migliaia di anni dei residui radioattivi diversi dal plutonio. Tale operazione può peraltro avere anche un piccolo ritorno monetario sotto forma di plutonio venduto a fini militari, così come dalla vendita (nessuno sa a quale prezzo) del plutonio come «combustibile» per altri reattori nucleari in forma di ossido misto di uranio-plutonio (Mox). La seconda strada consiste nella sepoltura per migliaia di anni del combustibile irraggiato, nessuno sa come e dove né quali siano i costi delle prospezioni geologiche, della costruzione di gallerie sotterranee: ad esempio, quanto è costato ai cittadini italiani il tentativo di sistemare materiali radioattivi in un giacimento di sale a Scanzano Ionico? Le precedenti considerazioni indicano che qualsiasi «ragionevole» indicazione di un basso costo dell’elettricità nucleare è falsa, essendo noti (con forti incertezze) e contabilizzabili soltanto alcuni costi ed essendo del tutto sconosciuti in gran parte i costi complessivi. Il lettore avrà notato che non ho preso in considerazione nessun costo monetario associato agli esseri umani, come spese per il ricovero di operai o di persone esposte a radiazioni, perdita di ore di lavoro, spostamento di popolazioni dalle zone a rischio, costi della militarizzazione e del controllo poliziesco delle zone coinvolte con attività nucleari. Non è vero che la produzione di elettricità di origine nucleare è sicura; i casi sempre citati degli incidenti ai reattori di Three Miles Island («Tutti vivi ad Harrisburg», come scrisse ironicamente Dario Paccino) e di Chernobyl, dovuto alla nota arretratezza della tecnologia comunista (!?), sono solo due episodi di una lunga, e solo in parte conosciuta, serie di incidenti che hanno avuto effetti di inquinamento ambientale e di avvelenamento di lavoratori, incidenti verificatisi lungo l’intero ciclo di funzionamento delle centrali, di separazione e trattamento del combustibile irraggiato, di trasporto e smaltimento dei materiali radioattivi associati a tale ciclo. Non è vero che la produzione di elettricità nucleare è pulita. Inquinamenti radioattivi si verificano durante l’intero ciclo dal minerale alla sepoltura delle scorie, anche se in gran parte i dati sono poco noti; gran parte delle contaminazioni umane e ambientali è destinata a verificarsi – con certezza – in futuro. I più delicati punti di inquinamento sono associati alle attività minerarie, alla fase di trattamento chimico del minerale, alla fase di arricchimento, allo stesso funzionamento del reattore che inevitabilmente è accompagnato da, sia pure in genere abbastanza limitate, emissioni di elementi radioattivi nell’atmosfera e nelle acque. Ma la parte più inquinante del ciclo nucleare si ha nella fase di ritrattamento del combustibile irraggiato e, sotto forma di contaminazioni future e certe, nelle fasi di sistemazione e sepoltura delle scorie radioattive e di quanto resterà dei reattori dopo la fine della loro vita utile. La contaminazione futura si può solo intuire perché mancano proposte affidabili di sistemazione delle scorie radioattive in modo che, per migliaia e decine di migliaia di anni (tempi più lunghi di quelli che ci separano dall’alba della rivoluzione del Neolitico), le materie radioattive non vengano a contatto con le acque e con esseri viventi. Dovunque passa, il ciclo nucleare genera e lascia materiali radioattivi formatisi spesso per irraggiamento di parti di macchinari; lo si vede dalla circolazione di crescenti quantità di merci rese radioattive dall’impiego, nel loro ciclo produttivo, di materie che sono state a contatto con la radioattività delle centrali o dei vari processi. Anche in questo caso si hanno poche notizie sotto forma di scoperta di metalli radioattivi, soprattutto alluminio e acciaio, importati anche in Italia e provenienti da parti del ciclo nucleare, non solo come sottoprodotti di incidenti. Se si considera che esistono in funzione oltre 400 reattori nucleari, alcuni già abbandonati, ma che finiranno la loro vita utile entro alcuni decenni, e che alla fine della loro vita utile i milioni di tonnellate di cemento, metalli e residui, tutti radioattivi, dovranno essere sepolti SOCIETÀ 37 «da qualche parte», nessuno sa come e dove, si vede che davvero, con la scelta nucleare, è stato stretto quel «patto col diavolo» di cui scrisse Alvin Weinberg nel 1972. In cambio dell’elettricità il moderno Faust chiede alle società umane una lungimiranza, una capacità di controllo, un’onestà, una stabilità delle istituzioni e una vigilanza che nessuna società umana sembra capace di garantire. Finora ho cercato di indicare perché, a mio parere, deve essere fermata la moltiplicazione delle centrali nucleari e delle relative attività «commerciali». Esiste poi un mondo in cui gli stessi problemi, moltiplicati per molte volte, sono associati al ciclo nucleare relativo alla produzione di esplosivi e di materiali militari, dall’uranio ad alta concentrazione dell’isotopo 235, al plutonio, al trizio, un ciclo che, a maggior ragione, si può definire non sicuro e non pulito e che deve essere fermato, come chiede l’articolo VI del trattato di non proliferazione nucleare. Lo smantellamento delle armi nucleari esistenti e del ciclo nucleare militare pone problemi di sicurezza e di contaminazione radioattiva ancora più grandi di quelli del ciclo nucleare «commerciale», talvolta spacciato per «pacifico» ma che pacifico non è perché i suoi sottoprodotti trovano impiego in attività militari. Un ultimo commento merita l’affermazione, spesso ripetuta dal revisionismo nucleare, che il referendum del 1987 è stato un clamoroso errore dettato dalla frettolosa e sconsiderata pressione del movimento antinucleare. Esaminiamo brevemente perché il «popolo» italiano decise di vietare la costruzione di altre centrali nucleari e di interrompere il finanziamento Enel al reattore francese Superphenix, quel famoso reattore autofertilizzante che avrebbe dovuto produrre più energia di quella ricavabile dalla carica di uranio, e perché l’esito del referendum del novembre 1987 non fu dovuto soltanto allo spavento seguito alla catastrofe del reattore ucraino di Chernobyl, allora nell’Unione sovietica. Negli anni Cinquanta e Sessanta l’Italia era alla gloriosa avanguardia nel campo dell’energia nucleare; c’erano ambizioni di costruire una bomba atomica nazionale, una nave a propulsione nucleare, ma soprattutto i vari governi, sotto la pressione dell’Enel, volevano costruire «tante» centrali nucleari. Bisogna riandare al 1973 e alla prima crisi petrolifera, quando il prezzo del petrolio greggio schizzò, in pochi mesi, da 2 a 10 dollari al barile, e fece intravedere un’Italia a piedi e al buio; in quello spavento il governo del tempo non trovò di meglio che proporre il primo «programma energetico nazionale» del 1975, che prevedeva la costruzione di un numero imprecisato, fra 40 e 60, di centrali nucleari da 1000 megawatt 38 ciascuna, che sarebbero andate ad aggiungersi alle tre piccole centrali esistenti (in Piemonte, Lazio e Campania) e a quella ad acqua bollente costruita in Lombardia nella golena del Po a Caorso, fra Piacenza e Cremona. Già in quegli anni i dati disponibili mostravano che, dopo un avvio entusiasmante, la produzione di elettricità dalla fissione del nucleo atomico cominciava a mostrare i suoi limiti; sopravviveva bene negli Stati Uniti, nell’Unione sovietica, in Inghilterra e in Francia, dove le attività nucleari civili erano funzionali a quelle militari; il plutonio formatosi dall’uranio durante il funzionamento delle centrali veniva separato in impianti costosi e soggetti a incidenti e inquinamenti e aveva un «mercato» come esplosivo per armi atomiche; negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e Ottanta sono state esplose a fini sperimentali duemila bombe atomiche nell’atmosfera e nel sottosuolo. Ma l’Italia voleva ugualmente la sua gloria; molti si chiesero dove avrebbero potuto essere messe le tante centrali del primo programma energetico e che cosa sarebbe stato del combustibile irraggiato. Per farla breve, nel successivo «programma energetico nazionale» del 1977 il numero delle centrali nucleari previste era sceso a quattro, ma ciascuna da 2000 megawatt. Un’altra sul Po in Piemonte, una nel Mantovano, una nel Lazio a Montalto di Castro, una da qualche parte in Puglia. Chissà che qualche studente un giorno non faccia una tesi di laurea sugli errori e le menzogne e le compiacenze politiche di quegli anni; il materiale non è facile da ottenere. Una parte imponente, in corso di schedatura, si trova a Brescia presso la Fondazione Archivio Luigi Micheletti (si veda il sito www.fondazionemicheletti.it). Apparirà allora che le proposte di insediamento erano fatte su informazioni cervellotiche, senza tenere conto dei vincoli territoriali, sulla base di valutazioni di impatto ambientale approssimative e talvolta errate, e mirate a giustificare le scelte del governo e delle autorità locali attratte dalla gran quantità di soldi che lo Stato offriva a chi accettava una centrale nucleare nel proprio territorio. In questa generale confusione si verificò l’incidente al reattore americano di Three Miles Island (marzo 1979), a cui seguirono i lavori di una commissione sulla sicurezza nucleare, resi pubblici a Venezia nel gennaio 1980: neanche questo rallentò la passione nucleare. Le popolazioni condannate a ospitare le previste centrali nucleari intanto si informavano e perfino modesti contadini impararono a conoscere il significato di parole come isotopi, radioattività, plutonio, dose massima ammissibile, eccetera. E capirono perché non dovevano essere costruite le centrali né nel loro territorio, né altrove. Gli anni Ottanta sono stati caratterizzati dall’avvio della costruzione della centrale di Montalto di Castro che avrebbe dovuto produrre 2000 megawatt con due reattori ad acqua sotto pressione, dalle continue difficoltà del reattore (ad acqua bollente) di Caorso, dalle notizie sempre più scoraggianti sul funzionamento del «perfettissimo» reattore francese Superphenix nel quale l’Enel aveva investito, di soldi pubblici, un terzo del capitale iniziale, reattore definitivamente chiuso nel 1997 con la sua carica di sodio metallico e di plutonio. A Rotondella in Basilicata cominciava il ritrattamento delle barre irraggiate importate dal reattore americano di Elk River funzionante col ciclo torio-uranio, chiuso dopo appena tre anni, barre che i proprietari avevano provvidenzialmente rifilato all’Italia dove il lavoro di separazione delle varie frazioni altamente radioattive è stato inquinante e del tutto inutile. E le relative scorie sono ancora lì, sul mar Ionico. Quando si verificò la catastrofe al reattore di Chernobyl la protesta era già al culmine e da qui il risultato del referendum del 1987 che contestava gli sconsiderati programmi nucleari italiani. E qualcuno sta ancora pensando alla resurrezione del nucleare in Italia, incantato dalle promesse dei reattori di «terza generazione» che funzionano con il principio dei reattori ad alta pressione e che sono protetti da corazze più resistenti alle esplosioni dei contenitori degli attuali reattori nucleari «di seconda generazione». Si tratta di reattori da 1600 megawatt, di progettazione franco-tedesca, di cui uno è in costruzione in Finlandia a Olkiluoto e un altro dovrebbe essere costruito nella Francia settentrionale a Flamanville, nel dipartimento de la Manche. Inutile dire che l’Enel ha fatto sapere di partecipare a questo secondo progetto col 10% della spesa, non soddisfatta di tutti i soldi (pubblici) già perduti nel cofinanziamento dello sventurato reattore francese Superphenix. Circolano notizie che l’Italia vorrebbe partecipare alla costruzione di cinque (o dieci) di questi reattori (noi facciamo sempre le cose in grande), che comunque potrebbero cominciare a fornire elettricità dopo il 2020; se dovessero essere installati in Italia nessuno sa dove si trovino delle zone costiere in cui insediarli con un minimo di sicurezza. I problemi dell’energia saranno centrali nel governo del Paese nei prossimi decenni: per risolverli non occorre certo l’energia nucleare, ma una nuova maniera di pianificare approvvigionamenti, produzione e consumi, di pianificare la quantità e la qualità delle merci e dei servizi, condizione indispensabile per attuare una modernizzazione della ricerca, dell’industria, un aumento dell’occupazione e un miglioramento dell’ambiente. OPINIONI A CONFRONTO essere comunisti, perché? «comunisti» premesse per una definizione «Forse dovremmo iniziare a provare una certa angoscia per la perdita del nostro futuro». F. JAMESON, 2005 V LADIMIRO G IACCHÉ * Fine di una storia? S A mio avviso è precisamente la compresenza di questa diagnosi dei problemi e dell’avvertita necessità di un cambiamento a caratterizzare in primo luogo il comunista. Questa necessità deve aprire il varco verso il futuro econdo una nota formulazione del giovane Marx – richiamata anche nel dibattito che si sta svolgendo sulle pagine di questa rivista – il comunismo è «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». È difficile sottrarsi all’impressione che questa formulazione debba oggi subire un ironico rovesciamento: è lo stato di cose presente che ha abolito il movimento comunista, privandolo di ogni possibilità di futuro e cancellandone o distorcendone il passato – che comunque non ci offre alcuno strumento analitico utile per affrontare le sfide del presente. È questa, mi pare, anche la tesi di Piero Di Siena, il quale nega che il patrimonio consegnatoci dalla storia del movimento comunista oggi sia in grado di offrire strumenti utili a chi voglia rendere possibile la trasformazione sociale, anziché limitarsi a invocarne la necessità. Secondo questo punto di vista, oggi i comunisti sono portatori di una vuota teleologia, di un millenarismo senza oggetto che finisce per convivere da un lato con prassi concrete che non hanno nulla a che fare con una prassi di trasformazione dell’esistente, dall’altro con un culto della memoria sterile e patrimonio di cerchie iniziatiche sempre più ristrette. Millenarismo nebuloso, quietismo rosso, culto monumentale di un passato morto e sepolto. Estremizzo, ma non troppo. E del resto, chi di noi non ha nutrito qualche dubbio che il proprio essere «comunista» finisse per tradursi in questi atteggiamenti? Uno dei più riusciti personaggi impersonati da Corrado Guzzanti, il santone Quèlo, qualche anno fa ci ricordava che «la risposta è dentro di te – epperò è sbagliata». Anche nel nostro caso, forse è più facile ricevere le risposte giuste se le cerchiamo al di fuori di noi: cioè in quello che è successo nel mondo negli ultimi decenni. E quello che è successo (lo ricordava Bruno Steri) è una sconfitta epocale del movimento comunista internazionale, culminata nella caduta del muro di Berlino e nella fine dell’Unione Sovietica. Riflettere sulle principali conseguenze ideologiche di questa sconfitta non sarà inutile per riflettere sul senso che ha oggi dirsi comunista. Le conseguenze di una sconfitta * ECONOMISTA a) Perdita di credibilità di ogni alternativa di sistema al capitalismo. Assistiamo al trionfo dell’ideologia e della filosofia della storia liberali: per cui il capitalismo (che oggi si preferisce chiamare eufemisticamente «economia di mercato») è il punto di approdo della storia. L’unica variazione sul tema oggi accettata è quella «riformistica»: per cui senz’altro nella società capitalistica ci 39 40 sono molte cose che non vanno, ma hanno natura contingente e non strutturale. Allo Stato si potrà al massimo assegnare il compito di correggere le «inefficienze del mercato» e, al limite, operare blande politiche redistributive, o «di solidarietà» nei confronti dei «deboli», degli «umili», degli «ultimi» (gli pseudonimi più in voga per «sfruttati»). Secondo altre impostazioni – invero più coerenti – questo compito andrà invece attribuito senz’altro alla carità privata. Come è stato notato, neanche i «fondamentalismi religiosi che si contrappongono agli imperialismi americano e occidentale hanno mai assunto posizioni anticapitaliste», e quindi «il tardo capitalismo sembra non avere più alcun nemico naturale»1. Del resto, gli stessi movimenti di critica della «globalizzazione» condividono in buona parte con l’ideologia dominante la radicale sfiducia nella possibilità di un’alternativa di sistema al capitalismo. Lo dichiara, paradossalmente, lo stesso, fortunatissimo slogan secondo cui «un altro mondo è possibile»: parola d’ordine che, come una sorta di negazione freudiana, nega se stessa già soltanto attraverso la propria indeterminatezza (e lo conferma il fatto che a essa si accompagnano proposte che si guardano bene dal mettere in discussione gli attuali rapporti di produzione). b) Riconduzione dell’intera storia del «socialismo reale», e più in generale del pensiero e dei movimenti socialisti e comunisti, al concetto di «totalitarismo». Un’alternativa di sistema al capitalismo, oggi, non solo è ritenuta non credibile e non praticabile, ma anche non desiderabile. Di più: si è affermata una concezione della storia del Novecento in cui l’orizzonte di pace e di progresso economico determinato dalle cosiddette «democrazie liberali» sarebbe stato turbato dai due «totalitarismi», comunista e nazista. Chiuse queste parentesi orribili e insensate, archiviati questi due incidenti storici, ora la storia di progresso del liberalismo e capitalismo può riprendere il suo corso. La lettura oggi prevalente del comunismo come «parentesi sanguinosa» nella luminosa storia di progresso delle società capitalistiche e liberali coglie due obiettivi: da un lato quello di fare scomparire dall’orizzonte visuale la violenza (passata e presente, visibile e «invisibile») intrinseca a queste società e al dominio economico del capitale, dall’altro a esorcizzare e bandire sin da subito come «totalitario», «antidemocratico» e «liberticida» ogni tentativo di porre in discussione le radici economiche di questa violenza. c) Nichilismo storico. Luciano Canfora di recente ha osservato che con la fine dell’Urss è cambiata la stessa «prospettiva del giudizio storico»: il giudizio che anche molti non comunisti avevano espresso sugli eventi successivi all’Ottobre, «grandi e disumani sacrifici, ma forieri di un grande risultato», diventa ora: «grandi, disumani sacrifici, ma per nulla!»2. In questo modo l’esperienza bruciante della fine del «socialismo reale» sovietico sembra dare evidenza empirica alla «fine delle grandi narrazioni» predicata dai teorici del postmodernismo. Il punto di approdo per molti diviene così il nichilismo storico: la storia non ha un senso, è un’ininterrotta e irredimibile sequenza di violenze e atrocità. d) Rifiuto della centralità – e ormai dell’esistenza stessa – del conflitto di classe. La realtà dello sfruttamento scompare nelle raffigurazioni ideologiche contemporanee. Scompaiono le classi, la coscienza di classe, la lotta di classe: in qualche caso le nuove Costituzioni promulgate nei Paesi dell’Est europeo dopo il crollo dei regimi comunisti ne vietano addirittura la menzione. Questo avviene proprio mentre numericamente la classe dei salariati su scala planetaria, grazie alla progressiva distruzione delle comunità rurali, raggiunge vette mai toccate prima, e mentre la lotta di classe dall’alto condotta dalle classi dominanti – la cui coscienza di classe è più salda che mai – sposta decisamente a proprio favore i rapporti di forza nella società (precarietà di massa, aumento dell’orario di lavoro a parità di salario anche nei Paesi a capitalismo maturo, diminuzione della quota di reddito nazionale che va ai salari, distruzione progressiva della sicurezza sociale, privatizzazione dei servizi sociali). Trionfa invece, soprattutto a sinistra, l’ideologia dei «diritti», che del giusnaturalismo classico eredita l’astoricità e l’astrattezza. Purtroppo, infatti, non esistono «diritti» che si possano rivendicare in astratto, ma soltanto «bisogni» che solo attraverso le lotte possono venire riconosciuti quali «diritti»; e che – per questo stesso motivo – in presenza OPINIONI A CONFRONTO Il secondo tratto distintivo è ritenere che tale situazione non rappresenti un fato immutabile e che quindi il modo di produzione capitalistico non sia il punto di approdo della storia di mutati rapporti di forza possono venire perduti: ciò che appunto sta accadendo. e) Il consumatore contro il produttore. La scomparsa, fin nel lessico, del lavoratore, è un fatto. Per contro, sempre maggiore preminenza viene invece data, nel discorso politico ed economico contemporaneo, alle forme fenomeniche del «consumatore» e del «risparmiatore». Non mancano pasdaran del mercato i quali giungono ad applicare ai «consumatori» quella stessa categoria di «sfruttamento» che rifiutano se si parla di lavoratori3. È appena il caso di aggiungere che la centralità ideologica del «consumatore« (con tutto il suo bagaglio di «razionalità», «diritti» e addirittura «sovranità»), se è coerente con l’autopercezione di una società che ama definirsi «società dei consumi», d’altra parte rappresenta una formidabile arma di distrazione di massa dalla realtà oggettiva del lavoro. f) Costruzione di microidentità fittizie e tribalizzazione dei conflitti. Tra le conseguenze della scomparsa dall’orizzonte di una società alternativa all’attuale vi è la costruzione di identità e microidentità fittizie e comunque surrogate, che svolgono una duplice e importantissima funzione ai fini del mantenimento dell’attuale assetto sociale: da un lato quella di catalizzare l’insoddisfazione sociale e la propensione al conflitto su obiettivi socialmente «innocui», e all’occorrenza quella di rappresentare un comodo alibi per la repressione. Sul piano internazionale, in particolare, questo si traduce nella tribalizzazione dei conflitti, che avviene incanalando la protesta sociale sui falsi binari dell’«identità» etnica e dell’appartenenza religiosa. grande serietà) è senz’altro quello più angusto dal punto di vista dell’offerta. Si assiste insomma al curioso paradosso per cui, se il centro capitalista è sempre più chiaramente l’incarnazione dell’«immane raccolta di merci» di marxiana memoria, il «cittadino-consumatore» che vi abita si trova a dover scegliere in rebus politicis prodotti sempre più insapori e uguali tra loro. Al punto che ormai lo stesso principio dell’alternanza è venuto meno e ha lasciato il posto, in Germania, direttamente a un’alleanza tra i principali partiti, e in Francia alla cooptazione in massa di dirigenti del partito socialista all’opposizione nel governo gollista o direttamente nello staff del presidente Sarkozy. Del resto, se ogni orizzonte di cambiamento sociale è escluso a priori dall’ambito del possibile e del praticabile, o addirittura dal dicibile, la politica non potrà poi consistere che nel garantire la migliore esecuzione amministrativa alle scelte che vengono assunte da chi detiene il potere economico. Al riguardo si dimostrano profetiche le parole di Debord: «È la prima volta nell’Europa contemporanea che nessun partito o frammento di partito tenta più anche solo di affermare che cercherà di cambiare qualcosa di importante. La merce non può più essere criticata da nessuno»4. Tutto questo accade mentre in Europa e fuori tornano le guerre, mentre le sperequazioni sociali si approfondiscono e i problemi ambientali si fanno sempre più drammatici, e – da ultimo – mentre una crisi creditizia e finanziaria di proporzioni inedite costringe il Mercato, per alleggerire i propri problemi, a rivolgersi (ma guarda un po’) proprio a quel noto ente inutile e parassitario rappresentato dallo Stato. Per una definizione g) Declino della democrazia formale. Il restringersi dell’orizzonte di possibilità provocato dall’eliminazione di quell’«altro mondo realmente possibile« (anche se per molti versi tutt’altro che desiderabile) che era rappresentato dalle «società socialiste» ha avuto precise e gravi conseguenze sullo stato di salute della democrazia nel mondo. Questo è vero già anche soltanto da un punto di vista formale. Il «mercato elettorale« (comica espressione, che purtroppo sempre più spesso viene pronunciata con «Comunismo è un concetto che ancora mi piace. Mi piace perché indica l’idea generale di un mondo in cui la società non è organizzata sui rapporti classici di ricchezza e di oppressione, statale o sessuale». A. BADIOU, 2007 Rispetto a tutto questo, per definire il proprio «essere comunisti», forse la prima cosa da fare è proprio quella 41 42 di abbracciare l’atteggiamento che lascia perplesso Piero Di Siena: muovere dalla necessità di un futuro diverso. Questa necessità, in modo abbastanza sorprendente, sembra condivisa anche da Pascal Lamy, l’attuale direttore dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, il quale in una recente intervista ha affermato: «Faccio parte di coloro che pensano che si debba continuare a cercare delle alternative al capitalismo. Il capitalismo non ci può bastare… Un esempio: crede che ci sarà possibile controllare con successo i cambiamenti climatici senza porre vigorosamente in questione la dinamica del capitalismo?