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MATTIA BUTTA I CECHI NON OSANO SEDERSI IN TRAM Madrid, Maggio 2008. ...............................................................................7 Tutti nudi, siamo cechi............................................................................. 12 Jak se jmenuješ?....................................................................................... 18 Batoh.........................................................................................................23 Alcool, amico alcool.................................................................................29 Parco ceco.................................................................................................38 Happy days............................................................................................... 55 Hi! How are you?..................................................................................... 60 Co nadělaš?...............................................................................................67 Titoli di testa.............................................................................................73 Pochi, ma buoni........................................................................................78 Brava con le lingue...................................................................................88 Il capitolo più corto................................................................................ 101 Ai cechi...................................................................................................104 Dieci aggettivi........................................................................................ 108 Per commenti, riflessioni o insulti potete scrivermi un'email a questo indirizzo: [email protected] © 2009 Mattia Butta Madrid, Maggio 2008. La Calle del Espíritu Santo mi avvolge col suo calore appena esco, di buona mattina, dal palazzo in cui alloggio. Sono le otto e un quarto ma dalla temperatura sembra che sia mezzogiorno. Nello stesso momento però la strada è deserta; certo, c'è qualche fruttivendolo che spazza la sporcizia gettando secchiate d'acqua sulla strada, qualche mattiniero prende un caffè in un bar di lusso e un fattorino ferma il motorino per fare una consegna. Per il resto non c'è nessuno in giro. Se penso che la sera prima quella stessa via era un bailamme di persone allegre e casiniste, ho la sensazione che siano le sei del mattino. Sono disorientato. Ho lasciato Praga, la città in cui abito, due giorni prima e sono volato a Madrid per una conferenza. Due ore e mezza di aereo ti consentono, senza cambiare continente, di cambiare mondo. Non parlo di quei cambiamenti che ti colpiscono appena esci dall'aeroporto. Le donne di Madrid vestono come quelle di Praga, non si bardano il corpo e il capo, soffocandosi con palandrane medievali. I pub che incontro per la via sono dei normali pub. Se guardo nelle vetrine non vedo nulla di strano. Tuttavia ho quel senso di strana inquietudine che ti 7 prende quando senti che non sei a casa tua. Senti che c'è qualcosa di diverso, ma non riesci a capire cosa sia. Sono le otto e un quarto della mattina, dalla temperatura sembra mezzogiorno, ma dalla gente che incontro per strada sembrano le sei. C'è qualcosa che non torna. Mi basta camminare duecento metri e arrivo alla stazione del metrò; alle nove inizia la prima sessione della conferenza, mi devo affrettare. Le scale non finiscono mai, mi sembra di scendere in una miniera di carbone. Finalmente arrivo sulla banchina ed entro nel metrò che arriva di lì a un paio di minuti. Un altro mondo; mentre la strada è vuota il vagone della metro è straboccante di persone: sembra che a Madrid ci siano due mondi paralleli che vivono sfasati di qualche ora. In spalla ho lo zaino e in mano la borsa col notebook, che pesa. Mi piacerebbe sedermi; il percorso è lungo e la prospettiva di farlo aggrappato a un sostegno, cercando di non cadere, non mi alletta. Ma posti liberi non ce ne sono, pazienza. Alla fermata successiva una signora comodamente seduta si alza ed esce dal vagone. Ed ecco, il metrò si trasforma nella death valley, il sedile vuoto diventa nella carogna di un animale, e i distinti signori che lo circondano si tramutano in avvoltoi che si lanciano sulla preda. Il più furbo riesce a conquistare l'ambito posto a sedere. Proprio così, era stato furbo; quando ha capito che la signora si sarebbe alzata si è piazzato in modo tale da trovarsi nella posizione più vicina al sedile, così da agguantarlo per primo. Gli altri avvoltoi (pardon, viaggiatori) rimasti a bocca (pardon, sedere) asciutta, guardano in cagnesco il fortunato che ora è seduto. La prossima volta non si faranno fregare così facilmente. La scena si ripete ad ogni fermata, ad ogni posto che si libera. C'è gente che si siede anche se poi scende la fermata successiva. Giusto per il gusto di approfittare del posto a sedere, anche se per una sola stazione. 8 All'improvviso capisco tutto: ecco cos'è quella strana inquietudine che hai quando sei all'estero, quella sensazione di non essere a casa. Non sono i cartelli stradali diversi, o la lingua e i suoi suoni insoliti. È semplicemente il comportamento delle persone. Sono quei piccoli atteggiamenti che sembrano far parte di un codice di condotta non scritto, secondo il quale ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno. A Praga non ci si comporta in questo modo, non esiste la feroce lotta al posto libero sul tram: i cechi si comportano in modo completamente diverso. Quando rimane un solo posto disponibile, i cechi non osano sedersi in tram. Un po' come quando si mangia una torta e dopo aver distribuito una fetta a ognuno dei presenti, rimane una sola, ultima fetta. Nessuno osa prenderla, per non fare danno ad un altro che potrebbe desiderarla. Anche se quell'ultima fetta è molto invitante. In un apoteosi di ipocrisia buonista qualcuno ne prende metà, giusto per soddisfare la propria gola senza però risultare maleducato e non lasciare niente agli altri. Certe volte qualcuno si azzarda a prendere solo metà della restante metà: di finire la torta proprio non se la sente nessuno. Ecco, i cechi si comportano così con i posti liberi sul tram; mi è capitato di vedere un ragazzo che guardava al posto appena liberatosi con una voglia matta di sedersi. Ma prima di farlo si è guardato intorno ha aspettato che tutta la gente salisse sul tram e quando ha visto che nessun altro si era seduto, be' allora si è fatto coraggio e si è seduto. Non pensiate che siano casi isolati e manie di qualche strano personaggio; questo atteggiamento fa parte di un radicato costume nella mentalità ceca. Ogni popolo ha una lista non scritta di cose divise in due colonne: quelle che si fanno e quelle che non si fanno. Nella lista ceca, il buttarsi sul posto appena liberato sul tram sta dalla parte delle cose “che non si fanno”, e tutti rispettano la lista. 9 Un mattino prendo il tram insieme al mio amico Petr (sentirete il nome più volte, ma sappiate che non è la stessa persona: i cechi hanno così poca fantasia nel dare i nomi ai figli che finisci per conoscere decine di persone con lo stesso nome). Saliamo a Marjánka, proprio sotto a casa mia; il tram non è proprio pienissimo ma alcune persone in piedi ci sono. «Ehi, ci sono due posti liberi, sediamoci!» dico a Petr (a dire il vero io mi ero già seduto senza aspettare il suo assenso). La sua risposta mi ha stupito «Ma questi posti, a dire il vero, sono riservati agli invalidi». Ottima motivazione, peccato però che non ci fosse un invalido che fosse uno sul tram. Non c'era nemmeno uno con le stampelle, nemmeno un vecchio, nemmeno una donna in gravidanza. Non c'era nemmeno qualcuno che si teneva la guancia per il mal di denti (sedersi non migliora la situazione ma ti fa compassione ugualmente). E allora perché non avremmo dovuto sederci? Se fosse arrivato un vecchio mi sarei alzato, ma visto che non c'era che male facevamo a sederci? Nulla, ma nella lista delle cose che “si fanno/non si fanno”, il sedersi su un posto libero, tanto più se è riservato agli invalidi e tu – orrore! – sei giovane, sta dalla parte del “non si fa”. In quel vagone della metropolitana di Madrid ho scoperto dell'esistenza di questa lista. Ho scoperto che la sensazione di sentirmi a casa quando mi trovo in Repubblica Ceca è data prevalentemente da una serie di comportamenti della gente che mi circonda. Magari non li condivido, magari non ne capisco il senso, o addirittura mi traumatizzano in un primo momento. Ma vedendo quei comportamenti continuamente e per così tanto tempo, diventano un sano brodo comportamentale dove mi sento sicuro. Ammettiamolo, il più delle volte in cui ci sentiamo a disagio il motivo è che non sappiamo come bisogna comportarsi. Un paio di giorni dopo l'illuminazione avvenuta nel vagone del metrò, ho incontrato Tobia, un amico veronese di stanza a Madrid. Ebbene, dovete sapere che sono spesso monotematico nelle conversazioni, spesso 10 finisco a parlare degli stessi argomenti. In questa serata madrilena non faccio altro che parlare di come si vive a Praga (forse perché me l'avevano chiesto, non ricordo; dovrei forse stare più attento al tema della conversazione). Dopo aver sentito una valanga di aneddoti sulla mia vita ceca, Tobia mi butta là questa idea «Con tutte queste storie dovresti scrivere un libro!». Ed eccolo qua. Magari non sarà un libro, probabilmente saranno solo appunti di viaggio. Un viaggio stazionario in questo paese. Cercherò di descrivere tutti quegli atteggiamenti, quelle consuetudini dei cechi che mi sembrano strane, sacrosante o semplicemente interessanti per chi legge. Queste pagine saranno una descrizione del popolo ceco, da parte di un lombardo che per una serie di combinazioni si trova a vivere nel loro paese. Non ho nessuna pretesa sociologica; non posso certo fare un quadro esauriente di tutta la società ceca. Non ne ho le capacità e voi probabilmente non ne avreste l'interesse. Sicuramente qualcuno, leggendo queste pagine potrà pensare «ma io ho passato una settimana a Hradec Králové e non è assolutamente vero quello che dici». Non lo escludo. Da parte mia cercherò di parlarvi di quei fenomeni che ho visto talmente tante volte che ormai mi sono impressi nella mente. Poi ovviamente la mia visuale del popolo ceco può essere influenzata dal tipo di persone che conosco e frequento. Ma l'ho detto, non voglio fare sociologia: voglio solamente raccontarvi come io vedo i cechi. Buon viaggio! 11 Tutti nudi, siamo cechi Sono con degli amici in birreria. Mima è in città solo per una giornata e mezza, così ha trascinato me ed altri amici a bere. Io: «Ma scusa, ora che vieni a Praga solo un giorno alla settimana, dove stai a dormire?» Mima: «Sto a casa di Honza.» Io: «Sì, ma scusa, Honza adesso lavora a Cork, o mi sono perso qualche puntata?» Mima: «Non ti sei perso niente, lavora ancora a Cork.» Io: «E allora, come fa ad ospitarti? Ti ha lasciato in mano le chiavi di casa sua?» Mima: «Ma no! Nella sua casa di Praga vive ancora Jana, la sua morosa. È lei che di fatto mi ospita». Io: «No, scusa, vuoi farmi credere che mentre Honza è in Irlanda a lavorare tu, una volta alla settimana, vai a casa sua a dormire insieme alla sua morosa?» 12 Mima: «Sì, e che problema c'è?» Io: «Come che problema c'è? C'è che non si fanno queste cose, scusa!» Mima: «Ah. E perché?» Io: «Oh santo cielo. Hai trent'anni, non sei un bambino. Cerca di capirlo. Perché si presume che se anche tu hai tutte le buone intenzioni di questo mondo, magari capita che la mattina vedi Jana con una vestaglietta fine fine addosso, o magari anche meno vestita. Così ti vengono le tentazioni e combini il patatrak.» Mima: «Ma guarda che io Jana l'ho già vista nuda più di una volta.». Io: «Ecco, lo sapevo. Ha già combinato il patatrak». Mima: «Ma cosa hai capito? Abbiamo semplicemente fatto il bagno nudi insieme.» Io: (faccia esterrefatta) – tre secondi di silenzio. Mima: «Una volta eravamo nei paesi baschi per una conferenza. C'eravamo io, altri colleghi e Honza con la sua fidanzata. Volevamo fare un bagno nel mare, ma non avevamo i costumi così ci siamo spogliati e abbiamo fatto il bagno nudi.» Io: «Cioè, scusa, fammi capire... Eravate un gruppo di uomini con una donna sola, vi siete spogliati tutti nudi come il culo di un macaco e c'era anche Honza che non ha avuto problemi a farvi vedere la sua morosa nuda?» Mima: «Sì. E quindi? Davvero non riesco a capire dove vuoi arrivare. Qual è il problema?» Mima era sincero. La sua non era sfrontatezza di chi si vuole vantare per una trasgressione. Per lui era davvero normale quello che aveva fatto. 13 Mostrarsi nudo davanti a dei colleghi e alle loro morose era qualcosa che non infrangeva nessuna regola. Così come era normale per Honza mostrare la sua fidanzata ai colleghi così com'è, senza trucco e senza inganno. Per questo Mima non capiva il motivo del mio stupore. Mi raccontò anche di quando ripeterono il bagno di gruppo, tutti nudi (Jana compresa), in un laghetto al fianco di un'autostrada in Norvegia. La nudità. Ecco, questa è una di quelle abitudini ceche che mi sconvolgono. Mentre per loro questo comportamento è normale, per me rientra nelle cose che “non si fanno”. Il problema è che “non si fanno” perché “non si fanno”. Stop. Si cresce con questa sicurezza e non si cercano spiegazioni. Quando allora ho detto a Mima: «ma scusa, non si fa!», egli mi ha risposto «e perché?». Guardo Paja implorandolo di venirmi in soccorso, ma le speranze sono vane: alza le spalle, poggia sul tavolo la birra che stava bevendo e mi risponde «e che problema c'è? Anche io ero nel gruppo di Bilbao». Oh santo cielo, un altro che fa il bagno con le appendici pendule di fuori. Mi devo arrendere, i cechi hanno un rapporto con la nudità che si scontra con il mio. Al mio paese la nudità è considerata in un modo molto diverso. Quando ero piccolo mi capitava di dormire a casa di mia nonna, in campagna; avevo cinque o sei anni, ma mi ricordo distintamente che la nonna mi faceva lavare in due tempi: prima “la parte sotto”, poi mi rivestiva, e solo dopo toglievo la maglia per lavare “la parte sopra”. Diceva che era per non farmi prendere freddo, ma il vero motivo era un altro: «si fa peccato a stare completamente nudi!». Sono cresciuto con il più intimo convincimento che la nudità è da evitare. Perché è peccato, perché è vergogna, perché certe cose non si 14 fanno vedere. È per questo che sono rimasto stravolto quando sono venuto a contatto con la realtà della nudità ceca. Tutte le mie certezze si sono infrante. In realtà mi ero accorto di questa passione dei cechi per lo smutandarsi senza problemi tre anni prima di quella sera in birreria. Mi trovavo a Praga per la prima volta come studente Erasmus. Un pomeriggio i miei coinquilini finlandesi mi hanno invitato ad andare alla piscina di Podoli, un quartiere a Sud di Praga. Dopo quell'esperienza avrei maledetto i finnici: la piscina era all'aperto, ed era Dicembre (per loro un godimento). Aymeric, l'altro coinquilino francese, li avrebbe maledetti per un altro motivo. Quando siamo entrati nello spogliatoio rimase sconvolto, ma non disse nulla; si vedeva che era nervoso e si cambiò in fretta e furia. Non pensate nulla di male, era un normale spogliatoio ceco, dove tutti girano nudi senza farsi problemi. Dove non esistono le cabine per cambiarsi e perciò ci si cambia davanti a tutti. Per il mio amico francese era roba da scandalizzarsi, e anche per me (cresciuto con la nonna moralizzatrice) non era da meno. L'argomento rimase tabù fino all'uscita dalla piscina; mentre tornavamo a casa in tram, Aymeric si fece coraggio e cominciò la discussione. «Ma scusate, ai vostri paesi quando si va in piscina, si gira per lo spogliatoio tutti nudi con le cose penzoloni tra le gambe? In Francia almeno ci sono le cabine». I finlandesi – abituati a fare la sauna nudi, maschi e femmine insieme – si misero a ridere; io invece lo capii. Sì, perché mi ricordo ancora quando andai per la prima volta alla piscina di Lecco, dopo la ristrutturazione. Era comparso un cartello «È severamente vietato fare la doccia senza il costume». Se siete cechi vi lascio trenta secondi per ridere (la consueta reazione quando racconto di questo cartello). Alla piscina di Podoli infatti il cartello è esattamente opposto “Prima di entrare in piscina si deve fare la doccia senza il costume”. 15 Se ci ragiono capisco che il cartello ceco ha molto più senso: prima di entrare in piscina bisogna lavarsi per bene, e ciò si può fare solo se si toglie il costume per lavarsi le parti meno pulite del corpo. Ma il cartello della piscina di Lecco si scontrava col senso del pudore della gente del luogo. L'ultima volta che ci sono stato è comparso un altro cartello «È vietato girare nudi per lo spogliatoio. Servirsi delle cabine a rotazione». Se siete cechi vi lascio un altro minuto per ridere. E questa volta ho riso anch'io; ormai, dopo due anni di piscina ceca, anche per me era normale la nudità in spogliatoio e quel cartello mi sembrava ridicolo. A quel punto, invece di chiamarlo spogliatoio lo si poteva chiamare vestitoio. Probabilmente non riuscirò mai ad essere come i cechi, che si denudano senza problemi, maschi e femmine, amici e fidanzati tutti insieme. Probabilmente resterò sempre sconvolto dai racconti come quello di Mima. Ma almeno non ho più quel senso di pudore che adesso sembra ridicolo anche a me; adesso posso andare in piscina e non ho vergogna di spogliarmi davanti a tutti. Un pezzettino di me è diventato ceco. Ho riflettuto molto (si vede che non ho nulla da fare, vero?) sul motivo per cui i cechi hanno questo rapporto così libero con la nudità. Se devo essere sincero non ho trovato una risposta. All'inizio pensavo fosse dovuto al fatto che i cechi non sono religiosi, e perciò non sentono sulle spalle il peso del “peccato di nudità”, come mi ha inculcato mia nonna. Poi mi sono dovuto ricredere; un giorno infatti sono andato in piscina con un gruppo di amici cattolici, una rarità in questo paese. I cattolici cechi sono pochi ma strettamente osservanti, non come gran parte dei cattolici all'acqua di rose del mio paese natio. Pensavo quindi di vederli tutti pudorosi che si cambiavano alla velocità della luce per non far vedere le “brutte cose”. E invece si sono comportati come tutti gli altri cechi presenti: nudi come vermi che facevano con calma la doccia in compagnia, senza pudore nel mostrare i propri strumenti di battaglia. 16 Quindi non era un problema di religiosità. Ma allo stesso tempo non era nemmeno dovuto a uno spirito libertino: nel racconto di Mima non c'era malizia. I cechi non si spogliano per esibizionismo, o per anticonformismo, e nemmeno per pruderia. Probabilmente non si fanno nemmeno problemi comparativi delle proprie appendici pendule (che in effetti non sono correlate ad alcun merito/demerito). Per loro la nudità è una cosa normale, come tante altre cose della vita. E in effetti, non riesci a capire cosa ci sia di male ad essere nudi, e ad essere visti nudi. Allora non riuscivo a capire perché i cechi avessero tutta questa libertà nel mostrarsi nudi. Poi ho capito che il problema era opposto: ero io che dovevo capire perché per il mio popolo, una cosa normale come la nudità era così mal considerata. 17 Jak se jmenuješ? Quando un ragazzo impara un linguaggio di programmazione al computer, la prima cosa che fa è imparare come si scrive a schermo «Hello World!» con quel linguaggio. Qualsiasi guida o tutorial insegnerà sempre e comunque questa cosa alla pagina uno (se state sorridendo, non è un buon segno, vi avviso). Quando invece si cerca di imparare una lingua straniera la prima frase in assoluto che si impara è «Come ti chiami?», «Jak se jmenuješ?» per l'appunto. Ovvio, siccome le lingue si imparano principalmente per tacchinare le fanciulle straniere, se vogliamo conoscere una persona, dobbiamo innanzitutto conoscerne il nome. Per chi vive nella Repubblica Ceca questa domanda è quasi inutile: senza peccare di ottimismo, tirando a indovinare quattro o cinque volte, molto probabilmente indovinerai il nome della persona con cui stai parlando senza chiederglielo. Questo perché i cechi hanno poca, pochissima, fantasia nel dare il nome ai figli. Gran parte della popolazione può essere raggruppata in pochi, banalissimi nomi, e ciò vale sia per gli uomini che per le donne. Se stai parlando con un uomo ceco molto probabilmente il tuoi interlocutore si chiama Jiři (Giorgio), 18 Pavel (Paolo), Petr (Pietro), Michal (Michele), Tomaš (Tommaso). Se invece parli con una fanciulla questa sarà una Marie (Maria), Alena, Hana (Anna), Jana (Giovanna) o una Petra (che sarebbe il femminile di Pietro, ma suppongo non si dica Pietra). Talmente poca fantasia che un giorno ho chiesto a un mio amico come avrebbe chiamato suo figlio, che sarebbe nato di lì a poco. «Be', se è maschio come me, e se è femmina come mia moglie». «Ma così ti salta fuori una persona che ha esattamente lo stesso nome e lo stesso cognome: che casino!» ho obiettato io. «Ma anche no – mi ha risposto – tutto sommato per i contratti c'è il numero di nascita (un po' come il codice fiscale), per la posta ci sono i titoli davanti al nome, e quando qualcuno telefona a casa, di solito capisci subito se cerca padre o figlio”. Va bene, ma scegliere un nome diverso? A questo punto voi probabilmente potrete domandarvi: ok, poca fantasia, ma che male c'è? A dire il vero, la banalità ceca nel dare il nome ai figli causa diversi problemi di ordine pratico. Dopo poco tempo in Repubblica Ceca diventa un problema inserire un nuovo contatto nella rubrica del telefonino. Quando inizi ad avere quattro Petre inizia a farsi difficile identificarle quando devi chiamarne una. Voi potreste dirmi di usare il cognome. Scordatevelo: i cognomi cechi sono una delle cose più ostiche che esistano nella loro lingua. Se è vero infatti che esistono cognomi facili da ricordare e pronunciare come Pravda e Svoboda (che sono anche parole di senso compiuto, significano rispettivamente “Verità” e “Libertà” - bei cognomi!), la gran parte degli altri cognomi sono davvero impossibili. Un mio amico si chiama Třeštik: dopo due anni che lo conosco ancora non sono capace di pronunciare correttamente il cognome. Oltretutto il nome può essere quasi sempre tradotto, ma un cognome no, e ciò rende quasi impossibile ricordarsi i cognomi. Scartata quindi l'ipotesi di differenziare le Petre o le Jane che conosco col cognome, devo per forza usare altri stratagemmi per 19 abbinare un numero sul telefonino ad una persona. Ad esempio nella mia rubrica ho la voce “Jana tram”, perché ho conosciuto questa Jana sul tram. Qualcuno a questo punto potrebbe obiettare: certo i nomi saranno banali, ma di sicuro ci saranno i soprannomi. È vero, anche i cechi usano i soprannomi, ma purtroppo sono banali anche con quelli. Una volta mi sono ritrovato a dover chiamare un collega di nome Ondřej, e non essere in grado di capire a quale dei tre Ondra (il soprannome per Ondřej) in memoria corrispondeva. I soprannomi cechi seguono una precisa codifica: un Pavel userà come soprannome “Paja”, un Jiři sarà chiamato “Jirka”; un Ondřej “Ondra”; un Vladimir “Vladia” e un Miroslav “Mirek”. Il sistema è fin troppo banale: anche senza sapere il soprannome corretto, con un piccolo sforzo si può indovinarlo. Ad esempio la finale “ek” è tipica del vezzeggiativo, quindi Mirek è un piccolo Miroslav. Capitolo a parte merita il soprannome di Jan: Honza. Forse l'unico caso al mondo in cui il soprannome è più lungo del nome e non ha nulla in comune con il nome d'origine (in realtà c'è una spiegazione: Jan significa Giovanni, che in tedesco si dice Hans, da cui deriva Honza). A chi pensa che un po' ovunque i soprannomi siano gli stessi, chiarisco subito il punto: in Rep. Ceca sono veramente tutti uguali e usati da tutti. Quindi, ogni Vojtěch avrà sempre come soprannome Vojta; ogni Jan sarà sempre chiamato Honza. Facile da ricordare, ma assolutamente inutile per differenziare gli amici sul cellulare. L'unica eccezione è il mio amico Matěj: in realtà il suo nome è Jan, perciò sarebbe un Honza, ma siccome conosce una mezza dozzina di Honzi (la fantasia ceca nel dare i nomi già citata...) si fa chiamare Matěj per differenziarsi (in realtà Matěj è abbreviazione del cognome Matejů). 