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MATTIA BUTTA
I CECHI NON OSANO SEDERSI IN TRAM
Madrid, Maggio 2008. ...............................................................................7
Tutti nudi, siamo cechi............................................................................. 12
Jak se jmenuješ?....................................................................................... 18
Batoh.........................................................................................................23
Alcool, amico alcool.................................................................................29
Parco ceco.................................................................................................38
Happy days............................................................................................... 55
Hi! How are you?..................................................................................... 60
Co nadělaš?...............................................................................................67
Titoli di testa.............................................................................................73
Pochi, ma buoni........................................................................................78
Brava con le lingue...................................................................................88
Il capitolo più corto................................................................................ 101
Ai cechi...................................................................................................104
Dieci aggettivi........................................................................................ 108
Per commenti, riflessioni o insulti potete scrivermi un'email a questo
indirizzo: [email protected]
© 2009 Mattia Butta
Madrid, Maggio 2008.
La Calle del Espíritu Santo mi avvolge col suo calore appena esco, di
buona mattina, dal palazzo in cui alloggio. Sono le otto e un quarto ma
dalla temperatura sembra che sia mezzogiorno. Nello stesso momento
però la strada è deserta; certo, c'è qualche fruttivendolo che spazza la
sporcizia gettando secchiate d'acqua sulla strada, qualche mattiniero
prende un caffè in un bar di lusso e un fattorino ferma il motorino per
fare una consegna. Per il resto non c'è nessuno in giro. Se penso che la
sera prima quella stessa via era un bailamme di persone allegre e
casiniste, ho la sensazione che siano le sei del mattino.
Sono disorientato. Ho lasciato Praga, la città in cui abito, due giorni
prima e sono volato a Madrid per una conferenza. Due ore e mezza di
aereo ti consentono, senza cambiare continente, di cambiare mondo. Non
parlo di quei cambiamenti che ti colpiscono appena esci dall'aeroporto.
Le donne di Madrid vestono come quelle di Praga, non si bardano il
corpo e il capo, soffocandosi con palandrane medievali. I pub che
incontro per la via sono dei normali pub. Se guardo nelle vetrine non
vedo nulla di strano. Tuttavia ho quel senso di strana inquietudine che ti
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prende quando senti che non sei a casa tua. Senti che c'è qualcosa di
diverso, ma non riesci a capire cosa sia.
Sono le otto e un quarto della mattina, dalla temperatura sembra
mezzogiorno, ma dalla gente che incontro per strada sembrano le sei. C'è
qualcosa che non torna.
Mi basta camminare duecento metri e arrivo alla stazione del metrò;
alle nove inizia la prima sessione della conferenza, mi devo affrettare. Le
scale non finiscono mai, mi sembra di scendere in una miniera di
carbone. Finalmente arrivo sulla banchina ed entro nel metrò che arriva
di lì a un paio di minuti. Un altro mondo; mentre la strada è vuota il
vagone della metro è straboccante di persone: sembra che a Madrid ci
siano due mondi paralleli che vivono sfasati di qualche ora. In spalla ho
lo zaino e in mano la borsa col notebook, che pesa. Mi piacerebbe
sedermi; il percorso è lungo e la prospettiva di farlo aggrappato a un
sostegno, cercando di non cadere, non mi alletta. Ma posti liberi non ce
ne sono, pazienza.
Alla fermata successiva una signora comodamente seduta si alza ed
esce dal vagone. Ed ecco, il metrò si trasforma nella death valley, il
sedile vuoto diventa nella carogna di un animale, e i distinti signori che
lo circondano si tramutano in avvoltoi che si lanciano sulla preda. Il più
furbo riesce a conquistare l'ambito posto a sedere. Proprio così, era stato
furbo; quando ha capito che la signora si sarebbe alzata si è piazzato in
modo tale da trovarsi nella posizione più vicina al sedile, così da
agguantarlo per primo. Gli altri avvoltoi (pardon, viaggiatori) rimasti a
bocca (pardon, sedere) asciutta, guardano in cagnesco il fortunato che
ora è seduto. La prossima volta non si faranno fregare così facilmente.
La scena si ripete ad ogni fermata, ad ogni posto che si libera. C'è
gente che si siede anche se poi scende la fermata successiva. Giusto per
il gusto di approfittare del posto a sedere, anche se per una sola stazione.
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All'improvviso capisco tutto: ecco cos'è quella strana inquietudine che
hai quando sei all'estero, quella sensazione di non essere a casa. Non
sono i cartelli stradali diversi, o la lingua e i suoi suoni insoliti. È
semplicemente il comportamento delle persone. Sono quei piccoli
atteggiamenti che sembrano far parte di un codice di condotta non
scritto, secondo il quale ci sono cose che si fanno e cose che non si
fanno.
A Praga non ci si comporta in questo modo, non esiste la feroce lotta
al posto libero sul tram: i cechi si comportano in modo completamente
diverso. Quando rimane un solo posto disponibile, i cechi non osano
sedersi in tram. Un po' come quando si mangia una torta e dopo aver
distribuito una fetta a ognuno dei presenti, rimane una sola, ultima fetta.
Nessuno osa prenderla, per non fare danno ad un altro che potrebbe
desiderarla. Anche se quell'ultima fetta è molto invitante. In un apoteosi
di ipocrisia buonista qualcuno ne prende metà, giusto per soddisfare la
propria gola senza però risultare maleducato e non lasciare niente agli
altri. Certe volte qualcuno si azzarda a prendere solo metà della restante
metà: di finire la torta proprio non se la sente nessuno. Ecco, i cechi si
comportano così con i posti liberi sul tram; mi è capitato di vedere un
ragazzo che guardava al posto appena liberatosi con una voglia matta di
sedersi. Ma prima di farlo si è guardato intorno ha aspettato che tutta la
gente salisse sul tram e quando ha visto che nessun altro si era seduto, be'
allora si è fatto coraggio e si è seduto.