… Si tratta di fenomeni che il capitalismo e il suo sistema di valorizzazione non permettono di affrontare»5. Sono affermazioni utili se non altro a dirci quanto negli stessi piani alti dell’establishment mondiale si vada diffondendo la consapevolezza dell’insostenibilità della situazione attuale. Non si vede perché ciò che è concesso a Lamy non debba essere concesso a noi, o ci debba costare l’accusa di essere utopisti fuori dal tempo o cupi venditori di sogni totalitari. Quindi, proviamo a partire proprio da qui. Il primo tratto distintivo di un comunista è il fatto di ritenere che nella configurazione dell’attuale modo di produzione, nella modalità privata di appropriazione della ricchezza sociale e nell’anarchia della produzione che lo contraddistinguono, risieda l’origine principale degli attuali problemi del mondo. A mio avviso è precisamente la compresenza di questa diagnosi dei problemi e dell’avvertita necessità di un cambiamento a caratterizzare in primo luogo il comunista. A scanso di equivoci, il punto di partenza deve essere la presente necessità del cambiamento. Questa necessità deve aprire il varco verso il futuro – e non viceversa: non è il futuro che «ci chiama», non c’è alcuna «missione» metafisica da compiere, come voleva un certo messianismo rivoluzionario (peraltro del tutto estraneo a Marx, al quale viene talvolta addebitato). Ha ragione José Saramago, il quale ha affermato: «non credo nelle utopie, credo nella realtà e nella sua trasformazione»6. Il secondo tratto distintivo è ritenere che tale situazione non rappresenti un fato immutabile e che quindi il modo di produzione capitalistico non sia il punto di approdo della storia. Che l’umanità giunga a dirigere consapevolmente il proprio sviluppo anziché lasciarne la direzione alle forze «impersonali» del mercato capitalistico, è non soltanto necessario, ma anche possibile. Non c’è alcuna legge storica che lo vieti, anche se ci sono corposi interessi materiali che lo impediscono. Lo stesso fatto che il tentativo sovietico di superare il capitalismo non abbia funzionato non equivale a dire che ogni tentativo sia votato al fallimento. Un conto sono i concreti rapporti di forza tra le classi, che oggi sono assai sfavorevoli, un altro è l’impossibilità logica. Un conto è essere consapevoli circa le concrete difficoltà di attuare un’efficiente pianificazione dell’economia, un altro è ritenere che la concorrenza capitalistica rappresenti la forma più perfetta possibile di organizzazione della produzione e degli scambi. È questa convinzione che il cambiamento sia non soltanto necessario, ma anche possibile, a distinguere l’atteggiamento dei comunisti dal fatalismo capitalistico oggi così diffuso anche a sinistra. Diffusione che non desta meraviglia, se solo si pensa che l’impossibilità di un futuro qualitativamente diverso dal nostro presente è tra le più consolidate e granitiche certezze ideologiche dei nostri giorni. Si tratta di un presupposto che in genere non è neppure più necessario esplicitare, ma che all’occasione può essere espresso apertamente e senza giri di frase. Come è accaduto a quella giornalista economica che, recensendo l’ultima opera di John Galbraith, L’economia della truffa, dopo aver puntigliosamente elencato tutti i capi d’accusa dell’autore nei confronti degli sviluppi del capitalismo contemporaneo, ha ritenuto di chiudere così la sua recensione: «è tutto clamorosamente vero. Ma pare più un urlo di dolore che un tentativo di offrire una ragionata soluzione alle debolezze di un sistema che non è perfetto, ma il migliore possibile»7. Rispetto a certezze come queste, non si può non considerare il dubbio come l’atteggiamento rivoluzionario par excellence dei nostri giorni. OPINIONI A CONFRONTO Il terzo tratto distintivo è operare concretamente al fine del superamento dell’attuale modo di produzione. Essere comunisti non equivale ad avere una «visione del mondo», distinta e scindibile da una concreta prassi trasformatrice (lo ha messo bene in luce Sergio Cararo nel suo intervento su queste pagine). Ovviamente le concrete declinazioni di questo terzo tratto distintivo possono essere molto diverse tra loro. Ma sino a un certo punto: non occorrono studi teorici particolarmente approfonditi, ad esempio, per capire che privatizzare una municipalizzata non rappresenta un grande contributo al superamento del capitalismo. Ritengo che le tre caratteristiche tratteggiate costituiscano tuttora una buona base per caratterizzare chi è comunista rispetto a chi, pur collocandosi a sinistra, non lo è. Altri tratti distintivi, come ad esempio la difesa della storia del movimento operaio, sono in qualche modo derivabili da quelle caratteristiche. Per un motivo molto semplice: soltanto chi ha un presente e un futuro possiede anche un passato. Soltanto chi ha una chiara posizione nelle lotte presenti, soltanto chi crede e sa di avere una prospettiva futura potrà difendere un passato, intenderlo come parte integrante della propria storia. A questo riguardo vale la pena di rammentare un’affermazione di Walter Benjamin: «la storia ha il compito non solo di impossessarsi della tradizione degli oppressi, ma anche di istituirla»8. Detto in altri termini: è il nostro attuale punto di vista che determina il nostro rapporto con la nostra tradizione e la sua stessa configurazione, e non viceversa. È senz’altro vero che identità, coscienza e memoria sono strettamente legate tra loro. Da questo punto di vista, la perdita di ciò che un tempo si usava definire «coscienza di classe» è stata anche perdita della «memoria di classe», smarrimento del filo rosso delle esperienze e delle lotte passate. Questo ha contribuito ad allargare il fossato tra ideologia ed esperienza sociale non meno del declino della grande fabbrica e dell’affermarsi di forme nuove di lavoro e di sfruttamento. Ha senz’altro ragione John Berger quando sostiene che «il modo più efficace per distruggere il senso di identità di qualcuno è demolire e frammentare meticolosamente la storia che una persona si è raccontata fino a quel momento sulla sua vita, cancellare il passato»9. Si tratta di parole che si attagliano perfettamente all’operazione culturale e massmediatica che è stata condotta con successo in questi anni contro la storia del movimento comunista. Al «senso comune» anticomunista che è stato così creato non bisogna arrendersi, a differenza di quanto sembra ritenere Luigi Cavallaro10. Ma è sbagliato pensare che la storia sia fondante per l’azione presente e, quindi, per la proiezione nel futuro. È vero il contrario: solo a partire da una precisa consapevolezza delle necessità presenti e da una fiducia nel proprio futuro è possibile recuperare un senso al proprio passato, confrontarsi criticamente con esso, valorizzarlo e difenderlo. «La nostra identità è davanti a noi»11. O non è affatto. 1. F. Jameson, Il desiderio chiamato Utopia, 2005; tr. it. Feltrinelli, Milano 2007, p. 10. 2. L. Canfora, L’occhio di Zeus. Disavventure della «Democrazia», Laterza, Roma-Bari 2006, p. 98. 3. È il caso di A. Alesina e F. Giavazzi, che nel loro Il liberismo è di sinistra affermano tra l’altro, con solennità degna di miglior causa: «ogni protezione dei produttori corrisponde a uno sfruttamento dei consumatori« (Il Saggiatore, Milano 2007, p. 49). 4. G. Debord, Commentarii su la società dello spettacolo, 1988, § VIII. 5. P. Lamy, Nous ne pouvons pas nous satisfaire du capitalisme, intervista di D. Fortin e M. Magnaudeix, «Challenges.fr», 6 dicembre 2007; l’intervista è consultabile su internet: http://www.challenges.fr/recherche/20071 206.CHAP1022615/anous_ne_pouvons_pas _nous_satisfaire_du_capitalismea.html. 6. J. Saramago, L’innocenza perduta, in Questo mondo non va bene. Che ne venga un altro, Datanews, Roma 2005, p. 105. 7. M. Ravalico, L’urlo di Galbraith sulle truffe a stelle e strisce, «Finanza & Mercati», 12 maggio 2004; corsivi miei. 8. W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, p. 93 (Materiali preparatori delle tesi); corsivo mio. 9. J. Berger, Abbi cara ogni cosa. Scritti politici 2001-2007, Fusi orari, Roma 2007, p. 133. 10. L. Cavallaro, Il sipario strappato del secolo breve, «il manifesto», 1 aprile 2008. 11. Jean-Marie Tjibaou, cit. in M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004, p. 135. 43 comunismo utopia, appartenenza, dissenso 44 È curioso come una «rappresentazione didattica» di Bertold Brecht possa contenere, a mio avviso, un potente grumo di questioni che hanno attraversato teorie e pratiche del movimento comunista, e cioè il rapporto tra libertà individuale e libertà collettiva, fini e mezzi, forza e violenza, uguaglianza e libertà, uguaglianza e differenza. La «rappresentazione didattica» ha un nome paradigmatico, «la linea di condotta». La scena- come si ricorderà- si svolge tra i quattro agitatori venuti da Mosca a verificare la giustezza della linea e il «giovane compagno» segretario di una sperduta sezione al confine con la Cina, che chiede macchine agricole e sementi perché i contadini possano lavorare la terra, precisando di essere in pochi, affamati e logori, contro la violenza della fame, della spossatezza e della controrivoluzione. Ma i quattro emissari del Comitato Centrale portano la dottrina, la coscienza di classe e l’esperienza della rivoluzione; essi non sopprimono la miseria ma discutono come eliminarne la causa. Il giovane compagno si unisce ai quattro e si reca a fare propaganda in Cina, in un luogo dove massimo è lo sfruttamento dei coolies – lavoratori non qualificati, reclutati spesso con la forza o con contratti capestro – che trascinano penosamente una barca piena di riso e che vengono frustati dal sorvegliante. Ebbene, il giovane compagno a quella scena commette una debolezza, si fa prendere dalla compassione e così danneggia il movimento che intende propagandare la rivoluzione con atteggiamenti individualistici, come pure di fronte a un mercante di riso che sfrutta i coolies si mostra indignato, non riesce a fingere e perde la possibilità che il mercante gli dia le armi per i coolies. Il giovane compagno con la sua impazienza e con le sue iniziative individualistiche (non dettate dalla ragione ma dalla compassione) danneggia il movimento e ai quattro agitatori che lo richiamano a Lenin e ai classici chiede: «i classici tollerano che la miseria aspetti?» e poi dice: «l’uomo vive, urla, e la sua miseria abbatte gli argini della dottrina». A quel punto, nel vedere che il giovane compagno vuole allontanarsi, i quattro agitatori gli rivolgono la frase «non percorrere senza di noi la via giusta, non staccarti da noi». Ma quando vengono smascherati uccidono il giovane compagno e lo gettano nella cava di calce per non essere riconosciuti e non danneggiare il partito, con l’accordo dello stesso giovane compagno, il quale si dichiara convinto di aver sbagliato e di meritare la morte. Ho ricordato a me stessa, ai lettori e alle lettrici questo testo che mi sembra emblematico della complessità teorica e pratica della discussione sul comunismo e sul movimento comunista. Il testo nella sua apparente rigidezza dottrinaria, nella esaltazione della priorità della lode del partito, nella «giustificazione» della eliminazione fisica e I MMA B ARBAROSSA * Non fu questo uno dei punti deboli del socialismo realizzato? Quando si volle affidare a uno Stato la realizzazione della felicità? * S EGRETERIA NAZIONALE P RC -S E OPINIONI A CONFRONTO Sappiamo anche che la rivoluzione, come la democrazia, non si esporta né si espande con le armate, nemmeno con quelle rosse. Né si impone, appunto, per decreto mentale del «deviante», nel mettere in evidenza la necessità di una rivoluzione generale lunga costruita con la dottrina contro una azione impulsiva contingente e destinata al fallimento, in realtà vuole mettere in luce i dubbi di una dottrina che passa non solo sui «sentimenti» e sul dolore dell’umano, ma anche sulla condizione reale delle masse degli sfruttati. Non fu questo uno dei punti deboli del socialismo realizzato? Quando si volle affidare a uno Stato la realizzazione della felicità? Mi rendo conto che il discorso è complicato, ma se vogliamo chiederci perché essere comunisti/e e che senso ha oggi, penso che occorra tenere presente tutte le questioni. Personalmente non riesco a pensarmi se non comunista, esattamente come non riesco a pensarmi se non femminista. Come stanno le due cose insieme, questo è il problema. Giacché la tradizione comunista è una tradizione maschile e patriarcale, nelle forme dell’organizzazione, nel simbolico, nella cultura dei dirigenti a ogni livello, nella sacralizzazione della figura del segretario, nella scissione formalizzata tra personale e politico. Se devo fare riferimento alla mia biografia personale, devo dire che sono diventata femminista fuori dal partito comunista, per una scelta di «parte», durante il dibattito degli anni Settanta, sulla violenza sessuale, sul divorzio, sull’aborto, nel movimento delle donne e nel movimento per la pace. Nel 1988 la parte di sinistra del Pci costituì a Bari in una grande assemblea, l’Associazione per la Pace: mi ci buttai, come pure con le donne in Nero. La pratica delle donne in Nero mi aiutò a trovare gli strumenti teorici della critica al socialismo reale, al militarismo e al nazionalismo degli stati socialisti. Manifestavo in Serbia contro Milosevic, come a Gerusalemme contro il governo israeliano. Finché non arrivò l’’89, dove sono finite tutte le certezze e dove davvero poteva cominciare un comunismo di tipo nuovo, che in Italia era possibile. Non fu così, cominciarono tutte le abiure. Rosa Luxemburg, nel Programma di Spartaco, affermava che era un’illusione che «sarebbe bastato soltanto rovesciare il vecchio governo e porre in sua vece un governo socialista»; «poi si sarebbero emanati i decreti che instauravano il socialismo». E poi «noi dobbiamo lavorare dal basso» e cioè nel cuore dello sfruttamento, di ogni proletario e proletaria sfruttati e nella coscienza di ognuno/a. Sappiamo che non avvenne così, che i consigli dei soviet furono depotenziati dallo stato socialista e che molti spunti dei programmi rivoluzionari si tentò di attuarli «per decreto». Sappiamo che gli eserciti degli stati socialisti furono impegnati a sedare le cosiddette «controrivoluzioni» nelle varie «periferie», da Budapest a Praga fino a Sarajevo e alla Cecenia, passando per Tien an Men. Sappiamo anche che la rivoluzione, come la democrazia, non si esporta né si espande con le armate, nemmeno con quelle rosse. Né si impone, appunto, per decreto. Rosa fu uccisa dall’«interno» del suo «campo», come Olympia de Gouges. Lenin e Stalin furono compianti ed ebbero funerali di stato. Ma la storia davvero a questo proposito non è la storia dei vincitori, ammesso che Lenin e Stalin abbiano vinto. La storia è anche quella dei vinti, è anche la grande storia del prigioniero Antonio Gramsci, il cui cervello – nonostante tutto – non smise mai di pensare. Ma allora come la mettiamo con il comunismo e il Novecento? Sono tutte macerie da lasciarci alle spalle, felici e gioiosi verso nuovi inizi? Non si tratta piuttosto di un dramma irrisolto, non è che finché c’è il capitalismo avremo bisogno di una teoria che ne metta a nudo i caratteri nuovi e inediti di dominio e sfruttamento e di una pratica che sostenga le lotte? Qui mi rifaccio a un’altra lettura, quella che ha segnato profondamente la mia formazione degli ultimi venti anni e che – secondo me – è la più grande messa in scena di una critica comunista agli stati socialisti. Si tratta della Cassandra di Christa Wolf, la grande scrittrice della Ddr. Siamo alla prima guerra di una storia mitologica, la guerra di Troia. Troia rappresenta la città felice, la città dell’Est, che viene aggredita 45 dagli Occidentali Greci che si apprestavano a dominare nella parte orientale del mar Egeo. A contatto con l’aggressione si corrompe, piano piano diventa uno stato di polizia, dove tutti sono sospettati, persino Cassandra la figlia del re. Troia cade sotto i colpi dell’astuzia e della forza dell’Occidente, ma gli dei vogliono salvare la stirpe dei Troiani, assegnando ad Enea la missione di fondare in Occidente un impero, quello di Roma, che dominerà il mondo. Ma ad Enea che lo invita ad andare con lui Cassandra risponde: «Io resto». 