20 Escluso il problema della memorizzazione sul cellulare degli amici, la tipica banalità ceca nel dare il nome ai figli ha serie ripercussioni nei rapporti personali di uno straniero in Rep. Ceca. Detto più semplicemente: mi dimentico i nomi. Ricordarsi un nome particolare è facile, ma ricordarsi che a quella faccia corrisponde un banale Petr, diventa difficile. Spesso quindi, conosco persone da anni, e – lo confesso con un po' di vergogna – non ne conosco il nome. In realtà ho risolto il problema salutando le persone con l'espressione “vole” (è il vocativo di “vůl”, ossia bue). Chiamare un amico vole, equivale a chiamarlo “socio” (o per i più giovani “zio”). In realtà non è molto educato, ma almeno mi salvo in corner quando mi dimentico i nomi. Non pensiate però che il mondo dei nomi cechi mi crei solo problemi. Ci sono altri due elementi interessanti nella scelta dei nomi cechi. Il primo è quello dei nomi desueti, che quantomeno provoca curiosità. Molti infatti dei nomi più comuni sono nomi quasi scomparsi in altri paesi. Pensate al già citato Vojtěch, nome difficile da tradurre, ma che in verità corrisponde ad Adalberto. Di Vojtěch ne ho incontrati qualche decina a Praga: trovatemene uno a Milano e cento punti sono vostri (persone con più di novant'anni non valgono). Discorso analogo per i moltissimi Vladimir (che forse a noi ricorda più che altro il conte Dracula), Václav (Venceslao) o Stanislav (Stanislao, l'unico che conoscevo con questo nome era un magistrato che di questi tempi dovrebbe andare per i novant'anni: fa impressione vedere un bambino con questo nome!). L'altro aspetto riguarda i nomi moderni: da anni ormai ci siamo abituati alle ondate di nomi stranieri portati dai telefilm americani, o da altre insanie di moda in quel periodo. E così i genitori hanno iniziato a chiamare i figli Asia, Oceano, Jessica, Elvis (sì, conosco un bambino che 21 si chiama Elvis. Elvis!!!). L'altro giorno un mio amico mi ha annunciato di aver trovato la morosa; «come si chiama?» gli ho chiesto. «Brenda» è stata la risposta. Speriamo sia almeno più intelligente dei suoi genitori. Ecco, questo fenomeno non esiste tra i cechi. Anche i bambini del giorno d'oggi vengono chiamati con nomi normali e non come le stelle del cinema o della musica. Sì, saranno nomi banali, ma se l'alternativa è chiamare il figlio “Elvis”... viva la normalità! 22 Batoh Durante gli anni dell'università facevo il pendolare fra Lecco e Milano. Vivendo a 50 km dalla metropoli, facevo parte di quella categoria di studenti che non abitavano direttamente a Milano, ma nemmeno abitavano talmente lontano da rendere necessario il trasferimento, armi e bagagli, nella capitale lombarda. Così ogni giorno mi toccava alzarmi alle sei del mattino per andare in stazione e prendere il treno diretto a Milano. Viaggi lunghi (troppo) e vissuti da solo, quindi pesantemente noiosi. L'ultimo giorno della settimana rappresentava l'eccezione. I miei amici e colleghi di studio della Valtellina prendevano lo stesso treno per tornare in Valle. Abitando distante da Milano, praticamente tutti avevano affittato un appartamento (o spesso una camera, o meglio, un letto su cui appoggiare la testa), nella metropoli lombarda. Io un po' li invidiavo, a quell'età vivevano già da soli! Ma soprattutto un ricordo è ben stampato nella mia mente: li invidiavo per il loro trolley! No, non prendetemi per pazzo. Quando andavamo insieme in stazione, i valtellinesi avevano tutti (tutti!) il trolley (pieno di vestiti che la mammina avrebbe poi lavato e stirato per il proprio bambino). 23 Mi è sempre sembrato un oggetto fantastico, con quelle rotelle e il manico estraibile! Li vedevo mentre trascinavano con leggiadria il loro trolley; un dito bastava per muovere tanti chili. Ne ero talmente affascinato che appena ho potuto mi sono comprato un set completo di tre trolley. Anche se non mi servivano. Probabilmente vi starete chiedendo cosa c'entri tutto ciò con i cechi e le loro usanze. È presto detto: la mia passione per il trolley si è subito scontrata con la tradizione ceca. Eh già, cosa credete che nelle tradizioni dei popoli ci siano solo le cose importanti, la lingua, la religione etc? No, ci sono anche i dettagli, a prima vista insignificanti. Il tipo di valigie usate da una popolazione sono uno di questi. Per farla breve, un ceco giammai usa il trolley! Soprattutto se è sotto i trent'anni. Un ceco usa il Batoh, che non è la capitale di uno stato del Sud-Est asiatico. Batoh significa zaino; il caro e vecchio zaino, quello che si carica in spalla. Oggi ormai sono diventati degli strumenti meravigliosi: hanno schienali rinforzati e imbottiti, cinghie che scaricano il peso sulle anche senza forzare le spalle. Insomma non sono più solo sacche di tela da caricarsi in spalla, sono dei veri concentrati di tecnologia a cui in ceco non rinuncia quando deve viaggiare. Sia chiaro, non sto parlando solo dei viaggi in cui usare uno zaino è normale. In effetti se vedete qualcuno che si presenta con il trolley per andare ai monti, è evidente che c'è qualcosa che non quadra. In quel caso è naturale usare lo zaino. La differenza è che i cechi lo zaino lo usano sempre, anche in quelle situazioni dove per noi è strano e inusuale. Prendete ad esempio un viaggio in aereo: mentre tutti noi ci presentiamo con valigia (al giorno d'oggi sempre dotata di ruote – ne ho visto un modello che ne aveva otto!) un ceco, anche all'aeroporto arriva con il suo zaino. 24 Le prime volte che vedevo gli zaini arrivare sul rullo dei bagagli, mi sembrava che ci fosse qualcosa che non quadrava. Cosa ci faceva uno zaino mischiato tra tutte quelle valigie ruotate? Poi ho capito a cosa era dovuto il sentimento di inadeguatezza nel guardare lo zaino. Lo zaino “sta male” in un aeroporto, perché l'aeroporto è per definizione il luogo dei ricchi. Deriva tutto da quando in aereo volavano soltanto le persone che avevano i quattrini per comprarsi i costosissimi biglietti aerei dell'era pre-low-cost. Oggi invece viaggiamo ormai tutti, visto che in molte occasioni l'aereo è diventato perfino il mezzo più economico per muoversi. Nonostante ciò l'aeroporto rimane sempre un posto di classe; se ne volete una riprova provate a guardare il tipo di negozio che incontrate prima di imbarcarvi: profumerie, gioiellerie... È ovvio dunque: una persona che passa da un aeroporto col proprio zaino sulle spalle, anziché un fighissimo trolley, risulta stonato, fuori situazione. Un po' come presentarsi a teatro con le infradito. Ma probabilmente ai cechi queste convenzioni importano poco, e agli aeroporti arrivano sempre con lo zaino in spalla. Potete fare un interessante esperimento a riguardo. Se vi capiterà di prendere un volo diretto in Repubblica Ceca, aprite bene le orecchie al ritiro bagagli. Quando vedrete uno zaino arrivare sul nastro, cercate di individuare chi lo prende (si spera sia il proprietario!) e cercate di ascoltare che lingua parla. Io l'ho fatto più volte e non sono mai smentito: lo zaino appartiene sempre al ceco. Badate bene, non sto certo parlando di poche persone, quella dei cechi per lo zaino è una vera mania. Una volta mi è capitato di vedere una giovane famiglia sulla metropolitana a Praga. Lui, lei – non oltre i trent'anni- e i due piccoli figli in passeggino. Ognuno dei due genitori portava un figlio e un enorme zaino sulle spalle. Mi sono quasi 25 spaventato vedendo la madre con quel carico: temevo si ribaltasse all'indietro! La chiamo mania anche perché c'è una sorta di feticismo dei cechi verso lo zaino. Quando comprai il mio, lo mostrai a Mima chiedendo «ti piace il mio nuovissimo zaino?». Mi aspettavo un «sì, bello». Invece si avvicinò e lo esaminò attentamente facendone una recensione completa, notando tutti i dettagli (come la possibilità di regolare l'attacco delle cinghie per le spalle) che io nemmeno avevo notato. Per anni mi sono chiesto a cosa fosse dovuta questa mania dei cechi per lo zaino. Avevo appena fatto il salto sociale comprando il trolley dei desideri, potevo finalmente sentirmi come tutti gli altri (un po' di sano conformismo), quando mi sono trasferito in Rep. Ceca e tutti gli altri intorno a me erano cambiati. Dannazione, perché tutti i cechi usavano lo zaino? All'inizio pensavo fosse dovuto al fatto che da queste parti non esistessero i trolley. Ipotesi subito scartata dopo una visita al centro commerciale, e dopo aver notato che invece il trolley è usato dai cechi avanti con gli anni. Allora ho pensato fosse dovuto a una sorta di spirito di backpacking che aleggia sul popolo ceco. Questa inizia ad essere una spiegazione più plausibile. Il ceco è abituato a viaggi spartani, a gite in cui si bada all'essenziale. Di solito i cechi usano i mezzi pubblici, e non faccio fatica ad immaginare la famigliola di prima che viaggiava verso chissà dove, portando nei due zaini dei genitori tutto il necessario per chissà quanto tempo. Una sorta di famiglia on the road. Nella stessa situazione due genitori dei nostri non viaggerebbero mai - con due bambini così piccoli – usando i mezzi pubblici. 26 Conosco cechi che hanno superato i trent'anni e ancora viaggiano alloggiando negli ostelli; quando mi sono permesso di dire qualcosa tipo «insomma...a quell'età ... ancora all'ostello?» mi è stato risposto «quando sentirò il bisogno di andare all'hotel vorrà dire che sono diventato vecchio». Lo spirito backpacking non è quindi da escludere. Ma forse il vero motivo per cui il ceco viaggia con lo zaino è il più ovvio e per questo meno immediato: lo zaino è dannatamente comodo. L'ho capito poco prima della mia conversione allo zainismo ceco, nel Settembre 2007. A quel tempo mi recai in Galles per una conferenza insieme a tre amici cechi. Io con il trolley, loro tre invece con lo zaino. Mentre ci spostavamo dalla stazione all'alloggio, io continuavo a rimanere indietro mentre i miei amici cechi zaino-dotati mi precedevano; poco dopo ho capito il motivo. Ciò che mi handicappava era il mio trolley: ad ogni marciapiede era un disastro, dovevo lasciare il manico ed afferrare la maniglia per sollevarlo. Ogni tratto di strada in cui l'asfalto lasciava spazio al porfido era una tragedia, se non volevo rovinare il mio preziosissimo trolley dovevo drasticamente ridurre la velocità per evitare pericolosi ribaltamenti. Fu allora che guardai i miei amici cechi con invidia per la loro indipendenza. Se viaggi con lo zaino ti basta caricartelo sulle spalle e camminare. Non ci sono ciottolati, scale o altro ad impacciarti la vita. La capienza limitata (sui 60-80 litri) ti porta automaticamente a ridurre il bagaglio a quello che realmente serve; se usi uno zaino non avrai problemi di sovraccarico bagaglio al check-in! Per finire, lo zaino ti lascia le mani libere, per aggrapparti ai sostegni della metro o per condurre il passeggino. Ecco, finalmente avevo capito tutto, ero stato illuminato dallo zainismo ceco! 27 Appena tornato a Praga corsi a comprare il mio zaino, che da allora mi accompagna nei miei viaggi. Da quel giorno un altro pezzetto di me si è cechizzato. Ho sentito che per ottenere la cittadinanza ceca bisogna sostenere un test di lingua ceca. Probabilmente, anche se nessuna fonte ufficiale lo confermerà mai, controllano anche se arrivi all'esame con uno zaino. 28 Alcool, amico alcool Uno dei maggiori vantaggi che si hanno nel vivere in Rep. Ceca è quello che non bisogna svenarsi per bere una birra. La più banale e inflazionata delle frasi che mi dicono quando racconto di vivere a Praga, riguarda infatti la birra: «beato te, che puoi berti un'ottima birra a poco prezzo». La cultura birraiola ceca è infatti una delle poche cose corrette che gli stranieri sanno di questo paese. Quello che invece è un po' meno noto è il vero rapporto dei cechi con l'alcool. Innanzitutto c'è il fattore costo: il prezzo così basso della birra può essere contestato da chi ne vede un incentivo all'abuso, soprattutto da parte di giovani. Ed è vero; che i giovani bevano tanta birra è indiscutibile. Ma è questo “il male”? Ecco, noi siamo abituati a vedere il consumo di alcool come qualcosa di sbagliato, quasi peccaminoso. Quelli che non lo vedono peccaminoso (perché banalmente amano bere) quantomeno vedono nell'alcool un aspetto di trasgressione, di bella vita, di “e godiamocela!”. Per i cechi invece l'alcool è come una matita o un ferro da stiro. È una cosa normale e diffusa, tanto che nessuno si scandalizza per l'uso (o 29 abuso) di alcool. Bere alcool o bere acqua è tutto sommato la stessa cosa – escludendo che nei locali pubblici l'acqua costa di più della birra. Tanti atteggiamenti che in alcuni paesi sarebbero considerati inappropriati, sono invece considerati normali in Repubblica Ceca (e fanno sgranare gli occhi a quelli come me). Una volta mi sono trovato a un incontro pubblico di Karel Schwarzenberg, ministro degli esteri della Repubblica Ceca e senatore di Praga 6, proprio dove abito io. Per ricordare ai suoi elettori quanto si occupa di loro, aveva organizzato questo incontro informale in una elegante sala da ballo, trasformata per l'occasione in sala civica. Siccome mi interessava vedere da vicino il rapporto dei cechi con la politica (e un po' anche perché – diciamolo – quel pomeriggio avevo poco da fare), mi sono imbucato alla conferenza. Già ero rimasto stupito quando arrivai un quarto d'ora prima dell'inizio, e vidi che i partecipanti al ritrovo mandavano giù tanti bei boccali di birra. Capisco ad un incontro conviviale, ma ad una conferenza con il ministro degli esteri non mi sembra che sia educato farsi vedere mentre si beve, benché fosse estate e una bella birra passava giù che era un piacere (ovviamente non mi sono tirato indietro). Ogni mio dubbio è poi caduto quando è arrivato il Sen. Schwarzenberg: non appena si è seduto al banco degli oratori un'assistente gli ha subito posato davanti un bel mezzo litro di Pilsner. Che egli non ha mandato indietro. Sembra che l'unico stupito della cosa fosse il sottoscritto: a un conferenziere si porta la mezza minerale, non la birra! Sicuramente al mio paese considererei maleducato un senatore che si presenta in pubblico, sorseggiando una birra tra una risposta e l'altra. Se penso perché, onestamente non riesco a trovarne il motivo. Forse è dovuto al fatto che all'assunzione di alcool viene associata automaticamente l'ubriacatura, o comunque la non completa padronanza delle proprie facoltà mentali. E in effetti un ministro che si ubriaca sul palco non sta molto bene. Probabilmente è proprio questo il motivo, lo 30 stesso per cui i cechi non considerano offensivo lo stesso gesto. Sono talmente abituati a bere che possono scolarsi litri e litri di birra senza ubriacarsi (o senza darlo troppo a vedere!). Mi ricordo di una volta, quando mi trovavo in uno sperduto villaggio del Sud Boemia insieme ad alcuni amici per una gita in canoa. È una tipica attività in Repubblica Ceca: con zaino e tenda sulle spalle, si prende il treno per portarsi lontano dalla città, dove si noleggia la canoa. Si pagaia un paio di giorni dormendo in tenda dove capita e mangiando in qualche osteria alla buona. Proprio la sera del primo giorno siamo andati a mangiare e bere qualcosa all'unica osteria del paese. Oddio, più che un'osteria era meglio definirla una bettola: quando ho chiesto cosa avevano da mangiare mi hanno risposto che il menù comprendeva solo due piatti freddi! Ho quindi compensato col beveraggio: in effetti, mi sono bastate quattro birre per iniziare a cantare. Venuto il momento di pagare dichiaro al cameriere quello che avevo preso (da queste parti non si paga alla romana; funziona che il cameriere scrive cosa prendi su un foglietto: a turno ognuno dice quali sono le sue consumazioni e paga il suo, facendole depennare dal foglietto). Un amico di un amico quando sente che avevo bevuto solo quattro birre rimane dubbioso «non ci credo che ha bevuto solo quattro birre, non può essere ridotto in quella maniera». Il mio amico l'ha rassicurato: «è fatto così, non è mica ceco!». Forse l'abitudine di bere così tanto, ha reso i cechi molto più resistenti all'alcool, così che non si associa automaticamente l'alcool all'ubriacatura. Viene quindi a cadere quell'alone di “male” attorno all'alcool. Il fatto che l'alcool sia socialmente accettato, l'ho percepito in tante altre occasioni. Mi è capitato a volte di andare a incontri organizzati da associazioni cattoliche. Anche in quei casi la birra scorreva a fiumi. Magari non lasciavano fumare: ho visto un ragazzo che accendeva la sigaretta fuori dalla sala, ed un sacerdote gli ha chiesto di allontanarsi 31 almeno cento metri! Ma se per il fumo c'era un comportamento restrittivo, niente problema per la birra. Ho visto addirittura una ragazza Down che gustava il suo boccale di birra. E l'ho incontrata in coda al bar due volte quella sera; presumibilmente non erano state le uniche. Per inciso, il barista non ha battuto ciglio quando gli ha chiesto la birra alcolica (c'era anche l'analcolica, ovviamente). Che dire, fa senso vedere che anche una ragazza Down, che fa tenerezza mentre apre il borsellino ed estrae le monete, contandole per bene, invece di comprare le caramelle o le patatine si compra (e si gusta, perché sì, si gustava) la sua birra. Ma non è certo stato l'unico episodio che mi ha lasciato a bocca aperta. Una volta ero a Tabor ed ho visto due suore sedute a un tavolino davanti a una birreria, che si bevevano la loro bionda media. Non ho resistito alla tentazione ed ho estratto la macchina fotografica per documentare quello che altrimenti nessuno avrebbe mai creduto. Mi sono nascosto dietro a un'edicola lì vicino e ho preparato la macchina fotografica. Poi sono sbucato all'improvviso ed ho scattato una foto alle suore birraiole. Be', una ha comprensibilmente cercato di nascondersi, mentre l'altra ha allegramente alzato il bicchiere di birra! Passato qualche giorno ho incontrato il mio amico Petr, e gli ho raccontato questo episodio: «oh, ma lo sai che ho visto due suore che bevevano birra?», e mi aspettavo una risposta tipo «No, davvero? Non ci credo ma neanche...». Invece Petr mi ha guardato con fare dubitativo tipico di chi non ha capito il punto della questione: «E allora?». «Ma come? Una suora non può mica mettersi a bere alcolici così, apertamente facendosi vedere da tutti» gli ho spiegato. Ma lui non capiva «Anche mia zia è una suora, e beve la birra come tutti. Che problema c'è?». Niente, non c'era verso di capirsi, il tipico caso di scontro di mentalità. Per i cechi l'alcool non è “il male” e non si fa niente di male a berlo; anche il concetto di trasgressione viene a cadere. 