Non pensiate che siano casi isolati e manie di qualche strano
personaggio; questo atteggiamento fa parte di un radicato costume nella
mentalità ceca. Ogni popolo ha una lista non scritta di cose divise in due
colonne: quelle che si fanno e quelle che non si fanno. Nella lista ceca, il
buttarsi sul posto appena liberato sul tram sta dalla parte delle cose “che
non si fanno”, e tutti rispettano la lista.
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Un mattino prendo il tram insieme al mio amico Petr (sentirete il
nome più volte, ma sappiate che non è la stessa persona: i cechi hanno
così poca fantasia nel dare i nomi ai figli che finisci per conoscere decine
di persone con lo stesso nome). Saliamo a Marjánka, proprio sotto a casa
mia; il tram non è proprio pienissimo ma alcune persone in piedi ci sono.
«Ehi, ci sono due posti liberi, sediamoci!» dico a Petr (a dire il vero io mi
ero già seduto senza aspettare il suo assenso). La sua risposta mi ha
stupito «Ma questi posti, a dire il vero, sono riservati agli invalidi».
Ottima motivazione, peccato però che non ci fosse un invalido che fosse
uno sul tram. Non c'era nemmeno uno con le stampelle, nemmeno un
vecchio, nemmeno una donna in gravidanza. Non c'era nemmeno
qualcuno che si teneva la guancia per il mal di denti (sedersi non
migliora la situazione ma ti fa compassione ugualmente). E allora perché
non avremmo dovuto sederci? Se fosse arrivato un vecchio mi sarei
alzato, ma visto che non c'era che male facevamo a sederci? Nulla, ma
nella lista delle cose che “si fanno/non si fanno”, il sedersi su un posto
libero, tanto più se è riservato agli invalidi e tu – orrore! – sei giovane,
sta dalla parte del “non si fa”.
In quel vagone della metropolitana di Madrid ho scoperto
dell'esistenza di questa lista. Ho scoperto che la sensazione di sentirmi a
casa quando mi trovo in Repubblica Ceca è data prevalentemente da una
serie di comportamenti della gente che mi circonda. Magari non li
condivido, magari non ne capisco il senso, o addirittura mi traumatizzano
in un primo momento. Ma vedendo quei comportamenti continuamente e
per così tanto tempo, diventano un sano brodo comportamentale dove mi
sento sicuro. Ammettiamolo, il più delle volte in cui ci sentiamo a
disagio il motivo è che non sappiamo come bisogna comportarsi.
Un paio di giorni dopo l'illuminazione avvenuta nel vagone del metrò,
ho incontrato Tobia, un amico veronese di stanza a Madrid. Ebbene,
dovete sapere che sono spesso monotematico nelle conversazioni, spesso
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finisco a parlare degli stessi argomenti. In questa serata madrilena non
faccio altro che parlare di come si vive a Praga (forse perché me
l'avevano chiesto, non ricordo; dovrei forse stare più attento al tema della
conversazione). Dopo aver sentito una valanga di aneddoti sulla mia vita
ceca, Tobia mi butta là questa idea «Con tutte queste storie dovresti
scrivere un libro!».
Ed eccolo qua. Magari non sarà un libro, probabilmente saranno solo
appunti di viaggio. Un viaggio stazionario in questo paese. Cercherò di
descrivere tutti quegli atteggiamenti, quelle consuetudini dei cechi che
mi sembrano strane, sacrosante o semplicemente interessanti per chi
legge.
Queste pagine saranno una descrizione del popolo ceco, da parte di un
lombardo che per una serie di combinazioni si trova a vivere nel loro
paese.
Non ho nessuna pretesa sociologica; non posso certo fare un quadro
esauriente di tutta la società ceca. Non ne ho le capacità e voi
probabilmente non ne avreste l'interesse. Sicuramente qualcuno,
leggendo queste pagine potrà pensare «ma io ho passato una settimana a
Hradec Králové e non è assolutamente vero quello che dici». Non lo
escludo. Da parte mia cercherò di parlarvi di quei fenomeni che ho visto
talmente tante volte che ormai mi sono impressi nella mente. Poi
ovviamente la mia visuale del popolo ceco può essere influenzata dal
tipo di persone che conosco e frequento. Ma l'ho detto, non voglio fare
sociologia: voglio solamente raccontarvi come io vedo i cechi.
Buon viaggio!
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Tutti nudi, siamo cechi
Sono con degli amici in birreria. Mima è in città solo per una giornata
e mezza, così ha trascinato me ed altri amici a bere.
Io: «Ma scusa, ora che vieni a Praga solo un giorno alla settimana, dove
stai a dormire?»
Mima: «Sto a casa di Honza.»
Io: «Sì, ma scusa, Honza adesso lavora a Cork, o mi sono perso qualche
puntata?»
Mima: «Non ti sei perso niente, lavora ancora a Cork.»
Io: «E allora, come fa ad ospitarti? Ti ha lasciato in mano le chiavi di
casa sua?»
Mima: «Ma no! Nella sua casa di Praga vive ancora Jana, la sua morosa.
È lei che di fatto mi ospita».
Io: «No, scusa, vuoi farmi credere che mentre Honza è in Irlanda a
lavorare tu, una volta alla settimana, vai a casa sua a dormire insieme
alla sua morosa?»