46 Non si tratta di una acritica scelta di campo, Cassandra pre-vede il futuro perché sa leggere il presente, Cassandra non accetta la trasformazione di Enea in un monumento, in un eroe conquistatore e colonizzatore; nella impossibilità di ri-costruire la sua città su nuove basi, accetta di condividere la sorte dei suoi compagni e delle sue compagne. Fin qui la storia, ma non è detto che noi non riusciamo a ri-costruire la nostra città, il nostro luogo politico. Quello che secondo me non va fatto è lasciarsi alle spalle la radicale critica dell’esistente, in tutte le sue forme, il capitalismo e il patriarcato. Quello che non va fatto secondo me è il cedere alle sirene di un presente fantasmagorico che mi pare una sorta di discoteca che all’alba sembra una discarica. Ecco per me che significa essere comunista: comunismo è utopia, passione e – diciamola la parolaccia – appartenenza; comunismo è il punto di vista critico sul mondo, è capacità di mettere in discussione se stessi, la «linea di condotta», l’autorità, il potere. Decostruire il potere dal basso, che oggi va di moda. Comunismo è dissenso, disobbedienza, messa in discussione dell’ordine costituito e del cattivo realismo. IDEE una discussione con Giuseppe Chiarante a proposito del libro Con Togliatti e con Berlinguer Dal tramonto del centrismo al compromesso storico (1958-1975), Carocci, Roma 2007 A LBERTO B URGIO * T ema portante di questo libro – il secondo che Giuseppe Chiarante dedica al bilancio della propria esperienza – è l’idea che l’efficacia di una forza politica (soprattutto di una forza politica interessata al mutamento progressivo della società) sia in larga misura determinata dalla sua capacità di leggere le trasformazioni in atto: le trasformazioni, le tendenze, i fattori di dinamismo operanti nel quadro sociale e politico in cui agisce. È l’idea di Gramsci alle prese con le risposte capitalistiche alla crisi post-bellica. Com’è noto, i Quaderni del carcere insistono sull’esigenza di cogliere, in quelle risposte, la forza dinamica del sistema, pur sfidato dalla «crisi organica». Ragion per cui del fascismo e del fordismo pongono in risalto i connotati innovativi, per quanto attiene non solo alle forme dell’egemonia ideologica, ma anche al terreno economico-sociale: intervento statale in economia e programmazione economica; continuum fabbrica-città e taylorismo. Nessuna chance è concessa, a giudizio di Gramsci, alle forze antisistemiche che non sappiano cogliere le novità del capitalismo novecentesco o ne sottostimino le potenzialità trasformative. Pensi o meno Chiarante a questo suo precedente classico (al quale peraltro si dichiara a più riprese vicino), anche la sua riflessione appare, in questo libro, fondata su tale premessa. Che le procura una assai pertinente chiave di lettura. P osta la premessa, ecco la domanda: fu in grado il Pci – in particolare il Pci dopo Togliatti – di leggere la società italiana (e, va da sé, anche il quadro politico) nel tempo del centro-sinistra e sino alla metà degli anni Settanta? Si mostrò quel partito all’altezza delle sfide poste dai conflitti e dai mutamenti occorsi in un ventennio (1958-1975) che si rivelò «decisivo» sia per le speranze suscitate e per la profondità dei movimenti che percorsero la società italiana, sia per gli ostacoli e le contraddizioni che impedirono un compiuto rinnovamento? Il 1958 è l’anno dell’ingresso di Chiarante nel Pci, dopo la militanza nella sinistra di Base della Dc che lo aveva portato, giovanissimo, all’elezione nel Consiglio Nazionale del partito di De Gasperi1. Già a questo riguardo conviene sottolineare un primo elemento: Chiarante entra nel Pci proprio quando molti dirigenti e intellettuali ne escono, colpiti dalle rivelazioni di Chruščëv sulle degenerazioni dello stalinismo al XX Congresso e dal trauma di Budapest. La sua è dunque una scelta controcorrente. Consentita, certo, dal coraggio e dall’indipendenza di giudizio. Ma motivata da precise ragioni politiche: la funzione dell’Urss quale punto di riferimento per il movimento anticoloniale e per i Paesi non-allineati; il suo ruolo di bilanciamento e argine allo strapotere e alla politica imperialista degli Stati Uniti e dei loro alleati occiden- Chiarante ha modo di analizzare in presa diretta i grandi problemi posti in una società di capitalismo maturo (qual è ormai, negli anni Sessanta, l’Italia) da un osservatorio privilegiato, la Sezione economica del Pci, guidata da Eugenio Peggio. In questo settore di lavoro rimane per breve tempo. Presto emergono divergenze con Amendola, e Chiarante viene assegnato alla Sezione culturale del Partito, diretta da Rossana Rossanda * P RC -D IREZIONE NAZIONALE 47 48 tali; la peculiarità del Pci rispetto a tutti gli altri partiti comunisti. Grazie all’insegnamento di Gramsci e alle scelte innovatrici di Togliatti, coerenti con una concezione policentrica del movimento operaio e comunista internazionale, il Partito comunista italiano non è soltanto, agli occhi di Chiarante, una forza fondamentale per la difesa della giovane democrazia italiana. È anche – in questi anni – sede di elaborazione di un percorso originale di trasformazione della società borghese in senso socialista. Poco dopo, all’inizio del 1959, Fanfani è costretto a lasciare la presidenza del Consiglio e la segreteria della Democrazia cristiana, alla cui guida subentra Moro, artefice del dialogo con il Psi e della costruzione del centro-sinistra nel segno del gradualismo e della non negoziabile centralità della Dc. Contro questa novità non mancano colpi di coda, anche traumatici. I settori più conservatori tentano di sbarrare la strada a Moro sostenendo la nomina di Tambroni alla guida di un esecutivo che nasce – infrangendo un tabù – col voto determinante della destra neofascista. La forzatura ha, com’è noto, gravi conseguenze. Nel giugno 1960 uno sciopero proclamato contro la convocazione del Congresso del Msi a Genova dà luogo a violenti scontri. La polizia usa la mano pesante contro i manifestanti; la protesta dilaga a Roma, a Reggio Emilia, in Sicilia; il bilancio è drammatico: sette morti. L’Italia si riscopre – scrive allora Chiarante su «Il Paese», giornale degli indipendenti di sinistra di cui è vicedirettore – «sull’orlo della guerra civile». Ma il tentativo di fermare Moro è votato al fallimento. La spinta della storia sostiene il suo lavoro, teso a costruire nuovi e più avanzati equilibri politici. (Vi contribuisce anche il nuovo corso del Vaticano di papa Roncalli, in sorprendente controtendenza rispetto agli esordi furiosamente antisocialisti e anticomunisti del patriarca di Venezia). Tema non eludibile all’ordine del giorno sono i grandi problemi posti in una società di capitalismo maturo qual è ormai l’Italia uscita dal boom economico, problemi che Chiarante ha modo di analizzare in presa diretta da un osservatorio privilegiato: la Sezione economica del Pci, guidata da Eugenio Peggio. In questo settore di lavoro rimane per breve tempo. Presto emergono divergenze con Amendola, e Chiarante viene assegnato alla Sezione culturale del Partito, diretta da Rossana Rossanda. I problemi della cultura e dell’istruzione saranno da questo momento il suo ambito elettivo di lavoro politico, ma l’esperienza nel settore economico lascia un segno indelebile, procurandogli una spiccata sensibilità per i temi dello sviluppo e per le sue conseguenze sociali. Moro va dunque avanti e nel 1963 guida il primo governo basato sull’intesa organica Dc-Psi. L’accordo di centro-sinistra comporta una netta chiusura verso i comunisti. Anzi, l’isolamento del Pci è un fine essenziale dell’operazione. Ma la nuova alleanza segna comunque l’avvio di una nuova fase, destinata a durare per tutto il decennio, in coincidenza con la grande modernizzazione del Paese. L’Italia sta cambiando radicalmente volto. Conosce, anche nel Mezzogiorno, modificazioni sconvolgenti che la conducono in pochi anni nell’area dei Paesi più industrializzati dell’Occidente. Tutta la società italiana muta per effetto della crescita demografica, dello sviluppo delle aree metropolitane, dello spostamento di enormi masse di lavoratori al Nord, del disordinato moltiplicarsi delle grandi fabbriche e delle iniziative industriali piccole e medie. Anche l’agenda politica ne risulta trasfigurata. Vengono affermandosi nuovi modelli di costume, di consumo e di comportamento. E, con essi, nuove domande di partecipazione e di riforma. Per migliori condizioni di vita e di lavoro, e per il riconoscimento di nuovi bisogni, diritti, soggettività. Moro ha il merito di intendere tutto questo. Perciò considera esaurita l’esperienza centrista. D’altra parte, il suo tentativo mira comunque a conservare gli assetti di potere dati nella società e a garantire la continuità nei criteri della direzione politica del Paese. Di qui il limite dell’operazione, che nasce, si può dire, logorata sin dal suo inizio. Il programma riformatore del centro-sinistra IDEE (a cominciare dalla riforma urbanistica) viene subito messo in soffitta. Ben presto il senso dell’esperienza si risolve nel giro di poche parole: espansione senza qualità, modernizzazione senza riforme, continuità con la pratica fanfaniana di gestione e occupazione del potere. Alla fine del decennio, il «nuovo bienno rosso» (1968-69) metterà in chiaro la radicale inadeguatezza delle risposte offerte da Moro e dal centro-sinistra ai problemi dello sviluppo economico del Paese e alle febbrili istanze di rinnovamento sociale che ne derivavano. Del resto, di ciò chi potrebbe stupirsi? Il problema è un altro. Il problema riguarda il Pci. C he la risposta del quadro politico a dominante democristiana rechi un segno essenzialmente conservatore, sia cioè prevalentemente volta a imbrigliare il mutamento e a scongiurarne le potenzialità eversive, questo è scontato. Eppure il passaggio resta complesso. Ecco il punto, apparentemente paradossale: il processo politico governato dal centro-sinistra non si esprime nell’immobilismo ma nella trasformazione. Chiarante si domanda se il Pci se ne renda conto. Per questo si sofferma a lungo sul dibattito sulla crisi italiana che attraversa il Partito tra il convegno romano del Gramsci sulle Tendenze del capitalismo italiano (marzo 1962) e l’XI Congresso (gennaio 1966). Nel libro sono molte le questioni dibattute (il ruolo della famiglia e degli intellettuali; le battaglie per i diritti civili e il divorzio; la politica culturale del Pci e i ritardi provocati dall’irrigidimento dogmatico della «dottrina» comunista nell’epoca dello stalinismo, che in qualche misura pesa anche sulla dolorosa vicenda della radiazione del gruppo del «manifesto»). Ma la questione dell’analisi della modernizzazione italiana è il centro della ricostruzione. È, agli occhi di Chiarante, il banco di prova di tutto un gruppo dirigente chiamato a cimentarsi nella messa a valore dell’eredità teorica e politica della segreteria di Togliatti. La vicenda è ben nota. Vive nello scontro tra la posizione stagnazionista (e in nuce crollista) di Amendola e della destra del Partito (Bufalini, Napolitano, Chiaromonte, Pajetta, Cossutta) e quella, attenta al connotato dinamico del processo e alla sua natura di classe, della sinistra ingraiana (Reichlin, Rossanda, Tortorella, Pintor, Barca, Trentin, Garavini, Castellina, Magri), alla quale lo stesso Chiarante è vicino. Per Amendola il capitalismo italiano è arretrato, strutturalmente incapace di reggere il passo dell’evoluzione dei sistemi di produzione e di mercato, quindi vocato all’immobilismo e alla stagnazione. Se introduce modifiche, queste sono di segno restaurativo: meri tentativi di tornare al passato. Il presupposto logico è chiaro: non si comprende che ci si può trasformare nella conservazione; che la modernizzazione può essere socialmente regressiva ma tecnicamente (sul piano economico e produttivo) evolutiva. Chiarante osserva che il limite analitico ha motivi politici. Discende dalla sudditanza a una prospettiva industrialistica (evoluzionistica, deterministica) che impedisce di percepire la specificità delle forme dello sviluppo, il suo carattere di classe. Di qui due corollari. La convinzione – a lungo egemone nel Partito, influente ancora sul Berlinguer del compromesso storico – che il «debole» capitalismo italiano sia fatalmente fragile, in cronico deficit di stabilità. E l’idea che il Pci debba pertanto sostenere le forze riformatrici del centro-sinistra (i socialisti) nel nome di un «interesse generale» identificato con lo sviluppo del sistema produttivo. Siamo all’accettazione di un ruolo gregario (incalzare il centro-sinistra sul terreno di riforme omogenee alla modernizzazione capitalistica). E siamo, sin d’ora, alla famigerata politica dei due tempi (prima il risanamento, attraverso i sacrifici dei lavoratori; poi, se mai, sviluppo e riforme). La sinistra contesta su tutta la linea. L’Italia non è un Paese stagnante e depresso, vive, al contrario, un tumultuoso ancorché contraddittorio sviluppo. La tesi stagnazionista sottovaluta le potenzialità del capitalismo italiano, intento a ristrutturare l’apparato produttivo, a stabilizzare il sistema di potere, a modernizzare la società sul modello degli altri Paesi occidentali. La propen- 49 50 sione a contribuire alla modernizzazione capitalistica è quindi un grave segno di subalternità. Ben altro è il compito di una forza rivoluzionaria: ostacolare questa modernizzazione (anche sul terreno politico: il centro-sinistra è un successo della classe dirigente conservatrice) e lavorare a un diverso modello di sviluppo, capace di rispondere alle domande di cambiamento, ormai mature, di classe operaia, ceti medi e mondo intellettuale. Qui la lezione di Togliatti è ripresa e messa a frutto. Nel Rapporto al X Congresso del Pci (dicembre 1962) Togliatti ha sottolineato che accettare la sfida del centro-sinistra significa misurarsi con problemi propri di un Paese a capitalismo maturo fronteggiando un’esperienza di governo più insidiosa di quella centrista. Di qui la necessità di un «arricchimento» della teoria e della pratica politica dei comunisti italiani. Poco dopo (nel discorso di Bergamo, marzo 1963) lo stesso Togliatti ha toccato la questione della «nuova qualità» dello sviluppo, delle nuove esigenze e domande maturate con la nuova fase dello sviluppo capitalistico avviatasi dopo la Seconda guerra mondiale. È in nuce proprio il tema del nuovo modello di sviluppo posto dalla sinistra (in specie da Lucio Magri) nel convegno del ’62. Ma la maggiore ricchezza della sua analisi non basta alla sinistra per imporsi. A vincere la partita è la destra amendoliana e lo stesso Chiarante ne fa le spese (è fuori dal Comitato Centrale e perde l’incarico di vicepresidente della Sezione culturale). È un esito che peserà a lungo nella storia del Pci e su tutta la vicenda politica italiana. Peserà ancora nel confronto coi movimenti del ’68-69 (dei quali il Pci non coglie novità e portata politica generale) e negli anni Settanta. E peserà, secondo chi scrive, anche oltre: anche sulla Bolognina e sui suoi effetti di lungo periodo, sino all’odierna discussione sul che fare a sinistra e della sinistra italiana. C hiarante scrive (approfondendo il ragionamento abbozzato in un suo primo contributo di sintesi)2 che lo schema vincente sospinge il Pci verso una pratica di accomodamento subalterna e funzionale alla rivoluzione passiva diretta dalle forze conservatrici. La linea amendoliana «poneva il Pci nella posizione di tutto riposo di poter guadagnare nuovi consensi con la sua battaglia di opposizione critica senza doversi misurare con i più complessi interrogativi di una prospettiva di trasformazione della società che andasse oltre l’orizzonte capitalistico e desse risposta alla domanda di uno sviluppo qualitativamente diverso»3. In altre parole, il Pci accetta di operare come una contraddizione immanente all’orizzonte definito dal centro-sinistra. Il veleno di questa opzione paralizza l’elaborazione critica in positivo e determina il lento appannarsi dell’originalità teorica del Partito. Di qui la perdita di contatto con le trasformazioni reali e un crescente ritardo culturale e politico dei dirigenti e della massa dei militanti che gli anni Settanta mettono spietatamente a nudo. Di mezzo c’è il passaggio del compromesso storico, con i suoi frutti peggiori: il «governo delle astensioni» e la «solidarietà nazionale» (1976-79). Sul compromesso storico Chiarante non è radicalmente liquidatorio; gli attribuisce potenziali meriti, ritenendo che l’idea giusta di costruire un’alleanza politica e culturale con i settori più avanzati del mondo cattolico sia degenerata per effetto della sua traduzione politicistica (la relazione tra gruppi dirigenti) e della conseguente dispersione del sano «spirito di scissione» che l’aveva inizialmente ispirata. Ma vi è qui forse un’impasse della ricostruzione. Nessuno nega che l’idea del compromesso storico abbia avuto più di una fonte, a cominciare dalla minaccia eversiva della destra e dalle pressioni internazionali (anche dei socialisti europei) volte a ribadire l’isolamento del Pci. Né si tratta di accantonare il contesto della solidarietà nazionale: l’ostilità di Stati Uniti e Germania; l’opposizione dei poteri forti; l’allarme per l’estendersi della minaccia terroristica; forse anche la sopravvalutazione del trend elettorale positivo (34,4% alle politiche del ’76, oltre il 7% in più rispetto al ’72), rite- IDEE nuto inarrestabile. Il punto (che Chiarante sembra non cogliere appieno) è che sull’interpretazione del quadro pesa a monte e sopra tutto lo schema continuista di matrice amendoliana. Da un lato si sottovalutano le possibilità di ripresa e di trasformazione dell’economia capitalistica dopo lo shock petrolifero dei primi anni Settanta (commettendo un errore particolarmente grave, poiché alla fine del decennio i processi in atto approderanno alla «rivoluzione conservatrice» neoliberista). Dall’altro, si ripropone l’ideologia dell’interesse generale, secondo la quale spetta alla classe operaia – nuova classe dirigente in pectore – sacrificarsi senza contropartite (e con la copertura di una morale pauperistica volta a giustificare ristrettezze e rinunce) per rilanciare uno sviluppo letto ancora una volta acriticamente in termini neutrali. Discendono da qui, non da errori casuali, la sopravvalutazione delle attitudini progressive di Moro e l’approccio politicistico, destinato a tradursi nella collaborazione subalterna alla Dc a scapito del conflitto e del tentativo di imporre un cambio nella guida politica del Paese e nella direzione dello sviluppo. Quanto scrive Gerardo Chiaromonte introducendo l’inserto del «Contemporaneo» sulla Questione democristiana (maggio 1973) riflette l’orientamento della maggioranza del Partito. E si tratta della più pura dottrina amendoliana: la politica di «unità democratica» (con quanto ne segue in termini di sacrifici e rispetto delle «compatibilità») serve a contrastare la cronica «arretratezza italiana»; «il progresso dell’Italia richiede la ricerca del consenso e della collaborazione con il grosso delle masse cattoliche». Insomma, la Dc come perno indispensabile del quadro politico di governo. Si direbbe che la sua sorprendente attitudine ad aderire plasticamente ai centri del potere riproponendosi come sua naturale espressione irretisca il Pci in una sorta di fascinazione. E lo induca a coltivare per sé l’immagine di una forza ancillare. L a straordinaria crescita dei consensi elettorali (il brillante risultato delle politiche del ’76, poi il sorpasso della Dc alle europee dell’84) è in realtà un canto di cigno. L’occasione fornita dalla crisi italiana (la possibilità di tradurla in un laboratorio per l’alternativa) è perduta. Rimane la dispersione lenta ma continua di un grande patrimonio di esperienza e di volontà. E così torniamo alla questione che abbiamo detto cruciale della ricostruzione. È un grande merito di questo libro avere posto al centro dell’attenzione il problema della capacità del Pci di leggere le trasformazioni della società italiana. È in effetti il problema, tant’è che questa stessa chiave aiuta a capire anche il dopo (la fine del Pci) e a decifrare i lavori in corso oggi nella sinistra italiana (un tema sullo sfondo della riflessione di Chiarante, che fa capolino qua e là nella tessitura della narrazione). Dopo la morte di Berlinguer il gruppo dirigente del Pci reagisce alla marginalizzazione del Partito con una sorta di rimozione che rivela il persistere di un imprinting culturale radicato. Nella seconda metà degli anni Ottanta e nel decennio successivo le propensioni crolliste sottese alla tesi stagnazionista della destra amendoliana cedono il passo alla legittimazione apologetica della modernizzazione capitalistica, assunta come orizzonte non trascendibile. Ma lo scarto è soltanto apparente. Persiste, al fondo, l’ideologia subalterna dello sviluppo, letto fuori dall’analisi di classe. E per questo valorizzato, sacralizzato come un destino da propiziare. Di qui all’eclisse della trasformazione e alla demonizzazione del conflitto – ultima spiaggia della reincarnazione della dirigenza post-comunista sotto sembianze «democratiche» – il passo è breve. Ma tutto questo serve a capire anche l’oggi, a distanza di oltre trent’anni dalla conclusione della vicenda narrata da Chiarante e dopo vent’anni dalla Bolognina. Chiarante scrive che è necessario rilanciare una robusta e rinnovata forza di sinistra, ma che riuscirvi è impossibile «se non si fanno criticamente i conti […] con la grande esperienza della sinistra italiana del Novecento, e quindi con la tradizione comunista, che di quella esperienza è stata un momento deci- La tesi stagnazionista sottovaluta le potenzialità del capitalismo italiano, intento a ristrutturare l’apparato produttivo, a stabilizzare il sistema di potere, a modernizzare la società sul modello degli altri Paesi occidentali. La propensione a contribuire alla modernizzazione capitalistica è quindi un grave segno di subalternità 51 E così la storia ricostruita da Chiarante nel suo bel libro parla anche di noi, eredi di quella storia, e del nostro tempo. Ieri si lasciava cadere il comunismo nel nome del comunismo, oggi nel nome della sua pretesa inattualità. Ma il saldo finale tende a essere lo stesso: la subalternità allo sviluppo capitalistico. Magari non più trasfigurato, magari demonizzato, com’è prassi nella tradizione massimalistica. Ma pur sempre subìto come un destino non eludibile. 52 sivo»4. Che lo si dica ancora adesso è come puntare l’indice su quanto è stato fatto, a sinistra, dal ’91 ai nostri giorni. E l’impressione è che la critica colga nel segno in forza di una sostanziale continuità con la vicenda ripercorsa nel libro. Se le parole di questo discorso hanno un senso, la lacuna più grave della storia politica e intellettuale del Pci dopo Togliatti è stata l’assenza di una analisi di classe dei processi di sviluppo e di trasformazione del capitalismo. Il punto è che per l’oggi e per il passato più prossimo la diagnosi non cambia, anche se il dogmatismo ha ceduto il passo alla teoria dell’assenza di teoria e il determinismo è stato soppiantato dalle sue multiformi varianti postmoderne: l’eclettismo, il nuovismo, la ciclica riscoperta di reperti fossili (da ultimo persino il «vero socialismo dell’umanità», di cui si era persa ogni traccia dai tempi dell’Ideologia tedesca). A guardar bene siamo sempre lì, anche quando, nel migliore dei casi, ci si rifugia nella giaculatoria sulla mutata fenomenologia dei processi di produzione e di riproduzione allargata (via finanziarizzazione). Difatti poi ci si ferma subito, quasi che puntare la lente sul modo di produzione non implicasse di per sé la più classica agenda di lavoro politico: la fatica del costruire nei luoghi di lavoro relazioni con i soggetti in carne e ossa, affinché tali relazioni diano vita a una soggettività politica. Certo, è il cimento più aspro sul terreno più accidentato (specie dopo il crollo dei quadri di riferimento epocali naufragati con l’89). Ma resta il cimento. Invece ci si balocca con le improvvisazioni. Mancherebbe la teoria: ma nessuno dice dove e perché non sarebbe più vera la base teorica del comunismo: l’idea che lo sfruttamento del lavoro è il motore dell’accumulazione; che l’imperialismo ne è la cifra sul piano internazionale; che l’organizzazione è il luogo di costituzione della soggettività (della classe: del passaggio dall’insé al per-sé, come oggi si ripete a ogni piè sospinto con l’entusiasmo dei neofiti) e lo snodo del passaggio dalla soggettività al conflitto. Per contro, improvvisandosi «innovatori», ci si pavoneggia in invenzioni estemporanee. Si teorizza con disinvoltura l’«equivalenza delle contraddizioni», precludendosi la via alla comprensione dei meccanismi fondamentali della riproduzione e a qualsiasi rappresentazione organica della formazione sociale. O, peggio, si propagandano trovature fini a se stesse: tesi – si pensi, da ultimo, alle prevalenti interpretazioni della «nonviolenza» – buone per la criminalizzazione della storia del movimento comunista e utili ad evadere dal terreno dell’analisi di classe alla volta di atteggiamenti moralistici e pseudoreligiosi. Mentre la violenza capitalistica sconvolge il mondo nella classica forma della guerra imperialista, e dilaga nelle nostre società, con l’immiserimento del salariato e il quotidiano martirologio operaio. 