32 C'è addirittura una canzone dei “Divokej Bill” un gruppo rock che si intitola proprio “Alkohol” che recita proprio “Alcool, amico alcool”, in pratica un inno all'alcolismo. Quando questo pezzo parte nei concerti iniziano tutti a cantare in coro insieme alla band. In qualsiasi paese che non si chiami Repubblica Ceca, probabilmente avrebbero censurato la canzone, come diseducativa. Qualche deputato, che non ha niente di meglio da fare, nei momenti liberi tra un'orgia a base di cocaina e l'altra avrebbe fatto un'interrogazione parlamentare a un ministero a caso per sapere se era lecito a un complesso musicale dare questi messaggi diseducativi alle nuove generazioni. In Repubblica Ceca, no. Eppure anche nella nostra terra il vino ha sempre rappresentato una parte importante della nostra cultura. Basti pensare ai tantissimi vini di qualità che ci invidiano in tutto il mondo. Ed anche la cultura popolare fa la sua parte: come non citare i mitici alpini che del vino fanno carburante. Non ho mai preso l'abitudine di bere il vino a tavola, come invece fanno i miei genitori. A un certo punto quando avevo sui 16-17 anni mia mamma continuava a ripetermi «Ma su, perché non bevi il tuo mezzo bicchiere di vino: come devi fare a far l'alpino». Certo, perché ovviamente un ragazzo che non beve non può fare l'alpino! Ciò nonostante, benché sia cresciuto in una famiglia wine-friendly, i miei genitori hanno sempre avuto un giudizio negativo dell'alcool, quando andava oltre il bicchiere di vino a tavola. E allora mi chiedo quale sia la differenza. Perché invece, nella cultura ceca non c'è il limite? Perché il bere – anche tanto – non è visto poi così male? Mi viene da pensare a quello che fece mia nonna. Era appena finita la seconda guerra mondiale e il suo fidanzato era arrivato sano e salvo in paese. Per festeggiare era andato all'osteria e si era ubriacato: purtroppo per lui mia nonna passò davanti all'osteria e lo vide in quella condizione. Lo piantò in asso: non tollerava gli ubriaconi. Nella situazione specifica poteva essere anche un po' tollerante, ma in generale 33 la capisco: una volta gli uomini andavano all'osteria la domenica pomeriggio, si ubriacavano e c'era chi litigava e faceva a botte direttamente sul posto, e chi arrivava a casa e picchiava moglie e figli. L'alcool era visto come la causa di tanta violenza, che si scatena negli ubriachi. Forse è proprio per questo che per noi gli alcolici hanno sempre e comunque uno sfondo di considerazione negativa, che resiste alla cultura di quelli che fanno nei fine settimana i corsi di sommelier (per poi atteggiarsi da esperti alle cene di Natale coi parenti: da prenderli a sberle) o all'avanzata dei fighetti che passano il Venerdì sera nelle wine-house very very cool. In Repubblica Ceca invece la cultura alcoolica ha mantenuto un livello ancora molto popolare, senza però essere considerato negativamente per via della violenza dell'ubriacatura. E ciò è probabilmente dovuto al fatto che i cechi sono principalmente ubriachi allegri, non ubriachi violenti. Un ceco ubriaco è difficilmente cattivo; mi è capitato diverse volte di salire su un tram nel pieno della notte e di trovare diverse persone completamente ubriache, eppure nessuno si è mai comportato in modo violento, nessuno ha mai scatenato una rissa. Il più delle volte si mettono a sedere e si fanno passare la sbronza. Se si esclude allora la violenza tra gli effetti dell'ubriacatura allora rimane poi ben poco di negativo da imputare all'alcool. Se qualcuno ha ancora dei dubbi sulla normalità alcolista di questa gente, consiglio di farsi un giretto insieme a una compagnia di cechi. Mi ricordo di una volta che ero stato invitato da una mia amica a vedere un concerto in Staroměstské náměstí (la piazza della città vecchia) a Praga. Siamo partiti da Strahov in cinque persone: tutti cechi tranne il sottoscritto. Be', dopo cinque minuti, mentre scendevamo la collina di Petřín per arrivare in centro, la mia amica apre lo zainetto e prende una bottiglia di plastica, una di quelle dell'acqua minerale usata e riusata diverse volte (del tipo che l'etichetta è ormai consumata). «Cosa hai 34 portato di buono?». «Slivovice, fatto in casa da mio zio» mi risponde lei. Lo Slivovice è una specie di grappa ceca: soprattutto in Moravia c'è una gran tradizione nel farsi lo Slivovice in casa. Sarà anche illegale, ma sembra che nessuno ci faccia troppo caso. Un ceco guarderà con orrore lo Slivovice comprato nel negozio: quello è un prodotto industriale senza qualità. Un vero ceco va in giro con la bottiglia nello zaino riempita con lo Slivovice fatto dal cugino o dall'amico del papà. È visto anche un po' come motivo di vanto, il fatto di avere lo Slivovice artigianale da bere. Anche lo Slivovice della mia amica era davvero buono, e ovviamente non mi sono tirato indietro. Ovviamente le ho chiesto, se era normale per una ragazza andare in giro a bere la grappa dalla bottiglia di plastica fatta passare tra gli amici (mettiamola così, c'è chi si passa la canna, e c'è chi si passa la bottiglia di grappa). E lei mi ha raccontato di come lo Slivovice sia in realtà una sorta di medicina. Quando era piccola, abitava in un paesino di campagna, parecchi chilometri distante dalla più vicina farmacia. Una volta prese una brutta influenza e la madre la portò dal medico, il quale le prescrisse alcuni medicinali. Ovviamente la mamma fece presente al medico che non potevano andare a prendere quei medicinali, perché la farmacia era distante. La risposta del medico fu: «allora le dia latte e slivovice». E funzionò! Di solito i cechi ti dicono che lo Slivovice è talmente forte che brucia tutto, microbi compresi. Non so se questa tesi ha un qualche fondamento medico, ma per i cechi non ci sono dubbi. *** A questo punto qualcuno potrebbe pensare che mi sono perso nei vicoli della perdizione e passo le mie giornate insieme ad amici di infimo livello dediti per lo più all'alcolismo. Per sgombrare il campo da ogni dubbio, devo specificare che ho potuto osservare l'amore per l'alcool 35 anche in persone “per bene” (se mai si potesse dare una definizione di tale persona). Mi ricordo di quella volta che stavo viaggiando in treno da Praga con destinazione Budapest, per una conferenza scientifica. A Brno ci ha raggiunti Paja, un collega moravo diretto alla stessa conferenza. Un ingegnere, un ricercatore, insomma, non sto parlando di un alcolista ai margini della società. Appena salito sul treno per prima cosa ha sistemato la valigia sulla cappelliera, e subito dopo ha aperto lo zaino e preso la classica bottiglia di plastica riutilizzata come biberon alcolico da viaggio. «Vuoi un sorso?» . «Be', mi piacerebbe capire anche di che si tratta» gli rispondo, visto che il liquido era abbastanza torbido e non ispirava fiducia. Ho così scoperto che era una specie di vino novello, anche se forse non è nemmeno corretto chiamarlo vino, visto che non era ancora fermentato completamente. Diciamo che era metà vino e metà ancora mosto. Un succo d'uva, che si è rivelato gradevolmente dolce, con una gradazione alcolica interessante (oddio, questa frase fa il paro con i deliri dei sommelier dal gusto “rotondo”!). Be', per farla breve, io ho bevuto solo un sorso, mentre lui ha fatto tutto il viaggio da Brno a Budapest, bevendo il vinello (per inciso, quando è salito sul treno erano le dieci del mattino, e beveva). Ora, uno può anche chiedersi se questa gente fa colazione con gli alcolici. Ed è quello che mi sono chiesto la mattina dopo quando mi sono svegliato e ancora nel dormiveglia ho visto Paja che beveva da una bottiglia. «Oh, ma cos'è, stai ancora bevendo quel vino di ieri? Sono le 7 del mattino!». «No, è solo acqua». «Ah, per fortuna è solo acqua». «Sì, purtroppo il vino l'ho finito». Altrimenti... 36 7 Giugno 2009. Sono al quartier generale dell'ODS, il partito di Topolanek, per una corrispondenza sui risultati delle elezioni politiche. Sugli schermi passano le immagini in diretta di ČT24, dalle sedi degli altri partiti. Nell'immagine il collegamento con la sede del KDU, il partito cristiano. Mentre la giornalista si rivolge al politico, sullo sfondo un sostenitore non ha vergogna a farsi riprendere col bicchiere di vino in mano. 37 Parco ceco Un parco ceco è un luogo dove fare una passeggiata (se passate dal Nord Boemia vi consiglio Český ráj, per esempio). Un ceco parco, è semplicemente un ceco. Nel senso che un ceco è generalmente parco. Voglio dire: parco inteso come aggettivo, ossia frugale. I cechi infatti sono persone parsimoniose, che cercano sempre di risparmiare e stanno attenti a non sprecare. Spesso quindi noto atteggiamenti che in tanti paesi sarebbero considerati da pezzenti e che invece in Repubblica Ceca sono considerati assolutamente normali. Bisogna stare attenti però a non confondere questa caratteristica parsimonia dei cechi con la povertà. Molti stranieri infatti pensano che la Repubblica Ceca sia un paese povero; talmente povero che non si può nemmeno permettere un nome ma solo un aggettivo (si dice infatti Repubblica Ceca e non Cechia, anche se ultimamente si sta diffondendo sempre più tra i cechi l'usanza di chiamare il proprio paese Česko, a mo' degli altri paesi come Polsko, Slovensko...). La Repubblica Ceca ormai non è più un paese povero, benché gli stranieri “dell'ovest” lo pensino ancora. Una volta ero a tavola con parentame vario, e uno zio mi ha detto «mah, non so se io vivrei in quel posto antico». Per “antico” pensava 38 “povero”, arretrato. Pensava alla Cecoslovacchia di vent'anni fa; non si è accorto che il tempo passa, e che in alcuni paesi passa più alla svelta. Forse quelli che hanno qualche anno in più e che hanno vissuto gli anni prima del 1989, si ricordano le differenze che c'erano tra l'Europa da una parte e dall'altra della cortina di ferro. Per chi invece è giovane e non se lo ricorda, vale ricordare il racconto di quel mio amico che mi descriveva il viaggio a Parigi dei suoi genitori, pochi mesi dopo la rivoluzione di velluto, quando le frontiere si aprirono e finalmente divenne facile per i cechi viaggiare all'estero. Mi raccontava infatti che i suoi genitori partirono la sera con il pullman, trascorsero la notte a bordo, per arrivare a Parigi la mattina. Giornata trascorsa a visitare la città, e partenza la sera, dormendo un'altra notte a bordo del pullman. «Santo cielo, era il caso di fare un tour de force simile? Non potevano passare una notte in albergo?». «No» mi ha risposto «pensa che per i miei genitori a quel tempo, bere un caffè a Parigi corrispondeva a spendere quello che guadagnavano in una giornata di lavoro. Di passare una notte in albergo non se ne parlava nemmeno». E così mi immagino i genitori del mio amico seduti sulle panchine degli Champs Elisee che mangiano i panini avvolti nella stagnola e bevono la minerale portati da casa. Racconto analogo quello del rettore della mia Università: una volta mi raccontò dell'unico viaggio che fece “ad Ovest” con la moglie, prima del 1989. Presero la macchina e viaggiarono in Germania, Francia e italia. Non potevano permettersi di pagare una camera in albergo, perciò dormivano in macchina. Quando arrivarono in Francia andarono in un campeggio: «ci sembrava di essere dei Re perché finalmente non dormivamo più in macchina». Racconti che fanno quasi tenerezza, ma che appartengono al passato. 39 Ormai la povertà non esiste più da un pezzo da queste parti. Notizia al popolo: non si fa più la coda per le banane. Non bisogna andare al mercato nero per trovare i generi alimentari. La gente non deve impegnare i denti d'oro per mettere insieme il pranzo con la cena. Certo, c'è tanta gente che fa fatica a sbarcare il lunario, soprattutto lontano dalle città, dove gli stipendi sono sensibilmente minori. Ma di gente che fa fatica a tirare avanti ce n'è ovunque. Basti guardare quanta gente ormai si reca alle mense dei poveri nell'opulenta Lombardia; persone – beninteso – che non rientrano nella categoria del classico “povero”, ma sono normali lavoratori e pensionati che non arrivano a fine mese. Se si escludono quindi questi casi, comuni a tutti i paesi, in generale la gente non se la passa male: i tempi della povertà sono ricordi ormai (se si ha voglia di lavorare, ovvio). Tuttavia, il turista che arriva a Praga non potrà non notare alcuni dettagli che potrebbero essere fuorvianti, e far pensare che in questo paese ci sia ancora una profonda povertà. Un giorno ero a spasso per Praga con una persona che mi era venuta a trovare. Era arrivata nella capitale ceca da poche ore, eppure uno sguardo attento alle strade le ha fatto dire «Oh, ma che macchine schifose che hanno qua a Praga. Non hanno due lire per comprarsi delle macchine decenti?». La frase era ovviamente accompagnata da una faccia a metà tra lo schizzinoso e il deridente. È vero, tante macchine a Praga sono vecchie, alcune molto vecchie. Sulle strade di questa città trovi sia le auto moderne e lussuose, sia le auto con tanti anni, e chilometri, alle spalle. Auto che appartengono a una specie di via di mezzo: non sono più auto moderne, ma non sono ancora auto storiche. Certo, capita di incontrare qualche Škoda 1000, un modello di quarant'anni fa, con un design affascinante; una macchina che tirata a lucido ti farebbe rimorchiare un sacco di fanciulle in una 40 qualsiasi cittadina brianzola. Ma il più delle volte sono macchine proprio vecchie e brutte, delle Škoda 120 che in confronto la Fiat 127 con la pelle di agnello sul lunotto che aveva mio papà da giovane faceva un figurone. Ecco, però voi magari vi state chiedendo cosa veramente intendo quando dico che le macchine sono vecchie. Allora è utile dare qualche numero per farvi capire capire meglio. Mi vengono in aiuto alcuni amici con i quali stavo cenando in trattoria. Il giorno dopo avevo in programma di andare a Lecco in aereo e tornare di lì a tre giorni in automobile, la vecchia automobile di mio papà. Infatti quella Opel Kadett di sedici anni, per effetto di una classica legge regionale ai confini della demenzialità, non poteva più circolare nell'area metropolitana di Milano. Mio papà decise allora di regalarmela in modo che la potessi utilizzare almeno a Praga (il motore funzionava ancora come un violino: rottamarla sarebbe stato un delitto che grida vendetta al cospetto dell'industria automobilistica tedesca). Quando raccontavo ai miei amici che avrei importato la mia “vecchia” automobile in Rep. Ceca, Honza mi ha fermato subito e mi ha chiesto: «ma quando dici “vecchia” cosa intendi?». «Be', è vecchia, ha sedici anni». Una grossa risata comunitaria mi ha scavalcato, modello ondatsunami. «Una macchina di trent'anni è vecchia», mi hanno spiegato. Si riferivano a quelle Škoda 120, che sembrano tenute insieme con il fil di ferro: delle volte le vedi fare una rotonda a tutta velocità e ti viene da pregare che il tubo di scappamento non parta per la tangente (dove ci sei tu). La mia “vecchia” macchina, considerata buona solo per la rottamazione in Lombardia, ha guadagnato nuova verginità nella Repubblica Ceca. Straccioni? Poveracci? No, semplicemente pragmatici. 41 Perché in effetti quella macchina fa ancora egregiamente il suo lavoro. Non è bella? Non ha un design alla moda? E chi se ne frega! L'importante è che non mi lasci a piedi quando devo andare al supermercato a fare la spesa. Io dico sempre che la mia macchina è come una donna quarantenne: “magari non è più bellissima ed ha qualche acciacco, ma funziona meglio di una diciottenne”. Poi certo, non ha il condizionatore, non ha l'”agvssss”, ma il finestrino lo devi abbassare con la “manetta”. Ma abbiamo abbassato il finestrino a mano per decenni: davvero non possiamo vivere senza un finestrino che va su e giù da solo? Quanti dei nostri desideri sono dettati più dalle strategie comunicative delle aziende, piuttosto che dalle nostre reali esigenze? Ecco, le macchine vecchie che potete vedere sulle strade ceche, sono macchine che fanno ancora il loro lavoro. Probabilmente le persone che le usano non sentono l'esigenza di cambiarle. Vivono con la macchina vecchia e si accontentano. Magari vorrebbero cambiarla e non se lo possono permettere. Invece di impegnare i denti d'oro perché «piuttosto faccio la fame, ma non devo far vedere che sono uno straccione», si tengono la macchina vecchia. Questo non vuol dire che le macchine che girano sulle strade ceche siano tutte vecchie e con la manetta al finestrino. È ovvio che le macchine nuove sono normali macchine come in tutto il mondo. Ma ciò non implica che si buttino via prima del tempo automobili che, anche senza tutti i comfort del caso, possono ancora avere un'utilità. Lo spreco, ecco ciò che si evita; e proprio in questo consiste la parsimonia. Quello che ho osservato nei cechi è che sprecano decisamente poco. L'ho visto in tanti piccoli atteggiamenti. Mi è capitato di frequentare diverse mense in Lombardia, o in Veneto. E tante volte, quando dopo il pasto riportavo indietro il mio vassoio, vedevo tantissimi altri vassoi sui carrelli, pieni di cibo avanzato. Tanto cibo, buono, che poi veniva buttato 42 via. Pensare che di lì a qualche minuto sarebbe passata una signora e avrebbe buttato tutto quel cibo in un sacco nero, mi faceva arrabbiare. E non parlo di qualche avanzo; spesso erano porzioni intere, panini nemmeno iniziati. Tutto buttato via. In Repubblica Ceca invece ho osservato che i vassoi sono restituiti sempre vuoti, coi piatti ben spazzolati. E uno fa anche fatica a spiegarselo, perché – diciamocelo – il cibo delle mense ceche non è proprio eccelso, anzi. Quindi sarei anche portato a giustificare che le persone si rifiutino di mangiare certa sbobba, lasciandola sul vassoio. Ma nonostante ciò i cechi ingurgitano tutto, e leccano pure il piatto. Non so perché lo facciano. Magari è dovuto al fatto che raramente esiste il “menù a prezzo fisso”. Solitamente, anche in una mensa, si prende quello che si vuole e si paga singolarmente ogni cosa. Anche il singolo panino, per quanto poco possa costare, si paga al pezzo. Quindi se uno sa che prende tre panini invece che uno pagherà qualcosa in più, e forse questo invoglia a prendere solo quello che veramente si vuole mangiare. Ma forse è solo una questione di educazione, della parsimonia che ti porta ad evitare lo spreco fine a se stesso. Non penso infatti che i giovani d'oggi lecchino il piatto perché si ricordano dei tempi andati quando si faceva la fila per le banane. Ormai i giovani di oggi non si ricordano nemmeno di quei tempi. Proprio la questione “cibo”, mi fa ricordare una stranissima sensazione che ebbi la prima volta che tornai a Lecco dopo tanti mesi passati in Repubblica Ceca. Andai in un supermercato e rimasi stupito di una cosa che prima di emigrare consideravo normalissima, avendola vista migliaia di volte. Stando però per tanto tempo nella capitale ceca, me ne ero scordato. Sto parlando delle quantità: in un supermercato lecchese tutto è “tanto”. Alla fine di ogni corridoio ci sono dei bancali pieni di cibo 43 accatastato. Confezioni che non vengono nemmeno messe negli scaffali, perché le quantità impongono che venga esposto tanto e portato subito via dai clienti. Sono i generi alimentari più comuni (un tipico esempio sono le cataste di panettoni a ridosso di Natale). Montagne di pasta, montagne di salsa di pomodoro. Arriva la famiglia e ne carica enormi quantità nel carrello. Carrello che arriva alla cassa ricolmo. Capita a volte di vedere addirittura famiglie con due carrelli pieni rasi. In Repubblica Ceca invece non funziona così: non ho quasi mai visto gente arrivare con il carrello stracolmo alla cassa, e men che meno con due. Spesso le merci acquistate coprono a malapena il fondo del carrello. Non ci sono le cataste di cibo nei supermercati cechi. Non ci sono nemmeno le confezioni famiglia, cosa che peraltro si rivela assai scomoda per me. Quando devo comprare i biscotti mi tocca prendere dieci confezioni da 130 grammi di BeBe. Purtroppo il sacco di biscotti da un chilogrammo non esiste, forse perché sono io l'unico che compra dieci confezioni di biscotti tutte insieme. Un episodio in merito a questa faccenda è davvero emblematico: mi trovavo al supermercato e la prima cosa che ho fatto è stato comprare cinque chili di zucchero (memore di mio papà che ne comprava dieci alla volta, ancora nel cellophane). Essendo gli unici articoli che avevo nel carrello, quei cinque chili di zucchero si facevano notare. Si avvicina una signora «Mi scusi: c'è lo sconto sullo zucchero?». «Prego?» pensando di non aver capito. «Le chiedevo se c'era un'offerta speciale sullo zucchero» ripete, indicando il mio carrello col ditino. Allora avevo capito bene la domanda, ma non ne comprendevo la motivazione. Sono rimasto in sospeso un paio di secondi. «No, signora, non mi sembra che ci sia un'offerta sullo zucchero» le rispondo. «Ma perché questa domanda?» (sottinteso: saranno poi cavoli miei quello che compro). «Pensavo che ci fosse un'offerta sullo zucchero perché ho visto che ne ha comprato tante 44 confezioni». papà! E cinque chili sarebbero tanti? Doveva conoscere mio Penso che non ci sia la cultura della scorta, del comprare cibo per accumulare. Quella cultura che a noi è stata imposta a botte di 3x2 (che qui infatti è quasi inesistente), dove tu pensi di fare un affare, e invece ti trovi a comprare molto più cibo di quello che ti serve, finendo poi per gettarlo. I cechi comprano solo quel poco che gli serve per i giorni successivi. Sia chiaro, il ceco compra poca cosa, perché prende solo quello che realmente gli serve, non perché non mangia (anche se a vedere come sono pelle e ossa molti cechi, qualche dubbio verrebbe!). Una volta abituato a questa realtà parsimoniosa è stato quasi un trauma tornare a Lecco e vedere l'ostentata opulenza dei miei concittadini. *** Uno dei punti centrali attorno al quale gira la parsimonia ceca è il non aver vergogna della propria condizione. Hai le tasche vuote, va bene: e allora? Non è che devi far finta di avere il portafogli gonfio. Non devi declinare gli inviti ad uscire, inventandoti qualche scusa, per non dire «No, guardate, non me lo posso permettere». Mi è capitato di andare a cena con degli amici e notare che uno non mangiava niente, e si limitava a bere la birra (che essendo molto economica, si può bere in abbondanza senza avere un salasso finanziario). «Cos'è, non hai fame?». «No, ho mangiato a casa.». Pora stella, si direbbe dalle mie parti. Non voleva mancare alla serata in compagnia, ma è arrivato già cenato per poter limitarsi a bere. E non aveva vergogna di dirlo. E la stessa cosa mi capitata in tante altre circostanze; di