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Mima: «Sì, e che problema c'è?»
Io: «Come che problema c'è? C'è che non si fanno queste cose, scusa!»
Mima: «Ah. E perché?»
Io: «Oh santo cielo. Hai trent'anni, non sei un bambino. Cerca di capirlo.
Perché si presume che se anche tu hai tutte le buone intenzioni di
questo mondo, magari capita che la mattina vedi Jana con una
vestaglietta fine fine addosso, o magari anche meno vestita. Così ti
vengono le tentazioni e combini il patatrak.»
Mima: «Ma guarda che io Jana l'ho già vista nuda più di una volta.».
Io: «Ecco, lo sapevo. Ha già combinato il patatrak».
Mima: «Ma cosa hai capito? Abbiamo semplicemente fatto il bagno nudi
insieme.»
Io: (faccia esterrefatta) – tre secondi di silenzio.
Mima: «Una volta eravamo nei paesi baschi per una conferenza.
C'eravamo io, altri colleghi e Honza con la sua fidanzata. Volevamo
fare un bagno nel mare, ma non avevamo i costumi così ci siamo
spogliati e abbiamo fatto il bagno nudi.»
Io: «Cioè, scusa, fammi capire... Eravate un gruppo di uomini con una
donna sola, vi siete spogliati tutti nudi come il culo di un macaco e
c'era anche Honza che non ha avuto problemi a farvi vedere la sua
morosa nuda?»
Mima: «Sì. E quindi? Davvero non riesco a capire dove vuoi arrivare.
Qual è il problema?»
Mima era sincero. La sua non era sfrontatezza di chi si vuole vantare
per una trasgressione. Per lui era davvero normale quello che aveva fatto.
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Mostrarsi nudo davanti a dei colleghi e alle loro morose era qualcosa che
non infrangeva nessuna regola. Così come era normale per Honza
mostrare la sua fidanzata ai colleghi così com'è, senza trucco e senza
inganno.
Per questo Mima non capiva il motivo del mio stupore. Mi raccontò
anche di quando ripeterono il bagno di gruppo, tutti nudi (Jana
compresa), in un laghetto al fianco di un'autostrada in Norvegia.
La nudità. Ecco, questa è una di quelle abitudini ceche che mi
sconvolgono. Mentre per loro questo comportamento è normale, per me
rientra nelle cose che “non si fanno”. Il problema è che “non si fanno”
perché “non si fanno”. Stop. Si cresce con questa sicurezza e non si
cercano spiegazioni.
Quando allora ho detto a Mima: «ma scusa, non si fa!», egli mi ha
risposto «e perché?». Guardo Paja implorandolo di venirmi in soccorso,
ma le speranze sono vane: alza le spalle, poggia sul tavolo la birra che
stava bevendo e mi risponde «e che problema c'è? Anche io ero nel
gruppo di Bilbao». Oh santo cielo, un altro che fa il bagno con le
appendici pendule di fuori.
Mi devo arrendere, i cechi hanno un rapporto con la nudità che si
scontra con il mio. Al mio paese la nudità è considerata in un modo
molto diverso. Quando ero piccolo mi capitava di dormire a casa di mia
nonna, in campagna; avevo cinque o sei anni, ma mi ricordo
distintamente che la nonna mi faceva lavare in due tempi: prima “la parte
sotto”, poi mi rivestiva, e solo dopo toglievo la maglia per lavare “la
parte sopra”. Diceva che era per non farmi prendere freddo, ma il vero
motivo era un altro: «si fa peccato a stare completamente nudi!».
Sono cresciuto con il più intimo convincimento che la nudità è da
evitare. Perché è peccato, perché è vergogna, perché certe cose non si
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fanno vedere. È per questo che sono rimasto stravolto quando sono
venuto a contatto con la realtà della nudità ceca. Tutte le mie certezze si
sono infrante.
In realtà mi ero accorto di questa passione dei cechi per lo smutandarsi
senza problemi tre anni prima di quella sera in birreria. Mi trovavo a
Praga per la prima volta come studente Erasmus. Un pomeriggio i miei
coinquilini finlandesi mi hanno invitato ad andare alla piscina di Podoli,
un quartiere a Sud di Praga. Dopo quell'esperienza avrei maledetto i
finnici: la piscina era all'aperto, ed era Dicembre (per loro un
godimento). Aymeric, l'altro coinquilino francese, li avrebbe maledetti
per un altro motivo. Quando siamo entrati nello spogliatoio rimase
sconvolto, ma non disse nulla; si vedeva che era nervoso e si cambiò in
fretta e furia. Non pensate nulla di male, era un normale spogliatoio ceco,
dove tutti girano nudi senza farsi problemi. Dove non esistono le cabine
per cambiarsi e perciò ci si cambia davanti a tutti. Per il mio amico
francese era roba da scandalizzarsi, e anche per me (cresciuto con la
nonna moralizzatrice) non era da meno. L'argomento rimase tabù fino
all'uscita dalla piscina; mentre tornavamo a casa in tram, Aymeric si fece
coraggio e cominciò la discussione. «Ma scusate, ai vostri paesi quando
si va in piscina, si gira per lo spogliatoio tutti nudi con le cose penzoloni
tra le gambe? In Francia almeno ci sono le cabine». I finlandesi – abituati
a fare la sauna nudi, maschi e femmine insieme – si misero a ridere; io
invece lo capii.