1. Di questa vicenda tratta in profondità il precedente volume dell’autobiografia politica di Chiarante (Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta, Carocci, Roma 2006). Ne ho discusso sul «manifesto» in una recensione (Tentativi di dialogo nell’Italia degli anni ’50) apparsa il 3 gennaio 2007. 2. Da Togliatti a D’Alema. La tradizione dei comunisti italiani e le origini del Pds, Laterza, Roma-Bari 1997. 3. Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico (19581975), Carocci, Roma 2007, p. 144. 4. Ivi, p. 28. IDEE il ’68 messaggero del passaggio al postmodernismo A RMANDO P ETRINI * 1 . Nel Sessantotto avevo un anno. Anzi, vivendo a Torino, nel Sessantotto (che a Torino inizia nel novembre del 1967) avevo pochi mesi. Dunque non sono un testimone del Sessantotto, né posso averlo vissuto. Faccio parte di quella generazione, nata insieme al movimento studentesco, che ha dovuto fare i conti più tardi, all’inizio degli anni Ottanta, con la sua complessa e (come cercherò di argomentare) pesante eredità. Discutere del significato del Sessantotto è impresa assai difficile. Più difficile di quel che sembri a prima vista (come lascia ben capire l’introduzione al tema di Bruno Steri nel numero scorso della rivista). E non lo è soltanto per la natura estremamente composita del movimento. Ma anche, e soprattutto, perché si tratta di un evento storico di straordinaria importanza ancora relativamente vicino a noi, difficile da maneggiare, la cui narrazione per di più è tuttora affidata sostanzialmente ai suoi diretti protagonisti. 2 . Il Sessantotto è fatto complessivamente di luci e di ombre. Certo, in un momento come quello attuale, in cui siamo investiti da un nuovo capitolo del revisionismo storiografico sul Novecento che mette in discussione la ricca e fertile stagione degli anni Sessanta e Settanta, e intende farlo innanzi tutto ponendo sotto accusa la categoria del «conflitto« (che di quella stagione fu una delle chiavi di volta), si potrebbe pensare che convenga tacere le ombre e sottolineare solo le luci. Ma sarebbe un errore. Per contrastare la furia liquidazionista sul Novecento, che non accenna a placarsi (e che ci riguarda da vicino, e riguarda anche chi nel Prc si appresta a una battaglia politica la cui posta in gioco è la sopravvivenza del partito stesso) dobbiamo riappropriarci di uno sguardo complesso sul Novecento, in grado di metterne a fuoco e tenere nel giusto conto la densità e le contraddizioni. Il rischio però, soprattutto parlando di Sessantotto, è il fraintendimento. Per provare a ovviarlo dirò subito che il motivo principale per cui mi pare importante un approccio critico al movimento – che ne sappia cioè vedere anche gli aspetti problematici e dubbi – è proprio quello di riappropriarsi della crucialità della categoria del conflitto. Una categoria che forse è stata in realtà indebolita dall’eredità del movimento studentesco, più che rafforzata. Alla critica dialettica del potere (ancora una volta tipicamente moderna), il «movimento» contrappone un rifiuto antidialettico del potere e dell’autorità, scambiando autorità con autoritarismo 3 . Indagando l’eredità del Sessantotto si deve per prima cosa distinguere – per ridurre ulteriormente la possibilità del fraintendimento – fra movimento degli studenti e degli intellettuali da un lato e movimento operaio dall’altro. Non che non vi furono punti di contatto, anche importanti e significa- * UNIVERSITÀ DI T ORINO 53 54 tivi. Eppure mi sembra che avesse ragione Lucio Libertini quando, nel decennale del Sessantotto, scriveva che il rapporto fra studenti e operai fu in quegli anni dapprima «instabile» e poi «rapidamente troncato». A Libertini stavano molto a cuore le lotte operaie – tanto che avrebbe voluto chiamare il Sessantotto «sessantanove« – e aveva invece maturato un giudizio più critico sulla «contestazione giovanile». In particolare Libertini evidenziava nel movimento i tratti più ambigui e anticipatori di ciò che di lì a poco verrà definito postmoderno: l’«estremismo irrazionalista» e il «volontarismo idealistico». Scrive Libertini: «a me sembra che la crescita di questo movimento per molti aspetti si è intrecciata con una tendenza all’irrazionalismo sempre più forte nelle società capitalistiche in questi anni. Ciò appare limpidamente evidente nel modo di porre la questione della scienza, della conoscenza». Diversi anni più tardi, David Harvey, uno dei più importanti studiosi della crisi della modernità, sosterrà che il Sessantotto debba essere letto nel suo complesso come «il messaggero politico e culturale del successivo passaggio al postmodernismo». 4 . Ma se questo quadro interpretativo è grosso modo condiviso dagli studiosi del Sessantotto, altra cosa è invece la messa a fuoco della fisionomia complessiva conseguente del movimento. Da questo punto di vista proverò a esporre una tesi a suo modo «estrema». La mia opinione – che dovrò qui esprimere in una forma forse eccessivamente stringata – è infatti che il Sessantotto non abbia costituito tanto l’ultima grande fiammata rivoluzionaria del Novecento, la cui sconfitta avrebbe determinato quel «ritorno all’ordine» affermatosi poi negli anni Ottanta e Novanta; piuttosto, abbia coinciso proprio con l’avvio contraddittorio di una forma di indebolimento della politica che per certi versi anticipa, o prefigura, proprio ciò che giungerà a maturazione con i primi anni Ottanta. Già Peppino Ortoleva, nel ventennale del movimento, scriveva che «uno degli aspetti più enigmatici dell’intero ’68» andrebbe individuato nell’«intreccio complessivo fra spinte politiche e spinte antipolitiche». Si potrebbe dire che il Sessantotto degli studenti e degli intellettuali – diverso appunto dal Sessantotto degli operai – abbia teso a sostituire all’idea di trasformazione rivoluzionaria, tipicamente «moderna», il mito della rivolta giovanile, della ribellione generazionale: un’idea se non proprio «postmoderna» certamente antimoderna (e il postmoderno va probabilmente letto come una delle declinazioni di quel sentimento antimoderno che percorre sottotraccia la modernità sin dal suo nascere). Alla critica dialettica del potere (ancora una volta tipicamente moderna), il «movimento» contrappone un rifiuto antidialettico del potere e dell’autorità, scambiando autorità con autoritarismo e contribuendo perciò ad avviare, anche da questo punto di vista, la stagione del pensiero debole. Lo notava già Franco Fortini nel 1968: «scambiando autoritarismo con autorità gli studenti rischiano di dimenticare che non c’è autorità più cieca di quella che non è avvertita come tale». E ancora: «È vero che non bisogna prender troppo sul serio certe frasi divertenti: ma quando, com’è successo un po’ dappertutto, si chiedono o si praticano controcorsi sulla repressione sessuale e sull’imperialismo e sul Vietnam e svelti, senza bibliografie né parole difficili, bisogna avvertire che si va cercando semplicemente qualcosa che si trova in ogni edicola. È la sostituzione di una autorità con un’altra, e fin qui non sarebbe nulla di male; ma compiuta nel modo più autoritario ossia più ricco di pregiudizi semplificatori». 5 . Pochi mesi fa, «Liberazione» ha pubblicato in prima pagina un interessante e intelligente articolo di Luigi Cavallaro, il cui titolo, immagino redazionale, suonava così: Il liberismo? Nasce dal ’68. Quell’articolo si concludeva affermando che l’attuale «vocazione al liberismo» si potrebbe intendere Uno dei germi del complesso processo di indebolimento della politica che si affermerà più avanti, con i primi anni Ottanta, si annida forse proprio lì IDEE che non vuole o non sa approfittare dei grandi risultati raggiunti dal movimento operaio e rivoluzionario internazionale nel secolo compreso tra Manifesto comunista e la guerra fredda». 7 come «l’approdo coerente di una generazione cresciuta all’insegna dello slogan “vietato vietare”». Argomentando circa il «luddismo istituzionale e organizzativo» – per usare parole di Marco Revelli – tipicamente sessantottino, Cavallaro scrive: «Estremizzando un po’, si potrebbe supporre che il consenso diffuso verso la riduzione delle attività statuali, di cui l’odierna fobia per il debito pubblico rappresenta la versione contabile, debba rimontare a quella ‘scoperta’ che maturò negli ambienti maoisti del Sessantotto francese, secondo cui le società a economia mista venute fuori dal secondo conflitto mondiale erano la quintessenza del fascismo». Immagino che diversi lettori di «Liberazione» siano sobbalzati sulla sedia. Eppure, a voler prescindere dalle biografie personali – il che non è sempre facile – e a patto di guardare all’eredità complessiva del Sessantotto (e dunque alla sua «breccia culturale» di fondo), gli interrogativi posti da Cavallaro sembreranno meno peregrini e più motivati. Non per niente a Cavallaro risponde pochi giorni dopo su «Liberazione» Franco Berardi (Bifo), protagonista del movimento bolognese, il quale concorda non solo sul fatto che il Sessantotto è «l’origine – non la causa, ma la condizione di possibilità – delle forme del potere che si sono dispiegate nella postmodernità», ma anche che «l’antiautoritarismo libertario, anima profonda della ribellione studentesca» ha portato ad aprire «la strada al dilagare del neoliberismo». La conclusione di Bifo è chiarissima, ancorché forse, per molti, sorprendente: «Io sono d’accordo sostanzialmente con Cavallaro, ma penso che questo non sia affatto scandaloso». 6 . La fisionomia complessiva del Sessantotto merita insomma di essere ancora approfondita e chiarita. Probabilmente quel luddismo istituzionale, quell’essere contro l’organizzazione e la mediazione dei partiti, quell’anticomunismo viscerale, quella critica non dialettica del potere, è qualcosa di cui non è stata ancora messa a fuoco con sufficiente chiarezza –almeno a sinistral’influenza sulla cultura politica delle generazioni successive. Perché uno dei germi del complesso processo di indebolimento della politica che si affermerà più avanti, con i primi anni Ottanta, si annida forse proprio lì, in quella resa alla complessità determinata da una visione semplificata del rapporto con il potere e con le istituzioni; una visione che ancora Fortini sosteneva avere del marxismo più l’«apparenza» che la «sostanza». Già nel 1969 uno storico come Eric Hobsbawm scriveva: «Non illudiamoci; la «nuova sinistra» degli anni recenti che tanto ci colpisce è ammirevole, ma per molti aspetti non solo non è nuova, ma rappresenta addirittura un regresso a una forma precedente, più debole e meno sviluppata del movimento socialista, . Ma il nervo ancora scoperto del movimento, il punto più oscuro e il meno indagato, è quello relativo alla sua eredità. Agli inizi degli anni Ottanta, la mia generazione – e poi di seguito quelle successive – si sono trovate disarmate. Private di uno sguardo dialettico sul potere, sull’autorità, sulle istituzioni, hanno finito per oscillare fra un sentimento di estraneità nei loro confronti (condannandosi perciò al silenzio) e uno di subalternità (condannandosi al conformismo). Se guardiamo alle linee di tendenza e non ai singoli, non possiamo far a meno di constatare che le generazioni successive al Sessantotto, schiacciate fra estraneità e subalternità, hanno rinunciato al motore vero della trasformazione, e cioè alla Politica. Come sia potuto accadere che una stagione come quella del Sessantotto, che viene ricordata ossessivamente per l’onnivora presenza della politica, abbia potuto determinare uno scenario dominato in ultima analisi dal suo opposto, e cioè da una forma di antipolitica, è interrogativo di non poco conto. Un interrogativo che va però affrontato, e non rimosso. In gioco è davvero, e per intero, la possibilità di costruire il futuro di una autentica politica «della trasformazione». Perché, anche da questo punto di vista, quel futuro non si dà al di fuori del suo rapporto con il passato. Ancora una volta risulta perciò essenziale tornare a interrogare il Novecento, a patto però di non ridurlo a un’icona – operazione speculare e in fondo identica a quella di chi lo vorrebbe liquidare – ma indagandolo nel tratto davvero cruciale: quella sua profonda, intima, irriducibile contraddittorietà. 55 56 SIMONE OGGIONNI coordinatore nazionale Giovani e comunisti ESSERE PRECARI, NEL LAVORO E NELLA VITA SULLA PRECARIETÀ È possibile affrontare il tema – così ampiamente dibattuto, così complesso – della «precarietà» facendo perno soltanto sulla sua natura economica e, ancor più precisamente, sulla sua attinenza con una condizione di insicurezza contrattuale? Oppure la precarietà è, proprio in quanto afferisce all’intero campo delle attività umane di questo scorcio di modernità, uno dei paradigmi interpretativi complessivamente più calzanti per analizzare la fase regressiva che connota il capitalismo dei nostri anni? E dunque richiede una analisi minuziosa e obbliga a una risposta organica? A nostro avviso, la «rivoluzione conservatrice» avviata su scala internazionale da Thatcher e Reagan nei primi anni Ottanta ha indotto il capitale, a ogni livello, a sviluppare una capacità reattiva ed espansiva dirompente. Alle spalle, agiva certamente – soprattutto per l’economia europea – la crisi petrolifera ed energetica del biennio 1973-74, ma è quell’evento politico di portata mondiale a compendiare in sé il senso e la natura della trasformazione. Da allora, colpito il movimento operaio e la sua resistenza all’offensiva capitalistica, le politiche economiche hanno teso alla compressione dei diritti sociali e alla flessibilizzazione del mercato del lavoro. Hanno cioè, sempre più, imposto ai lavoratori di conformare l’organizzazione della propria esistenza alle esigenze delle imprese economiche private. Ne hanno messo in discussione – incentivando licenziamenti di massa e la parcellizzazione dell’organizzazione produttiva – l’appartenenza a una unica comunità solidale. E, per questa via, hanno in- SULLA PRECARIETÀ terrotto i processi di partecipazione politica attivi all’interno della classe. Ciò, non casualmente, si è accompagnato con politiche istituzionali che hanno progressivamente espulso i ceti deboli dalla rappresentanza, precarizzando appunto le fondamenta democratiche delle società occidentali. Questo il senso del rafforzamento dei poteri esecutivi e del presidenzialismo, della tendenza al bipolarismo (quando non esplicitamente al bipartitismo) e dell’utilizzo di sistemi elettorali maggioritari. Sullo sfondo di un ricorso spregiudicato alla guerra (rivendicata senza reticenze come argine al crollo di una «civiltà» assediata dal terrorismo), si colloca infine la crisi del pensiero critico e progressista, l’incapacità di costruire «egemonia» sul piano ideologico e culturale o anche solo di conservare i «territori» conquistati sino agli anni Settanta. La cultura che nel tempo si è sostituita al «pensiero forte» della sinistra novecentesca è una cultura precaria, debole, effimera. Che sferra un’offensiva travolgente sui ceti medi e sulle classi popolari in nome del miraggio della ricchezza e, in quanto ne solletica gli istinti più retrivi, in tanto ne desertifica l’orizzonte culturale. Ne conosciamo gli esiti: l’egoismo, il razzismo, l’odio verso i soggetti che vivono nella marginalità sociale e l’invocazione di misure autoritarie e repressive. Senza dimenticare, infine, che si tratta di una cultura precarizzata anche nel senso più classico, nella misura in cui prolifera l’aziendalizzazione degli istituti culturali ed è essa stessa soggetta a processi di mercificazione. L’Italia è tutt’altro che estranea a questo quadro. Anche il nostro Paese vive l’onda lunga della «rivoluzione passiva» neo-liberista. La marcia dei 40.000 colletti bianchi della Fiat nell’ottobre 1980, così come il taglio di quattro punti della scala mobile deciso dal governo Craxi nel febbraio 1984 convertendo in decreto l’accordo delle associazioni imprenditoriali con Cisl e Uil, sancì né più né meno un passaggio di epoca. Da allora la quota di ricchezza attribuita ai redditi da lavoro è scesa dal 54,5% del Pil al 43,9% mentre i redditi da capitale sono saliti, in 25 anni, dal 22,3% al 32,9%. Se a essi aggiungiamo i profitti, l’incremento in relazione al prodotto interno lordo è stato di oltre 24 punti percentuali: una gigantesca opera di redistribuzione sociale dalle classi lavoratrici ai ceti possidenti. Dentro questa patologia (non al di fuori di essa, non in contraddizione con una normale dialettica tra forze confliggenti) si è innestata la variante del «berlusconismo», la drammatizzazione in chiave populistica della volgare sete di rivincita delle destre. L’istantanea da cui muove questo nostro dossier dedicato al tema della «precarietà» è quella di un Paese in cui i dati Istat relativi al III trimestre del 2006, considerando i titolari di contratti a termine, coloro i quali, scaduto un contratto a termine, non hanno ancora potuto stipularne un altro, tutte le collaborazioni e le prestazioni d’opera con partita Iva «soggette a subordinazione», conteggiano 4.403.000 precari. Luciano Gallino, nel suo recente Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità (Laterza, 2007), ne conta addirittura – con un procedimento analitico convincente – tra i 10 e gli 11 milioni. Erano meno di tre milioni soltanto tre anni prima, calcolando una percentuale di contratti precari del 10% nel pubblico impiego e del 13% nel settore privato. E nel 1997 – con un tasso di precarietà del 4% nel pubblico e del 7% nel privato – i lavoratori precari erano soltanto 1.280.000. Ma questa – come abbiamo detto – è la punta dell’iceberg, il fenomeno statisticamente più eclatante. Sotto traccia c’è altro, c’è una questione salariale che vede spinti nella marginalità e nella incertezza (come annota il puntuale contributo di Federico Bonadonna) settori sempre più consistenti di lavoro dipendente. Ossia stipendi che, secondo quanto riporta un recente rapporto IresCgil, hanno perduto negli ultimi cinque anni 1890 euro in potere d’acquisto. Ci sono, parallelamente, le grandi e medie imprese italiane che – secondo uno studio di Mediobanca – hanno chiuso il 2005 con un utile del 37% superiore rispetto a quello dell’anno precedente. Ci sono, ancora, 7 milioni di lavoratori che guadagnano meno di 1000 euro (di questi, 4 milioni non arrivano ai 700) mensili e top manager i cui stipendi superano di 160 volte quelli degli operai impiegati nelle medesime aziende (in una proporzione dilatata di oltre il 500% in quindici anni). Considerando anche gli spostamenti temporanei, ci sono 270.000 giovani che ogni anno emigrano per necessità dal Sud al Nord e una percentuale ridottissima della popolazione italiana (nemmeno il 15%) che detiene quasi la metà del reddito totale. Verrebbe da dire che a essere precaria, oltre alla condizione materiale delle famiglie descritte da queste cifre, è la stessa sopravvivenza di un sistema sociale che si regge su di una sperequazione così clamorosa. Si pensi al disagio abitativo: dieci milioni di persone (il 75% delle quali ha un reddito inferiore ai 20.000 euro annui) sopportano affitti pari a metà dei propri stipendi; una percentuale di sfratti per morosità che ha raggiunto, nello scorso anno, il 70% del totale (era il 13% agli inizi degli anni Ottanta); una crescita del costo della casa del 26% negli ultimi tre anni. Oppure alla proletarizzazione delle giovani generazioni: il 36% dei lavoratori sotto i 25 anni ha un reddito inferiore ai 1000 euro; e oltre il 40% di 57 58 essi rimane in casa dei genitori sino a oltre i trent’anni. Si pensi, ancora, al tema dell’indebitamento. Il più recente resoconto economico della Banca d’Italia certifica che il rapporto tra debiti e reddito disponibile ha raggiunto la soglia del 49% (a fronte di una percentuale del 30% soltanto nel 2001). Oppure, infine, alla drammatica condizione degli oltre 3 milioni di lavoratori immigrati nel nostro Paese: è sufficiente citare l’Inps, la cui banca dati conferma che le retribuzioni dei lavoratori stranieri sono mediamente pari alla metà di quelle degli italiani, anche a causa della discontinuità del loro impiego (circa il 60% è titolare di contratti di lavoro con scadenza non superiore all’anno). Non traspare – anche dai riscontri statistici – una connessione intima tra la soggezione della vita lavorativa alle esigenze di profitto dell’impresa e la precarizzazione dell’esperienza complessiva dell’essere umano? Crediamo di sì. Tale subordinazione aliena la possibilità soggettiva di raggiungere benessere e stabilità e, divenendo logica ordinante dei rapporti economici e produttivi, introduce e legittima un senso comune e, quindi, una cultura coerentemente subalterni e regressivi. I testi che vi presentiamo avanzano analisi, ulteriori interrogativi, alcune risposte. Perché di fronte a un’epoca che, se letta con le lenti della Storia, è recente e nuova, siamo convinti siano necessarie risposte adeguate