volte che si sta lì a guardare anche agli spiccioli, che in circostanze analoghe in Lombardia non passano due secondi che qualcuno se ne esce dicendo di non fare gli spilorci. Quell'atteggiamento, tipico dell'ostentatore che deve far vedere di non 45 aver problemi a spendere, che considera poveraccio chi guarda le due lire. Quell'atteggiamento in Repubblica Ceca non c'è. C'è il rispetto per le condizioni di una persona, che non viene giudicata col criterio: più hai soldi e più sei figo. Giusto pochi minuti fa mi è arrivato un invito da un'amica per andare al cinema. Data, ora, luogo ... e costo del biglietto. Così uno può fare in libertà le proprie considerazioni e decidere se andare o meno. Il minimalismo ceco non è una caratteristica necessariamente legata alle condizioni economiche o alla classe sociale delle persone. Lo scorso anno vidi un film dedicato a Václav Havel, ex Presidente della Repubblica. Una delle poche occasioni in cui si riempì il cinema del mio quartiere; cinema vecchio, di quelli con i lunghi tendaggi color verde marcio e i sedili di legno scomodissimi (e proprio per questo mi piace andarci... non sopporto le multisale!). Nel film si vede Havel che assiste al concerto dei Rolling Stones a Praga nel 1994: e lo fa seduto su una sedia di plastica bianca da campeggio...il Presidente della Repubblica! Mi capita spesso di frequentare persone anche di rango sociale elevato, ma non per questo le vedo spendere e sprecare, quasi come fosse un modo per ostentare le proprie disponibilità finanziarie. Sono rimasto a bocca aperta quando una mia alunna di italiano (sì, è capitato anche che insegnassi italiano) mi raccontava i preparativi del suo matrimonio. Un matrimonio con duecento invitati: sto parlando di gente che non lavora come cassiera al supermercato. E quando gli ho chiesto dell'abito da sposa mi ha risposto: «L'ho comprato a Parigi, bello, romantico. Ho speso circa 250 Euro». «Come?». «Sì, poi magari lo vendo a 150 dopo il matrimonio, così l'ho pagato solo cento euro». Dalle mie parti 250 euro il vestito da sposa non lo paga nemmeno la figlia di un protestato con gli usurai sotto casa. E tanto meno pensa di rivenderlo dopo la cerimonia. «Ma che senso ha spendere mille euro per un vestito che usi un giorno 46 solo nella vita». Il ragionamento ha buon senso e non fa una piega, anche per lei che quei mille euro poteva permetterseli. Proprio il matrimonio è una di quelle cose che mettono in risalto la differenza tra l'opulenza del mio paese d'origine e la pragmatica parsimonia ceca. Il matrimonio ceco non è una sagra dell'ostentazione materialistica; proprio per questo è molto più bello e autentico. Sono stato al matrimonio di un mio amico, Franta: è stata una bellissima esperienza, che mi ha fatto capire tanto sui cechi. Paesino nel Nord Boemia, lontano da Praga, tanto che quella mattina mi sono dovuto mettere in viaggio quando era ancora buio, e il matrimonio era alle undici. Chiesa povera, e decorazioni quasi inesistenti: un rametto di un indefinito vegetale (non un fiore) legato con un nastro di tulle alle panche della chiesa. Un tappeto che iniziava a metà della navata, che sembrava essere stato usato mille volte (e probabilmente lo era stato). Due sedie d'onore davanti all'altare solo per gli sposi, i testimoni si sono messi sulle prime panche, da cui sono usciti per la cerimonia. Senza troppi fronzoli. L'unico lusso di tutta la cerimonia è stato il coro e i musicisti: a dir poco perfetti (giudizio che non elargisco facilmente). Ho poi saputo che era un coro dell'oratorio, non professionisti. Anche la lista nozze è stata alquanto inusuale. In realtà non esiste la tradizione della lista nozze in Repubblica Ceca. Alla fine della cerimonia gli sposi si girano verso la navata e ricevono amici e parenti che si congratulano e portano i regali (cosa che comporta qualche difficoltà pratica quando il regalo, per esempio, è un asse da stiro). Il mio amico ha deciso di fare una lista allo scopo di non ricevere doppi regali e far sapere quello che gli serviva, senza però imporre agli invitati l'acquisto in un negozio specifico. Tu andavi sul suo sito, vedevi cosa potevi regalargli. Ora, all'inizio facevo un po' di fatica a comprendere il contenuto della lista, perché era – 47 ovviamente – scritta in ceco. Temevo quindi di non capire bene cosa intendevano. Poi, dizionario alla mano, mi sono dovuto arrendere al fatto che i regali erano proprio quelli: potevo scegliere tra la forma per la torta, le presine, due lenzuola o il ferro da stiro. Il regalo più caro era un robot da cucina, ma nella lista c'era scritto «È un regalo costoso, quindi se volete potete darci un contributo e poi ci pensiamo noi a comprarlo». Quando penso a certe liste nozze, dove devi cercare col lanternino un regalo che ti consenta di far benzina per arrivare a casa! No, in questo caso il matrimonio è stato una festa organizzata in modo sobrio, senza sprechi inutili. Sia chiaro, non era una cosa da straccioni: gli ospiti erano eleganti e gli sposi pure, tuttavia sono state evitate le esagerazioni. Mi riferisco a quegli eccessi secondo cui, quando ti sposi, devi mostrare di essere ricco senza alcun limite. Una sorta di ipocrisia materialista che stona come una una campana crepata, ostentata dal campanaro per festeggiare un evento. Siccome ci sarà sempre un limite realistico all'opulenza che puoi dimostrare in un matrimonio, ogni tentativo di mostrare ricchezza risulterà goffo e patetico. I miei amici cechi invece, hanno organizzato un matrimonio semplice ed essenziale. Dove giocoforza finisci per interessarti di più alla sostanza dell'evento, ossia al fatto che due persone si vogliono bene e vogliono passare la vita insieme. Una festa in cui sei felice per il passo che fanno, e festeggi in allegria insieme a loro. Non è un caso infatti che poi al ricevimento, non ci si limita a banchettare ingordamente, ma si passa gran parte del tempo a ballare. Sì, a ballare, uno dei divertimenti preferiti dai cechi. Così, con semplicità e senza sprechi puoi gustarti di più un matrimonio. La conferma poi, che questi non siano casi isolati, ma siano consuetudini, mi è poi venuta in altre occasioni. Come quella di Franta (un altro) che mi dice «Mah, forse mi sposo a luglio». «Ma luglio è tra quattro mesi» gli rispondo. «Be', sì. Ma non serve molto di più a organizzare un matrimonio». Certo, se non devi far passare al setaccio 48 almeno sette negozi di bomboniere per cercare quelle che vanno per la maggiore, perché «no, tesoro, non possiamo rischiare che Jerry e Chanelle dopo vadano in giro a sparlare dicendo a Julie che abbiamo fatto delle bomboniere da straccioni». A me Franta e Ždenka dopo la festa mi hanno dato, come consuetudine in Repubblica Ceca, una scatola con una fetta di torta e altri dolci assortiti, per la colazione del giorno dopo. Onestamente: l'ho apprezzata di più che un osceno oggetto di ceramica da mettere sul comodino. *** In tante altre occasioni mi è capitato di sperimentare la parsimonia ceca. I raduni dei giovani cattolici sono un caso quasi estremo. Ho visto gente farsi la doccia con l'acqua gelida (non è un eufemismo), e gente che si lavava all'aperto, mettendo la testa sotto il rubinetto di un lavandino da campo, di quelli lunghi dieci metri. Ho visto la colazione in stile naia, con un bidone di latta da cinquanta litri, da dove un tizio estraeva il the, e un sacco di plastica nero, modello spazzatura, con i rohlík (i panini più economici che esistano). Ed era tutto lì. Ho visto pranzi dove il tutto consisteva in fette di pane e una specie di crema dal contenuto indefinito (ancora non ho capito cosa contenesse) da spalmarci sopra. E mai nessuno si lamentava. Ho dormito in una casa scout, in un paesino sulle montagne ceche, con i tripli letti a castello, e le coperte marroni che sembravano uscite da un film degli anni quaranta (se mai ci fosse stato il cinema a colori a quei tempi). E poi ci sono quelle cose che hai sotto gli occhi tutti i giorni e che non noti mai. Come il fatto che in Repubblica Ceca non ci siano i motorini. Ne ho visti talmente pochi che non so nemmeno come è fatta la targa ceca di un motorino. E ciò la dice lunga, perché il formato della targa è una delle prime cose che noti, quando cambi paese: mi accorsi di essere 49 stato lontano da Lecco per tanto tempo quella volta che ci ritornai e vidi che i motorini avevano una targa grande il doppio di quella a cui ero abituato. La targa del motorino ceco invece non la conosco, perché l'avrò vista quattro o cinque volte. Mi sono reso conto dell'inesistenza dei motorini, d'un tratto mentre tornavo da pranzo con dei colleghi. Ben inteso, non che la cosa mi dispiaccia, anzi. Quando ti fermi a uno STOP, non vieni circondato da nugoli di ragazzi, e finti giovani che ti accerchiano impedendoti di muoverti. Ma la cosa mi sorprendeva: se non esistevano i motorini, con cosa si muovevano i ragazzi sotto i diciotto anni? E allora l'ho chiesto ai miei colleghi: ma scusate, in Rep. Ceca non esistono i motorini? Sì, mi ha risposto Vojta, ma di solito sono appannaggio di qualche smanettone che si diverte a montarli e smontarli, per passione nella meccanica. Al massimo ci fanno mezzo chilometro nella via del paesino, così per provarlo, ma non lo usano come mezzo di trasporto. «E allora come vi muovevate quando non avevate la patente per la macchina?». «Be', col pullman» mi ha detto con la sua tipica scrollata di testa che significa «ma che cazzo di domande mi fai?». «Va bene, col pullman ci potrai andare a scuola, ma quando uscivate la sera?». Parlavo con persone che sono cresciute in paesini di trecento abitanti, dove quando ti va bene - c'è un solo posto per andare a bere qualcosa. Allora è normale che un adolescente voglia spostarsi e andare nei paesi vicini, per evadere dalla monotonia. «In bicicletta, o a piedi», mi ha risposto. Anche se sono cinque chilometri li puoi fare a piedi senza problemi. Era così anche dalle nostre parti cinquant'anni fa, mentre ora vedi le madri che se potessero, entrerebbero in classe col SUV per depositare il pargolo direttamente sul banco. Guai fargli fare cento metri a piedi! Figuriamoci qualche chilometro. In Repubblica Ceca invece non c'è quella pigrizia indotta dalla eccessiva disponibilità. Una mia amica morava una volta si mise a ridere perché mi vide arrivare in macchina alla piscina (distante 50 due chilometri da casa mia). «Mattia! Ma perché sei venuto in macchina? Non sarai mica uno di quelli che usano la macchina per fare due chilometri?» (per la cronaca, ero sono a corto di tempo e non potevo farla a piedi). Ecco, spesso in realtà il mezzo c'è ma se ne fa anche a meno. Così poi non ci si sente handicappati quando manca, e fare qualche chilometro a piedi non è uno scandalo! O come di quella volta quando ero all'aeroporto di Praga, in partenza per Francoforte. Di fronte a me una coppia di trentenni cechi con i loro insostituibili zaini. Prima di consegnarli all'assistente del check-in uno di loro estrae dallo zaino un rotolo di domo-pack e si mette ad avvolgere il bagaglio. No, non era insania improvvisa, non ha avuto un miraggio vedendo un quarto di manzo da congelare al posto dello zaino. Chi frequenta gli aeroporti sa che negli ultimi anni ha preso moda questa mania di avvolgere le valigie col il cellophane, per evitare di rovinarli (e per evitare che gli addetti di Malpensa li aprano). In tutte le aree check-in si trova quindi un omino che per soli otto euro ti avvolge la valigia nella plastica trasparente. Ora, l'ambientalista pensa: perché sprecare tutta quella plastica? Perché portare un rifiuto da smaltire in paradisi naturali (se viaggia verso posti come le Maldive). Il ceco invece pensa: perché diavolo devo spendere otto euro per farmi conciare la valigia come in un profilattico? Con otto euro mi compro quattro rotoli di domopack e vi avvolgo la valigia per una dozzina di viaggi. Perché pagare una cifra così spropositata quando si può ottenere lo stesso servizio con una cifra ben minore? E questo è proprio quello che mi disse Vojta mentre arrotolava il suo zaino nel domopack, quella volta che siamo andati a Napoli. Gli otto euro buttati via il viaggio precedente, proprio non gli erano passati giù. *** Forse leggendo queste pagine avete già capito che per me la parsimonia ceca è una cosa positiva. Probabilmente non per tutti è lo 51 stesso. Il tipico personaggio che fa le vasche in centro con i capelli scolpiti dal gel e le mutande di Dolce e Gabbana pagate 50 euro fuori dai calzoni, probabilmente non apprezza questa caratteristica dei cechi. Lo stesso si può dire per il tipo che fa l'aperitivo perché “fa cool”. Il tizio di mezz'età che va in giro con la macchina sportiva, indossando la giacchetta di pelle, e sfoggiando la trentenne bionda (che vuole apparire figa mascherando disperatamente le prime rughe e spingendo in alto le tette), credo che sia della stessa opinione. Ma io non appartengo a queste categorie di persone, ed è per questo che mi trovo in Repubblica Ceca, dove invece non si bada così ostinatamente a queste vuotaggini. E non vuol dire che sono tutti devoti a sacri valori antimaterialistici; anzi, delle volte è il contrario, c'è chiaramente l'ambizione per alcuni beni materiali, ma la minore accessibilità a questi beni spinge al contenimento e alla moderazione. Non si vive da asceti, ma non si diventa matti per l'ultimo modello di cellulare da possedere ad ogni costo. Perciò i cechi sono felici anche con poco, e non si fanno paranoie per cose inutili. Tutto qui. E a me piace così. *** Un pomeriggio mi trovavo a Stoccolma, per la precisione a Gamla Stan, il centro storico della città. Aspettavo il 53 per tornare a TCentralen, e di lì all'ostello dove alloggiavo. E mentre aspettavo il pullman si avvicina un ragazzo con uno zaino enorme sulle spalle: «Mi scusi, parla inglese» «Sì, mi dica»; magari, pur non essendo del luogo, potevo essergli utile. «Mi sa dire dove si va in direzione Nord?». Uhm, strana domanda. Uno di solito ti può chiedere come andare in Piazza San Babila, o al Giambellino. Ma non mi era mai capitato che qualcuno mi chiedesse 52 generalmente “direzione Nord”. «Be', è da quella parte, ma mi scusi... dove sta andando di preciso?». «Sto cercando di uscire dalla città, quindi vado verso Nord per trovare un posto nella natura dove accamparmi». «Ma allora perché non prende un bus, o una metrò. È molto più veloce», ho chiesto io. «Penso di non potermelo permettere. A me piace viaggiare a piedi, sono tre mesi che giro Norvegia e Svezia camminando. Ho con me solo i soldi per il cibo, e me la vivo così», mi ha risposto sorridendo. Un nomade moderno, di quelli a cui basta uno zaino sulle spalle, due lire per comprare da mangiare, e via, a scoprire il mondo. Solo con le proprie gambe. In quel momento mi sono sentito un po' un fighetto. Per il fatto che usavo il pullman per fare due miseri chilometri di strada (a dire il vero avevo la scusante che il giorno prima avevo corso una maratona), per il fatto che dormivo in un ostello da 23 euro a notte. O per la giacca che indossavo: è vero che l'avevo pagata 2 euro a un mercatino dell'usato, ma mi faceva sembrare un signorino, e la mia immagine stonava con quel ragazzo che emanava quella serenità di chi vive con poco. «Ecco, se vuoi ti posso regalare la mia mappa di Stoccolma, tanto io parto domani e non mi serve più. Ma... ad ogni modo, di dove sei?» «I am from Czech Republic». 53 54 Happy days «Dai, non fare il Fonzie» dissi a un amico che si era messo a fare lo sbruffone. «Fonzie? E chi è Fonzie?». «Doh!» direbbe Homer. Dannazione, ogni tanto mi dimentico del passato di questo paese. Vivere a Praga significa vivere in una capitale europea che non ha nulla da invidiare ad altre città dell'Europa occidentale. A chi oggi arriva a Praga, non sembra vero che in questa terra, vent'anni fa, ci si trovava oltre cortina. Un adolescente di Praga oggi ascolta la stessa musica e guarda gli stessi telefilm di un adolescente di Milano; vent'anni fa non era affatto così. In questi casi, quando si parla della musica o della TV con cui siamo cresciuti negli anni ottanta, sento un gap con i miei coetanei cechi. Una differenza che suona strano vista la realtà odierna, dove le differenze – come detto – sono minime. Ai tempi del comunismo tutto era controllato dal regime, soprattutto la televisione. Ed ovviamente non c'era modo di vedere i telefilm americani. Mi hanno riferito che trasmettevano i film di Fantozzi e le canzonette dei Ricchi e Poveri perché tutto sommato in Italia c'era un forte partito comunista. 55 Le persone della mia generazione in Repubblica Ceca non sono cresciute a pane e telefilm americani. Niente Supercar, niente Starsky & Hutch, ma soprattutto niente Happy Days (e quindi niente Fonzie). Io sono cresciuto con il sogno americano di Happy Days. Non parlo del tipico “sogno americano” di ricchezza, ma di quell'atmosfera giovanile basata su cose semplici e affascinanti. Come non ricordarsi dei balli di Happy Days? Quei balli organizzati nella palestra della scuola, dove i giovanotti facevano a gara a invitare la ragazza più bella (e poi ripiegavano su quelle meno belle). I balli in cui le fanciulle dovevano aspettare che qualcuno le invitasse, e in cui il ragazzo si presentava a casa della fanciulla con un fiore in dono. Mi sarebbe sempre piaciuto che anche nel mio paese ci fosse questa tradizione. Forse avrò una mentalità antiquata, ma penso che invitare una ragazza ad un ballo sia molto più elegante (e intrigante – cioè efficace!) che invitarla a bere una birra. Purtroppo da noi questa tradizione non è mai esistita, e a dire il vero sono cresciuto pensando che i balli di Happy Days fossero in realtà finti, che non ci fosse davvero un paese dove si invitava una fanciulla al ballo. Quando sono arrivato in Repubblica Ceca ho invece scoperto che qui i balli esistono ancora. Ho scoperto che la gente balla (tutti ballano!); ho scoperto che io – non sapendo muovere un piede – ero ancora una volta il pesce fuor d'acqua. Se tra i miei amici lombardi probabilmente non c'è nessuno capace di ballare un Walz, tra i miei amici cechi (ma in generale tra tutti i cechi che conosco) non c'è nessuno che non sappia ballare. In Repubblica Ceca ci sono ancora i balli, ad esempio all'ultimo anno delle scuole superiori si organizza il ballo dei diplomandi (al quale si indossa un'orrenda fascia – modello concorsi di bellezza – con la scritta “Maturita 20XX”). Alla mia Università ogni anno si organizza il ballo 56 ufficiale dell'Università; ma anche le associazioni studentesche organizzano il loro ballo. E sono proprio balli da Happy Days! Quei balli con l'orchestra che suona il Waltz sul palco, le ragazze con l'elegante abito lungo (e truccate in modo che anche le più brutte sembrano decenti), e con i ragazzi che le accompagnano a braccetto in smoking e col fiore all'occhiello. Quando ci si trova in questi balli sembra davvero di ritrovarsi in un telefilm americano. L'aspetto interessante è che non si tratta di una sceneggiata, o di una tradizione in via d'estinzione. Il ballo è una componente fortemente radicata nella società ceca. Spesso diventa un modo per conoscersi e trovare la morosa; basti pensare che le diocesi o altre organizzazioni religiose spesso organizzano balli per giovani cristiani. Si vede che in questo paese ci sono così pochi cristiani che bisogna organizzare i balli per giovani cristiani per farli fidanzare! Un esempio è il mio amico Petr che ha conosciuto la sua morosa ad un ballo di cristiani. Tipica scena da telefilm americano lui che adocchia lei, la quale però sta insieme ad un altro. Vorrebbe provarci ma c'è quel dannato ragazzo con lei. «Ma guarda che è suo fratello!» gli dice un amico; così si fa coraggio e la invita a ballare. Tra una polka e una mazurca si sono conosciuti e fidanzati (e tra poco si sposano: auguri!). È proprio così, i balli esistono ancora e sono una vivissima tradizione nella Repubblica Ceca. Sparse per tutto il paese ci sono tantissime sale da ballo create proprio per questo scopo. Nei piccoli paesi spesso si ricava uno spazio alla casa della cultura (riadattata al nuovo corso), ma mai mancherà una sala da ballo, piccola o grande che sia. Passeggiando per le vie di Praga (non quelle centrali, ma quelle dove vivono i praghesi) vi capiterà senza dubbio di trovare volantini appesi ai pali della luce che pubblicizzano i corsi di ballo. È vero, li puoi trovare anche a 57 Lecco, ma con una differenza. I corsi di ballo in Lombardia, sono solitamente corsi di latino americano (o altri stili, poco importa) dedicati a gente dalla poca vita sociale; persone che non hanno molto da fare la sera, e si iscrivono a un corso di ballo, per impegnare il tempo e magari conoscere qualcuno (spesso nel disperato tentativo di trovare un partner, sfumata ormai la giovane età). Potrebbe essere il corso di ballo, o il corso di bricolage, o di massaggi thailandesi. Non cambia molto: in questo caso il ballo è solo un pretesto per socializzare, e un argomento di cui parlare il giorno dopo in ufficio («cara, ma sai come sono diventata brava a fare il passo del rumba chica?»). In Repubblica Ceca invece il corso di ballo è destinato a coloro che hanno bisogno di imparare a ballare. L'educazione danzereccia ceca infatti, parte da piccoli. È tradizione seguire dei corsi di ballo quando si fanno le scuole medie, in modo che già da adolescenti si può iniziare a partecipare ai balli. In verità ho visto anche ragazzini di undici, dodici anni ballare già con maestria, ma in generale possiamo dire che attorno ai tredici, quattordici anni, si impara a ballare. Questa usanza di organizzare i corsi di ballo alle medie, è diffusa un po' ovunque: forse solo a Praga si perde, così che ti ritrovi adulto e non sai ballare. Sai che problema, direte voi. Sì, è un bel problema, e bisogna correre ai ripari. Perché non saper ballare ti complica la vita sociale. Se ti invitano ad un ballo non puoi partecipare, se vai alle nozze di qualcuno te ne stai tutto il tempo come uno stoccafisso a guardare gli altri che si divertono in pista. «Ballare serve!», proprio così mi disse Matej, che alla veneranda età di 26 anni si iscrisse ad un corso di ballo per adulti. Il corso di ballo ceco quindi non è un passatempo serale per persone che hanno bisogno di conoscere qualcuno. È qualcosa di importante: serve saper ballare! Forse è un po' una forma di conformismo. Perché ai balli ti trovi quelli che ballano davvero bene, ma anche quelli che abbozzano i passi. Come Václav, amico di un mio amico: non 58 sembrerebbe un tipico ragazzo da ballo tradizionale, il ragazzino dabbene, morigerato... Al contrario, è un po' uno scavezzacollo, poco incline allo studio e decisamente più dedito alla vita sbandata. Davvero non ce lo vedo ad impegnarsi per imparare i passi della polka. Eppure l'ho visto più di una volta a dei balli: lo fanno tutti, lo fa anche lui. Certo, non è un ballerino provetto, e delle volte lo vedi trascinare i piedi (be', forse quello è dovuto alla birra...) ma balla anche lui. E forse non si tratta nemmeno di conformismo, ma soltanto di divertimento. Perché alla fine l'atmosfera del ballo è davvero bella, ci si diverte davvero tanto. Mi è capitato di vedere anche un paio di preti ad un ballo: con giacca e cravatta, che danzavano con delle giovani fanciulle. Perché è divertente! Quel divertimento per una cosa bella, e che nel contempo non richiede di strafare: una cosa semplice. No, non pensate subito male, i preti che ballavano con le ragazze non avevano nessuna malizia in quel che facevano. Ai balli cechi infatti si invitano a ballare anche le donne degli altri (quante volte ho ballato con fidanzate/mogli/madri di miei amici!). Si invitano a ballare ragazze che non si conoscono, con le quali fai due chiacchiere e fai conoscenza mentre balli; e non ti dicono (quasi) mai di no, perché il fatto che le inviti a ballare non implica necessariamente che ci stai provando. Significa solo che vuoi ballare quel pezzo e ti fa piacere ballarlo con lei. E poi come va, va. Ma non c'è necessariamente un doppio fine, quando inviti una ragazza a ballare. Semplice, senza complicazioni mentali, senza ragazze che se la tirano, ma solo per divertirsi. Proprio come piace a me. Quando penso che dalle mie parti si trova questo genere di balli solo alle feste dell'Unità. E che bisogna avere almeno sessant'anni per non sentirsi un pesce fuor d'acqua... 