Sì, perché mi ricordo ancora quando andai per la prima volta alla
piscina di Lecco, dopo la ristrutturazione. Era comparso un cartello «È
severamente vietato fare la doccia senza il costume». Se siete cechi vi
lascio trenta secondi per ridere (la consueta reazione quando racconto di
questo cartello). Alla piscina di Podoli infatti il cartello è esattamente
opposto “Prima di entrare in piscina si deve fare la doccia senza il
costume”.
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Se ci ragiono capisco che il cartello ceco ha molto più senso: prima di
entrare in piscina bisogna lavarsi per bene, e ciò si può fare solo se si
toglie il costume per lavarsi le parti meno pulite del corpo. Ma il cartello
della piscina di Lecco si scontrava col senso del pudore della gente del
luogo. L'ultima volta che ci sono stato è comparso un altro cartello «È
vietato girare nudi per lo spogliatoio. Servirsi delle cabine a rotazione».
Se siete cechi vi lascio un altro minuto per ridere. E questa volta ho riso
anch'io; ormai, dopo due anni di piscina ceca, anche per me era normale
la nudità in spogliatoio e quel cartello mi sembrava ridicolo. A quel
punto, invece di chiamarlo spogliatoio lo si poteva chiamare vestitoio.
Probabilmente non riuscirò mai ad essere come i cechi, che si
denudano senza problemi, maschi e femmine, amici e fidanzati tutti
insieme. Probabilmente resterò sempre sconvolto dai racconti come
quello di Mima. Ma almeno non ho più quel senso di pudore che adesso
sembra ridicolo anche a me; adesso posso andare in piscina e non ho
vergogna di spogliarmi davanti a tutti. Un pezzettino di me è diventato
ceco.
Ho riflettuto molto (si vede che non ho nulla da fare, vero?) sul
motivo per cui i cechi hanno questo rapporto così libero con la nudità. Se
devo essere sincero non ho trovato una risposta. All'inizio pensavo fosse
dovuto al fatto che i cechi non sono religiosi, e perciò non sentono sulle
spalle il peso del “peccato di nudità”, come mi ha inculcato mia nonna.
Poi mi sono dovuto ricredere; un giorno infatti sono andato in piscina
con un gruppo di amici cattolici, una rarità in questo paese. I cattolici
cechi sono pochi ma strettamente osservanti, non come gran parte dei
cattolici all'acqua di rose del mio paese natio. Pensavo quindi di vederli
tutti pudorosi che si cambiavano alla velocità della luce per non far
vedere le “brutte cose”. E invece si sono comportati come tutti gli altri
cechi presenti: nudi come vermi che facevano con calma la doccia in
compagnia, senza pudore nel mostrare i propri strumenti di battaglia.
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Quindi non era un problema di religiosità. Ma allo stesso tempo non era
nemmeno dovuto a uno spirito libertino: nel racconto di Mima non c'era
malizia. I cechi non si spogliano per esibizionismo, o per
anticonformismo, e nemmeno per pruderia. Probabilmente non si fanno
nemmeno problemi comparativi delle proprie appendici pendule (che in
effetti non sono correlate ad alcun merito/demerito). Per loro la nudità è
una cosa normale, come tante altre cose della vita. E in effetti, non riesci
a capire cosa ci sia di male ad essere nudi, e ad essere visti nudi.
Allora non riuscivo a capire perché i cechi avessero tutta questa libertà
nel mostrarsi nudi. Poi ho capito che il problema era opposto: ero io che
dovevo capire perché per il mio popolo, una cosa normale come la nudità
era così mal considerata.
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Jak se jmenuješ?
Quando un ragazzo impara un linguaggio di programmazione al
computer, la prima cosa che fa è imparare come si scrive a schermo
«Hello World!» con quel linguaggio. Qualsiasi guida o tutorial insegnerà
sempre e comunque questa cosa alla pagina uno (se state sorridendo, non
è un buon segno, vi avviso).
Quando invece si cerca di imparare una lingua straniera la prima frase
in assoluto che si impara è «Come ti chiami?», «Jak se jmenuješ?» per
l'appunto. Ovvio, siccome le lingue si imparano principalmente per
tacchinare le fanciulle straniere, se vogliamo conoscere una persona,
dobbiamo innanzitutto conoscerne il nome.
Per chi vive nella Repubblica Ceca questa domanda è quasi inutile:
senza peccare di ottimismo, tirando a indovinare quattro o cinque volte,
molto probabilmente indovinerai il nome della persona con cui stai
parlando senza chiederglielo. Questo perché i cechi hanno poca,
pochissima, fantasia nel dare il nome ai figli. Gran parte della
popolazione può essere raggruppata in pochi, banalissimi nomi, e ciò
vale sia per gli uomini che per le donne. Se stai parlando con un uomo
ceco molto probabilmente il tuoi interlocutore si chiama Jiři (Giorgio),
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Pavel (Paolo), Petr (Pietro), Michal (Michele), Tomaš (Tommaso). Se
invece parli con una fanciulla questa sarà una Marie (Maria), Alena,
Hana (Anna), Jana (Giovanna) o una Petra (che sarebbe il femminile di
Pietro, ma suppongo non si dica Pietra). Talmente poca fantasia che un
giorno ho chiesto a un mio amico come avrebbe chiamato suo figlio, che
sarebbe nato di lì a poco. «Be', se è maschio come me, e se è femmina
come mia moglie». «Ma così ti salta fuori una persona che ha
esattamente lo stesso nome e lo stesso cognome: che casino!» ho
obiettato io. «Ma anche no – mi ha risposto – tutto sommato per i
contratti c'è il numero di nascita (un po' come il codice fiscale), per la
posta ci sono i titoli davanti al nome, e quando qualcuno telefona a casa,
di solito capisci subito se cerca padre o figlio”. Va bene, ma scegliere un
nome diverso?