e altrettanto innovative. È nuova perché non vi è dubbio che, in Italia, i processi di ristrutturazione produttiva degli ultimi tre decenni hanno modificato in profondità il modello fordista. Perché sono inedite le forme assunte o ricercate da un’impresa in perpetua evoluzione da produttrice di beni a produttrice di valore finanziario. Perché siamo dinanzi alla più profonda crisi mai registrata del valore sociale del lavoro, dei meccanismi di partecipazione democratica, di quello stesso sistema di tutele e di welfare che ha rappresentato l’architrave del «discorso della cittadinanza» di numerosi decenni del secolo scorso. È cambiato il sindacato (che scivola pericolosamente, come ci ricorda Loris Campetti e come ha ammonito il dossier del numero 4 della rivista, verso una concezione corporativista e compatibilista della sua funzione); e sono cambiate radicalmente, sino a rischiare l’estinzione, persino le organizzazioni politiche di massa del movimento operaio. Muovendo da queste coordinate è possibile riflettere e impostare le basi di un progetto di alternativa. Un simile contesto oggettivo suggerisce cautela, tuttavia, in relazione ad analisi che – travisando la natura di tali elementi di novità – siano inclini a considerare definitivamente conclusa la «era del lavoro» o, addirittura, della «modernità», inducendo da questo scarto la necessità di proporre programmi e formule non più conciliabili con la tradizione progressista novecentesca. Non ci riferiamo soltanto alle tesi di Jeremy Rifkin o Dominique Méda, che senza mezzi termini da anni sostengono il carattere «anacronistico» e «mitico» del valore sostanziale del lavoro. Il 3 aprile scorso, recensendo su «il manifesto» un saggio di Andrea Fumagalli, Toni Negri è ritornato ad auspicare «programmi post-socialisti», alludendo – per esempio – al «reddito di esistenza» e al «welfare del comune». Il contributo di Giovanna Vertova è la migliore risposta agli azzardi post-modernisti. Sottolineiamo soltanto come la retorica del «capitalismo cognitivo», e ancor di più le sue conseguenze pratico-politiche (prima tra tutte l’auspicio negriano dell’«esodo dal lavoro»), pongano il tema della ricomposizione della classe lavoratrice al di fuori dei processi produttivi e, collocando la ribellione a quello che viene definito il «biopotere» sul terreno del reddito e del consumo, anestetizzino il conflitto sociale. E, così eludendo la necessità di modificare alla radice il sistema economico retto sulla precarietà, producono una risposta speculare e sintonica a quella dei teorici neo-liberali del «governo della precarietà». Altra cosa – e lo spiega Cristina Tajani – è porre l’obiettivo di perseguire, sul terreno del welfare, un modello «universalista» e non più soltanto «lavorista», assicurando universalmente, a prescindere cioè dalla condizione lavorativa del soggetto, il suo accesso all’intero spettro delle prestazioni sociali (si pensi alla disoccupazione o agli assegni familiari). Come è evidente, ciò non contraddice la centralità – nella materialità del sistema capitalistico – della produzione classicamente intesa. Anche quest’ultimo elemento ci pare chiami in causa la vera grande questione dei nostri tempi, convitato di pietra pure di questa nostra opera di analisi e inchiesta (vi allude elegantemente Gianni Alasia, nella sua ricostruzione della condizione piemontese): il tema della capacità della sinistra di recuperare gli strumenti per fare del lavoro (e di ciò che gravita intorno a esso) il luogo di una nuova «soggettivazione» della classe, oggi così dispersa e frammentata. L’esito delle elezioni politiche conferma sul piano istituzionale un dato ampiamente acquisito sul terreno sociale: la sinistra oggi non interpreta né rappresenta il mondo del lavoro. Ma quello deve rimanere l’obiettivo, con ancora più forte urgenza di fronte alla débâcle elettorale: ritornare a fare, della sinistra, il luogo in cui trasformare il «lavoro espropriato» e condizioni oggettive di diffusa, epidemica appartenenza al «mondo subalterno» in coscienza e antagonismo di classe. SULLA PRECARIETÀ 59 LORIS CAMPETTI giornalista de «il manifesto» LA PRECARIETÀ NELLA GRANDE FABBRICA DEL NORD Uno degli sport più diffusi nell’ambito confindustriale, politico e mediatico consiste nella contrapposizione tra garantiti e non garantiti. I primi sarebbero gli egoisti, lavoratori con il posto fisso e un surplus di diritti, dunque lacci e lacciuoli che li trasformerebbero, se va bene, in vincoli al libero fluire dell’economia e dell’occupazione e nella causa prima della bassa competitività del sistema; se va male, in fannulloni. I secondi sarebbero le vittime dei primi, costretti alla precarietà dall’egoismo di chi pretende tutto per sé e costringe di conseguenza chi detiene il potere economico a ritrovare un equilibrio competitivo a tutto svantaggio dei non garantiti. La filosofia è semplice: un esercito di lavoratori a tempo indeterminato, cioè a vita, armato di Statuto dei lavoratori, ne determina un secondo tendenzialmente crescente di precari a vita, disarmati. Sta qui la chiave di volta dell’accusa di guerra generazionale, i padri lancia in resta contro i figli. È uno sport non nuovissimo, questo, che ha i suoi prodromi nella seconda metà del Novecento e vanta tra i suoi tifosi un arco improbabile di culture e inculture politiche, da cui la sinistra non solo riformista (come si diceva nel Novecento) non era, e non è, immune. A mescolare le carte di una partita già di per sé truccata hanno concorso neo-ideologie post-marxiste e post-lavoriste, spacciate dai teorici del post-fordismo inteso come un bianchetto che tutto azzera, fino a cancellare la 60 struttura di classe data per ridisegnare soggetti, alleanze, prospettive. La fine del lavoro la chiamano, figlia di una vecchia teoria del rifiuto del lavoro da cui discenderebbe la flessibilità come scelta di vita e non come imposizione del capitale nella sua fase di sviluppo. Il neoliberismo, da forma storicamente determinata del capitalismo, diventerebbe quasi il becchino del capitalismo stesso, essendo che il becchino naturale, la classe operaia, non esisterebbe più. L’identikit del lavoratore garantito è l’operaio dell’industria, nordico e quaranta-cinquantenne, accompagnato però dal dipendente pubblico ovunque posizionato nel BelPaese, più noto come il fannullone. Il garantito ha una sola aspettativa: che la sua pensione non scivoli troppo in là nel tempo. Il non garantito, il precario, è decisamente più giovane, non necessariamente meridionale, lavoratore a corrente alternata nei call center, nei pubblici uffici, nell’industria, a cui non è dato ammalarsi, metter su casa, aspettare una pensione impossibile. Essere costretto a dipendere fino a tarda età dai genitori non ne fa oggetto di solidarietà ma dell’accusa di bamboccionismo. I veleni spacciati a piene mani dalla politica (quasi a 360 gradi) rischiano di costringerci in posizione difensiva, di denuncia troppo spesso impotente, quando invece sarebbe il momento di avviare un’inchiesta di massa sui cambiamenti avvenuti nella struttura economica, nell’organizzazione del lavoro, nella frattura tra mondo del lavoro e politica. È possibile che si debba attendere il risultato elettorale per prendere atto di questo fossato, per accorgersi che quasi tutti i ponti che consentivano di attraversarlo sono stati abbattuti, che la colpa di questo terremoto non va cercata fuori di noi, cioè della sinistra, perché nostro è il genio guastatori che ha minato i ponti e non ha frenato l’approfondirsi del fossato? Parlare di precarietà tra i lavoratori del Nord presuppone, mi ripeto, l’avvio di un’inchiesta di massa nelle fabbriche per leggere i mutamenti della struttura e delle soggettività. C’è un nesso tra la solitudine operaia, la sua rabbia che può diventare cieco rancore fino al paradosso dell’autolesionismo politico, la crisi della rappresentanza non più solo politica ma anche sociale. Vorrà dire qualcosa se nella più grande fabbrica italiana, Mirafiori, gli iscritti ai partiti che mi limiterei a chiamare non di destra per comprendere generosamente anche quelli del Pd, sono 9 (nove) su 15.000 dipendenti? E cosa ci racconta il fatto che un operaio bergamasco, magari con la tessera della Fiom in tasca, è disposto a battersi per difendere i diritti del lavoratore precario del Senegal che gli sta accanto in linea o in fonderia, ma quando varca i cancelli per rientrare in un territorio desertificato e abbandonato dalla sinistra (non dalla Lega) raccoglie le firme per espellere lo stesso senegalese che in fabbrica difende, perché «ognuno dev’essere padrone in casa sua»? E vota Lega di conseguenza, oppure direttamente Berlusconi perché se la sinistra ci ha traditi tanto vale stare con chi promette di abbattere le tasse. I poveri che votano per i ricchi, gli operai che votano per il loro padrone perché il nemico è diventato il senegalese. Vogliamo parlare di questo? Per farlo bisogna sforzarsi di coniugare la parola precarietà, sempre restando nel Nord operaio. Precarietà significa lavoro a tempo determinato, interinale, a part time, a chiamata (job on call), a contratto, in formazione e via sfogliando le cinquanta forme di precarietà sopravvissute al governo Berlusconi. Sulla stessa linea trovi lavoratori dipendenti, in appalto, in affitto, precari e «tradizionali» che fanno lo stesso lavoro con diversi orari, salari, diritti, sicurezza. Questa frantumazione non è forte in fabbrica come in altri settori lavorativi ma esiste, e scompone la classe, fino al paradosso di spostare il conflitto dal binomio capitale-lavoro al binomio operaio-operaio (allargando la visuale, italiano-straniero). C’entra o non c’entra questa deriva, non più solo potenziale, con la fuga della sinistra dalla materialità delle condizioni di lavoro e di vita della sua gente? A un operaio che vive questa condizione e questa solitudine, se è un «ga- SULLA PRECARIETÀ rantito», non resta che sperare in una pensione e che arrivi il prima possibile. Magari nel 2006 aveva investito nel centrosinistra, sia pure con fatica, e oggi presenta il conto del fallimento dei due anni di governo Prodi che non ha salvato la sua pensione. E presenta a tanti il conto di un luogo comune della politica che finge di piangere per i morti sul lavoro ma poi promette più precarietà, più ore di lavoro e più straordinari (cioè più rischi infortuni), motivandoli con la considerazione ovvia che i salari si sono impoveriti ma per aumentarli bisogna lavorare di più. Più di quanto lavorino oggi, oggi che come negli anni Cinquanta saltano le pause, aumentano ritmi e saturazioni e non c’è più tempo neanche per pisciare? Alla sinistra viene presentato anche il conto di errori non suoi, per esempio quelli del sindacato che si è ridotto ad accompagnare questi processi in nome del governo amico, mettendo a dura prova la sua autonomia, spianandosi sul veltronismo e assumendo su di sé i teorici della riduzione dei diritti in nome di una loro presunta estensione ai precari. Ci risiamo coi due tempi, di cui solo il primo è certo. Questo sentimento è diffuso, prorompente, rabbioso, ma non produce spostamento a sinistra. Sta qui uno dei nodi della non analizzata crisi sociale. Ma precarietà per l’operaio del Nord vuol dire molte altre cose. Precarietà di vita, salari di merda, fino alla povertà. Precarietà di futuro, legato alla crisi economica di cui in questa campagna elettorale ha parlato solo la destra. Precarietà per i propri figli, soprattutto, per una generazione che per la prima volta dal secondo dopoguerra ha la certezza che vivrà peggio dei propri genitori: senza lavo- ro sicuro, senza diritti (alla maternità, alla malattia, alla casa, ecc.), senza pensione. In parole povere, senza speranza di futuro. I fischi a Mirafiori ai tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil gridavano apertamente queste verità e non sono stati ascoltati quasi da nessuno, oppure sono stati archiviati in fretta e furia. Precarietà è anche mancanza di rappresentanza sindacale – basti pensare alla triste vicenda del referendum truccato sul protocollo sul welfare – e politica: «sono tutti uguali, non resta che pensare ciascuno a se stesso». Crescono le suggestioni securitarie, le paure, dunque la precarietà. Dunque cresce la destra. Da dove si riparte? Io penso dal lavoro, dalle condizioni materiali, se l’obiettivo è la ricostruzione non di una sinistra astratta, galleggiante, politicista, ma di una sinistra sociale che ha bisogno di idee, cultura, radicamento o reinsediamento che dir si voglia, nei posti di lavoro e nel territorio. Ha ragione chi dice che la teoria del partito leggero, di plastica, è radicalmente smentita dal voto alla Lega che è un partito radicato, robusto, basato su solidi principi e valori (ci si consenta il termine). Ma questo non vuol dire, credo, che la forma partito così come l’abbiamo conosciuta sia uno strumento utile in questa nuova stagione. Ma questo è un altro ragionamento, che travalica la questione della precarietà tra i lavoratori del Nord. Forse. 61 62 GIANNI ALASIA sindacalista e dirigente politico PRECARIATO: IL NOSTRO GIUDIZIO, IL NOSTRO LAVORO Recentemente il professor Giuseppe Berta dell’Università di Torino ha scritto che «la parola d’ordine contro il precariato rischia di essere formula generica se intende mobilitare contro una condizione generalizzata una sorta di denominatore comune». È una considerazione che io condivido nel merito e che mi pare ci suggerisca modalità di intervento altrettanto condivisibili. Abbiamo avuto a Torino ripetuti incontri e discussioni con i precari. Vittorio Rieser dell’Ires Cgil sostiene che si possano sommariamente individuare tre tipi di precari: - coloro i quali lavorano pochi giorni, in uno stato di complessiva «polverizzazione»; - coloro i quali hanno contratti di più lunga durata e lavorano – tramite agenzia – in aziende diverse; - coloro i quali, infine, lavorano in una stessa azienda con un rapporto rinnovato, tale da farli sentire sufficientemente garantiti. I ragazzi di «Torino precaria», realtà giovanile sostenuta dalla Fiom, scrivono che «non è dignitoso che il precario sia al centro del mondo del lavoro e alla periferia di quello sociale». È una critica che coglie nel segno, giusta, e che investe tutto il mondo politico. Io mi sento mortificato a causa del «politicismo» in atto: come quando sui precari si evocano titoli generici («il precariato») senza cogliere la complessità della questione. Così i precari percepiscono che facciamo solo agitazione e propaganda e ci danno il benservito. SULLA PRECARIETÀ Sono d’accordo con Ascanio Celestini che prima di parlare di precarietà si deve averla provata o almeno vista da molto vicino. Mi sforzo di fare questo, tentando di analizzare il fenomeno nella sua complessità. Perché c’è anche un problema di onestà intellettuale, di informazione e comunicazione, di conoscenze e di cultura che dovrebbero combinarsi, integrarsi in una vera dialettica. Lo stesso Celestini ha recentemente raccontato, con molta arguzia, questo aneddoto che riporto integralmente. «Ho incontrato un tunisino – scrive Celestini – e mi ha detto: «Mi chiamo Mimmo». «Come Mimmo?» gli ho risposto. «Sì, mi chiamo Mimmo. In realtà mi chiamo Mohamed ma il mio vero nome non lo sai pronunciare perché non mi capisci. Non capisci la nostra cultura: l’astronomia, la chimica, la tavola pitagorica e i numeri, l’anatomia, i grandi palazzi come l’Alambra, la grande moschea di Cordova. Ci considerate dei sottosviluppati». Lo stesso accade in tema di precarietà. Provate a chiedere a dieci dirigenti scelti a caso dal mondo politico cosa sappiano di precariato per aree territoriali, per durata del rapporto di lavoro (quanti giorni), se e quanti rinnovi normalmente si danno. Si parla spesso di formazione e di corsi complementari. Ma cosa sono formazione e corsi complementari per un apprendista che – come capita – nel giro di un anno cambia quattro o cinque padroni con mansioni e lavori diversi? Parliamo allora un momento di questa complessità, focalizzando una significativa realtà regionale. Nel 2006 in Piemonte 86.000 lavoratori precari hanno lavorato da 1 a 15 giorni mentre altri 33.700 hanno lavorato soltanto un giorno. L’anno successivo l’Osservatorio del lavoro indica che le nuove assunzioni sono state 400.522. Tenuto conto però che per diverse persone vi sono state più assunzioni, le persone realmente assunte sarebbero 230.000. In una nostra riunione, qualche giorno fa, una ragazza molto qualificata, impiegata della Presidenza della Regione al Settore Internazionale, mi diceva che ha avuto già cinque rinnovi. Ci sono apprendisti che, nel giro di un anno o un anno e mezzo, cambiano 4 o 5 padroni diversi, modificando mansioni e prestazione lavorativa. La rete «Torino precaria» ci ricorda ancora che «la precarietà atomizza i soggetti». È fondamentale fare uno sforzo per contrastare questa atomizzazione, per unificare il mondo del lavoro precario. Certo: è importante l’intervento legislativo. Ma è altrettanto importante che i precari siano inseriti in un circuito virtuoso e che non si sia solo noi (spesso parte del «ceto politico» privilegiato) a parlarne. Recentemente abbiamo assistito a diverse mobilitazioni importanti, tra cui la manifestazione di un centinaio di precari in Regione. Cerchiamo di cogliere queste complessità chiamando in causa i ruoli di Regioni, Comuni, Province. È necessario anche saper avanzare obiettivi rivendicativi parziali, capaci per intanto di modificare anche parzialmente la condizione di lavoro: ho assistito all’importante lotta contrattuale dei lavoratori del commercio. In un loro recente documento affermano che «la riduzione della precarietà passa anche attraverso l’estensione dei diritti. Confcommercio non vuole estendere sanità e previdenza integrativa agli apprendisti: la riduzione della precarietà passa anche attraverso il controllo dei processi di esternalizzazione e appalti». A Torino abbiamo posto proprio questo problema. Abbiamo in corso un’iniziativa per accertare quali siano le aziende e le cooperative che ricevono dal Comune incarichi di lavoro; a quanto ammonti l’importo della gara, quali aziende partecipate, e per quali opere e con quali funzioni siano coinvolte in processi produttivi nella città e in provincia; quali siano le tipologie di contratto, quali gli itinerari degli apprendisti, quale la formazione in aula o in azienda. Un analogo sforzo di precisione va condotto per la Regione per le questioni più rilevanti. Se la Regione sostiene i corsi in azienda non più co-finanziati con i fondi europei, quali impegni ha assunto? Con quali contenuti didattici? Se per ogni precario vi sono state più assunzioni, quante sono state le persone effettivamente assunte? C’è un forte incremento delle donne assunte come apprendiste (più del 45,8%): cosa succede alle donne nelle ore stagionali di punta delle vendite? Infine sui contenuti formativi: il Governo aveva anni fa incaricato la Commissione Maragliano di ragionare intorno al problema dei «nuovi saperi» e dei «nuovi contenuti». Cosa si è fatto? C’è il problema di armonizzare Nord e Sud. Se c’è diversità di ore e di contenuti formativi è evidente che vince il disegno leghista che vuole lavoratori qualificati al Nord e dequalificati al Sud. Realisticamente ciò non produce di per sé la nostra capacità di affrontare, tutti e subito, questi molteplici aspetti. Via via intaglieremo impegni e lavoro. Ma il quadro complessivo dobbiamo averlo bene presente per non cadere in un volgare pragmatismo. Spero che la complessità qui rappresentata non appaia noiosa pignoleria. Per me sono noiose, anzi ormai insopportabili, le troppe genericità del politicismo. 