59 Hi! How are you? Scrivo in viaggio. Sono in California e mi sto spostando in treno da Sacramento a Livermore, dove vive il mio amico John. L'impatto con la California è stato a dir poco traumatico. Mi era già capitato un anno prima sulla costa Est, ma qui in California il fenomeno è mille volte peggio. Mi riferisco al grado di cordialità che hanno le persone. Chiunque tu incontri, la cassiera del supermercato, il barista da Starbucks, davvero chiunque ti saluta chiedendoti come stai. Anche se non vi siete mai incontrati prima. «Ciao, come ti è cominciata la giornata?» Eh?!?. Succede anche nelle grandi città come San Francisco, dove ti può capitare che stai per attraversare la strada e una signora che aspetta il verde insieme a te, inizi a raccontarti di quello che ha fatto durante la giornata. Senza che tu le chiedessi niente. Lo ammetto, la cosa mi ha sconvolto: sulle prime, quando uno sconosciuto ti chiede «How are you doing?», ti viene da pensare «Saranno poi anche affari miei! Sai, soprattutto oggi, che mi sono alzato con le corna girate, non ho mica voglia di farlo sapere al mondo». Poi passi alla fase «Ok, da queste parti si usa così. Ma cosa rispondo?». 60 Perché ovviamente non posso mica rispondere sempre che sto bene e sono al settimo cielo. Ma potrò mai dire che sto da schifo? E quindi cadi nella trappola del conformismo del rispondere che stai sempre bene. Ecco, tutto questo, la confidenza automatica, la sfrontatezza benevola con cui ti chiedono come stai e ti rivolgono la parola, mi mette molto a disagio. Perché ormai sono cechizzato. E, se non si era capito, in Repubblica Ceca, non ci si comporta in questo modo. Anzi, ci si comporta in modo diametralmente opposto. Uno dei pochi luoghi comuni sui cechi che rivela avere un fondo di verità, è infatti la loro freddezza. Un barista ceco non ti chiederà mai con un sorrisone sulla bocca «Ciao, come stai?». Di come stai non gliene frega assolutamente niente. Gli frega che ordini alla svelta il tipo di birra che vuoi, perché ha altre decine di persone da servire. Una cameriera in una trattoria non ti saluterà mai dicendoti “Hi, sweetie”, come mi successe in un diner, di ritorno dallo Yosemite Park. In Repubblica Ceca la cameriera se sei fortunato resta inespressiva mentre prende l'ordinazione. Se sei sfortunato te la trovi con la faccia incazzata perché sa che lavora per quattro euro all'ora. Essendomi cechizzato, sono ormai abituato a certi comportamenti, abbastanza freddi. Un caso emblematico è quello del mangiare in silenzio. Vado spesso in mensa con dei colleghi, coi quali non si proferisce parola durante tutto il pranzo. Ovvio che non è sempre così, qualche sparuto collega che parla mentre mangia c'è, ed è vero che qualche altra persona nella stessa mensa parla. Non sto quindi dicendo che tutti i cechi stanno zitti quando mangiano. Ma ci sono molti che si comportano proprio così, e non mi era mai capitato prima. Nella ditta brianzola dove lavoravo prima di trasferirmi a Praga, quando si andava a pranzo bisognava stare attenti a non accavallarsi nelle discussioni: a 61 Praga non mi è mai capitato di essere a tavola con tutti colleghi che non parlassero. Qui invece mi capita quasi ogni giorno: ci si siede, si dice «Dobrou Chut'» (buon appetito), e si mangia in silenzio, che viene interrotto al termine del pranzo dalla domanda «Jdeme?» (Andiamo?). I primi tempi mi sembrava di mangiare in un convento, con l'abate che ripeteva «ricordati che devi morire!». Poi ci ho fatto l'abitudine, e mi sono reso conto che la faccenda ha anche risvolti positivi: si parla solo se si ha qualcosa importante da dire, quindi la quantità di scemenze che si sente è molto bassa. Poi è vero, che quando si va a cena insieme per passare una serata in compagnia, si conversa senza problemi, ma il pranzo quotidiano in mensa è visto come qualcosa di asettico, un rito che si compie perché si deve compiere, puntualmente tutti i giorni, e non un piacevole momento in compagnia. Oddio, non che in altri contesti di ritrovo conviviale invece i cechi siano molto più caldi. Basti pensare all'atteggiamento del tifoso ceco. Era il 2008 ed era in programma per il tardo pomeriggio la partita di calcio della Repubblica Ceca contro... qualcun altro (onestamente, non me lo ricordo) per il campionato europeo. Avevo appena finito la mia giornata lavorativa, e avevo due alternative: o mi guardo la partita sul PC, oppure vado al Masarikova (uno studentato lì vicino) a guardare la partita in birreria. Siccome nessuno dei colleghi era interessato, ho preferito andare al Masarikova, se non altro per non dovermela guardare da solo. Arrivo alla birreria del Masarikova e vedo un sacco di ragazzi col naso all'insù verso lo schermo. Ci sono rimasto dieci minuti, poi sono tornato a vedermela da solo sul PC: era più coinvolgente. Io ero arrivato rampante, pensando di essere avvolto da bandiere, cori, urla... e invece l'unico momento in cui si è sentita una reazione dei “tifosi”, è stato in occasione del goal. Altrimenti, solo un gran silenzio tombale: nessuno che gridava a Jankulovski di tirare a destra anziché sinistra, nessuno che 62 gridava “cornuto” all'arbitro, nessuno che inveiva contro l'avversario, reo di aver zappato “uno dei nostri”. Tutti zitti, sorseggiando birra. Tutti fermi, nessun braccio alzato nel classico segno del «ma dai!». Sembra che per i cechi guardare la partita sia come andare al cinema. E infatti, quando ho timidamente provato a iniziare qualche insulto al portiere avversario (così, per scaldare l'ambiente) c'è stato chi si è girato e mi ha fatto «shhhhh». E che cavolo, mica siamo al cinema, che non si può parlare! Che gusto c'è a guardare la partita, senza fare un po' di casino. Tanto valeva guardarmela da solo. E infatti, è ciò che ho fatto di lì a pochi minuti. Hockey su ghiaccio: altro sport, altri tifosi. Ma medesimo comportamento. Lo scorso anno sono stato trascinato a vedere l'amichevole Repubblica Ceca – Slovacchia di hockey su ghiaccio, lo sport nazionale ceco. «Hai comprato i biglietti nel settore ceco o in quello slovacco?» chiedo al “trascinatore” mentre arriviamo all'arena del ghiaccio. «Boh! Non c'è mica scritto...». E non c'era scritto perché le tifoserie erano mescolate. Tutti gli spalti erano popolati da cechi e slovacchi mischiati tra di loro. Ora, capisco che era un'amichevole, capisco pure che si scontravano due squadre di nazioni amiche, ma mai mi sarei aspettato le tifoserie mescolate. Poi ho capito il perché: sia cechi che slovacchi non si scaldavano nemmeno durante le azioni più dure della partita. Ancora una volta l'unico che ha provato gridare un paio di «rimbambito!» all'arbitro, sono stato io. Prima di capire che stavo facendo la figura del pirla, in mezzo a tutte quelle persone rilassate. Poco calore, poca eccitazione, poca reazione: anche nell'uscire i cechi non hanno avuto alcuna reazione contro gli slovacchi che festeggiavano per la vittoria. Gli passavano di fianco, nel percorso verso il metro, sventolando sciarpe e bandiere, e nessuno che iniziasse ad attaccar briga. Probabilmente non hanno diviso le tifoserie perché sapevano di aver a che fare con dei pezzi di ghiaccio... sugli spalti. 63 Un altro tipico esempio di freddezza ceca, è il comportamento in luoghi pubblici, come il pullman o il tram (scenografia quanto mai in tema di questo libro!). Mi è capitato per diversi mesi di prendere, tutte le mattine lo stesso autobus, il 217, per andare in Facoltà a Dejvicka (Praga 6). Tutte le mattine lo stesso ambiente, tranne una particolare mattina. Una mattina di settembre, quando era prevista l'immatricolazione degli studenti Erasmus presso la nostra Facoltà. E studenti Erasmus, significa orde di ventenni spagnoli che, qualora fosse necessario spiegarlo, non si comportano come cechi. La differenza si è sentita: soprattutto nel livello di decibel all'interno dell'autobus. All'inizio non capivo cosa stesse succedendo, non avevo mai sentito un rumore del genere sull'autobus; dopo poco mi sono reso conto che era generato da studenti non cechi. Poi certo, ci sono dei casi del tutto straordinari in cui i cechi si rivelano del tutto amichevoli. Dicembre 2007, il 31 per la precisione. Sono insieme a Petr, la sua morosa Klara e altre due amiche sul treno che ci porta da Praga a Liberec, per festeggiare l'ultimo dell'anno. A un certo punto nella nostra carrozza entrano due ragazzi con delle scatole di cartone in mano: giravano il treno regalando i biscotti e i chlebičky (delle specie di mini sandwich) ai viaggiatori. Raccontavano (durante il resto del viaggio, passato insieme a fare merenda) che le loro premurose madri gliene avevano rifilati troppi, e siccome non sapevano come finirli, li distribuivano sul treno. Quello è stato forse l'unico caso in cui mi sono trovato con un ceco caciarone, con la voglia di far festa insieme a degli sconosciuti. Ma proprio perché i cechi non si comportano normalmente così, posso confermare questo atteggiamento si è rivelato oltremodo strano, inconsueto. La stessa sera infatti mi sono trovato ad una festa di fine anno in un dormitorio dell'Università tecnica di Liberec, che definirei surreale. Ora, io non sono un tipo trasgressivo, che deve fare casino a tutti i costi, ma quella festa mi ha davvero sconvolto. Eravamo una 64 dozzina di persone stipate in una stanza di questo dormitorio: è vero, la stanza non era grande, e non si adattava bene a ballare. Insomma, non aspettatevi spazio per una pista da ballo. Ma un po' di animazione io me la aspetterei. C'erano diversi gruppi di persone che si conoscevano tra di loro... che continuavano esclusivamente a parlare (poco!) tra di loro. Potevano avere una persona che non conoscevano a 50 cm di distanza, e mai che gli sfiorasse l'idea di attaccare bottone. Un mortorio generale, mai vissuta un'esperienza simile. Io stesso ero seduto vicino a gente che non conoscevo: ci hanno messo due ore – sì, proprio due ore – prima di rivolgermi la parola e chiedermi da dove venivo (avevano capito che ero straniero) e che cavolo facessi in quella stanza di un dormitorio a Liberec, dove per arrivarci dovevi attraversare chilometri di neve. Niente, neanche la vicinanza forzata, dovuta a quella micro stanza, stipata di persone riusciva a farli smuovere dalla loro innata freddezza. Freddi, sì, i cechi sono freddi. Nel conversare con le persone che conoscono, ma a maggior ragione con le persone che non conoscono. Poche settimane dopo essere arrivato per la prima volta a Praga, Katka mi spiegava che la sua propensione a parlare con tutti, anche con gli sconosciuti, gli aveva procurato qualche problema coi suoi connazionali: «sai, qui non si attacca bottone con gli sconosciuti, così quando io lo faccio pensano immediatamente che ci sto provando!» L'unica volta che qualche sconosciuto mi ha rivolto spontaneamente la parola è stato il giorno seguente la semifinale (o quello che era) del mondiale di hockey su ghiaccio. Mi ero accorto che quella sera c'era la partita di hockey quando, seduto al computer, ho sentito un urlo provenire dall'esterno. Ho acceso il televisore e ho visto che la Repubblica Ceca aveva segnato: l'urlo era lo stesso a cui ero abituato per i goal della nazionale ai mondiali di calcio. Così per curiosità ho continuato a guardare la partita. Se non ricordo male la Repubblica Ceca ha condotto buona parte della gara per poi perdere nel finale. Il giorno 65 dopo, mentre salivo le scale mobili del supermercato, un tizio si è messo a commentare la partita con me, chiedendomi un commento su quella bruciante sconfitta. Gli ho risposto che sì, avevo visto la partita, ma fondamentalmente non ci avevo capito molto di come funzionava quello sport, e ho troncato sul nascere la conversazione. Anche perché mi ero spaventato: uno sconosciuto mi aveva rivolto la parola? No, da queste parti non si fa! 66 Co nadělaš? «Co nadělaš?» ossia «Cosa ci puoi fare?». È una delle prime frasi che ho imparato in ceco. L'ho imparata quando ancora non parlavo ceco e usavo l'inglese anche per chiedere quanto costava il prosciutto. È una frase ricorrente e molto utile: ad esempio puoi usarla per bloccare sul nascita una discussione che si preannuncia noiosa, con un interlocutore paranoico. Alle sue storie di proteste basta rispondergli con un «Cosa ci puoi fare?» e la discussione muore lì, visto che l'unica risposta possibile è «nic» ossia «niente». Niente. Che è tra l'altro è anche l'unica risposta che i cechi danno a questa domanda. Una risposta che palesa la propensione dei cechi a subire senza protestare. Questo è uno degli atteggiamenti che non condivido appieno nella mentalità ceca. In molti aspetti della vita di tutti i giorni ci capita di subire dei torti o dei soprusi. Mi ricordo di quando andai alla notte bianca di Como nel 2006. Tutta la città era chiusa al traffico, perciò chi proveniva da Lecco doveva parcheggiare la macchina a qualche km di distanza e prendere un bus (o scendere in città a piedi). Ovviamente l'organizzazione era stata a dir poco fallimentare: i bus navetta erano talmente pochi da essere ridicoli. 67 All'andata abbiamo facilmente risolto il problema andando a piedi, e come noi molti altri hanno fatto lo stesso. Al ritorno tuttavia la disponibilità delle persone a farsi qualche km a piedi (oltretutto in salita), non era la stessa dell'andata. Purtroppo il numero di bus navetta non era aumentato e trovare un posto su di essi era un'impresa. Ci incamminammo a piedi e ogni volta che un bus passava mi rendevo conto di quanto la nostra scelta di camminare era stata quella giusta: i pullman erano talmente affollati che sembravano quelli di Nuova Dehli; non mi sarei stupito se avessi visto persone aggrappate alle porte o sopra il tetto. Nonostante ciò c'era ancora qualche pazzo volenteroso che voleva salire e faceva gesto all'autista di fermarsi. L'autista – ovviamente – tirava dritto. Alcuni di questi pazzi si piazzavano addirittura in mezzo alla strada a braccia aperte impedendo al pullman di proseguire e quando l'autista si rifiutava di caricarli (dannazione era fisicamente impossibile entrare nel pullman!) la loro reazione consisteva nell'imprecare contro l'autista, il sindaco, Berlusconi e – giusto per non farsi mancare nessuno – il Papa. Pochi mesi dopo mi trovavo già a Praga quando fu organizzato lo “Strahov Open Air”, un grande concerto sulla collina di Strahov, presso lo studentato della mia Università. Ricordo che anche in quella situazione i bus era sovraccaricati. Gli autisti aprivano le porte, in quanto sono tenuti a farlo dal regolamento, ma ovviamente nessuno poteva entrare. La reazione dei cechi di fronte a questa situazione – del tutto analoga a quella di Como – fu per me davvero sorprendente: invece di imprecare con il sindaco, Topolánek e Krusciov, i cechi semplicemente si facevano un sorriso, sollevavano le spalle, e proseguivano a piedi salendo la collina di Strahov. 68 A Como bestemmie e imprecazioni, a Praga un'alzata di spalle e un «Co nadělaš?». Dopo qualche giorno raccontavo l'episodio ad alcuni colleghi cechi, sottolineando il fatto che mi sarei aspettato almeno qualche timida protesta, almeno un «ty vole!». Be', i miei colleghi mi hanno dato una risposta illuminante: alla fine i protestanti (non nel senso religioso!) di Como hanno dovuto camminare esattamente come i non protestanti di Praga. Che cosa hanno risolto imprecando contro l'autista, il sindaco, Berlusconi e il Papa? Niente, e forse è proprio questo il motivo per cui molti cechi non protestano, perché si rendono conto che la protesta non porta a nessuna soluzione. Questo è sicuramente un atteggiamento di buon senso nel caso della corriera piena di persone: se anche mi metto in mezzo alla strada e prendo a male parole l'autista, non è che per magia si crea del nuovo spazio disponibile nel pullman. Ma in tante altre occasioni la protesta è doverosa. In molti casi si subiscono soprusi senza senso, ma i cechi non alzano mai la voce, non protestano mai. Mi è capitato di andare alla società che fornisce il metano nelle abitazioni per fare il contratto, e trovarmi di fronte a un'impiegata con le unghie finte, lunghe cinque centimetri, che probabilmente aveva più a cuore la decorazione in tema viola delle sue unghie che la soddisfazione dei clienti. E forse nemmeno la soddisfazione, diciamo meglio la banale risoluzione di problemi basilari. Come quello di cambiare il nome sul contratto del gas. Impossibile, senza la presenza fisica del precedente intestatario. Impossibile. Poi dopo una ventina di minuti di proteste e qualche mezza parola buttata lì per far capire che non mi arrendevo, la signora dalle unghie in tinta viola ha estratto il modulo magico per cambiare il contratto. E – diamine – non poteva farlo prima, risparmiandomi venti minuti di collera in ceco? 69 Questo è uno dei tanti casi in cui per me è lecito protestare: lecito e doveroso, perché non si richiede qualcosa di impossibile, ma di venire aiutati su un problema, che può essere facilmente risolto con un po' di buona volontà. No, i cechi non protestano, nemmeno in questi casi. Non alzano la voce e non si impongono. Se escludo qualche barbone alcolista, e qualche dibattito politico visto per sbaglio cambiando canale alla televisione, non penso di aver mai sentito un ceco alzare la voce. Mi hanno spiegato che questo atteggiamento di accettazione incondizionata e rassegnata dagli eventi derivi dal fatto quando in questo paese c'era il regime comunista, non era lecito protestare, non si poteva alzare la voce. Non sono stato in grado di capire quanto, questa capacità di influire anche sui minimi comportamenti delle persone, fosse diffusa in ogni angolo del paese. Se ci penso, anche dalle mie parti c'era il fascismo, e anche sotto il Duce non si poteva contestare; ma nei piccoli paesi la situazione era più blanda. Al mio paese capitò che un ragazzo fu portato dal podestà per una bricconata: davanti all'autorità fascista nel paesino si difese afferrando il busto del Duce dalla scrivania e misurandolo direttamente al podestà. E non fu messo in gattabuia. Non so quanto invece potesse capitare da queste parti: di fatto qui tutto era stato. Qualsiasi attività economica era gestita dallo stato. Protestare all'ufficio dell'azienda che ti forniva energia elettrica, equivaleva a protestare contro lo Stato, contro il regime, che tanto si prodigava per i lavoratori. Protestare contro il salumiere significava essere nemico del popolo. Quindi la gente ha semplicemente disimparato a protestare, accettando passivamente tutto ciò che le veniva imposto. Me l'hanno raccontata così, e forse un fondo di verità può esserci. Ma sono tanti i popoli che hanno subito un regime, e non ne sono usciti tutti come agnellini. Se questo meccanismo ha funzionato, è perché di base i 70 cechi sono un popolo pacifico. Qualcuno più esperto di me potrà spiegare la predisposizione ad essere violenti o pacifici è basata su qualcosa di genetico, o se è semplicemente tradizione. Ma indubbiamente posso dire che ci sono popoli che per loro stessa natura hanno un comportamento più incline alla violenza rispetto ad altri. Ecco, i cechi sono buoni. Qualcuno potrà scomodare la storia, e ricordare che mentre i ragazzi ungheresi lottavano col sangue per la libertà, i cechi subivano l'invasione dei russi. Qualcuno potrà ricordare di come di fatto le frontiere caddero di fronte agli invasori tedeschi, di fronte ai quali non si fece nemmeno finta di reagire. Ma io non sono uno storico, e forse la ragione di tutto questo si trova solo parzialmente nella storia del popolo. Io vivo la Repubblica Ceca di oggi e osservo i comportamenti di chi mi circonda. Vedo che la la poliziotta sgrida il ragazzo seduto sulla ringhiera della tramvia (cadendo all'indietro verrebbe travolto dalle auto), vedo il ragazzo che scende, anche se sbuffante. E vedo anche che la mamma – una volta allontanatasi la poliziotta – provvede a sgridarlo (e non a difenderlo, come succederebbe dalle mie parti!). Vedo che la gente non ama scontrarsi, perché i cechi quando la pensano in un modo diverso magari fanno morire la conversazione ma non si oppongono. E vedo che anche quando gli animi si scaldano, non si arriva mai alle mani: l'unica volta che ho visto dei cechi picchiarsi è stato una domenica mattina, in pieno centro, davanti alla chiesa dove stavo entrando. Erano due barboni che litigavano per chissà cosa; ed erano talmente ubriachi che in realtà non avevano nemmeno la forza di stare in piedi, figuriamoci di picchiarsi. Quell'attimo di violenza ceche si è quindi trasformato in un siparietto simile ai pagliacci del circo. Ho visto che tu puoi andare in discoteca, provarci con una ragazza, metterti a ballare senza tenere le mani in tasca, per poi scoprire dopo 71 venti minuti che il suo fidanzato è li vicino. E ho visto che non ti mettono le mani addosso, mentre conoscevo posti dove usciresti con qualche osso rotto, solo per uno sguardo di troppo a una ragazza impegnata (che poi mi sono sempre chiesto, come cavolo faccio a capire che è impegnata? Non ce l'ha scritto in fronte!). Ma soprattutto ho sentito uscire da tante bocche ceche quel “co nadělaš”: forse pavido, talvolta rassegnato. Ma ogni volta nasceva dall'animo buono di chi lo pronunciava. 