A questo punto voi probabilmente potrete domandarvi: ok, poca
fantasia, ma che male c'è? A dire il vero, la banalità ceca nel dare il nome
ai figli causa diversi problemi di ordine pratico.
Dopo poco tempo in Repubblica Ceca diventa un problema inserire un
nuovo contatto nella rubrica del telefonino. Quando inizi ad avere quattro
Petre inizia a farsi difficile identificarle quando devi chiamarne una. Voi
potreste dirmi di usare il cognome. Scordatevelo: i cognomi cechi sono
una delle cose più ostiche che esistano nella loro lingua. Se è vero infatti
che esistono cognomi facili da ricordare e pronunciare come Pravda e
Svoboda (che sono anche parole di senso compiuto, significano
rispettivamente “Verità” e “Libertà” - bei cognomi!), la gran parte degli
altri cognomi sono davvero impossibili. Un mio amico si chiama Třeštik:
dopo due anni che lo conosco ancora non sono capace di pronunciare
correttamente il cognome. Oltretutto il nome può essere quasi sempre
tradotto, ma un cognome no, e ciò rende quasi impossibile ricordarsi i
cognomi. Scartata quindi l'ipotesi di differenziare le Petre o le Jane che
conosco col cognome, devo per forza usare altri stratagemmi per
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abbinare un numero sul telefonino ad una persona. Ad esempio nella mia
rubrica ho la voce “Jana tram”, perché ho conosciuto questa Jana sul
tram.
Qualcuno a questo punto potrebbe obiettare: certo i nomi saranno
banali, ma di sicuro ci saranno i soprannomi. È vero, anche i cechi usano
i soprannomi, ma purtroppo sono banali anche con quelli. Una volta mi
sono ritrovato a dover chiamare un collega di nome Ondřej, e non essere
in grado di capire a quale dei tre Ondra (il soprannome per Ondřej) in
memoria corrispondeva.
I soprannomi cechi seguono una precisa codifica: un Pavel userà come
soprannome “Paja”, un Jiři sarà chiamato “Jirka”; un Ondřej “Ondra”; un
Vladimir “Vladia” e un Miroslav “Mirek”. Il sistema è fin troppo banale:
anche senza sapere il soprannome corretto, con un piccolo sforzo si può
indovinarlo. Ad esempio la finale “ek” è tipica del vezzeggiativo, quindi
Mirek è un piccolo Miroslav.
Capitolo a parte merita il soprannome di Jan: Honza. Forse l'unico
caso al mondo in cui il soprannome è più lungo del nome e non ha nulla
in comune con il nome d'origine (in realtà c'è una spiegazione: Jan
significa Giovanni, che in tedesco si dice Hans, da cui deriva Honza).
A chi pensa che un po' ovunque i soprannomi siano gli stessi,
chiarisco subito il punto: in Rep. Ceca sono veramente tutti uguali e usati
da tutti. Quindi, ogni Vojtěch avrà sempre come soprannome Vojta; ogni
Jan sarà sempre chiamato Honza. Facile da ricordare, ma assolutamente
inutile per differenziare gli amici sul cellulare. L'unica eccezione è il mio
amico Matěj: in realtà il suo nome è Jan, perciò sarebbe un Honza, ma
siccome conosce una mezza dozzina di Honzi (la fantasia ceca nel dare i
nomi già citata...) si fa chiamare Matěj per differenziarsi (in realtà Matěj
è abbreviazione del cognome Matejů).
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Escluso il problema della memorizzazione sul cellulare degli amici, la
tipica banalità ceca nel dare il nome ai figli ha serie ripercussioni nei
rapporti personali di uno straniero in Rep. Ceca. Detto più
semplicemente: mi dimentico i nomi. Ricordarsi un nome particolare è
facile, ma ricordarsi che a quella faccia corrisponde un banale Petr,
diventa difficile.
Spesso quindi, conosco persone da anni, e – lo confesso con un po' di
vergogna – non ne conosco il nome. In realtà ho risolto il problema
salutando le persone con l'espressione “vole” (è il vocativo di “vůl”,
ossia bue). Chiamare un amico vole, equivale a chiamarlo “socio” (o per
i più giovani “zio”). In realtà non è molto educato, ma almeno mi salvo
in corner quando mi dimentico i nomi.
Non pensiate però che il mondo dei nomi cechi mi crei solo problemi.
Ci sono altri due elementi interessanti nella scelta dei nomi cechi. Il
primo è quello dei nomi desueti, che quantomeno provoca curiosità.
Molti infatti dei nomi più comuni sono nomi quasi scomparsi in altri
paesi. Pensate al già citato Vojtěch, nome difficile da tradurre, ma che in
verità corrisponde ad Adalberto. Di Vojtěch ne ho incontrati qualche
decina a Praga: trovatemene uno a Milano e cento punti sono vostri
(persone con più di novant'anni non valgono). Discorso analogo per i
moltissimi Vladimir (che forse a noi ricorda più che altro il conte
Dracula), Václav (Venceslao) o Stanislav (Stanislao, l'unico che
conoscevo con questo nome era un magistrato che di questi tempi
dovrebbe andare per i novant'anni: fa impressione vedere un bambino
con questo nome!).