63 64 GIOVANNA VERTOVA docente di Economia politica all’Università di Bergamo NUOVO CAPITALISMO E FRAMMENTAZIONE DEL LAVORO Capire la flessibilità del mercato del lavoro e proporre misure adeguate per il suo superamento richiede un’analisi attenta dell’attuale fase di accumulazione capitalistica, delle sue novità e delle sue ripercussioni sulle condizioni della classe lavoratrice. Paragonando questo periodo a quello precedente, cosiddetto «fordista-keynesiano’, tanti sono i cambiamenti. Mi limito a focalizzarmi su quelli più interessanti per la loro diretta o indiretta ricaduta sul mondo del lavoro: (1) un’immensa centralizzazione di capitale, sia produttivo che finanziario, senza concentrazione di lavoratori ma, al contrario, spesso accompagnata da una riduzione della dimensione media d’impresa; (2) una complicazione del quadro geopolitico internazionale «centro-periferia» a causa dell’entrata in scena di nuovi competitori mondiali, con conseguente aumento dell’intensità della concorrenza inter-capitalistica globale; (3) un sostanziale raddoppio della forzalavoro mondiale dai primi anni Novanta; (4) una universale sussunzione del lavoro alla finanza e al debito; (5) un consumo sostenuto dall’indebitamento privato e, quindi, dipendente dalle politiche monetarie; (6) le ricadute di questi processi sulla valorizzazione diretta, e dunque anche il cambiamento nella natura della prestazione lavorativa. Queste novità, qui velocemente ricordate, concorrono a rendere l’attuale fase capitalistica molto più incerta, instabile e periodicamente insostenibile della precedente. SULLA PRECARIETÀ Di fronte a questa situazione, il capitale, complice una politica accomodante, ha reagito scaricando tutto sul mondo del lavoro, chiedendo, e generalmente ottenendo, dosi sempre maggiori di flessibilità. Una forza-lavoro «usa e getta» permette di guadagnare o conservare dei margini di competitività nel gioco del capitale globale e, soprattutto, concorre a mantenere una classe lavoratrice spaventata e «traumatizzata», maggiormente ricattabile e, quindi, più facilmente disposta ad accettare condizioni di lavoro intollerabili. Inoltre, la flessibilità sembra funzionale a un lunghissimo «periodo di prova», accompagnato da tutte le possibilità di controllo e di ricatto da parte del capitale che, alla fine, si sceglie i lavoratori «migliori», cioè quelli meno conflittuali e/o sindacalizzati. La vera funzione della precarizzazione è quella di stabilire un permanente potere di ricatto che rende poco contestabile il comando del capitale dentro il processo di valorizzazione. Infine, le offensive al mondo del lavoro sono tali da produrre una precarizzazione generale. Il lavoro «garantito» subisce costanti attacchi (al salario, alle proprie condizioni, ai diritti conquistati con anni di lotte) ed è sempre subalterno alla congiuntura internazionale. Il lavoro «precario» è continuo ma senza posto fisso, poiché i contratti atipici vengono rinnovati di anno in anno per finti lavoratori autonomi che lavorano sempre per lo stesso committente svolgendo sempre la medesima mansione. Le due posizioni – il «garantito» e il «precario» – si stanno drammaticamente avvicinando producendo una classe lavoratrice frammentata in tanti singoli individui che si trovano di fronte a padroni, contratti, condizioni lavorative e salariali diverse, anche quando lavorano gomito a gomito, nello stesso luogo di lavoro, producendo una stessa merce. Questo nuovo capitalismo è riuscito pienamente a dividere il lavoro, a individualizzare la prestazione lavorativa e a mettere in contrapposizione gli interessi dei presunti «garantiti» con quelli dei «precari» (basti pensare ai suggerimenti «alla Ichino» che chiedono una riduzione delle garanzie dei lavoratori a tempo indeterminato per combattere la precarietà dei «giovani»). Qualsiasi proposta di politica economica deve, quindi, spingere verso una riunificazione della classe lavoratrice, accettando il dato di fatto che il mondo del lavoro è eterogeneo, i lavori sono tanti e diversi ma tutti di pari dignità, e che non esiste una figura centrale rappresentativa della fase attuale. Nel capitalismo la forza-lavoro è perennemente sfruttata nel processo immediato di produzione, indipendentemente dal lavoro concreto erogato (materiale o immateriale che sia), dalla merce che viene prodotta (sia essa un’automobile o un sito web), dal vincolo giuridico che lega il venditore della forza-lavoro con l’acquirente (sia esso un contratto a tempo indeterminato o un contratto «atipico»). La distinzione tra lavoro «manuale» e quello «intellettuale» non solamente è forzata (il capitale non avrebbe vissuto un istante se non fosse stato in grado di dosare saggiamente le quantità di lavoro manuale e intellettuale a lui necessarie) ma, soprattutto, dannosa poiché tende a creare divisioni. Conseguentemente, devono essere disegnate proposte di politica economica che considerino la classe lavoratrice nella sua interezza e, soprattutto, che evitino di contrapporre le due figure, i «garantiti» e i «precari». Una riforma del welfare che si pone l’obiettivo di contrastare la precarietà dilagante dovrebbe essere basata su due pilastri fondamentali e complementari: (1) un trasferimento di reddito (non monetario) sotto forma di sempre maggiori beni pubblici; (2) un reddito garantito (Rg) universale e incondizionato, cioè sganciato dalla prestazione lavorativa. Purtroppo, il primo pilastro si è drasticamente ridotto fin dalla prima ondata di privatizzazioni degli anni Novanta, funzionale al rientro dei conti pubblici e necessario per entrare nell’euro. Il secondo pilastro potrebbe avere una efficace funzione redistributiva solo se erogato a tutti e finanziato con un sistema fiscale molto progressivo e (come dirò) solo all’interno di politiche macroeconomiche del lavoro che lo rendano sostenibile. È comunque un’idea di difficile applicazione nell’Italia di oggi, dove ancora non esiste un sistema fiscale veramente progressivo, e dove evasione ed elusione sono più la norma che l’eccezione. Tuttavia, le varie proposte di Rg rischiano di avere una pura dimensione ideologica. Nella realtà, nessun Paese ha mai introdotto un vero e proprio Rg ma solo un sostegno/sussidio2. L’integrazione non è mai stata universale ma riservata sempre e solo ad alcune categorie di lavoratori (i precari, i disoccupati, le famiglie o gli individui in stato di necessità, ecc.). Inoltre, sebbene questa integrazione sia effettivamente sganciata da una prestazione 65 66 lavorativa, è sempre richiesto ai potenziali beneficiari la dimostrazione di stare cercando lavoro attivamente, o di essere disposti ad accettare qualsiasi lavoro offerto, oppure di essere idonei al lavoro (l’Irlanda e il Regno Unito sono gli unici Paesi che fanno eccezione a questa regola generale). Infine, la somma erogata non è mai stata tale da permettere la scelta tra lavoro e non lavoro, così come vorrebbero i sostenitori del Rg. In Italia l’esperienza è stata ancora più tragica, poiché oltre ad aver introdotto solo delle forme di sussidio, in linea con quanto fatto negli altri Paesi europei, il cosiddetto RG è stato introdotto a livello regionale, quando non addirittura comunale. Queste proposte convincono poco sia sul piano teorico che su quello politico. Teoricamente, questo tipo di Rg, che svolge il solo compito di integrazione al salario/reddito, rischia di spingere verso il basso tutta la struttura salariale, rendendo molto probabile un «effetto Speenhamland»3. I padroni avrebbero tutto l’interesse a ridurre i salari, visto che il lavoratore gode già di un’integrazione al reddito, indebolendo così, contro le intenzioni, la capacità contrattuale dei lavoratori. Si corre il pericolo di favorire l’istituirsi di un compromesso malsano tra padroni e lavoratori: i primi offrono salari e posti saltuari, i secondi li accettano perché intanto c’è il Rg. Così i «lavori buoni» spariscono e i «lavori cattivi» dilagano. Queste proposte, nella loro applicazione concreta, vanno dunque nella direzione di frammentare ulteriormente la classe lavoratrice sia giuridicamente (il reddito è garantito solo ad alcune categorie di lavoratori), sia, nel caso italiano, geograficamente (le regioni/i comuni più ricche potranno concedere maggior reddito). Difficilmente questa situazione sfocerebbe in solidarietà tra lavoratori ma, anzi, tenderebbe a creare una ingiusta gerarchia tra chi dovrebbe ricevere l’integrazione al reddito, incoraggiando una guerra tra poveri a solo vantaggio del capitale. Si può essere legittimamente convinti di queste posizioni, tuttavia si abbia l’onestà intellettuale di chiamarle con il loro nome: un sussidio ai «precari», non un Rg. Anche la proposta «pura» di Rg universale e incondizionato presenta dei problemi sia a livello teorico che politico. L’idea sottostante è che la ricattabilità della classe lavoratrice possa essere eliminata dando la possibilità di scegliere tra lavoro e non lavoro. Se il lavoratore deve lavorare per vivere, basterebbe concedere un reddito sganciato dalla prestazione lavorativa per toglierlo da questo ricatto e metterlo nella condizione di scegliere se e quanto lavorare. Ipotizziamo che venga concesso un Rg universale e incondizionato a tutti i cittadini italiani, l’obiezione teorica nasce spontanea dalla domanda circa chi dovrebbe lavorare per creare quella ricchezza concreta dalla quale attingere per distribuire il Rg ai cittadini italiani. Si spaccherebbe, quindi, a livello mondiale la classe lavoratrice tra chi potrebbe permettersi di non lavorare, perché vive in un Paese a capitalismo avanzato che si può permettere di erogare un Rg ai suoi cittadini, e chi dovrebbe lavorare per mantenere il «nostro» Rg (i bambini cinesi, le donne indiane, gli agricoltori brasiliani, gli immigrati nel «nostro» Paese ecc.). Inoltre, per permettere la scelta tra lavoro e non lavoro, è necessario che il Rg sia fissato a un livello vicino al salario reale medio, incompatibile quindi con il sistema (si badi, i sostenitori del Rg lo presentano, invece, come proposta «realistica» in quanto sostenibile nella nuova fase del capitalismo cognitivo). Solo in questo modo la riduzione dell’offerta di lavoro, dovuta a tutti quei lavoratori che potrebbero decidere di non lavorare limitandosi a percepire il Rg, potrebbe spingere verso l’alto i salari reali dei lavoratori che, invece, deciderebbero di lavorare pur ricevendo il Rg. Tuttavia questa proposta non tiene in considerazione la debolezza politica della fase corrente ma, semplicemente, sogna una forza tale da infrangere le compatibilità strette del capitalismo attuale. Talora, contraddittoriamente, i sostenitori del Rg riconoscono che la proposta è insostenibile, e la rivendicano come posizione «antagonista». Me se la classe lavoratrice avesse la forza politica per ottenere un vero Rg (universale, incondizionato e superiore al salario reale medio), perché allora non chiedere molto, ma molto di più, direttamente, sul terreno del lavoro e della composizione della produzione? Invece, la debolezza politica è tale che perfino le richieste di aumenti salariali per recuperare l’inflazione effettiva trovano difficoltà a realizzarsi. Basta seguire il dibattito politico della campagna elettorale in corso per rendersene conto. Le proposte qui analizzate sono sempre e solo misure redistributive. E, come tali, presentano alcuni problemi. Due in particolare. Prima di tutto, partono dal presupposto, più o meno esplicito, che il capitalismo contemporaneo produca valore e plusvalore in modo stabile. Questa SULLA PRECARIETÀ assunzione è basata su interpretazioni dell’attuale fase capitalistica molto approssimative (l’economia della conoscenza, il post-fordismo, il capitalismo cognitivo, etc.), e diventate dei luoghi comuni anche nella sinistra cosiddetta radicale. Occorre, invece, ricordare che le classiche forme di redistribuzione hanno funzionato quando collocate in un contesto macroeconomico ben più sostenibile di quello presente, quello «fordista-keynesiano». Oggi, invece, viviamo in un sistema capitalistico molto instabile, che negli anni più recenti ha visto il susseguirsi di crisi reali e finanziarie, che rendono le misure meramente redistributive illusorie. Diventa, quindi, necessario ipotizzare anche interventi sulle politiche macroeconomiche se si vuole che quelle redistributive abbiano efficacia. In secondo luogo, queste misure non vanno a intaccare i rapporti di forza tra capitale e lavoro, se non nel senso di indebolire il secondo. Sia un autentico Rg (quello universale e incondizionato) che la sua versione povera di «sussidio ai precari» sono pensate come proposte di ricomposizione della classe lavoratrice fuori dal processo di lavoro e dai rapporti sociali nella produzione. Nella prima ipotesi (incompatibilista) i rapporti tra capitale e lavoro restano identici, anche se limitati a quei lavoratori che, non percependo il Rg, sono ancora costretti a lavorare per vivere. Resta, quindi, invariato il tasso di sfruttamento di coloro che dovrebbero effettivamente pagare il Rg a qualcun altro. Nella seconda ipotesi (compatibilista) i rapporti di classe sono peggiorati, in quanto i padroni hanno scaricato sullo Stato, quindi sulla collettività, parte del salario. In entrambi i casi, non si mette mai in discussione la questione dello sfruttamento insito nelle dinamiche capitalistiche. Si chiede solamente una sorta di «regolazione istituzionale», visto che è lo Stato che dovrebbe elargire il Rg. Si accetta il capitalismo nella produzione, perché è simpaticamente «dinamico», contando di appropriarsi della ricchezza nella distribuzione, e dunque nel consumo. È una tipica mossa del riformismo: voler sfruttare la dinamicità del capitale e mettere il «comunismo» nella redistribuzione. Certo, l’integrazione al reddito rende forse più sopportabile la precarietà nel breve periodo, ma non la elimina. Semmai, nel lungo periodo, la cristallizza e la congela. E, intanto, si cancella ogni discussione sulle forme della messa al lavoro, sul comando capitalistico, sulle modalità di sfruttamento. Pensare di superare il capitalismo con una mera garanzia di reddito, senza conflitto sociale nella produzione, è alquanto paradossale. 67 1. Per una presentazione chiara ed esaustiva delle novità dell’attuale fase di accumulazione capitalistica, consiglio il saggio di Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi (2006) Tendenze del capitalismo contemporaneo, destrutturazione del lavoro e limiti del «keynesismo». Per una critica dell’economia politica, in Rive Gauche. La critica della politica economica e le coalizioni progressiste in Italia, a cura di Sergio Cesaratto e Riccardo Realfonzo, manifestolibri, Roma, pp. 83-80. E per gli sviluppi di questa analisi, si veda Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi, Il «nuovo» capitalismo e il ritorno dell’instabilità finanziaria, «Alternative per il socialismo», settembre-ottobre, n. 3, pp. 113-125. 2. Per un’analisi dettagliata delle varie proposte di Rg introdotta da alcuni Paesi europei si veda il libro curato dall’Assessore al Lavoro, Pari Opportunità e Politiche Giovanili della Regione Lazio (2006), Reddito garantito e nuovi diritti sociali. I sistemi di protezione del reddito in Europa a confronto per una legge nella regione Lazio. 3. Intorno al 1795, nel distretto inglese di Speenhamland, le autorità locali introdussero un sussidio al salario con lo scopo di mitigare gli effetti devastanti della povertà. Il risultato fu che i padroni abbassarono i salari, poiché la parrocchia integrava il salario con un sussidio. 68 CRISTINA TAJANI ricercatrice presso il Dipartimento di Studi del lavoro e del welfare dell’Università degli Studi di Milano I LUOGHI COMUNI SU LAVORO E WELFARE IN ITALIA1 Welfare lavoristico è la definizione comunemente usata per definire il sistema di protezione sociale italiano. Con questa espressione si intende sottolineare la circostanza che gran parte delle prestazioni sociali erogate (escluso il capitolo della sanità, ad accesso universalistico) siano subordinate al raggiungimento di alcuni requisiti (contributivi, assicurativi, temporali) connessi alla posizione lavorativa. Il nesso tra lavoro e welfare non rappresenta, a mio parere, un dato problematico se non fosse che il lavorismo di alcune misure di protezione sociale (assegni familiari, indennità di disoccupazione, malattia e altro) smette di funzionare per alcuni milioni di lavoratori con contratti a termine o in collaborazione. Dunque qualcuno è più lavoratore di altri in base alla forma contrattuale applicatagli. È a causa di questo stretto legame tra lavoro e prestazioni sociali, incrinato oggi dai processi di trasformazione del lavoro, che ritengo la discussione della sinistra su questi temi debba farsi di ordine programmatico. Cioè volta alla costruzione di risposte possibili e non resistenziali anche sulla scorta di un’innovazione culturale nella lettura dei processi. C’è bisogno che la sinistra (chi si dice di sinistra) prenda posizione e costruisca una «visione» globale di quello che pensiamo debba essere lo Stato «sociale» all’epoca del lavoro intermittente e frammentato (cosa che non implica la dismissione della battaglia per il lavoro stabile). SULLA PRECARIETÀ Le questioni da considerare hanno a che fare con le due cifre principali che caratterizzano il lavoro in Italia, oggi: la precarietà e i bassi salari. Questi temi sembrano essere tornati al centro del dibattito politico e mediatico. Il che è senz’altro un bene e testimonia che il lavoro resta una dimensione centrale della vita delle persone, sebbene non sia centrale come luogo di soggettivazione politica. Il mio intento è quello di provare a indicare dei temi di riflessione a partire dal rovesciamento di alcuni «luoghi comuni» del dibattito pubblico in tema di lavoro, precarietà, salari, welfare. Questo perché la discussione pubblica stenta a prendere le distanze da alcuni assunti sulla base dei quali si formulano sentenze e si costruiscono ricette politiche, e le voci che propongono argomenti e visioni diverse sono residuali, spesso non percepite come dotate della stessa autorevolezza di chi, per esempio, ci spiega che «il liberismo è di sinistra»2. Anche a fronte di una percezione chiara e diffusa di alcuni fenomeni (la precarietà, l’erosione salariale) la lettura che ne viene proposta è spesso del tutto ideologica, mentre chi sostiene la non inevitabilità di alcuni processi non è percepito come credibile (ed è questo un grande tema per la sinistra…). Assumerò come idolo polemico quattro o cinque relazioni di causazione desunte dalla lettura dei giornali negli ultimi mesi che sono grossomodo le seguenti: – la flessibilità dei contratti, sebbene comporti dei costi sociali, ha fatto aumentare l’occupazione; – i bassi salari dei giovani si spiegano per l’iper-tutela (si legga art. 18) dei lavoratori stabilmente inseriti nel mercato del lavoro (gli «insider» sarebbero la causa delle difficoltà degli «outsider»); – i bassi salari generalizzati dipendono dalla dinamica fiacca della produttività del lavoro; – il decentramento contrattuale è l’unica via possibile all’aumento salariale. La protezione sociale delle giovani generazioni (precarie) implica inevitabilmente la revisione del sistema pensionistico (togliere agli anziani per dare ai giovani). Per quanto riguarda la prima relazione, stupisce che autorevoli scienziati sociali ritengano di stabilire un nesso di causa ed effetto tra due eventi (la flessibilità e la crescita occupazionale) senza alcuna cautela metodologica anche a fronte del fatto che la crescita occupazionale ha interessato quasi in eguale misura il lavoro stabile e quello precario. Altre variabili (la regolarizzazione degli immigrati, lo spostamento strutturale dell’economia dai settori tradizionali a quelli del terziario e del quaternario, la moderazione salariale) hanno agito come concause della crescita dell’occupazione. In casi come questi sarebbe utile porsi il problema in termini controfattuali: la dinamica occupazionale del mercato del lavoro sarebbe stata dello stesso segno anche in mancanza delle misure «flessibilizzanti» introdotte nel 1997 e nel 2003? Chi scrive ha condotto uno studio sugli effetti occupazionali dell’introduzione dell’interinale in Italia giungendo a mostrare, attraverso una logica controfattuale, che nel settore industriale la quota di lavoro interinale registrato si configura come sostitutivo e non aggiuntivo di occupazione (www.aiel.it/bacheca/NAPOLI/D/tajani.pdf). Identificare quale sia il contributo occupazionale del lavoro flessibile è cosa utile per demistificare la relazione tra flessibilità e crescita occupazionale che sottende la falsa alternativa tra precarietà e disoccupazione. Non ci esime, però, dal considerare con serietà quella quota di lavoro flessibile legata strutturalmente all’avanzare dei settori del terziario e del quaternario e dal porci il problema della regolazione di queste forme di lavoro (e della tutela di questi lavoratori). Se dunque è vero che in molte aziende manifatturiere si è assistito a un effetto di sostituzione tra lavoro stabile e lavoro precario (al fine di comprimere il costo del lavoro) è anche vero che alcune funzioni del terziario innovativo sono tendenzialmente più instabili. È necessario assumere la questione nella sua complessità senza elusioni. Qui c’è anche un punto più politico sul modo in cui trattiamo il tema della precarietà e i precari stessi: soggetti definiti in negativo. Il precario «esemplare» è quello che ci racconta in tv e nelle nostre iniziative la sua condizione di privazione (di diritti, di reddito… più è tragica e meglio è) senz’altro reale. Ma la nostra disponibilità «diagnostica» rispetto al modo in cui la condizione di precarietà viene gestita, alle strategie individuali e collettive messe in atto, agli atteggiamenti rispetto al lavoro è talora insufficiente. Le strategie di vita e di relazione di una parte consistente della generazione flessibile sono sì influenzate dalla condizione di instabilità lavorativa, ma pure esse si danno, esprimono dei significati, delle opzioni, e meritano di essere considerate nella «politicità» che esprimono. 