72 Titoli di testa Lo ammetto, su questo tema dovrei essere l'ultimo a parlare. Vengo da un paese dove il culto del titolo (accademico o meno) raggiunge apici di barocchismo ottocentesco. Mi è capitato di leggere sulle pagine bianche (quando ancora si chiamavano poeticamente rubrica del telefono) un tale che si era fatto mettere come titolo “capostazione”. Un mio insegnate di educazione artistica lo trovavi invece riportato col titolo “ins.”: siccome non era laureato non poteva usare il “prof”; ma guai a stare senza titolo. In effetti è così, tutti gli insegnanti sono “professori” e tutti i laureati, anche quelli in esercizi ginnici, sono “dottori”. Una situazione paradossale: quando dicevo ai miei amici stranieri di essere “dottore” per il fatto di avere un Bachelor, si sganasciavano dalle risate (e alcuni me lo ricordano ancora adesso). Ma se questa svalutazione dei titoli può essere considerata ridicola (soprattutto agli occhi di uno straniero), bisogna tuttavia riconoscere che ha un vantaggio considerevole: non si sbaglia mai a usare titolo. Basta dire “dottore” o “professore” che si indovina sempre. Le prime settimane in cui vivevo in Repubblica Ceca invece mi hanno posto davanti al campo minato dei titoli cechi. Ovunque vai ti trovi 73 davanti a miriadi di sigle: talvolta intuibili ma spesso davvero criptiche. I cechi usano decine di titoli accademici, altro che il semplice “dottore” che va bene per tutti. Un dottore, nel senso di quello che ti cura l'influenza, userà il titolo MUDr. Ci ho messo un paio d'anni per scoprire che MU sta per “medicinae universae” (il Dr sta per dottore, ovvio). Un ingegnere sfoggerà il titolo “Ing.”, il cui significato – almeno in questo caso – è abbastanza intuibile. Meno intuibile il motivo per cui usino “Ing.” quando ingegnere in ceco i dice inženýr. Il mio amico Jirka mi raccontava che deriva dal francese ingénieur: Delusione, mi ero illuso derivasse da ingegnere. Mi ha anche detto che gli capitò per le mani qualche anno fa un vecchio libro dove l'autore usava il titolo “Inž.”. Poi hanno pensato che un titolo ceco non suonava abbastanza altisonante, e l'hanno cambiato col francese (che fa sempre la sua figura). La cosa non mi stupisce, il ceco ama sfoggiare il proprio titolo, e vuole che sia il più altisonante possibile. Probabilmente è per questo motivo che molti titoli derivano da lingue straniere, soprattutto dal latino. Oltre al già citato “MUDr”, vale la pena di ricordare il diffusissimo “CSc” che sta per “candidatus scientiarum”. Era il titolo che corrispondeva al nostro dottorato di ricerca, prima che venisse cambiato nel più moderno e internazionalmente diffuso “PhD” (nel nuovo millennio sembra che l'inglese faccia più figo del latino). E come non citare il MVDr. (medicinae veterinariae doctor), nient'altro che un normale veterinario. L'avvocato in carriera sfoggerà un JUDr. (juris doctor), che tutto sommato è intuibile per uno straniero (magari non sa che JU sta per Juris, ma pensa che sta per Justice, e fa un po' lo stesso). Mentre il suo tirocinante appena laureato, potrà usare un criptico Mgr. (Magister), ossia laureato semplice. 74 La cosa che però mi fa imbestialire è la lettura di tali titoli. Quando uno si trova davanti un “CSc” deve leggere “kandidát věd” che è la traduzione ceca del titolo latino. Oppure se incontri un sacerdote, il suo titolo sarà una striminzita “P.”, che ovviamente sta per il latino “Pater”, padre. Ma andrà letto “Otče”, il vocativo di “Otec” (padre, in ceco) Sembra che lo facciano apposta per creare un sistema di regole, regoline e codicilli col solo scopo di avere un complicatissimo sistema di titoli; solo gli iniziati possono entrare a far parte di questo sistema di codici e sigle misteriose! Per uno straniero è una lotta continua per capire tutti questi titoli, per leggerli correttamente e sapere come chiamare le persone nella vita di tutti i giorni. Sì perché la faccenda non si limita ai biglietti da visita. Bisogna essere in grado di chiamare ogni persona col proprio titolo. Il mio amico Petr mi raccontava una scena a cui aveva assistito durante un esame universitario. Lo sprovveduto studente non era venuto a sapere che l'insegnate era salito di grado la settimana prima. Da professore associato, a cui spetta il titolo Doc. (Docent, che si legge Dozent) era entrato nell'olimpo dei professori ordinari, a cui invece spetta il fatidico e sospirato titolo Prof. (Profesor). Quello studente commise un grave errore; durante la prova orale chiamò “Pane Docente” (Signor Docente) quello che invece era ormai un professore. Fulmini! Saette! Qualcuno racconta che l'edificio della facoltà tremò e che le tende si stracciarono nel mezzo. «Ma come si permette di chiamarmi Docente, non lo sa che sono un Pro-fe-sso-re? Ritorni al prossimo appello!». I cechi hanno un culto spasmodico per i titoli; li usano come intercalare. Ogni frase che si rispetti inizia chiamando per titolo l'interlocutore. Durante una conversazione non connettono le frasi con 75 parole tipo “ecco”, “ebbene”, “quindi” ma ripetono venti volte un “Pane Inženire”, “Pane Dottore” etc. I cechi sono degli esibizionisti del titolo. Lo espongono con fierezza in ogni occasione, anche quando se ne dovrebbe fare a meno. Mi è capitato di fare benzina ad una stazione di servizio distante cento chilometri da Praga. Quando ho guardato lo scontrino mi sono cadute le braccia (e anche qualcos'altro). Il proprietario era “Bc.” Tizio Caio. Non so cosa ha spinto quel signore a specificare sullo scontrino della sua pompa di benzina che ha una laurea di primo livello (titolo Bc, dall'inglese Bachelor). Il servizio che mi ha fornito mi è sembrato uguale a quello di tutti gli altri distributori. Anzi, se invece di preoccuparsi di scrivere “Bc.” davanti al nome si preoccupava di farmi pagare meno la benzina ero più felice. Ovunque sia possibile scrivere il titolo, i cechi ce lo mettono. Sulla porta di casa, sul citofono, addirittura sul contatore del gas! La faccenda è così seria che i titoli li scrivono addirittura sul passaporto (c'è proprio la voce “Titoli:” dopo “Nome” e “Cognome”). Diventano, di fatto, una parte del nome. Mi ricordo che qualche tempo fai mi recai all'ufficio anagrafe del comune di Praga 6. Nell'aspettare il mio turno cercavo di ingannare il tempo leggendo le istruzioni, su come compilare i moduli per la richiesta della carta d'identità, riportate alle pareti. Alla voce “Firma”, una solerte impiegata aveva aggiunto a penna “Solo nome e cognome, SENZA TITOLO”. Se non li fermi subito, ti mettono il titolo anche nella firma. In Repubblica Ceca, infine, esiste una speciale categoria di persone, quelli del titolo-pisello: fanno a gara a chi ce l'ha più lungo. Un giorno stavo proprio discutendo con Michal di questa mania che i cechi hanno per i titoli. «Fermo!» mi disse. Si mise ad armeggiare su google e in pochi istanti... eccola! Una pagina internet di un professore ceco che 76 metteva in bella mostra tutti i suoi titoli. Li riporto per diritto di cronaca: “prof.Ing., CSc.D.Eng.h.c.”. E considerate che il suo nome era uno striminzito “Petr Zuna”. Se contiamo i caratteri, il titolo batte il nome 23 a 8. Ma il caso che più mi ha fatto stranire, è stato quando il mio dentista mi ha consegnato il suo biglietto da visita: “Dr. Dr. Sempronio Tizio”. Non ce l'ho fatta a trattenermi e gli ho chiesto: «Oh, bella! E come mai ha scritto due volte lo stesso titolo». «Perché sono medico due volte: ho una laurea in medicina più una laurea in odontoiatria», mi ha risposto con orgoglio. Quello stresso orgoglio che gli ha fatto pensare che “Dr.” ripetuto facesse una più bella figura. Sarà, ma a me è sembrato solo un inutile sfoggio di vanità. 77 Pochi, ma buoni Quando parlo dei cechi con qualche amico, ogni tanto salta fuori il discorso della religione. Forse perché essendo io credente mi capita di frequentare spesso questo ambiente, e di riflesso capita che ne parli. La domanda che di solito mi fanno è sempre la stessa «cosa sono qua? Protestanti?». Forse c'è l'impressione che, essendo vicini alla Germania si debba essere per forza protestanti. Normalmente gli “occidentali” non conoscono che questa terra ha avuto un sviluppo storico indipendente, e che di conseguenza molte cose – religione compresa – non hanno niente a che vedere con i paesi che la circondano. Qualcuno si addirittura spinto a chiedermi se fossero ortodossi «sai, la Russia...». Penso (spero) che non sia necessario spiegare perché mi sono messo a ridere. No, la risposta è che sono cattolici. Quelli che ci sono, sono cattolici. Poi, ci sono ovviamente anche delle minoranze protestanti, che rispetto al nostro paese sono molto più diffuse; devo dire che questo è anche un vantaggio: quando non c'è una sola voce c'è più dialogo e meno estremismo fondamentalista. 78 Il punto è che sono talmente pochi i credenti cechi che con tutta tranquillità puoi dire che anche la maggioranza (cattolica) è in realtà una piccola minoranza (nel paese). Se si vanno a vedere le statistiche ne esce che circa il 40% dei cechi si definisce cattolico, ma questa percentuale di persona, in chiesa, non si vede. Di fatto, include tutti quelli che sono stati battezzati. Tanti cechi infatti, non solo non sono credenti, ma non sono nemmeno battezzati. Un mio amico abruzzese aveva la morosa ceca, Petka. Quando gli disse che non era battezzata, egli ci rimase molto male. Non che lui in chiesa ci andasse molto spesso, sia ben chiaro. Ma considerava strano, inusuale, che una persona non fosse battezzata in modo predefinito. Tra le persone che conosco, posso confermare che una buona metà non è battezzata, giusto per avere una conferma delle statistiche ufficiali. Poi, come dicevo, i veri cattolici sono molto meno numerosi. Certo, bisogna fare delle distinzioni, perché la Repubblica Ceca non è un paese tutto uguale: in Moravia c'è una concentrazione di credenti sicuramente superiore a quella che c'è a Praga o nel Nord del paese. Mi ricordo di quella volta che stavo tornando da Příchovice, paesino del Nord a 5 km dal confine con la Polonia. Ero in macchina con alcuni amici a cui avevo dato un passaggio verso Praga. Il discorso cadde proprio sulla percentuale di persone che vanno regolarmente in chiesa la Domenica nella loro diocesi (Litoměřice). Uno di quei casi in cui i numeri sono talmente bassi che devi usare la calcolatrice del cellulare per fare i conti per bene (no, non mentre guidavo, tranquilli; eravamo in coda dal benzinaio economico dove mi aveva condotto uno della compagnia). Se non ricordo male uscì uno 0,9%. La stessa percentuale che dalle mie parti vota Fattuzzo. 79 Certo, questo dato delle desolate terre nel Nord Boemia è probabilmente è un estremo. Ma anche se consideriamo nel suo complesso tutta la Repubblica Ceca, i dati non cambiano molto. Allora uno potrebbe pensare che non valga la pena parlare di come i cechi vivano la religiosità. Invece no, penso che sia utile; innanzitutto è uno dei tanti aspetti che caratterizza questo popolo: un tassello di un mosaico ben più grande. Ma soprattutto, si possono cogliere nel comportamento dei cattolici cechi, tante caratteristiche comuni a tutti gli abitanti di questo paese. Innanzitutto la presenza dei cattolici in Repubblica Ceca è molto discreta, silenziosa. Se vi capita di andare in Polonia, non avrete difficoltà a vedere tanti religiosi (sacerdoti, suore, frati) per la strada. Se andate in città come Cracovia, potete sentire questa presenza imponente nella religione, semplicemente osservando quanti preti (spesso giovani) incontrate per le strade della città in una giornata. Se invece fate una vacanza a Praga, o in una altra città ceca, probabilmente non vi capiterà mai di incontrare un prete. O meglio, probabilmente lo incontrerete, ma non capirete che è prete. I sacerdoti cechi infatti, non si vestono mai da preti. A parte pochissime eccezioni si vestono tutti praticamente in civile. Non usano il clergyman (il vestito civile nero con il collarino), vestono proprio come la gente comune. Di solito non portano nemmeno la classica croce-spilletta al petto per farsi riconoscere. Certo, anche in Lombardia ho conosciuto qualche prete che vestiva completamente civile; di solito di trattava di personaggi un po' speciali: cappellani delle carceri, preti che seguivano tossicodipendenti, gente abituata ad avere a che fare con situazioni difficili, dove non si guarda tanto all'aspetto, ma alla sostanza. Poche eccezioni insomma. Per quanto riguarda i preti cechi invece, praticamente tutti vestono civile. A memoria, mi sembra di ricordare solo due eccezioni: un anziano 80 sacerdote che veste il clergyman e un giovano monaco benedettino, che incontrai nel suo tipico saio bianco; per il resto tutti in civile. Ho chiesto più volte il motivo di questo diffuso atteggiamento tra il clero ceco, e mi è sempre stato risposto che durane il comunismo i preti si dovevano vestire civili, perché era pericoloso essere riconosciuti come preti. «Sì, ma ormai il comunismo non c'è più: perché non tornate a vestirvi da preti?», ho sempre ribattuto. «Ormai si è persa l'abitudine!» mi dicono. E probabilmente è così: i preti più anziani che scelgono di vestirsi da preti lo fanno come rivincita: sono quelli che normalmente hanno un odio incancrenito contro il regime, e che – ora che possono - usano anche l'abito presbiterale per gridare la loro avversione al comunismo. I preti più giovani invece scelgono di vestirsi da preti per una testimonianza più autentica della propria fede, per fare evangelizzazione. Tutti gli altri invece sono semplicemente abituati a non vestirsi da preti, e non vedono perché dovrebbero cambiare le loro abitudini adesso che finalmente c'è la libertà; credo che inconsciamente sia un modo per dimostrare che non era il comunismo a vincolarli. Per qualsiasi motivo lo facciano, il fatto che i religiosi non siano riconoscibili, fa in modo che la presenza di credenti nella società sia avvertita ancora meno di quella che in realtà è (se si guardano le statistiche ufficiali il numero di fedeli per sacerdote nella diocesi Praga è come quello della diocesi di Milano). Ma se qualcosa non è visibile, lo si avverte meno. Il comunismo, è vero: tutti danno la colpa al comunismo. Perché sono così pochi i credenti in Repubblica Ceca? Colpa del comunismo, ti rispondono. Eppure il comunismo c'è stato anche in Polonia, ma non per questo sono diventati atei, anzi. Qualcuno mi ha detto che il regime è stato più duro in Cecoslovacchia, che non in Polonia. Può darsi, ma ancora non spiega tutta questa differenza. 81 Certo, il comunismo non aiutava. Un mio collega, classe '81, mi raccontava che i suoi genitori volevano battezzarlo, e per farlo dovettero affrontare un viaggio clandestino in Croazia, con un bambino di pochi mesi. Probabilmente non era sicuro cercare di farlo battezzare nell'allora Cecoslovacchia. Una lettura interessante fu un libro scritto da un medico ceco, che raccontava la sua esperienza in missione nella Repubblica Centro Africana. Nel primo capitolo raccontava di come era diventato medico e del suo percorso di studi. Diceva che per accedere all'Università si doveva presentare una lettera di presentazione da parte degli insegnanti della scuola superiore dove ci si era diplomati. Serviva a garantire che l'aspirante universitario fosse politicamente allineato al regime (sostanzialmente le facoltà umanistiche erano inaccessibili se c'era il sospetto che lo studente non abbracciasse il comunismo). Essendo cattolico, avrebbe avuto molte difficoltà ad iscriversi a Medicina, ma – diceva – ebbe la fortuna di non essere fermato in quanto era un ottimo studente. Ma quanti altri non hanno potuto fare carriera perché cattolici? Allora uno inizia a pensare che in un paese dove non ce la si passa alla grande, non vale la pena di fare il credente, se questo ti preclude un minimo di carriera, spingendoti verso i lavori più umili. Tuttavia credo che ci siano anche altri motivi che hanno portato questo paese all'ateismo diffuso. Sicuramente c'è stata una mancanza di leadership. La Repubblica Ceca non ha avuto un Karol Wojtyła che lottava contro il comunismo. Questo paese è sempre stato passivamente succube di Mosca, non c'era un sentimento nazionale organizzato con il quale la Russia dovesse fare i conti, probabilmente anche perché essendo la popolazione numericamente molto inferiore era più facile da dominare. 82 Anche le uniche iniziative di resistenza civile nascevano dal mondo culturale (come Charta 77 di Václav Havel), non certo dal mondo religioso. Le chiese venivano utilizzate come magazzini, i preti venivano umiliati; a molti di loro veniva vietato di celebrare la messa. Era difficile quindi che nascesse una leadership religiosa, perché la religione veniva vissuta in clandestinità. Dopo la caduta del comunismo, nel 1991 Miloslav Vlk divenne arcivescovo di Praga, fino ad allora “prete semplice”. Nel giro di quattro anni diventò arcivescovo e cardinale. Eppure era un signor nessuno, uno che per lunghi periodi non poteva celebrare la messa pubblicamente. Ha dovuto lavorare come metalmeccanico e come libraio. Capitava che mentre lavorava come lavavetri, qualcuno – riconoscendolo – gli faceva un segno: egli capiva, e appena poteva gli si avvicinava per confessarlo, in un angolo nascosto della strada. Vivevano la loro missione, consapevoli che non potevano spingersi oltre. Ed è questo un atteggiamento che ha accomunato tutti i cechi durante il regime: l'assenza d'impeto rivoluzionario. Conigli? No, penso siano semplicemente persone miti. Almeno, questo ho avvertito tutte le volte che ho incontrato il card. Vlk: una persona mite, e per un cattolico questa è una virtù. Un altro atteggiamento che ho notato da parte dei cattolici cechi, è la poca importanza che viene data alle personalità. Quelle volte che ho incontrato infatti il card. Vlk, sono rimasto stupito dal fatto che non ci fosse la ressa per baciargli l'anello o anche solo per salutarlo. Una volta lo incontrai in una parrocchia: arrivò nel cortile dell'oratorio: chi giocava a calcio continuò a giocare a calcio, chi la contava su, seduto sulla panchina, non interruppe la conversazione. Alla fine, l'unico che andò a salutarlo e fare un po' di accoglienza come si deve fui io. Provate a portare un cardinale in una parrocchia italiana e vedrete se si scatena il finimondo, con i vari presidenti delle bocciofile che sgomitano per essere in prima fila. 83 Forse questo atteggiamento distaccato deriva da una generale freddezza dei cechi, non abituati a fare le scenate. Ma probabilmente dipende anche dal fatto che i credenti cechi sono pochi ma buoni. In altre parole: i credenti sono pochi, ma quelli che ci credono ci credono veramente. E per uno che ci crede veramente, un vescovo, un cardinale o anche il Papa non è oggetto di fanatismo. Ogni domenica un credente incontra Gesù in carne ossa, - pardon, sangue: sai cosa se ne fa di un cardinale. È pur sempre un uomo! I cattolici cechi sono pochi ma sono credenti fino in fondo. Ero infatti abituato ad una situazione di credenti in scala di grigi: di quelli che sono “credenti-praticanti-osservanti”, di quelli che “ci-mancherebbe-che-nonvado-in-chiesa”, di quelli che “credo-in-Dio-ma-non-nella-Chiesa”, di quelli che “credo-in-qualcosa-di-più-grande” o di quelli che non ci credono proprio. In Repubblica Ceca invece la scala di grigi non c'è: o bianco o nero. Se sei credente lo sei davvero. Normalmente chi va in chiesa aderisce totalmente alla dottrina della Chiesa. E questo si ripercuote in estremi che non sono immaginabili nemmeno dal più talebano dei ciellini lombardi. Mi raccontava un mio amico ceco (non citerò il nome nemmeno sotto tortura) che una volta incontrò una ragazza slovacca in un locale. «E sai com'è, una parola tira un'altra, una birra anche... e alla fine siamo usciti che era troppo tardi e lei non aveva più autobus per andare a casa». «E cosa hai fatto?». «Be', le ho dato ospitalità io allo studentato». «Spero che tu abbia fatto il tuo dovere». «Allora, per farla breve lei si è messa a letto... ma io mi sono messo al computer a lavorare al mio progetto». «Eh? Cosa?», «Sì, lei mi chiamava, diceva che si scioglieva come cioccolato, che aveva bisogno di calore umano... ma io sono stato al computer fino all'alba». Roba da beatificazione in vita, aggiungerei io. 84 Il fatto è che in generale cercano di essere coerenti: «ma se non mi comporto così, che differenza c'è tra noi e i non cristiani?» mi sono sentito dire più di una volta. Ecco, il fatto di essere estrema minoranza in Repubblica Ceca, li porta a cercare di distinguersi. E visto che per i cristiani non ci sono strane tradizioni come il taglio del prepuzio, la barba ricciolosa o la moglie bardata sotto pesanti palandrane, allora si cerca il segno distintivo nell'atteggiamento. *** Dicevo che i cattolici cechi sono uno spaccato della società Ceca nel suo complesso. Lo sono nella mitezza, nella rassegnazione, e nel nonfanatismo verso le personalità. Ma lo sono anche nell'educazione e nella compostezza. L'esempio più lampante è l'esperienza che ho vissuto a Pasqua 2008. Il sabato sera sono andato alla parrocchia di Kobylisy, nella periferia Nord di Praga. Una bella parrocchia, gestita da padri salesiani che hanno costruito un centro molto attivo, con tante iniziative e una comunità molto partecipe. Non è la tipica parrocchia, con quattro vecchie che ripetono le litanie sulle panche che puzzano di chiuso. Al contrario, è una parrocchia dove a messa ci trovi tanti giovani e tante famiglie coi bambini. La veglia pasquale del sabato santo l'ho passata lì. Ed è stata una signora veglia. Chiesa strapiena, ma nessun problema: tutti composti, senza chiacchierare, senza fare confusione. Tutti che si alzavano quando c'era da alzarsi e si sedevano quando c'era da sedersi. Tutti, che si inginocchiavano quando c'era da inginocchiarsi (all'elevazione e all'agnus dei). Chi – come gli anziani – non poteva inginocchiarsi si sedeva: gli altri si inginocchiavano, tutti. 