L'altro aspetto riguarda i nomi moderni: da anni ormai ci siamo
abituati alle ondate di nomi stranieri portati dai telefilm americani, o da
altre insanie di moda in quel periodo. E così i genitori hanno iniziato a
chiamare i figli Asia, Oceano, Jessica, Elvis (sì, conosco un bambino che
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si chiama Elvis. Elvis!!!). L'altro giorno un mio amico mi ha annunciato
di aver trovato la morosa; «come si chiama?» gli ho chiesto. «Brenda» è
stata la risposta. Speriamo sia almeno più intelligente dei suoi genitori.
Ecco, questo fenomeno non esiste tra i cechi. Anche i bambini del
giorno d'oggi vengono chiamati con nomi normali e non come le stelle
del cinema o della musica.
Sì, saranno nomi banali, ma se l'alternativa è chiamare il figlio
“Elvis”... viva la normalità!
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Batoh
Durante gli anni dell'università facevo il pendolare fra Lecco e
Milano. Vivendo a 50 km dalla metropoli, facevo parte di quella
categoria di studenti che non abitavano direttamente a Milano, ma
nemmeno abitavano talmente lontano da rendere necessario il
trasferimento, armi e bagagli, nella capitale lombarda. Così ogni giorno
mi toccava alzarmi alle sei del mattino per andare in stazione e prendere
il treno diretto a Milano. Viaggi lunghi (troppo) e vissuti da solo, quindi
pesantemente noiosi.
L'ultimo giorno della settimana rappresentava l'eccezione. I miei amici
e colleghi di studio della Valtellina prendevano lo stesso treno per tornare
in Valle. Abitando distante da Milano, praticamente tutti avevano
affittato un appartamento (o spesso una camera, o meglio, un letto su cui
appoggiare la testa), nella metropoli lombarda. Io un po' li invidiavo, a
quell'età vivevano già da soli! Ma soprattutto un ricordo è ben stampato
nella mia mente: li invidiavo per il loro trolley!
No, non prendetemi per pazzo. Quando andavamo insieme in stazione,
i valtellinesi avevano tutti (tutti!) il trolley (pieno di vestiti che la
mammina avrebbe poi lavato e stirato per il proprio bambino).
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Mi è sempre sembrato un oggetto fantastico, con quelle rotelle e il
manico estraibile! Li vedevo mentre trascinavano con leggiadria il loro
trolley; un dito bastava per muovere tanti chili. Ne ero talmente
affascinato che appena ho potuto mi sono comprato un set completo di
tre trolley. Anche se non mi servivano.
Probabilmente vi starete chiedendo cosa c'entri tutto ciò con i cechi e
le loro usanze. È presto detto: la mia passione per il trolley si è subito
scontrata con la tradizione ceca. Eh già, cosa credete che nelle tradizioni
dei popoli ci siano solo le cose importanti, la lingua, la religione etc? No,
ci sono anche i dettagli, a prima vista insignificanti. Il tipo di valigie
usate da una popolazione sono uno di questi. Per farla breve, un ceco
giammai usa il trolley! Soprattutto se è sotto i trent'anni.
Un ceco usa il Batoh, che non è la capitale di uno stato del Sud-Est
asiatico. Batoh significa zaino; il caro e vecchio zaino, quello che si
carica in spalla. Oggi ormai sono diventati degli strumenti meravigliosi:
hanno schienali rinforzati e imbottiti, cinghie che scaricano il peso sulle
anche senza forzare le spalle. Insomma non sono più solo sacche di tela
da caricarsi in spalla, sono dei veri concentrati di tecnologia a cui in ceco
non rinuncia quando deve viaggiare.
Sia chiaro, non sto parlando solo dei viaggi in cui usare uno zaino è
normale. In effetti se vedete qualcuno che si presenta con il trolley per
andare ai monti, è evidente che c'è qualcosa che non quadra. In quel caso
è naturale usare lo zaino.
La differenza è che i cechi lo zaino lo usano sempre, anche in quelle
situazioni dove per noi è strano e inusuale. Prendete ad esempio un
viaggio in aereo: mentre tutti noi ci presentiamo con valigia (al giorno
d'oggi sempre dotata di ruote – ne ho visto un modello che ne aveva
otto!) un ceco, anche all'aeroporto arriva con il suo zaino.
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Le prime volte che vedevo gli zaini arrivare sul rullo dei bagagli, mi
sembrava che ci fosse qualcosa che non quadrava. Cosa ci faceva uno
zaino mischiato tra tutte quelle valigie ruotate? Poi ho capito a cosa era
dovuto il sentimento di inadeguatezza nel guardare lo zaino. Lo zaino
“sta male” in un aeroporto, perché l'aeroporto è per definizione il luogo
dei ricchi.
Deriva tutto da quando in aereo volavano soltanto le persone che
avevano i quattrini per comprarsi i costosissimi biglietti aerei dell'era
pre-low-cost. Oggi invece viaggiamo ormai tutti, visto che in molte
occasioni l'aereo è diventato perfino il mezzo più economico per
muoversi. Nonostante ciò l'aeroporto rimane sempre un posto di classe;
se ne volete una riprova provate a guardare il tipo di negozio che
incontrate prima di imbarcarvi: profumerie, gioiellerie...
È ovvio dunque: una persona che passa da un aeroporto col proprio
zaino sulle spalle, anziché un fighissimo trolley, risulta stonato, fuori
situazione. Un po' come presentarsi a teatro con le infradito.
Ma probabilmente ai cechi queste convenzioni importano poco, e agli
aeroporti arrivano sempre con lo zaino in spalla. Potete fare un
interessante esperimento a riguardo. Se vi capiterà di prendere un volo
diretto in Repubblica Ceca, aprite bene le orecchie al ritiro bagagli.