69 70 I maggiori quotidiani italiani hanno ripreso con stupore la ricerca pubblicata da Bankitalia a fine 2007 in cui si documenta la perdita di potere d’acquisto dei salari dei giovani negli ultimi 30 anni. Lo stesso Governatore Draghi ha citato questi dati nella sua lezione all’Università di Torino, a novembre dello scorso anno. La stessa ricerca mostra efficacemente come quest’erosione di salario sia stabile (non viene recuperata nel corso del tempo) e non transitoria. Pochi però hanno fatto caso alle spiegazioni del fenomeno suggerite dai ricercatori di Bankitalia: i giovani perdono potere d’acquisto perché gli «insider»(ovvero i loro genitori stabilmente inseriti nel mercato del lavoro) hanno scaricato sulle giovani generazioni tutto il peso dell’aggiustamento economico. Se la flessibilità riguardasse non solo l’ingresso ma anche l’uscita dal mercato (art. 18) i «sacrifici» sarebbero più equamente ripartiti tra le generazioni. Nessun economista ha convincentemente mostrato che questa asserzione sia vera e che un’eventuale maggiore flessibilità in uscita non si andrebbe semplicemente a sommare a quella in entrata. Tanto più che, come mostra l’Istat, circa la metà dei lavoratori italiani si concentra in imprese con meno di 10 addetti, quindi di fatto esclusi dalla tutela dell’art. 18. I modelli «insider-outsider» sono spesso evocati dagli economisti per spiegare il peggioramento delle condizioni di lavoro delle coorti più giovani (che sono anche notevolmente più scolarizzate e formate di quelle precedenti), ma nessun automatismo garantisce che l’indebolimento delle tutele «on the job» (ovvero l’indebolimento dei regimi di protezione dell’impiego) provocherebbe un miglioramento nelle condizioni dei nuovi entranti. La stessa Ocse, che per prima un decennio fa utilizzò quest’approccio per sostenere la necessità di indebolire i regimi di protezione all’impiego in Paesi come l’Italia, ha dovuto riconoscere che l’alta o la bassa protezione all’impiego è pressoché irrilevante rispetto alle performance economiche dei Paesi. La crescita lenta della produttività del lavoro viene comunemente evocata per spiegare i bassi salari italiani (tra i più bassi d’Europa). Anche assumendo che il lavoro venga remunerato in relazione alla produttività (cosa che fa l’economia neoclassica espungendo il conflitto dalla sfera della distribuzione del reddito, ben presente agli economisti classici) sarebbe utile interrogarsi sulle cause della bassa produttività. L’Istat ha recentemente pubblicato le serie storiche delle misure di produttività in Italia dal 1980 al 2006. Da questi dati si evince come il contributo del capitale alla crescita della produttività del lavoro si sia mantenuto basso in tutto il periodo considerato. Il contributo del capitale hi-tech è poi di poco di- stante dallo zero. A meno che non si pensi che la produttività del lavoro si possa aumentare attraverso l’intensificazione dei ritmi e la dilatazione dei tempi (cosa che ci riporterebbe indietro nel tempo) bisogna ammettere che siamo in presenza di un problema di investimenti e di innovazione dal lato del capitale. Anche in questo caso, però, credo che alla sinistra non possa bastare liquidare la questione con il vecchio slogan del capitalismo italiano straccione e arretrato. Se, come credo, il livello su cui è necessario attestarsi è di ordine programmatico, il tema dell’impresa (come si organizzano, quali strategie competitive adottano, quali relazioni col territorio instaurano…) non può essere accantonato come se riguardasse esclusivamente gli «altri». Se nominiamo il «lavoro» come soggetto sociale cui guardare non possiamo ignorare i luoghi in cui il lavoro viene erogato come se fossero un tutto indistinto, comunque «altro» dalle nostre preoccupazioni. Ovvero come se non ci fossero delle opzioni migliori di altre da poter indicare. Il fatto di dirsi «anticapitalisti» non può esimere, io credo, chi tale si professa dal fare un ragionamento sui modelli possibili di capitalismo, sulle opzioni e le strategie che non sono univocamente determinate. Lo mostra benissimo Susanne Berger nel suo studio «dal basso» svolto al Mit di Boston sulle strategie competitive di un campione di centinaia di aziende mondiali (tra cui anche molte italiane). Lo studio (che è stato recentemente tradotto in italiano col titolo di «Mondializzazione: Come fanno a competere?») descrive come le strategie basate su esternalizzazione, compressione del costo del lavoro, delocalizzazione non solo non siano le uniche possibili in un’economia globalizzata, ma anche come aziende che abbiano scelto strategie opposte abbiano ottenuto performance e risultati migliori. Tutto questo per noi è irrilevante? Io credo che non debba esserlo. Per tornare alla relazione tra produttività e salari, invece, credo che a chi pensa che la remunerazione della maggior produttività e l’aumento dei salari possa avvenire solo a livello aziendale (per via di un decentramento contrattuale) bisognerebbe ricordare che la contrattazione di secondo livello copre meno del 30% delle imprese sindacalizzate e che il nanismo industriale è tuttora la cifra della struttura d’impresa italiana. Secondo l’Istat, infatti, la dimensione media delle imprese italiane rimane, anche nel 2005, di circa 3,8 addetti (5,9 addetti nell’industria, 3,1 nei servizi). Nelle microimprese (meno di 10 addetti), che rappresentano il 94,9 per cento del totale, si concentra il 48,0 per cento degli addetti, il 25,2 per cento dei dipendenti, il 28,3 per cento del fatturato e il 32,8 per cento del valore aggiunto. È nota la difficoltà di implementare contratta- SULLA PRECARIETÀ zione decentrata in imprese di queste dimensioni. Questi lavoratori dovrebbero, quindi, rimanere esclusi dalla ripartizione del valore che pure concorrono a produrre a livello di sistema? L’ultimo argomento che vorrei toccare, quello del welfare e del sistema pensionistico, è stato oggetto di grande dibattito a cavallo della firma del Protocollo di luglio. Com’è noto l’Italia è il Paese europeo con la più alta percentuale di spesa previdenziale sul totale: il 62%, che rappresenta il 16% del Pil nazionale. Nell’Europa a 25 la previdenza rappresenta, in media, comunque la quota più ampia della spesa sociale: il 45,7% del totale, che rappresenta il 12,3% del Pil. È a questo dato che si sono sempre appellati i sostenitori dei tagli alla spesa previdenziale italiana, senza raccontare, però, l’altra parte della storia. In primo luogo c’è da notare che nel caso italiano la quota di spesa previdenziale comprende anche il TFR, altrove inserito sotto altre voci di spesa. Il Tfr pesa per ben il 5% della spesa sociale totale. Anche Polonia, Lituania, Malta e Grecia si attestano sopra il 50% di «share» delle pensioni sulla spesa sociale totale. Si tratta di Paesi che, insieme all’Italia, suppliscono con la spesa previdenziale anche ad altri bisogni di protezione sociale, come dimostrano i dati sugli altri capitoli di spesa. La seconda voce di spesa per entità è la sanità, che in media assorbe circa il 28% del totale e il 7,6% del Pil. A cominciare da questo capitolo (la sanità per noi rappresenta circa il 25% della spesa totale) l’Italia si attesta sotto la media in tutte le voci di spesa sociale. Dopo pensioni e sanità l’entità di spesa diminuisce sensibilmente per gli altri capitoli in tutti i Paesi europei. L’Italia però fa peggio degli altri. In media l’Europa spende l’8% della spesa totale sui capitoli della disabilità (i Paesi più generosi sono Finlandia, Svezia e Danimarca) e famiglia/infanzia (su quest’ultimo capitolo ci registriamo tra gli ultimi insieme a Spagna, Polonia e Olanda). Le voci che assorbono in media la quantità di spesa inferiore sono i sussidi di disoccupazione e le misure contro l’esclusione sociale e per l’abitare. In media queste due voci pesano rispettivamente per il 6,6% e il 3,5%. L’Italia ha la performance di spesa peggiore per entrambe le tipologie di misure: 1,8% e 0,2% rispettivamente per disoccupazione ed esclusione. È forse da questi ultimi dati che dovrebbe cominciare una riflessione sul welfare italiano, anche alla luce di un altro dato: quello sul finanziamento della spesa sociale. In Europa, infatti, la spesa sociale è finanziata per il 60% dai contributi sociali e per il 37% dalle tasse. In Italia le percentuali sono rispettivamente del 58,6% e del 39,8%. È noto che i giovani lavoratori, perlopiù con contratti intermittenti, generano un flusso di contributi sociali inferiore a quello delle generazioni precedenti e sono esclusi (per motivi di elegibilità formale o per motivi sostanziali, come il non raggiungimento dei requisiti contributivi o di continuità della prestazione lavorativa) dal godimento di alcune prestazioni quali disoccupazione, malattia, assegni familiari ecc. Prestazioni di questo tipo sono, infatti, legate alla stabilità della condizione lavorativa. L’universalismo di alcune di queste prestazioni sociali dovrebbe essere il tema all’ordine del giorno nella riflessione sulla riforma del welfare. Credo che questo sia l’unico modo per non discriminare tra lavoratori «stabili» e lavoratori precari e per alleggerire il tema delle pensioni da presunti conflitti tra generazioni. Spesa sociale per settori di intervento (% sulla spesa sociale totale): un confronto Italia-Europa (fonte Eurostat-Esspros) Italia Ue-25 Previdenza Sanità 61,8 25,7 45,7 28,3 Famiglia Italia Ue-25 4,1 8,0 Disabilità 6,4 8,0 Disoccupazione Politiche abitative 1,8 0,2 6,6 3,5 1. Queste note riprendono in gran parte la relazione che ho presentato all'assemblea nazionale dell'Associazione Socialismo XXI a novembre del 2007. 2. Dal titolo dell'ultimo libro di Giavazzi e Alesina, Il liberismo è di sinistra, Il Saggiatore, Milano 2007. 71 72 FEDERICO BONADONNA antropologo UNA MARGINALITÀ DIFFUSA – Ha amici poveri? – Poveri poveri no. – E come mai non ha amici poveri? – Dipende da che cosa si intende per povertà. Parliamo di persone che debbono lavorare per mantenersi? Lavinia Borromeo Arese Taverna Elkann sul «Magazine» del «Corriere della Sera» (26-05-05) Un giorno, durante la lezione di presentazione del mio corso di antropologia delle marginalità estreme e politiche sociali alla Facoltà di Economia, uno studente poco più che ventenne mi chiese la ragione per cui lo Stato dovesse investire tante risorse per cercare di reinserire socialmente le persone senza dimora, in particolare quelle che io stavo descrivendo come multiproblematiche, quindi con più difficoltà. «Non sarebbe più vantaggioso concentrare le già esigue finanze su quelli che hanno più possibilità di farcela?», chiese. La domanda è fondamentale, pur nella sua crudezza, in questa fase storica. Da essa si possono declinare tutte le altre: ha ancora senso ed è politicamente possibile un nuovo welfare? Dev’essere universale o rivolgersi a soggetti «meritevoli»? Cosa significano oggi le parole: uguaglianza o solidarietà? E libertà? In una sua raccolta di saggi, Nothing is sacred, l’economista liberista Robert Barro sostiene, con la semplice applicazione della razionalità economica, la completa liberalizzazione del consumo di droga negli Stati Uniti rispetto ai dispendiosi e inefficaci interventi militari dell’esercito americano contro i produttori latinoamericani. Ma se SULLA PRECARIETÀ questo ragionamento antiproibizionista può accomunare liberisti e liberal democratici, esso invece scricchiola, ad esempio, di fronte all’idea di ridurre i prezzi dei farmaci contro l’Aids per i Paesi africani. Barro dice infatti che, per ottenere le innovazioni farmaceutiche utili a combattere le malattie endemiche, occorre garantire i profitti agli innovatori e che pertanto è necessario concentrare le risorse contro malattie più note come la malaria, nei confronti delle quali la probabilità di successo è più elevata, anziché in programmi di rimedio parziale all’Aids. Perché la liberalizzazione della droga sì e i farmaci gratuiti per l’Aids no? Un liberista come Barro risponde in modo netto: perché conviene agli operatori economici che debbono trarne profitto. Per un liberista i valori sono quelli che consentono la crescita economica e la ricchezza personale. Per un liberal questi valori sono più sfumati e controversi e anche meno razionali. Lo studente italiano e il professore americano hanno seguito un analogo percorso logico per giungere alle rispettive conclusioni. Da qui si deve partire per cercare di comprendere la possibilità e, se sussiste, la necessità dell’esistenza di uno Stato sociale (o come altro lo si voglia chiamare), ovvero del primato della politica sul mercato, a fronte di una mutazione sociale di proporzioni mai viste che va sotto il nome di globalizzazione. Infatti gran parte dei meccanismi sociali ed economici che nella seconda metà del XX secolo hanno garantito una distribuzione socialmente accettabile delle ricompense sociali, sono oggi sempre meno efficaci e si rivolgono a una platea di beneficiari sempre più ristretta. Sotto i colpi della richiesta di flessibilità (che nel nostro Paese si traduce con precarietà) e di adeguamento immediato alle esigenze del cliente (che si trasforma in contrazione dei diritti elementari di cittadinanza), è cambiata l’organizzazione del lavoro attraverso l’ideologia della qualità totale, del nomadismo sociale, dell’outsourcing. In Italia, all’inizio degli anni ’80, quando era Presidente del Consiglio, il socialista Craxi interpretò a suo modo la politica neoliberista di Reagan e della Thatcher. Facendo proprio un adagio molto in voga in quegli anni, Craxi sostenne infatti che gli italiani sarebbero dovuti diventare «imprenditori di se stessi». Era il socialismo riformista che si saldava con la modernizzazione liberista. Per contestualizzare il cambiamento sociale intercorso, due sono i passaggi: primo, 1980, marcia dei 40.000 colletti bianchi per le vie di Torino per far riaprire i cancelli della Fiat picchettati dagli operai; secondo, 1984, sconfitta di Pci e Cgil sul referendum per l’abolizione della scala mobile. In questo quadriennio avviene il cambio di un paradigma che durava dalla fine degli anni 60. Finisce un periodo di battaglie per i diritti sociali in cui notevoli erano state le conquiste: lo Statuto dei diritti dei lavoratori (L. 300/70); la legge sul divorzio (L. 898/70) e il nuovo diritto di famiglia (L. 151/75); le «norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza« (L. 194/78); per proseguire con il diritto alla salute con la riforma sanitaria (L. 833/78) e la riforma della psichiatria, la cosiddetta legge Basaglia (L. 180/78). È in questo formidabile decennio che si radica il sistema moderno del welfare italiano con tutele degne di uno stato assistenziale avanzato. Diversamente da quanto accadeva in Svezia, Germania e Gran Bretagna che avevano iniziato nell’immediato dopoguerra, l’Italia intraprende però la strada del welfare assai tardi e inizia a uscirne troppo presto. Oggi siamo ormai ben lontani dal modello organizzativo e politico di quella società salariale che ha caratterizzato lo sviluppo economico sino agli anni Settanta. È cambiata la forma della famiglia come ammortizzatore sociale, nella sua funzione fondamentale di raccolta e di redistribuzione delle risorse a tutela dei soggetti più deboli (minori, anziani, persone che per condizione di salute proprie o altrui non possono lavorare). Anche i patti di reciproco sostegno tra generazioni diverse, garantiti dall’organizzazione familiare tradizionale, si sono indeboliti esponendo molti soggetti, soprattutto i più anziani, all’insicurezza e all’incertezza del futuro. Il welfare è stato costruito per proteggere i cittadini e principalmente i lavoratori salariati da un’ampia gamma di rischi: la malattia, l’invalidità, la vecchiaia, il mantenimento di famiglie numerose, della disoccupazione, il decesso di chi produce il reddito fondamentale per la sopravvivenza. «A causa della crisi fiscale e organizzativa dello Stato sociale tuttavia parte di queste protezioni sono concesse a una quota più ristretta di cittadini. Inoltre sono emersi nuovi profili di rischio per i quali il welfare tradizionale non è attrezzato a dare risposte: giovani stabilmente senza occupazione oppure costretti per 73 74 lungo tempo a occupazioni precarie, famiglie non in grado di provvedere autonomamente alla cura di un loro membro non autosufficiente, giovani madri con i figli minori a carico, adulti con genitori anziani, anziani che si prendono cura finché possono di altri anziani, adulti con una bassa qualifica professionale che hanno perduto l’occupazione e hanno poche speranze di rientrare nel mercato del lavoro. Profili di rischio più frammentati che in passato, ma che non possono essere coperti attraverso una politica di trasferimenti finanziari e che richiedono un repertorio più articolato e flessibile di interventi», dice Costanzo Ranci. Se un tempo l’area della vulnerabilità sociale sopra descritta era distinta da quella della marginalità urbana estrema che caratterizza le persone senza dimora, oggi le due forme di povertà si ritrovano confinanti e, a volte, si intersecano. Eurostat considera l’esclusione sociale un fenomeno dalle molteplici sfaccettature che impedisce agli individui di partecipare pienamente alla società. Per prevenire l’esclusione, sono state delineate tre tipologie di approccio. Il primo, cosiddetto di «inserimento», dove l’occupazione è l’elemento chiave dell’integrazione sociale poiché influisce al tempo stesso su reddito, identità e autostima, nonché sull’accesso a reti d’informazione e contatti. Un secondo approccio detto «povertà», in cui si sostiene che le cause dell’esclusione siano nel reddito modesto e nella carenza delle risorse materiali. Infine l’approccio cosiddetto della marginalità o sottoclasse (underclass) che considera gli esclusi come persone che si collocano al di fuori delle norme comunemente accettate dalla società e quindi portatori di una «cultura della povertà» e/o della «cultura della dipendenza». In quest’ultimo tipo di approccio, gli esclusi sono considerati responsabili della propria condizione. La disoccupazione è la condizione della persona che perde un lavoro retribuito in un determinato momento della sua vita attiva. Se si protrae per un periodo eccessivo di tempo senza il sostegno degli ammortizzatori sociali, può allora generare esclusione sociale. Povertà significa invece carenza di risorse materiali e di accesso a servizi di base e ad alcuni beni primari e può riguardare l’intero nucleo familiare. L’esclusione sociale infine è un fenomeno più complesso in cui intervengono, oltre al mancato accesso ai servizi, fattori sociodemografici, elementi legati allo status socioculturale e al livello della qualità della vita, nonché al sovrapporsi di vulnerabilità sociale e fragilità individuale. Queste tre condizioni sociali si possono intersecare, senza però essere ineluttabilmente consequenziali. Infatti la povertà estrema non è l’ultimo gradino in un’ipotetica scala di povertà. L’approccio multidimensionale nello studio della povertà permette una descrizione del fenomeno più appropriata attraverso l’analisi delle relazioni che si stabiliscono tra le sue componenti e la ricerca del tipo di nesso che tra queste si stabilisce. Spesso un reddito inadeguato, dice Amartya Sen, è la causa principale della povertà. Il reddito deve essere definito correttamente, poiché a parità di condizione economica, un attore è meno povero di un altro se può disporre di reti sociali (ad esempio una famiglia) oppure di una casa di proprietà, se è cioè inserito in un contesto di riferimento sviluppato. La povertà è la conseguenza finale dell’interazione delle sue componenti. In questo senso è un circolo vizioso, come sostiene Nurske nel «principio della causazione circolare e cumulativa». Secondo tale principio, l’interazione tra le diverse componenti della povertà ne provocherebbe non solo la persistenza ma anche il peggioramento. Infatti, la mancanza di reddito costringe a un alloggio malsano, a un’alimentazione di cattiva qualità che provocano un deterioramento progressivo delle condizioni di salute. Quindi emerge il bisogno di rivolgersi a un medico, di conseguenza il reddito si abbassa, in questo caso per le cure sanitarie, e la spirale continua la sua strada verso il basso. Gli americani, con il dono della sintesi che li caratterizza, definiscono i milioni di persone che vivono in questa condizione attraverso il comportamento elementare del consumo di junk food and television, letteralmente cibospazzatura e televisione. Come lucidamente descritto nella storia di Carlo che segue e che qui utilizziamo come paradigma per comprendere la mutazione antropologica che il nostro Paese sta vivendo. Carlo è uomo sulla quarantina con un posto fisso nella pubblica amministrazione. Quando ha fatto il concorso, SULLA PRECARIETÀ vent’anni fa, pensava che un contratto a tempo indeterminato lo avrebbe garantito dalla povertà. Invece non è andata così: «I miei genitori sono morti a distanza di un anno l’uno dall’altro e sono senza parenti», dice Carlo. «In quel periodo ho conosciuto Lisa e ci siamo sposati. Lei lavorava in una ditta privata. Pensavamo: se vinco il concorso ci sistemiamo». È così è stato. Hanno comprato una casa in periferia a tasso fisso, data fine mutuo: 2015. Rata mensile: meno di un affitto, ma alla fine la casa è di proprietà. «Poi è nata Teresa, nostra figlia e il sogno si è realizzato. Almeno per un po’». Carlo e Lisa hanno divorziato dopo un lungo rapporto. Per un po’ hanno fatto i separati in casa, ma era insostenibile. Il giudice ha affidato la bimba e la casa alla madre e Carlo è stato costretto ad andarsene senza sapere dove. Il mutuo, cointestato, continua a essere pagato da entrambi. I mille e cento euro al mese di Carlo, tolte le spese di mutuo e alimenti, diventano 650, e come si campa? Un amico ha ospitato Carlo per qualche tempo. Poi ha provato con altri amici, quindi in un paio di pensioni a 30 euro a notte. Poi i soldi sono finiti e il giro degli amici che potevano ospitarlo si è esaurito. Carlo si ritrova così a vivere in macchina quasi senza accorgersene. Entra in ufficio la mattina presto per lavarsi e i colleghi lo coprono. Poi il direttore lo sorprende in bagno con un asciugamano intorno al collo e la schiuma da barba sulla faccia. Umiliato, Carlo è costretto a raccontare la sua storia. Tutte le sere mangia in rosticceria fissando la televisione. Una sera vede la pubblicità di un’auto di lusso guidata da un distinto signore nero. Accanto viaggia un passeggero bianco. La voce di sottofondo dice che prima il guidatore era un homeless, ma oggi è un broker di successo. La morale è che nella nostra società delle opportunità tutti possono arrivare in cima. Ma dietro questa c’è un’altra morale: nella società del rischio a chiunque può capitare di avere un’esperienza di vita in strada. In questo passaggio sta il senso del racconto: non è solo la povertà un fenomeno che una classe media sempre più vulnerabile può sperimentare per un determinato lasso di tempo o in più occasioni nella vita; oggi è la condizione di marginalità urbana estrema, ovvero la strada – come ben raccontato nel film di Muccino, La ricerca della felicità – che può essere esperita anche dalla classe media. È finita l’era in cui quella fascia sociale era garantita: il confine tra vulnerabilità e marginalità si è drammaticamente ridotto. I lavoratori poveri, un tempo inconcepibili come categoria sociale fragile giacché il lavoro salariato era garanzia di assenza di povertà, sono oggi a rischio di esclusione sociale. «Ci stiamo americanizzando senza esserci abituati», dice Carlo. Un equilibrio si è irrimediabilmente spezzato. La mobilità sociale non è più solo ascensionale. È una mutazione culturale che coinvolge tutti, un cambio di paradigma dettato dall’imperativo categorico della flessibilità. La predisposizione al rischio, caratteristica tipica dell’imprenditore schumpeteriano, è diventata una necessità quotidiana di una massa di singoli. La cultura del rischio assume una forma antropologica che delinea i tratti dell’uomo nuovo e della sua identità multipla: una vita sul filo del rasoio, spinta dalla selezione e dalla mobilità perpetua poiché se ti fermi sei fuori. Ogni individuo deve farsi carico sulla propria pelle dei rischi del suo percorso professionale divenuto discontinuo; deve fare delle scelte e operare per tempo delle riconversioni necessarie. Il lavoratore deve essere imprenditore di se stesso, costruire il suo posto di lavoro invece di occuparlo e fare la carriera fuori dagli schemi lineari dell’azienda fordista. E così si ritrova isolato, sovresposto e indebolito perché non è più supportato da sistemi di regolazione collettiva, come dice Robert Castel. La storia di Carlo non finisce con Carlo. Soggettivamente lui ce l’ha fatta poiché è riuscito a guardare in faccia una realtà allucinante e affittare un posto letto. I mesi trascorsi a dormire in macchina sono un brutto ricordo. Ma le persone come Carlo aumentano. Gente comune che per un accidente finisce nella marginalità. Sono la punta di un iceberg di una società trasfigurata che somiglia al vecchio adagio di Pareto: «Finché il sole risplenderà sulle sciagure umane, la pecora sarà mangiata dal lupo, rimane solo che chi sa e può non si faccia pecora». Chi sarà il prossimo? 