85 Ne è uscita una celebrazione bella, organizzata bene, e “sentita”. Sì, perché la compostezza, il silenzio e l'atteggiamento rispettoso di tutti ha contribuito a creare la giusta atmosfera per pregare. Durante la veglia si sono svolti anche i battesimi degli adulti, quelli che decidono di diventare cristiano, invece di ritrovarcisi. Quelli che spesso sono cristiani con un pizzico di coerenza e di fede in più rispetto a chi vede nella fede solo uno strumento per diventare primario in un ospedale lombardo. Il giorno dopo sono andato alla messa pasquale delle 11.30 alla Chiesa di Santa Croce, a Na Příkopě, nel centro di Praga. Messa in italiano, come ogni domenica a quell'ora, e che di solito ospita quattro immigrati e cinque turisti italiani, e che per l'occasione di Pasqua invece, traboccava di fedeli italiani (presumibilmente tutti turisti). Un mercato delle vacche, avrebbe detto mio nonno. Gente che gridava, bambini che sbraitavano e madri che invece di dare loro un paio di sberle li lasciavano fare, orgogliosi delle loro creature. Italiani di tutte le regioni che cercavano di accaparrarsi un posto in prima fila. Non vi dico poi di quando il sacerdote ha chiesto se c'era qualcuno disponibile come lettore: facevano a gara per poter salire sull'altare a leggere, per sentirsi importanti. Una mancanza di sobrietà che urtava, come quella signora di mezza età, avvolta in un vestito di due taglie più stretto, truccata all'esagerazione, che ha sgomitato per leggere (e non era nemmeno capace di usare il lezionario). Una confusione, un esibizionismo, una mancanza di rispetto per il luogo, in una parola una cafonaggine, che mi ha dato il voltastomaco. La sera prima, alla messa pasquale ceca, benché la chiesa fosse strapiena uguale, non c'è stato niente di tutto questo ma, al contrario, rispetto, compostezza, educazione. Nemmeno i bambini davano fastidio: magari camminavano per la chiesa incuriositi dall'ambiente, ma non sbraitavano, 86 non disturbavano. Sembra che sin da bambini i cechi imparino a non far casino. 87 Brava con le lingue «Accidenti, ma parli italiano perfettamente. Davvero, complimenti. Ma come fai?». «Be', si vede che sono brava con le lingue!» mi risponde Kateřina; e sì, sapeva il doppio senso che si nascondeva dietro quella frase (è lo stesso anche in ceco). Stavamo uscendo da “U Pětniku” dove eravamo andati a pranzo insieme. Prima volta che ci incontravamo, e lei mi esce con questa battuta: grandissima! Non per la battuta in sé, ma per la capacità di non aver false remore e perbenismi di facciata. Quello che si deve dire si dice, si fa una risata senza malizia e nessuno si scandalizza. Devo aggiungere, dopo anni che la conosco, che è davvero brava con le lingue. Parla l'italiano perfettamente, praticamente livello madrelingua, oltre a parlare fluentemente inglese e francese. Insomma, una di quelle persone che invidii davvero, per l'abilità di imparare lingue straniere. Purtroppo però è un caso estremamente isolato in questo paese. Tanti, tantissimi giovani parlano solo ceco e non provano nemmeno a imparare un po' di inglese. Certo, è un problema comune a molti paesi europei. Un ragazzo italiano non parla molto meglio l'inglese di un coetaneo ceco. 88 Qualche settimana fa ho incontrato il mio amico Michal che ora lavora in Normandia, e mi raccontava delle sue enormi difficoltà a comunicare con i colleghi, perché sembra che pochissimi parlino inglese. E non è andato in Normandia a raccogliere pomodori; lavora come ricercatore, quindi ci si aspetterebbe un ottimo livello d'inglese da parte di chiunque in un ambiente di ricerca. Al contrario, mi raccontava come, in Francia, gli risultava più facile comunicare con i negozianti (che per via dei turisti qualche parola basilare di inglese l'avevano imparata) che non con i colleghi ricercatori. Il problema è che forse (forse!) i francesi se lo possono permettere. Sono una grande nazione, e forse si trascinano ancora un po' di retaggio di grandezza dal passato; tutto sommato tanti paesi al mondo parlano francese. Lo stesso non si può dire per la Repubblica Ceca. Il ceco è una lingua parlata da poche persone, perciò ci si aspetterebbe una maggiore predisposizione per le lingue straniere. Perché imparare una lingua significa poter comunicare con tante persone in più. E se tu parli solo ceco, puoi parlare solo con cechi (e ti puoi intendere con slovacchi e polacchi...). Ma di certo non ci sarà verso di comunicare con una persona di origine non slava. E allora, perché i cechi non hanno l'ambizione di studiare l'inglese? Non hanno voglia di comunicare con persone straniere? Non vogliono aprirsi ad altre culture? Innanzitutto bisogna fare un passo indietro nella storia di questo paese. Fino al 1989 qui si studiava il russo a scuola. L'inglese era prerogativa solo di chi lavorava nella scienza, dove la lingua franca è l'inglese. Per il resto, solo russo. Mi raccontava Aleš, classe 1975, che dopo la rivoluzione, iniziarono a insegnare inglese nelle scuole cecoslovacche. Piccolo problema: per insegnare una materia ti servono anche gli insegnanti, e gli insegnanti di inglese non c'erano. Bisognava creare una classe di insegnati di inglese dal nulla. Aleš diceva che la sua maestra di russo si era convertita a maestra di inglese: andava ella stessa 89 a scuola d'inglese e insegnava ai propri alunni quello che aveva imparato due lezioni prima. È evidente quindi che la Repubblica Ceca, così come gli altri paesi oltre cortina, ha dovuto scontare un ritardo didattico per quanto riguarda l'inglese, rispetto agli altri paesi europei. Ma questa scusa poteva valere per i primi dieci, quindici anni dopo la rivoluzione. Ora ci si aspettano dei cambiamenti. È vero, ogni tanto capita di incontrare dei ragazzi molto giovani che parlano molto bene inglese. Una volta aspettavo la valigia all'aeroporto di Bergamo, proveniente da Praga. Un gruppo di ragazzini cechi, massimo dodici anni, si era seduto sul nastro bagagli, e siccome stavano per arrivare le valigie ho detto loro di alzarsi. Ovviamente hanno capito dalla mia orribile pronuncia ceca, che ero straniero, e si sono rivolti a me in un ottimo inglese. Poche frasi mi sono bastate per capire che quei ragazzi l'inglese lo parlavano davvero bene. Ma per tanti altri non è così. Un caso emblematico è stato quello di Tomaš, un moravo di Ostrava, che si era trasferito a Praga per lavoro (si era appena laureato in ingegneria e iniziava a lavorare per compagnia di costruzioni sotterranee). Un giorno è arrivato disperato dicendomi: «Devo imparare l'inglese entro settimana prossima». «Auguri!». «Grazie, il problema è che arriva una delegazione di un'azienda coreana e il mio capo – siccome non parla inglese – mi ha delegato al compito di interprete». Dato che era giovane il capo dava per assodato che parlasse inglese, ma in effetti il suo inglese era molto debole, tanto che tra di noi si parlava normalmente in ceco. Alla fine la faccenda si è risolta con l'assunzione di una interprete per i tre giorni della visita. E Tomaš, invece di prendere l'occasione dopo questa esperienza, di imparare seriamente l'inglese, è tornato nel suo allegro fregarsene di questa lingua. 90 Non capisco fino in fondo i motivi per cui i cechi sono così restii ad imparare lingue straniere. Sì, restii. Magari gli piacerebbe parlare inglese, ma hanno una sorta di rassegnazione. Forse è la paura di non farcela, vista la differenza tra le due lingue. Quello che non mi piace è che spesso il menefreghismo, la rassegnazione o questa paura di imparare l'inglese, viene mascherato come nazionalismo. Becero nazionalismo. Perché il nazionalismo è bello quando è orgoglio della propria cultura e della propria origine. Ma quando serve a mascherare le proprie ignoranze è una delle più grandi forme di ipocrisia. «Qui siamo in Repubblica Ceca e si parla ceco», ho sentito dire tante volte. Dal poliziotto incazzato con uno studente canadese all'ufficio immigrazione, al senatore accademico che voleva nascondere la sua ignoranza linguistica. È vero, alcune volte ci sono anche i nazionalisti veri: quelli che per esempio hanno scritto “no all'inglesizzazione” sul messaggio “Beware of pickpockets” sul tram. Oppure quelli che ti vengono a dire che parlare ceco nelle Università è stata una conquista, visto che prima si doveva parlare tedesco. Magari pensano così perché tratti in inganno da qualche politicante che paventa la perdita di identità nazionale se ci si apre agli stranieri. Il tedesco, vero; perché se dalle mie parti nessuno parla tedesco, qua invece la percentuale è molto più alta. Conosco giovani (20, 25 anni) che non parlano una parola di inglese, ma che parlano correttamente tedesco. E no, non deriva dal fatto che le due lingue, tedesco e ceco, siano simili, perché non lo sono. Anzi, forse dovrei fare una precisazione: sapete che esiste il ceco, vero? Non è una domanda stupida, perché fui io il primo a cadere in questo tranello, credendo che i cechi non avessero una loro lingua. Quando ci ripenso rabbrividisco a quanto ero ignorante. 91 Era l'estate 2003, e mi trovavo all'aeroporto di Heathrow, Londra. Era sera, e stavo tornando dalla mia vacanza nella capitale inglese. La prima volta che prendevo un aereo, che facevo una vacanza all'estero per i fatti miei, con tanto timore di non riuscire a cavarmela. Eppure era andato tutto a gonfie vele. Be', avevo l'aereo che partiva alle 7 della mattina e siccome temevo di non raggiungerlo in tempo partendo all'alba, mi ero portato all'aeroporto verso mezzanotte, con l'intenzione di passare qualche ora in dormiveglia all'aeroporto, in attesa dell'imbarco. Purtroppo però non avevo fatto i conti col fatto che i posti comodi per dormire sdraiati erano già stati tutti occupati. Uno anche da un barbone, anche se poi è stato allontanato dalla polizia (no, lì poi non mi ci sono azzardato a sdraiarmi). Non mi rimaneva che stare seduto e aspettare il mattino senza dormire. Poco dopo mi si è avvicinata una ragazza stupenda, che senza dubbio avrebbe potuto fare la modella. Mi guarda l'etichetta della valigia: «Ehi, ma sei italiano?», dicendolo in italiano. Perché Iva, così si chiamava, parlava perfettamente italiano, e ne ha approfittato per attaccare bottone. Una conversazione durata tutta notte fino all'imbarco, avvenuto all'alba. Era una ragazza ceca che viaggiava per l'Europa, vivendo di lavori come baby-sitter e cambiando continuamente paese. Io all'epoca sapevo ben poco del suo paese, la Repubblica Ceca, e non avrei mai pensato che un giorno ci sarei andato a vivere. Ma ancora meno avrei pensato che un giorno mi sarei trovato a fare di interprete ceco-italiano per dei napoletani beccati col biglietto sbagliato sul metrò di Praga (successo stamattina). Perché all'epoca nemmeno sapevo che in Repubblica Ceca si parlasse ceco, lingua di cui ignoravo totalmente l'esistenza. A Iva lo chiesi anche «Ma cosa parlate nel tuo paese? Tedesco?». Santo cielo, quanto ero ignorante. «Ma no, abbiamo la nostra lingua!» mi rispose stizzita. Non l'aveva presa bene. Eppure tanti stranieri, tanti turisti che arrivano a Praga non sanno dell'esistenza del ceco, e pensano che si parli tedesco. Forse perché pensano che un paese così piccolino non riesca ad avere una lingua 92 autonoma. O forse perché pensano che se in Austria parlano tedesco, perché non dovrebbero farlo in Repubblica Ceca. Invece no, i Cechi ci tengono alla loro lingua, perché è una parte della loro identità, e Iva – con quella sua permalosa reazione – me l'aveva dimostrato. Ancora di più, tanti pensano che esista il Cecoslovacco, inteso come lingua. Mi è successo all'aeroporto di Praga, mentre attendevo di imbarcarmi su un volo diretto a Bergamo e quindi pieno di connazionali. Visto che l'imbarco tardava ho chiesto alle assistenti – in ceco – il motivo di tale ritardo. E un orobico vicino a me mi ha chiesto «Ah, ma tu parli Cecoslovacco?». «No, Ceco» ho risposto io. «Sì, vabbe', è lo stesso». «No, non è lo stesso, il ceco e lo slovacco sono due lingue diverse, e il cecoslovacco non è mai esistito». «Eh, ma per noi è cecoslovacco». Proprio vero che a lavare la testa a un asino si spreca tempo e sapone. C'è purtroppo questa convinzione diffusa che, siccome esisteva la Cecoslovacchia, per forza doveva esistere anche la lingua cecoslovacca. E invece no, perché anche durante il periodo di convivenza sotto un unico stato di cechi e slovacchi (dal 1918 al 1993) le lingue sono state sempre due: il ceco e lo slovacco. Due lingue che non si sono mescolate grazie al fatto che nelle scuole ceche si insegnava il ceco mentre nelle scuole slovacche si insegnava slovacco. Ma soprattutto perché la televisione trasmetteva programmi in entrambe le lingue, così che di fatto i cittadini erano bilingue, ma una lingua cecoslovacca in sé non è mai nata dalla mescolanza delle due lingue. Probabilmente per un orgoglio identitario dei due popoli, che magari sono fratelli, non si odiano come altri popoli trovatisi sotto un unico stato, ma che comunque ci tengono a far sapere che gli uni sono cechi e gli altri sono slovacchi. Bello quando uno conserva la propria identità, un po' meno quando la usa come paravento per altri scopi. Uno potrebbe infatti chiedersi quanto, in realtà, siano diverse le due lingue. La tipica osservazione che lo straniero fa quando abita nella 93 Repubblica Ceca : «Oh, ma io quando guardo l'etichetta del detersivo, sia la versione ceca che quella slovacca mi sembrano uguali!». Ditelo a loro... Un mio carissimo amico slovacco, Ondra, mi raccontava un giorno di essere abbastanza incazzato: aveva ricevuto i dati e i commenti che i suoi studenti gli avevano dato, tramite il questionario sulla qualità degli insegnanti, nella Facoltà in cui insegna. C'è stato un simpaticissimo studente che ha scritto: «Penso che all'Università Tecnica Ceca, si debba parlare ceco, e non slovacco. Se questo insegnate vuole parlare Slovacco, se ne torni in Slovacchia». Specchio del problema delle nuove generazioni, che – dopo la separazione del 1993 – crescono senza la TV bilingue e imparano o solo ceco o solo slovacco (a dire il vero gli slovacchi sono un po' più inclini a imparare il ceco). Ma segno anche della permalosità di un popolo che non vuole vedere intaccata la propria lingua, quasi ne vada della propria indipendenza nazionale. Sentivo di comunità turche in Germania dove si parla esclusivamente turco: i membri di queste comunità non si arrendono all'imparare tedesco. In Repubblica Ceca invece gli immigrati imparano (quasi) tutti il ceco. Spesso mi capita di vedere un coreano e un africano nei corridoi dell'Università, che parlano in ceco tra loro. Io stesso ho un amico bulgaro col quale parlo principalmente in ceco. Senza contare gli adolescenti vietnamiti di seconda generazione che parlano tra loro in ceco: buffo! Forse dipende dal fatto che l'immigrazione in Repubblica Ceca è ancora a bassi numeri, e che quindi è più facile imporre ai nuovi arrivati di adattarsi e imparare la lingua: è semplicemente una questione di sopravvivenza. Eppure penso che dipenda anche dalla capacità del popolo ceco di non perdere la propria identità. Certo, poi c'è anche la politica di mezzo. Se il mio amico di Bratislava era stato criticato perché insegnava in slovacco e non in ceco, io non ho mai avuto di queste rimostranze da parte dei miei studenti (e il il mio ceco è sicuramente meno comprensibile per gli studenti, rispetto allo slovacco di Ondra). Ma 94 non si lamentano perché sentire un Lombardo che parla ceco, li inorgoglisce. I cechi hanno questo atteggiamento a doppia faccia nei confronti degli stranieri che si confrontano con la loro lingua. Delle volte si arrabbiano per niente e pretendono che tu debba parlare perfettamente ceco, adducendo motivazioni nazionalistiche. Altre volte si sciolgono in lodi sperticate anche quando parli un mezzo ceco stentato. Capita di solito quando provieni da un paese non slavo, e quindi per te imparare ceco è molto più difficile che non per uno slovacco o un polacco. Una domenica mattina, andai in negozio a chiedere un pollo arrosto. Purtroppo pollo si dice kuře, con quella difficilissima lettera da pronunciare: ř. Talmente difficile che anche tanti cechi – Václav Havel compreso – non la sanno pronunciare e devono andare dal logopedista (e a questo punto ti chiedi: se nemmeno i cechi la sanno pronunciare, abolitela dalla lingua, no?). Di solito abbozzo un suono che assomiglia all'originale e la gente capisce. Quella volta mi era uscita una schifezza indecifrabile anche per me che l'avevo pronunciata. Ma forse, più della mia frase ceca, ha fatto il dito puntato sul pollo, e la commessa ha capito al volo. Ovviamente mi sono scusato per la mia pessima pronuncia, e la commessa – probabilmente di buon umore – ha semplicemente sorriso e mi ha risposto «Non c'è problema! Almeno voi ci provate». Sì, perché gli immigrati – non solo in Repubblica Ceca - li puoi dividere in due categorie: gli immigrati di lusso e gli immigrati poveri. I primi sono imprenditori, dirigenti, banchieri, insomma colletti bianchi che vengono in Repubblica Ceca solitamente da paesi occidentali d'Europa, o dagli Stati Uniti d'America, per assumere ruoli lavorativi altamente qualificati. I secondi invece sono persone che vengono da paesi poveri che arrivano in Repubblica Ceca per fare i muratori e gli operai. Uno si aspetterebbe che il bocconiano, con master al MIT, che arriva a Praga per dirigere un'azienda, sia una persona talmente in gamba da imparare il ceco in pochi mesi. E altrettanto ci si aspetterebbe che il 95 muratore ucraino con la quinta elementare abbia meno capacità di apprendere una lingua straniera. E invece capita esattamente l'opposto: gli immigrati poveri imparano tutti il ceco, mentre gli immigrati di lusso passano dieci anni in questo paese senza imparare nemmeno le frasi da manuale di conversazione. Alcuni, dopo due lustri in questo paese, ancora non conoscono nemmeno la pronuncia delle lettere. Il motivo è semplice: il lavoratore qualificato lavora in inglese, ha la segretaria che gli traduce a comando, e manda il fattorino in questura per i documenti di immigrazione. Va al ristorante di lusso dove il cameriere parla inglese: tutto sommato il ceco non gli serve. Il muratore ucraino se non parlasse ceco non sopravviverebbe: dalla questura, quando deve fare il permesso di soggiorno, al lavoro, per far valere i propri diritti. E allora ecco che le parti si invertono e i più istruiti si dimostrano più ignoranti di quelli che invece sono andati molto meno a scuola. È questo che i Cechi non sopportano: l'immigrato di lusso che non impara il ceco. Perché dimostra scarso rispetto per il paese che lo ospita: vivere per dieci anni in un paese e non impararne la lingua significa fregarsene del mondo che ti circonda, non interessarsi della cultura e della gente, del popolo che costituisce il paese. Significa che Praga, Parigi, o Tokyo per te fa lo stesso, perché non ti mischierai mai con la gente del posto, ma solo con i tuoi colleghi colletti bianchi dal portafogli gonfio. E questo – del tutto comprensibilmente – ai Cechi non va giù. Soprattutto per via di quel portafoglio gonfio, usato come passaporto di ignoranza per non imparare il ceco. E allora capisci perché delle volte ti guardano con disprezzo quando capiscono che non sei un turista, che in Repubblica Ceca ci vivi, e non sai dire due semplici parole in ceco (anche se non fai parte degli immigrati di lusso, ma sei solo arrivato da due settimane) e nel frattempo si dimostrano entusiasti se invece ti metti a parlare ceco, benché non 96 perfettamente: significa che ti sei fatto un bagno di umiltà e hai deciso di ripartire da capo per imparare una lingua, che è utile praticamente solo in questo paese. Loro lo capiscono e ne sono lusingati. Tutto sommato i cechi sono un po' come le donne: fanno i sostenuti, ma poi basta poco per conquistarli. Anche per questo ho deciso di imparare il ceco, perché significa integrarsi meglio, o più precisamente, integrasi e basta. Certo, la strada non è facile, perché essendo una lingua slava le parole sono praticamente tutte diverse. Ogni tanto si trova qualche eccezione: il volante, che in inglese è chiamato con un complicato “steering wheel”, in ceco si dice semplicemente “volant”. Per rimanere in ambito automobilistico il semaforo ceco è “semafor”, mentre gli anglofoni ricorrono ancora a due parole: “traffic light”. Ma se si escludono queste poche eccezioni, il vocabolario ceco è totalmente diverso dal nostro. Se quindi per noi è facile imparare una lingua come l'inglese, dove ufficio diventa office, dentista si dice dentist e ospedale di dice hospital, diventa molto più difficile imparare il ceco dove queste tre parole sono nemocnice, kancelář, zubař (messe in ordine casuale... vediamo se riuscite ad assegnarle al loro significato). Oltre al fatto che le parole siano completamente diverse, e che uno se le debba imparare tutte da zero, ci sono anche altre difficoltà. Una di questa è rappresentata dalle parole impronunciabili: per chiedere un gelato, dovrai pronunciare la parola “zmrzlina”, cinque consonanti di fila, alla faccia della mia maestra delle elementari che diceva materialmente impossibile pronunciare più di tre consonanti consecutive. In ceco esiste addirittura una frase di senso compiuto che non ha nemmeno una vocale: Strč prst skrz krk (ficcati un dito attraverso la gola, e devo ancora decidere se mi piace meno il senso della frase e la fatica per pronunciarla). 