Quando vedrete uno zaino arrivare sul nastro, cercate di individuare chi
lo prende (si spera sia il proprietario!) e cercate di ascoltare che lingua
parla. Io l'ho fatto più volte e non sono mai smentito: lo zaino appartiene
sempre al ceco.
Badate bene, non sto certo parlando di poche persone, quella dei cechi
per lo zaino è una vera mania. Una volta mi è capitato di vedere una
giovane famiglia sulla metropolitana a Praga. Lui, lei – non oltre i
trent'anni- e i due piccoli figli in passeggino. Ognuno dei due genitori
portava un figlio e un enorme zaino sulle spalle. Mi sono quasi
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spaventato vedendo la madre con quel carico: temevo si ribaltasse
all'indietro!
La chiamo mania anche perché c'è una sorta di feticismo dei cechi
verso lo zaino. Quando comprai il mio, lo mostrai a Mima chiedendo «ti
piace il mio nuovissimo zaino?». Mi aspettavo un «sì, bello». Invece si
avvicinò e lo esaminò attentamente facendone una recensione completa,
notando tutti i dettagli (come la possibilità di regolare l'attacco delle
cinghie per le spalle) che io nemmeno avevo notato.
Per anni mi sono chiesto a cosa fosse dovuta questa mania dei cechi
per lo zaino. Avevo appena fatto il salto sociale comprando il trolley dei
desideri, potevo finalmente sentirmi come tutti gli altri (un po' di sano
conformismo), quando mi sono trasferito in Rep. Ceca e tutti gli altri
intorno a me erano cambiati. Dannazione, perché tutti i cechi usavano lo
zaino?
All'inizio pensavo fosse dovuto al fatto che da queste parti non
esistessero i trolley. Ipotesi subito scartata dopo una visita al centro
commerciale, e dopo aver notato che invece il trolley è usato dai cechi
avanti con gli anni.
Allora ho pensato fosse dovuto a una sorta di spirito di backpacking
che aleggia sul popolo ceco. Questa inizia ad essere una spiegazione più
plausibile. Il ceco è abituato a viaggi spartani, a gite in cui si bada
all'essenziale. Di solito i cechi usano i mezzi pubblici, e non faccio fatica
ad immaginare la famigliola di prima che viaggiava verso chissà dove,
portando nei due zaini dei genitori tutto il necessario per chissà quanto
tempo. Una sorta di famiglia on the road. Nella stessa situazione due
genitori dei nostri non viaggerebbero mai - con due bambini così piccoli
– usando i mezzi pubblici.
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Conosco cechi che hanno superato i trent'anni e ancora viaggiano
alloggiando negli ostelli; quando mi sono permesso di dire qualcosa tipo
«insomma...a quell'età ... ancora all'ostello?» mi è stato risposto «quando
sentirò il bisogno di andare all'hotel vorrà dire che sono diventato
vecchio». Lo spirito backpacking non è quindi da escludere.
Ma forse il vero motivo per cui il ceco viaggia con lo zaino è il più
ovvio e per questo meno immediato: lo zaino è dannatamente comodo.
L'ho capito poco prima della mia conversione allo zainismo ceco, nel
Settembre 2007. A quel tempo mi recai in Galles per una conferenza
insieme a tre amici cechi. Io con il trolley, loro tre invece con lo zaino.
Mentre ci spostavamo dalla stazione all'alloggio, io continuavo a
rimanere indietro mentre i miei amici cechi zaino-dotati mi precedevano;
poco dopo ho capito il motivo. Ciò che mi handicappava era il mio
trolley: ad ogni marciapiede era un disastro, dovevo lasciare il manico ed
afferrare la maniglia per sollevarlo. Ogni tratto di strada in cui l'asfalto
lasciava spazio al porfido era una tragedia, se non volevo rovinare il mio
preziosissimo trolley dovevo drasticamente ridurre la velocità per evitare
pericolosi ribaltamenti.
Fu allora che guardai i miei amici cechi con invidia per la loro
indipendenza. Se viaggi con lo zaino ti basta caricartelo sulle spalle e
camminare. Non ci sono ciottolati, scale o altro ad impacciarti la vita. La
capienza limitata (sui 60-80 litri) ti porta automaticamente a ridurre il
bagaglio a quello che realmente serve; se usi uno zaino non avrai
problemi di sovraccarico bagaglio al check-in!
Per finire, lo zaino ti lascia le mani libere, per aggrapparti ai sostegni
della metro o per condurre il passeggino. Ecco, finalmente avevo capito
tutto, ero stato illuminato dallo zainismo ceco!
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Appena tornato a Praga corsi a comprare il mio zaino, che da allora mi
accompagna nei miei viaggi. Da quel giorno un altro pezzetto di me si è
cechizzato. Ho sentito che per ottenere la cittadinanza ceca bisogna
sostenere un test di lingua ceca. Probabilmente, anche se nessuna fonte
ufficiale lo confermerà mai, controllano anche se arrivi all'esame con uno
zaino.
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Alcool, amico alcool
Uno dei maggiori vantaggi che si hanno nel vivere in Rep. Ceca è
quello che non bisogna svenarsi per bere una birra. La più banale e
inflazionata delle frasi che mi dicono quando racconto di vivere a Praga,
riguarda infatti la birra: «beato te, che puoi berti un'ottima birra a poco
prezzo». La cultura birraiola ceca è infatti una delle poche cose corrette
che gli stranieri sanno di questo paese. Quello che invece è un po' meno
noto è il vero rapporto dei cechi con l'alcool.