75 76 IL CONSERVATORIO NAZIONALE PALESTINESE DI MUSICA «EDWARD SAID» Nel 1990 cinque musicisti palestinesi e insegnanti di musica condussero uno studio sullo stato della musica in Palestina. Conclusero che c’era un bisogno urgente di istituire una scuola di musica e di colmare l’enorme lacuna nell’educazione musicale della società palestinese. Ci sono voluti tre anni perché questo gruppo di pionieri ottenesse qualcosa. Durante questo tempo i musicisti si sono avvicinati all’Università di Birzeit perché si interessasse del progetto. Nonostante non fosse previsto un programma universitario, il progetto di aprire una scuola di musica interessava molto all’Università di Birzeit. Nel 1993 il Consiglio degli Amministratori Fiduciari dell’Università ha preso ufficialmente la decisione di istituire il Conservatorio Nazionale di Musica in quanto affiliato dell’Università e ha nominato i 5 musicisti a rappresentare il Consiglio di Supervisori del progetto. Nell’ottobre dello stesso anno è stata aperta a Ramallah la prima sede del Conservatorio, con 40 studenti, 3 insegnati part-time, un segretario e un direttore volontario, Ameen Nasser, uno dei fondatori dell’Esncm. Qualche anno dopo, il Conservatorio ha aperto altre tre sedi a Gerusalemme e Betlemme, e oggi ci sono più di 500 studenti iscritti alle 3 sedi, 25 insegnanti e 10 impiegati amministrativi. Nel settembre 2004, come tributo all’inestimabile contributo intellettuale e culturale all’umanità del defunto Edward Said, membro onorario del Consiglio, il nome del Conservatorio è stato ufficialmente cambiato in «Conservatorio Nazionale di Musica Edward Said». INTERVISTA A SUHAIL KHOURY CLARINETTISTA E DIRETTORE DEL CONSERVATORIO PALESTINESE DI FRANCESCO GALTIERI Puoi dirmi qualcosa riguardo al significato e all’importanza del Conservatorio «Edward Said per la Musica e la Cultura in Palestina»? Il Conservatorio nacque grazie alla fede dei fondatori nell’importanza della cultura e della musica ai fini della costruzione di una nazione. Noi crediamo che una nazione non sia soltanto un confine geografico, o un’area economica e politica; crediamo che sia la gente. E in una nazione fatta di persone, il sale è la cultura. Senza la cultura la vita non ha sapore. Abbiamo capito che non si può sviluppare la musica senza l’insegnamento. Dovevamo insegnare la nostra musica, e dovevamo insegnarla dal principio, per creare un diverso tipo di vita, per creare dei musicisti e della musica, e per creare una vita culturale in Palestina. Questo è quello che abbiamo fatto. E ora iniziamo a vedere i risultati, anche se ancora siamo a metà strada, o addirittura ancora all’inizio, perché in effetti questo è solo l’inizio della nostra idea, che è quella di avere un conservatorio in ogni città della Palestina. Ora ne abbiamo tre. Stiamo lavorando a Gerico e a Nablus per altri due, e abbiamo un progetto a Gaza, con una supervisione da qui tramite videoconferenze, come facemmo per la competizione di due anni fa. Quali sono gli obiettivi culturali e politici della vostra azione ? Dobbiamo trovare dei modi per realizzarlo, ma essenzialmente l’obiettivo è quello di creare un nuovo tipo di vita culturale in Palestina. O comunque creare una vita culturale in Palestina, perché non ne esiste molta. UNA PROPOSTA È importante che nascano musicisti di alta qualità, che possano suonare musica propria, e anche musica palestinese. Enfatizziamo la musica araba perché è la nostra tradizione, ma lavoriamo anche sulla musica classica occidentale, sul jazz e su tutte le altre forme che ci sono possibili. Quello che stiamo cercando di fare è di creare dei conservatori e delle orchestre: delle orchestre di giovani, delle orchestre nazionali, che siano parte dell’orgoglio nazionale. Perché la gente cerca qualcosa di meritevole di cui poter andare fiera. Ora la gente è orgogliosa dell’Orchestra Giovanile Palestinese. Abbiamo l’Orchestra di Bambini, l’Orchestra del Conservatorio e l’Orchestra Giovanile Palestinese. L’Orchestra Giovanile Palestinese è per i musicisti palestinesi da qualsiasi posto essi vengano, dalla Giordania, dalla Siria, da qualunque parte del mondo. Lavorano insieme e si esibiscono una volta all’anno. Ieri, a Ramallah, ho annunciato che il 1 gennaio 2010 creeremo in Palestina un’Orchestra Nazionale, un’orchestra professionale della Palestina. Facendo questo ci piacerebbe anche suonare musica araba e musica palestinese scritta appositamente per orchestra. Suonare musica di musicisti arabi o palestinesi che scrivono per orchestra sarebbe un orgoglio. Siamo molto interessati a questo. Suonando altri tipi di musica scritta per orchestra, abbiamo già avuto una buona reazione della gente. Come è successo venerdì, con pezzi scritti un centinaio di anni fa. Puoi aiutarci a comprendere quali sono le difficoltà per insegnare e imparare musica sotto occupazione? Ricordo per esempio che, in occasione dello scorso concorso musicale per i ragazzi palestinesi promosso da Marcel Khalife e a lui intitolato, diversi studenti non hanno ottenuto il permesso di partecipare a Gerusalemme provenendo da Gaza o da Nablus… Fare questo non è facile, la musica non è facile, non è una cosa normale, come lo sarebbe in qualsiasi altro Paese. Insegnare musica è sempre una sfida, a partire dagli spostamenti: se l’Orchestra deve muoversi, bisogna avere i permessi, ci sono i posti di controllo, alcune persone non possono andare a Gerusalemme, altre non possono andare da Nazareth a Ramallah, è difficile avere gente che può spostarsi. Quando parlo di Palestinesi, parlo di tutti i palestinesi. Nel 1948 i Palestinesi vennero cacciati dalle loro case, e oggi sono più di un milione, ma sono comunque parte del popolo palestinese, anche se hanno il passaporto israeliano. Anche quelli in Giordania hanno il passaporto Giordano, ma sono comunque palestinesi che lascia- rono la Palestina, ce ne sono più di due milioni in Giordania. Ci sono Palestinesi in Siria, ma anche in Europa, in America e in Australia. Certo, non possiamo portarli tutti nell’Orchestra del Conservatorio, ma li possiamo prendere tutti per l’Orchestra Giovanile della Palestina, perché è un progetto che ha luogo una volta all’anno d’estate. Loro vengono da qualsiasi parte si trovino. Ora nell’Orchestra abbiamo persone provenienti da Gerusalemme, Ramallah, Betlemme, Gerico e Nazareth, e a volte da altre città. Si radunano, si relazionano, questo è importante. La gente da Nazareth ufficialmente non è autorizzata ad andare a Ramallah, e la gente da Ramallah non è autorizzata ad andare a Gerusalemme, devi chiedere dei permessi. A volte li ottieni, altre volte no. E un altro problema molto grande è trovare degli insegnanti. Solo una settimana fa uno degli insegnanti che avrebbe dovuto insegnare presso il campus dell’Orchestra, che aveva il passaporto canadese, è partito dalla Giordania e non gli è stato permesso di tornare indietro. Anche al direttore dell’Orchestra non è stato dato il permesso ed è in Germania. Abbiamo un’insegnante di pianoforte italiana, Margherita, e anche a lei non è stato dato il permesso, è dovuta ripartire. E anche il direttore accademico è stato fuori per 9 mesi. Il capo del dipartimento di musica araba è ancora fuori, da 5 anni, e lavora con noi dall’estero. Adesso è in Svezia e sta finendo un master. Questo succede a tutti, soprattutto a chi ha un passaporto internazionale. Legalmente non si può fare nulla, bisogna infrangere le regole tutti i giorni. Questa gente va dalle autorità palestinesi, e secondo i trattati che sono stati firmati, rimangono ai confini, non possono decidere di entrare. Quindi, avere degli insegnanti è una delle sfide più dure e uno dei più grandi problemi. E se, per esempio, hai un problema con un insegnante che non può venire, non puoi chiamarne un altro, perché non ce n’è un altro. E cosi devi iniziare a cercarne uno da fuori, e potresti metterci dei mesi, e gli studenti rimangono senza insegnante. In certe aree, per certi strumenti, ci vorrà ancora più tempo, perché ci sono poche persone che vogliono studiare questi strumenti, specialmente per quanto riguarda la musica classica occidentale. Invece, per la musica araba, il problema è che noi siamo solo una piccola parte del mondo arabo, e se vuoi degli insegnanti davvero validi devi andarli a prendere da altre parti. E non possiamo. Prima che iniziasse la prima Intifada sei stato arrestato e hai subito torture avendo l’esercito israeliano trovato nella tua autovettura audiocassette con brani e danze della tradizione popolare palestinese e araba. 77 78 sono abbastanza. Se riesci a trovare anche 1000 persone puoi finanziare molte attività e la creazione di queste orchestre. Abbiamo un modulo da compilare: inserisci i dati, scrivi come vuoi fare il trasferimento. È tutto in inglese. Ma possiamo fare qualcosa anche in italiano. È importante non soltanto avere supporti finanziari, ma anche sostegni all’idea stessa, attraverso il ricevimento di musicisti, o inviando musicisti o insegnanti. È importante anche per la Palestina, per essere conosciuta nel mondo della cultura e della musica. Per esempio, noi progettiamo sempre di portare l’Orchestra fuori. L’anno scorso siamo andati in Germania e Suonare e studiare musica può assumere il significato di abbiamo suonato con l’Orchestra dell’Università. Magari un anno porteremo l’Orchestra in Italia. resistenza, di «beautiful resistence»? Questo è un modo per appoggiare il nostro progetto. Studiare musica, proprio perché non è una cosa facile, diventa una sorta di resistenza. Non è una cosa facilmente permessa. Devi lottare per studiare musica. Se non ti è permesso giocare a calcio, ma tu giochi a calcio, anche questo diventa resistenza. PROMOSSO DALLA SCUOLA POPOLARE DI MUSICA DONNA OLIMPIA Ma la musica è anche qualcosa che fa esprimere i tuoi (ROMA), SCUOLA POPOLARE DI MUSICA DI TESTACCIO (ROMA), sentimenti. Suonare musica è come mandare un messag- SOCIETÀ ITALIANA PER L’EDUCAZIONE MUSICALE, OSI ORFFgio, e facendo questo, mandi un messaggio di resistenza. SCHULWERK ITALIANO, ‘INSIEME PER FARE’ CON IL PATROCINIO E anche se ti mettessi a suonare il Can Can con l’Orche- DELLA VICE PRESIDENTE DEL PARLAMENTO EUROPEO, ON. LUISA stra, l’Orchestra arriva a Gerusalemme, da Ramallah, da MORGANTINII APPELLO Gerico, da Betlemme, da qualunque posto, si mette lì, i L’EDWARD SAID NATIONAL musicisti suonano tutti insieme, come un gruppo, ed è CONSERVATORY OF MUSIC come se dicessero «Noi Palestinesi siamo qui, vogliamo vivere, vogliamo suonare la nostra musica!». Questa è TI INVITA A DIVENTARE una forma di resistenza passiva; e noi crediamo che sia AMICO DELLE ORCHESTRE più potente di qualsiasi lotta. DELLA PALESTINA Basta essere lì, insieme, e suonare. Questa è resistenza. Noi sentiamo che questo è il nostro modo per resistere. DIVENTARE UN AMICO DELLE ORCHESTRE DELLA PALESTINA È Questa è la via in cui crediamo per resistere all’occupa- UN’OPPORTUNITÀ ECCEZIONALE PER AIUTARE UNA NUOVA GENERAZIONE DI GIOVANI MUSICISTI PALESTINESI A REALIZZARE I zione israeliana». PROPRI SOGNI. Dall’Italia, come possiamo aiutarvi? PER MAGGIORI DETTAGLI VISITA: www.donnaolimpia.it/amiciorchestrepalestina/index.asp Stiamo cercando di creare qualcosa da zero, quindi abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti coloro che possono darcelo: abbiamo il progetto di costruire conservatori, di mettere su queste orchestre. Abbiamo bisogno di strumenti per gli studenti. Ci stiamo muovendo in altre aree per aprire altre sedi del Conservatorio, per esempio a Gerico, e ora stiamo lavorando a questa idea anche a Gaza. Lavoriamo sempre per iniziare qualcosa di nuovo. Ora abbiamo un progetto chiamato «Gli Amici dell’Orchestra», che serve per sostenere, appunto, quest’idea. Si cerca gente che sia a favore e che possa donare 100 $ all’anno. E 100 $ all’anno, moltiplicati per tanta gente O SCRIVI UN’E-MAIL A [email protected] AMICO DELLE ORCHESTRE DELLA PALESTINA SCARICA IL MODULO QUI: www.donnaolimpia.it/amiciorchestrepalestina/modulo_amici.pdf PER DIVENTARE UN DOPO AVERLO STAMPATO E COMPILATO, SPEDISCILO A QUESTO INDIRIZZO: EDWARD SAID NATIONAL CONSERVATORY P.O. BOX 66676, 91666 JERUSALEM OF MUSIC VIAGGIO A CUBA DELL’ASSOCIAZIONE LA VILLETTA TOUR DELL´AMICIZIA 16 GIORNI DAL 23 LUGLIO AL 6 AGOSTO 2008 TOUR UNICO IN ITALIA E IN EUROPA SANTIAGO DE CUBA, CAMAGUEY, TRINIDAD, CIENFUEGOS, SANTA CLARA, HABANA, VARADERO CON VISITE GUIDATE E GIORNATE DI RELAX AL MARE. ESCURSIONI A TRINIDAD E SANTA CLARA. OMAGGIO FLOREALE AL MUSEO DEL «CHE». INCONTRI SOCIALI CON GLI OPERATORI DELLA SANITÀ DELLA REGIONE DI MATANZAS E VISITE ALLE STRUTTURE SANITARIE E A UN CENTRO PER L´INFANZIA GEMELLATO CON L´ASSOCIAZIONE DI SOLIDARIETÀ PER CUBA «LA VILLETTA« (FACOLTATIVI) QUOTA DI PARTECIPAZIONE EURO 1.850,00 TOUR SANTIAGO DE CUBA/HABANA/VARADERO 23 LUGLIO – 1° GIORNO: ITALIA/SANTIAGO DE CUBA PARTENZA DALL´ITALIA (ROMA-HAVANA-SANTIAGO), ARRIVO NEL TARDO POMERIGGIO. TRASFERIMENTO IN HOTEL E SISTEMAZIONE IN HOTEL. RIUNIONE INFORMATIVA. TEMPO A DISPOSIZIONE. CENA IN HOTEL. 24 LUGLIO – 2° GIORNO: SANTIAGO DE CUBA VISITA DELLA CITTÀ DI SANTIAGO: DOPO L´AVANA, È LA CITTÀ PIÙ IMPORTANTE DEL PAESE ED È L´UNICA CHE POSSA FREGIARSI DEL TITOLO UFFICIALE DI «CITTÀ EROE DELLA REPUBBLICA DI «CUBA», MA ANCHE DELLA FAMA DI «CITTÀ RIBELLE» E «CITTÀ CULLA DELLA RIVOLUZIONE». PER VISITARE IL CENTRO STORICO, IL PUNTO DI RIFERIMENTO È LA CARATTERISTICA PIAZZA DELLA CATTEDRALE, LA PIAZZA CENTRALE CARLOS MANUEL DE CÉSPEDES. ATTORNO A QUESTA PIAZZA VI SONO I PALAZZI PIÙ CELEBRI E LE STRADE PIÙ IMPORTANTI. VISITA AL MORRO DI SANTIAGO. PRANZO DURANTE LA VISITA. RIENTRO E CENA IN HOTEL. (HOTEL MELIÀ SANTIAGO) 25 LUGLIO – 3° GIORNO: SANTIAGO DE CUBA/CAMAGUEY PARTENZA PER STA LUCIA, LUNGO IL PERCORSO VISITA AL SANTUARIO DEL COBRE. IL SANTUARIO DE LA VIRGEN DE LA CARIDAD DEL COBRE (MADONNA DEL RAME), È NEL VILLAGGIO DEL COBRE A CIRCA 20 KM A NORDOVEST DA SANTIAGO, IN CIMA A UNA COLLINA PANORAMICA, DI FRONTE ALLE ANTICHE MINIERE DI RAME. LA MADONNA DEL RAME CHE SI VENERA IN QUESTA BASILICA È LA PATRONA DI CUBA. PROSEGUIMENTO VIAGGIO, LUNGO IL TRAGITTO BREVE VISITA DELLA CITTADINA DI BAYAMO,SOSTA PER IL PRANZO IN RISTORANTE TIPICO. CONTINUAZIONE VIAGGIO A CAMAGUEY. CENA IN ARRIVO, CENA IN HOTEL O RISTORANTE. 26 LUGLIO – 4° GIORNO: CAMAGUEY/TRINIDAD VISITA PANORAMICA DELLA CITTÀ DI CAMAGUEY CON SOSTA PER IL PRANZO PRESSO IL TIPICO RISTORANTE RIO AZUL, NELLE VICINANZE DI CIEGO DE AVILA. PARTENZA PER TRINIDAD,. DURANTE IL TRAGITTO BREVE SOSTA A SANCTI SPIRITUS, CONTINUAZIONE PER TRINIDAD, SISTEMAZIONE E CENA IN HOTEL. 27 LUGLIO – 5° GIORNO: TRINIDAD/CIENFUEGOS PERCORSO A PIEDI PER TRINIDAD, CONOSCIUTA COME CITTÀ MUSEO, QUESTA CITTADINA PIENA DI FASCINO HA CONSERVATO INTATTE LE SUE CASE, LE STRADE E LE PIAZZE COME ERANO SECOLI FA; È STATA DICHIARATA DALL´UNESCO CITTÀ PATRIMONIO DELL´UMANITÀ. COCKTAIL NEL LOCALE «CANCHÁNCHARA», CHE È IL NOME DI UNA TIPICA BEVANDA LOCALE A BASE DI RUM, MIELE E LIMONE, VISITA AL MUSEO, E ALLA PIAZZA MAYOR. PRANZO. TEMPO A DISPOSIZIONE. NEL POMERIGGIO PARTENZA PER CIENFUEGOS, SISTEMAZIONE IN ALBERGO. CENA. 28 LUGLIO – 6° GIORNO: CIENFUEGOS/SANTA CLARA/AVANA RECORRIDO PANORAMICO PER CIENFUEGOS. PARTENZA PER SANTA CLARA.ALL´ARRIVO, VISITA DELLA CITTÀ: PIAZZA DELLA RIVOLUZIONE DOVE SI TROVA IL MAUSOLEO «COMANDANTE ERNESTO CHE GUEVARA», ENORME COMPLESSO SCULTOREO, INAUGURATO IN OCCASIONE DEL VENTESIMO ANNIVERSARIO DELLA SUA MORTE; VISITA AL TRENO BLINDATO E ALLA PIAZZA LEONCIO VIDAL. PRANZO IN LOCO. PROSEGUIMENTO PER L´AVANA, ALL´ARRIVO SISTEMAZIONE E CENA IN HOTEL. 29 LUGLIO – 7° GIORNO: AVANA PERCORSO ATTRAVERSO LE STORICHE VIE DELLA CITTÀ COLONIALE CON VISITA DEL PALAZZO DELL´ARTIGIANATO, DELLA CATTEDRALE E DEL PARCO MILITARE MORROCABANA. PRANZO IN RISTORANTE. VISITA PANORAMICA DELLA CITTÀ MODERNA, VISITA ALLA FABBRICA RON BOCOY E PERCORSO PANORAMICO PER IL QUARTIERE DEL VEDADO, CON SOSTE ALLA PLAZA DE LA REVOLUCION E AL CAMPIDOGLIO. VISITA AL MUSEO DELLA RIVOLUZIONE. RIENTRO IN HOTEL E CENA. 30 LUGLIO – 8° GIORNO: AVANA/VARADERO TRASFERIMENTO PER VARADERO E SISTEMAZIONE IN HOTEL IN FORMULA ALL INCLUSIVE. 31 LUGLIO – 05 AGOSTO – VARADERO SOGGIORNO MARE. 06 AGOSTO – 15°/16° GIORNO: VARADERO/AVANA/ITALIA TRASFERIMENTO ALL´AEROPORTO E PARTENZA PER L´ITALIA (HAVANA/SANTIAGO/ROMA). PASTI E PERNOTTAMENTO A BORDO. ARRIVO IL GIORNO SEGUENTE. HOTEL CONSIDERATI SANTIAGO – HOTEL MELIÁ SANTIAGO 5* – CAMAGUEY – HOTEL CAMAGUEY 2* – TRINIDAD – HOTEL LAS CUEVAS CIENFUEGOS – HOTEL JAGUA 4* – AVANA – HOTEL PANORAMA 4* – VARADERO – HOTEL LOS DELFINES 3* GLI ALBERGHI POTREBBERO SUBIRE DELLE VARIAZIONI LE QUOTE COMPRENDONO: PROGRAMMA ALLEGATO – ASSISTENZA IN AEROPORTO IN PARTENZA E IN ARRIVO GUIDA LOCALE PARLANTE ITALIANO – ASSICURAZIONE MEDICO BAGAGLIO VISTO EURO 23,00 – TASSE EURO 26,00 LE QUOTE NON COMPRENDONO: BEVANDE E PASTI NON MENZIONATI, MANCE, EXTRA A CARATTERE PERSONALE TASSE D´USCITA DA PAGARE IN LOCO 25,00 CUC TUTTO QUANTO NON ESPRESSAMENTE INDICATO NE «LE QUOTE COMPRENDONO« EVENTUALE ADEGUAMENTO CARBURANTE VI RICORDIAMO INOLTRE CHE TUTTI GLI IMPORTI INDICATI RELATIVI A TASSE E VISTI, SONO SOGGETTI A VARIAZIONI E SARANNO RICONFERMATI ALL´ATTO DELLA PRENOTAZIONE. – STIAMO LAVORANDO PER LA REALIZZAZIONE DI UNA ESCURSIONE PRESSO LA BARRIERA CORALLINA E DI UNA SERATA AL «TROPICANA DE CUBA» – ABBIAMO ORGANIZZATO VISITE PRESSO STRUTTURE SANITARIE LOCALI – IL TOUR È REALIZZATO DALL´ASSOCIAZIONE DI SOLIDARIETA´ PER CUBA «LA VILLETTA» IN COLLABORAZIONE CON PRESS TOUR QUOTA DI PARTECIPAZIONE EURO 1850,00 SUPPLEMENTO PER CAMERA SINGOLA EURO 250,00 INFORMAZIONI E PRENOTAZIONI ASSOCIAZIONE DI SOLIDARIETÀ PER CUBA «LA VILLETTA» TEL. 06.5110757 338.6984415 www.associazionelavillettapercuba.org [email protected] 80 Comitato editoriale Maurizio Acerbo Gianni Alasia Marco Amagliani Pierfranco Arrigoni Antonio Assogna Jone Bagnoli Giorgio Baratta Imma Barbarossa Katia Bellillo Riccardo Bellofiore Piergiorgio Bergonzi Maria Luisa Boccia Manuele Bonaccorsi Vittorio Bonanni Bianca Bracci Torsi Nori Brambilla Pesce Emiliano Brancaccio Giordano Bruschi Tonino Bucci Alberto Burgio Maria Rosa Calderoni Maria Campese Luigi Cancrini Luciano Canfora Guido Cappelloni Gennaro Carotenuto Bruno Casati Luciana Castellina Giulietto Chiesa Francesco Cirigliano Fausto Co' Cristina Corradi Aurelio Crippa Roberto Croce Marco Dal Toso Walter De Cesaris Peppe De Cristofaro Josè Luiz Del Roio Tommaso Di Francesco Giuseppe Di Lello Finuoli Piero Di Siena Rolando Dubini Gianni Ferrara Guglielmo Forges Davanzati Gianni Fresu Mercedes Frias Alberto Gabriele Haidi Gaggio Giuliani Francesco Germinario Orfeo Goracci Roberto Gramiccia Claudio Grassi Dino Greco Margherita Hack Alessandro Leoni Lucio Manisco Fabio Marcelli Giovanni Mazzetti Enrico Melchionda Maria Grazia Meriggi Enzo Modugno Sabina Morandi Raul Mordenti Franco Nappo Giorgio Nebbia Saverio Nigretti Alfredo Novarini Simone Oggionni Angelo Orlando Franco Ottaviano Gianni Pagliarini Valentino Parlato Armando Petrini Gianmarco Pisa Michele Pistillo Felice Roberto Pizzuti Giuseppe Prestipino Marilde Provera Riccardo Realfonzo Alessandra Riccio Paolo Sabatini Giuseppe Sacchi Luigi Saragnese Marco Sferini Guglielmo Simoneschi Vincenzo Siniscalchi Massimiliano Smeriglio Bruno Steri Antonella Stirati Mario Tiberi Nicola Tranfaglia Fulvio Vassallo Paleologo Mario Vegetti Massimo Villone Luigi Vinci Pasquale Voza Maurizio Zipponi Stefano Zolea Stefano Zuccherini Stefano Zuccherini direttore – Bruno Steri direttore editoriale – Mauro Cimaschi direttore responsabile – Bianca Bracci Torsi redazione – Mauro Belisario, Silvia Di Giacomo, Marcello Notarfonso email: [email protected] diffusione e abbonamenti email: [email protected] editore associazione culturale essere comunisti via Buonarroti 25 – 00185 Roma stampa tipografia Jacobelli – Pavona (Roma) chiuso in tipografia il 28 aprile 2008 grafica progetto grafico, impaginazione e service editoriale: DeriveApprodi registrazione Tribunale di Roma n. 170/2007 del 08/05/2007 anno II, numero 6, aprile 2008 bimestrale Poste Italiane s.p.a. – spedizione in A.P. 70% Roma n. 96/2007 credits sulle immagini Karel Appel: p. 56, p. 59, p. 61, p. 62, p. 64, p. 67, p. 68, p. 72; Nanni Balestrini: II di copertina, p. 55; Maurizio Bizziccari: p. 49; Gianni Capaldi: p. 52; Anna Maria Di Oronzo: p. 25; Dario Lanzardo: p. 51; Uliano Lucas: p. 48; Tino Petrelli: p. 50; Reiner Riedler: p. 6; Franco Tripodi: p. 13, p. 15, p. 17, p. 23. 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