97 Poi esiste la categoria delle parole difficili da ricordare. Non ho ancora capito perché ma ci sono parole che non mi entrano in testa. Un giorno di pioggia ho chiesto ai miei amici come si diceva ombrello in ceco. “Deštník”: ci ho messo cinque giorni per ricordarmelo. Ma questo, lo ammetto, è probabile che sia solo un problema personale. Poi certo c'è la grammatica, che presenta alcuni tratti addirittura ironici (o sbeffeggianti, per lo straniero che cerca di impararla). Ci ho messo due anni per trovare qualcuno che mi spiegasse perché il plurale di molte parole dipende dal numero: da due a quattro si dice in un modo, da cinque in su in un altro. Perciò se vai in birreria chiederai una birra dicendo “jedno pivo”. Due, tre o quattro birre le potrai ordinare dicendo “dva, tři, čtyři piva”, ma se sei insieme a tanti amici (o se la fidanzata ti ha lasciato e vuoi affogare nell'alcool il tuo dolore) dovrai chiedere cinque birre dicendo “pět piv”. Mi hanno spiegato che dal due al quattro di usa il genitivo singolare (“due di birra”), mentre dal cinque in su, si usa il genitivo plurale (“cinque di birre”). Purtroppo ancora nessuno mi ha spiegato il motivo di tale astrusità mentale. La lingua ceca ha però anche degli aspetti divertenti: per dire “tutto bene” i cechi usano la parola inglese fine. Il problema è come la scrivono: fajn. E lo stesso vale per tutte le parole straniere importate in ceco, che vengono trascritte come un ceco le leggerebbe (con poche eccezioni, come cappuccino che fortunatamente non viene scritto kapučino se non raramente). Perciò il ketchup diventa kečup, il camping si scrive kempink, un gruppo di persone compone un tým (team) e se fai il finesettimana parti per il vikend. Sul cartello di un cantiere mi è capitato di leggere il nome dello studio di ingegneria che aveva redatto il progetto: c'era scritto Inženýring! Mi immagino la faccia dei linguisti italiani che si strappano i capelli per una misera s in più o in meno per il plurale delle parole inglesi usate in italiano. 98 Difficoltà e stranezze, curiosità e disperazione. Anche disperazione; il ceco è tutto questo. Disperazione perché delle volte mi sembra davvero impossibile imparare certe parole o il senso di certe regole. Eppure sono gradini che si devono affrontare, pena il cadere nella categoria degli immigrati di lusso che snobbano il ceco; mentre io ho deciso di impararlo. Non certo nelle scuole di lingua: non ho né il tempo né la pazienza per mettermi al tavolo e scrivere venti volte “la penna è sul tavolo” (“pero je na stole”, ad ogni modo). Ascolto e ripeto, all'incirca come i bambini che nascono in Repubblica Ceca e imparano il ceco senza bisogno di libri di grammatica. Poi ovvio, è un metodo imperfetto. Delle volte ascolto cose che non dovrei ripetere, collezionando in questi anni un discreto numero di figuracce (molte delle quali non si possono nemmeno citare per questioni di censura). Mi basti raccontare di quella volta che, pochi giorni dopo il mio arrivo a Praga, fui invitato a una cena di benvenuto dai miei colleghi e dal mio professore, che arrivò in trattoria con la moglie. Durante la discussione mi uscì di bocca un «ty vole» (tu bue, un esclamazione comune tra amici) verso la moglie del professore. «Mattia, non si dice ty vole» mi corressero subito i colleghi. «Ah, scusi – Ty kravo!» (tu vacca, inteso come la versione femminile di ty vole, ma molto più volgare). Ho visto il volti che mi circondavano diventare paonazzi. Da quel giorno, nel nostro gruppo, quel locale è stata ridenominato la trattoria ty kravo. Nonostante ciò, nonostante le difficoltà e le figuracce, sono riuscito a imparare discretamente il ceco. Oh, certo, conosco tanti stranieri che lo parlano molto meglio di me (sia per purezza grammaticale, sia per assenza di quel tono da scaricatore di porto che talvolta mi contraddistingue). Sono conscio del fatto che dovrei migliorare tantissimo la grammatica. Ma sono felice ugualmente, perché è una cosa importante per me. Quando mi rendo conto che posso insegnare in ceco a dei ragazzi cechi, quando riesco a comunicare con un vietnamita in ceco 99 (in quanto unica lingua comune), o quando riesco a fare un discorso in senato accademico in ceco (e a braccio) significa che è una piccola cosa di cui posso andare fiero. E non mi dimenticherò mai di quella volta che un mio amico mi presentò sua sorella: vivendo lontano da Praga non era comune per lei incontrare uno straniero, e tanto meno un bizzarro Lombardo che parlava ceco. A ogni frase scoppiava a ridere. È vero, ci vuole poco a conquistare i cechi! 100 Il capitolo più corto Che poi non so nemmeno se posso chiamarlo capitolo, visto che probabilmente questo non è propriamente un libro. Ma non riuscivo a trovare un'altra parola più adatta. Qualsiasi cosa tu scriva, uno dei consigli più consumati ma sicuramente validi, è di scrivere con la mente. Prima di prendere in mano la penna o mettere le mani sulla tastiera, è sempre meglio scrivere il proprio pezzo con la testa, provando le frasi e facendole vorticare liberamente finché non prendono il loro posto: solo in un secondo momento puoi scrivere su carta o computer, ciò che in realtà hai già pronto. Ed è così che nasce quasi tutto quello che scrivo. Questo “capitolo” è nato un tardo pomeriggio di giugno, mentre sostavo sulla scalinata del Museo Nazionale di Praga. Un libro di Václav Havel tra le mani, e lo sguardo che ogni tanto si alza su piazza Venceslao. Il sole tramonta e il colore si fa poetico sulla pelle di chi ti passa sotto gli occhi. Forse sarà il fatto che nell'insieme della lunga piazza, vedo tante ragazze, che in questa stagione sono decisamente scoperte, riflettendo la luce del sole sulla pelle. O forse sarà che proprio su questa scalinata aspettavo – giusto un paio d'anni fa – una ragazza 101 (slovacca, ma fa lo stesso) per andare a cena. Fatto sta che mi sono deciso a scrivere dell'argomento ragazze. In effetti il lettore si aspetterebbe, dopo aver letto delle manie alcoliche e naturiste dei cechi, del loro modo di usare lo zaino o della passione per il ballo, di leggere anche qualcosa sulle ragazze ceche. Un po' perché è tipicamente il primo argomento di cui parlano certi giornalisti italiani (quelli che pensano di conoscere un popolo per aver vissuto qualche settimana nel loro paese, frequentando nel frattempo solo ambasciate e istituti di cultura). Fare l'articoletto descrivendo le donne di un paese attira il lettore e ti fa passare per il latin lover di turno. Sapendo che il più delle volte i giornalisti, grazie all'abilità di scrittura, inventano i pezzi da un singolo episodio (quando non dal nulla), la cosa mi risulta decisamente patetica. Un po' uno si aspetterebbe questo tema perché tra gli italiani è convinzione comune che le ceche la diano via facile. La Repubblica Ceca è quindi diventata, nell'immaginario comune del maschio italico, il paradiso della gnocca. Se vedete una mandria di italiani in vacanza in Repubblica Ceca al grido di «stasera me le scopo tutte io», probabilmente la pateticità della situazione salterà all'occhio anche a voi. Per questo mi ero imposto di non trattare questo argomento. Ma poi ho pensato che due righe, giusto il necessario, si potessero fare. Poca roba, solo qualche opinione personale senza pretesa, che faccio guardando questo mondo con l'occhio di chi cerca di capire, consapevole di non riuscirci. E allora posso dire che a me le ragazze ceche sembrano donne forti, che vogliono la loro indipendenza e non vivono necessariamente in funzione del proprio uomo. Sicuramente c'è ancora quella che cerca l'uomo occidentale per scappare via, ma il più delle volte è solo voglia di uscire dalla monotonia, di un paese piccolo o degli uomini cechi, troppo 102 flemmatici e senza sale (o anche troppo imbenzinati per fare il loro dovere...). Ci sono le ventenni di Praga, che sono più belle, non per un fattore genetico ma sociologico. E le ragazze morave, che te le raccomando. Vedo le donne ceche che sono mamme, e che a trent'anni (e spesso anche meno) scalano il tram con il passeggino, cercando di non far cadere il figlio. Non sono certo le trentenni, con la borsa di Gucci, gli occhiali di D&G, i capelli sempre perfetti e i jeans da 200 euro che alzano il culo. E per finire le ceche sono oneste, nel dire che anche a loro piace godere delle cose belle della vita. Non significa che sono tutte “poco di buono” come pensa il maschio italico dall'ormone impazzito. È solo che non hanno l'ipocrisia di far finta che a loro non piace e non hanno bisogno di fare sesso. Forse si sentono libere di dirlo perché il maschio boemo non è abituato a considerale negativamente per questo. Si dovrebbe riflettere su questo fatto. Per il resto, capire le donne (non necessariamente ceche) è in sé un'impresa probabilmente riuscita a ben pochi uomini, ed io non ho la pretesa di essere tra questi. Il rapporto che si ha con una donna è quasi sempre qualcosa che entra nel profondo della vita, e dipende strettamente dalla persona in questione. Fare una generalizzazione partendo dalle limitate esperienze che ognuno di noi può avere, è semplicemente stupido. Lo lascio fare agli altri. 103 Ai cechi Usare una citazione non è mai una mossa saggia. Citare poi qualcosa di molto famoso, è ancora più pericoloso: il rischio di cadere nel banale diventa molto alto. Ciò nonostante voglio correre questo rischio. Vi ricordate il film “L'attimo fuggente”? In una famosa scena il prof. Keating invita i propri studenti a salire sulla cattedra per guardare il mondo da un'altra prospettiva. È sempre lo stesso ambiente, è sempre la stessa aula con gli stessi banchi e le stesse sedie, ma se la guardi da una posizione più in alto sembra diversa. Una sensazione ben nota a chi si arrampica su mobili e sedie per fare le pulizie domestiche. Con questo piccolo esperimento il prof. Keating voleva far capire come ogni giudizio che diamo dipende dall'angolazione con cui osserviamo. Sinceramente non ho mai avuto ben chiaro chi dovesse essere il lettore tipo per quello che stavo scrivendo. Probabilmente queste pagine possono risultare interessanti ai miei connazionali, o comunque a gente non ceca che vuole scoprire qualcosa di questo popolo. Temo che molti dei temi trattati qui siano noiosi o incomprensibili per i cechi. Noiosi perché raccontare a un gatto quanto è bravo ad arrampicarsi non attirerà di certo la sua attenzione. E incomprensibili 104 perché tanti argomenti nascono dalla contrapposizione tra le usanze ceche e il modo di vivere a cui ero abituato prima di trasferirmi in Repubblica Ceca. Atteggiamenti che spesso sono considerati normali proprio perché usuali: spesso spiegare ai cechi che per me quell'atteggiamento è strano, diventa un'impresa davvero ardua: essendo per loro normale, non capiscono il motivo della mia sorpresa. Tuttavia penso che qualche ceco, prima o poi, leggerà queste pagine e la reazione che immagino sarà probabilmente qualcosa del tipo «che cosa dice? non siamo mica così noi cechi». Ecco, fate come il prof. Keating suggerì ai suoi studenti: cambiate prospettiva, e vedrete cose di cui non vi siete mai accorti. Infatti, l'unico vantaggio che posso avere come straniero, è quello di avere una visione privilegiata sui cechi, non influenzata dalla appartenenza a tale popolo. Io sono già con i piedi sul banco e guardo voi cechi da un'altra angolazione. Un francese potrà guardarvi sdraiato per terra, un tedesco vi potrà guardare sospeso dal soffitto: il loro punto di vista sarà sicuramente diverso, ma ugualmente valido. Questo era il mio, e per quanto non completo – e mai lo potrebbe essere – , spero sia utile. C'è una cosa che però vorrei sottolineare: penso che la quasi totalità dei cechi, leggendo questo libro penserà che il mio giudizio su di loro è stato troppo generoso. Una delle caratteristiche dei cechi infatti è una sorta di rassegnazione e di auto commiserazione per i loro lati negativi. Un ceco di lamenta per la burocrazia, e sbuffa «ecco, questa è la Repubblica Ceca!». Un ceco vede i politici corrotti, governanti che hanno più a cuore la poltrona che il proprio paese, e pensa che non ci sia nulla da fare, che fa tutto schifo. Ho sentito un ceco dire una volta, che mentre viaggiava in treno di ritorno dalla Germania, aveva capito di aver passato il confine con la Repubblica Ceca, perché in territorio tedesco 105 l'area attorno alla ferrovia era ben pulita mentre appena entrati in Repubblica Ceca, si iniziavano a vedere i rifiuti vicino ai binari. Leggendo questo scritto il ceco medio potrà domandarsi perché io abbia questa visione positiva della Repubblica Ceca, come traspare lungo tutti i temi trattati. Ve lo ripeto: cambiate prospettiva. Tutte questi problemi che ho citato sono problemi veri, che ci fanno arrabbiare e che ci complicano spesso la vita. Ma ditemi: dov'è che non li trovate? Ho conosciuto persone provenienti da tutti i paesi del mondo, e vi posso assicurare che quei problemi per cui voi vi lamentate, per cui considerate negativamente il vostro paese, in realtà ci sono ovunque. Non ho mai incontrato nessuno che mi dicesse di essere felice dei propri politici: nessuno che li ritenesse delle persone in gamba. La burocrazia esiste ovunque, anche nei paesi dove si dice che tutto funzioni meglio: ad una mia amica ceca l'ufficio immigrazione britannico ha trattenuto due mesi (due mesi!) la carta d'identità, quando si è trasferita nel Regno Unito. È vero, in Repubblica Ceca c'è tanta burocrazia, ma tutto sommato basta alzare un po' la voce, e il modo di risolvere il problema magicamente si trova. Dalle mie parti alzare la voce davanti a un burocrate ottuso non serve a niente, la pratica non si muove di un millimetro. L'unico risultato è che probabilmente chiameranno i carabinieri. E parlando dei rifiuti, devo forse accennare al fatto che esistono città e regioni intere con problemi ben peggiori? Probabilmente la rassegnazione che vi portate con voi quando uscite di casa la mattina è figlia di speranze disattese. È tipico dei popoli che affrontano un grande cambiamento, come la fine di un regime e la conquista della libertà. Ci sono grandi aspettative, e si fantastica oltre misura. E allora capita che qualcuno si lamenti perché questa nuova società non è poi così perfetta come si aspettava. Tutto sommato anche 106 Mosè ebbe i suoi problemini con gli ebrei quando li aveva liberati dalla schiavitù: avrebbero addirittura preferito essere schiavi! Io vi chiedo allora di cambiare prospettiva, e guardare il vostro paese da un altro punto di vista: vedrete quello che è stato fatto negli ultimi due decenni. È stato creato uno stato democratico, quando solo vent'anni fa c'era una dittatura. È stato creato un sistema economico moderno: certo, avrà le sue pecche, ma rispetto a tanti altri stati dell'Est il vostro paese è stato quello che probabilmente è stato capace di gestire meglio la transizione creando un modello di economia che stesse in piedi. Le porte del vostro paese si sono aperte: giovani cechi fanno esperienze all'estero e tanti stranieri vengono in Repubblica Ceca. E proprio dai giovani sento i discorsi più belli: c'è voglia di mettersi in gioco e impegnarsi per migliorare il proprio futuro; c'è voglia di lavorare per crearsi la propria posizione, forse perché da queste parti è ancora possibile fare un salto sociale se ci si impegna, senza necessità di raccomandazione (pochi giorni fa ho conosciuto una ragazza in gamba assunta in un Ministero... senza conoscere nessuno!). E allora vi chiedo di non disperdere queste cose. Non preoccupatevi se non siete ricchi come i tedeschi. Conservate la semplicità di saper vivere con poco: è una qualità preziosa, che serve anche quando i soldi arriveranno, perché ti fa badare alle cose essenziali. Siete un popolo dall'animo buono, non violento: dovete essere capaci di valorizzare questa predisposizione e di non viverla come soccombenza. Penso che nel vostro paese ci siano tante potenzialità positive, che possono consentirvi di costruire grandi cose. Non sono risorse materiali, ma principalmente le qualità umane, e spero di essere riuscito a farvele scoprire. Potete decidere di farle fruttare e diventare un paese migliore, oppure di lasciarle marcire, aspettando di diventare come il paese da cui sono scappato. La scelta, ora, spetta a voi. 107 Dieci aggettivi Dieci aggettivi, quasi come un gioco di società. Sembrano tanti, ma per descrivere un popolo sono in realtà pochi: vi propongo i primi che mi vengono in mente, un po' per riassumere quello che vi ho raccontato, e un po' per includere qualche spunto di riflessione che si è perso per strada. NORMALI Non so se è conformismo o mancanza di trasgressione. È che se fai un giro sui mezzi pubblici in Repubblica Ceca, fai fatica a trovare qualcuno di stravagante. Al massimo qualche ceco si concede la trasgressione dei capelli lunghi, ma sono pochi anche quelli. Rarissimi i cechi che si infighettano. EDUCATI Drammaticamente educati. Pieni di riverenze, rispettosi delle persone e delle situazioni. Fin troppo: mai sentito un giovane che alza la voce con un vecchio, anche quando se lo merita. DISFATTISTI Difficile trovare un ceco orgoglioso del proprio paese. Hanno la propensione a sottolineare i lati negativi, e a considerarli con fatale rassegnazione. 108 PERMALOSI Sono loro i primi a parlar male del proprio paese, ma guai se lo fa uno straniero. In quel caso sono capaci di trovare tutti i difetti del tuo paese, pur di difendere il loro orgoglio. SILENZIOSI Parlano solo se c'è da parlare. Non sentono la necessità di riempire un silenzio. Da una parte questo atteggiamento riduce la probabilità di dire stupidaggini; dall'altra diventa un problema imbarazzante se hai invitato una ragazza ceca a cena. PUNTUALI Se si dice un orario, quello è. Arrivano puntuali, sia sul lavoro che in altri contesti. Per un maniaco della puntualità come me, è una goduria. CALOROSI Non nel senso affettivo, ma nel senso che hanno sempre caldo, tanto che appena arriva la primavera si va tutti in giro in pantaloni corti, anche se si ha cinquant'anni e una posizione di tutto rispetto. Ed anche d'inverno non sono da meno: mi è capitato di barbellare dal freddo sotto la neve, e veder passare cechi in maglietta. PRECISI Sulle scale mobili si sta a destra, e chi va di fretta passa a sinistra. Se questo è comprensibile sulle affollate scale mobili del metrò, è un po' meno normale che si faccia anche sulle scale interne ad un edificio. Sì, sono stato rimproverato perché stavo a sinistra sulle scale della mensa: questa è paranoia! 109 NERVOSI ...e indisciplinati, quando guidano. State attenti ad attraversare la strada, anche se siete sulle strisce pedonali rischiate la vita. Provate a protestare: si incazzeranno, pretendendo pure di aver ragione. Probabilmente i più furbi di voi si sono accorti che gli aggettivi sono soltanto nove. Però non volevo tornare a cambiare il titolo, e ad ogni modo avrebbe stonato il titolo “Nove aggettivi”: chissà perché uno si aspetta sempre un decalogo. Ma se proprio volete il decimo aggettivo... be', venite in questo paese, mischiatevi tra la gente, osservate senza pregiudizi, criticate ad apprezzate. E poi il decimo aggettivo datelo voi. 110 © Copyright 2009 Mattia Butta versione 1.4 – Luglio 2009 Questa pubblicazione è depositata presso l'ufficio del Copyright degli Stati Uniti d'America. Ai sensi della Convenzione di Berna tutti i diritti sono riservati in tutti i paesi del mondo aderenti alla convenzione. Questa edizione elettronica è fornita gratuitamente sul sito internet dell'autore www.butta.org. Chiunque è autorizzato a scaricare questa versione elettronica e a stamparla per usi personali. 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La necessità di comunicarmelo serve solo a soddisfare il mio ego personale e sapere che a qualcuno questo testo è piaciuto. Stesso motivo per cui non consento di ripubblicare il file su altri siti o reti p2p. Venite sul mio sito, lo scaricate gratuitamente, e almeno so quante persone l'hanno scaricato. 111 112 113 114