Innanzitutto c'è il fattore costo: il prezzo così basso della birra può
essere contestato da chi ne vede un incentivo all'abuso, soprattutto da
parte di giovani. Ed è vero; che i giovani bevano tanta birra è
indiscutibile. Ma è questo “il male”?
Ecco, noi siamo abituati a vedere il consumo di alcool come qualcosa
di sbagliato, quasi peccaminoso. Quelli che non lo vedono peccaminoso
(perché banalmente amano bere) quantomeno vedono nell'alcool un
aspetto di trasgressione, di bella vita, di “e godiamocela!”.
Per i cechi invece l'alcool è come una matita o un ferro da stiro. È una
cosa normale e diffusa, tanto che nessuno si scandalizza per l'uso (o
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abuso) di alcool. Bere alcool o bere acqua è tutto sommato la stessa cosa
– escludendo che nei locali pubblici l'acqua costa di più della birra. Tanti
atteggiamenti che in alcuni paesi sarebbero considerati inappropriati,
sono invece considerati normali in Repubblica Ceca (e fanno sgranare gli
occhi a quelli come me). Una volta mi sono trovato a un incontro
pubblico di Karel Schwarzenberg, ministro degli esteri della Repubblica
Ceca e senatore di Praga 6, proprio dove abito io. Per ricordare ai suoi
elettori quanto si occupa di loro, aveva organizzato questo incontro
informale in una elegante sala da ballo, trasformata per l'occasione in
sala civica. Siccome mi interessava vedere da vicino il rapporto dei cechi
con la politica (e un po' anche perché – diciamolo – quel pomeriggio
avevo poco da fare), mi sono imbucato alla conferenza. Già ero rimasto
stupito quando arrivai un quarto d'ora prima dell'inizio, e vidi che i
partecipanti al ritrovo mandavano giù tanti bei boccali di birra. Capisco
ad un incontro conviviale, ma ad una conferenza con il ministro degli
esteri non mi sembra che sia educato farsi vedere mentre si beve, benché
fosse estate e una bella birra passava giù che era un piacere (ovviamente
non mi sono tirato indietro).
Ogni mio dubbio è poi caduto quando è arrivato il Sen.
Schwarzenberg: non appena si è seduto al banco degli oratori
un'assistente gli ha subito posato davanti un bel mezzo litro di Pilsner.
Che egli non ha mandato indietro. Sembra che l'unico stupito della cosa
fosse il sottoscritto: a un conferenziere si porta la mezza minerale, non la
birra! Sicuramente al mio paese considererei maleducato un senatore che
si presenta in pubblico, sorseggiando una birra tra una risposta e l'altra.
Se penso perché, onestamente non riesco a trovarne il motivo. Forse è
dovuto al fatto che all'assunzione di alcool viene associata
automaticamente l'ubriacatura, o comunque la non completa padronanza
delle proprie facoltà mentali. E in effetti un ministro che si ubriaca sul
palco non sta molto bene. Probabilmente è proprio questo il motivo, lo
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stesso per cui i cechi non considerano offensivo lo stesso gesto. Sono
talmente abituati a bere che possono scolarsi litri e litri di birra senza
ubriacarsi (o senza darlo troppo a vedere!). Mi ricordo di una volta,
quando mi trovavo in uno sperduto villaggio del Sud Boemia insieme ad
alcuni amici per una gita in canoa. È una tipica attività in Repubblica
Ceca: con zaino e tenda sulle spalle, si prende il treno per portarsi
lontano dalla città, dove si noleggia la canoa. Si pagaia un paio di giorni
dormendo in tenda dove capita e mangiando in qualche osteria alla
buona. Proprio la sera del primo giorno siamo andati a mangiare e bere
qualcosa all'unica osteria del paese. Oddio, più che un'osteria era meglio
definirla una bettola: quando ho chiesto cosa avevano da mangiare mi
hanno risposto che il menù comprendeva solo due piatti freddi! Ho
quindi compensato col beveraggio: in effetti, mi sono bastate quattro
birre per iniziare a cantare. Venuto il momento di pagare dichiaro al
cameriere quello che avevo preso (da queste parti non si paga alla
romana; funziona che il cameriere scrive cosa prendi su un foglietto: a
turno ognuno dice quali sono le sue consumazioni e paga il suo,
facendole depennare dal foglietto). Un amico di un amico quando sente
che avevo bevuto solo quattro birre rimane dubbioso «non ci credo che
ha bevuto solo quattro birre, non può essere ridotto in quella maniera». Il
mio amico l'ha rassicurato: «è fatto così, non è mica ceco!». Forse
l'abitudine di bere così tanto, ha reso i cechi molto più resistenti
all'alcool, così che non si associa automaticamente l'alcool
all'ubriacatura. Viene quindi a cadere quell'alone di “male” attorno
all'alcool.
Il fatto che l'alcool sia socialmente accettato, l'ho percepito in tante
altre occasioni. Mi è capitato a volte di andare a incontri organizzati da
associazioni cattoliche. Anche in quei casi la birra scorreva a fiumi.
Magari non lasciavano fumare: ho visto un ragazzo che accendeva la
sigaretta fuori dalla sala, ed un sacerdote gli ha chiesto di allontanarsi
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almeno cento metri! Ma se per il fumo c'era un comportamento
restrittivo, niente problema per la birra. Ho visto addirittura una ragazza
Down che gustava il suo boccale di birra. E l'ho incontrata in coda al bar
due volte quella sera; presumibilmente non erano state le uniche. Per
inciso, il barista non ha battuto ciglio quando gli ha chiesto la birra
alcolica (c'era anche l'analcolica, ovviamente). Che dire, fa senso vedere
che anche una ragazza Down, che fa tenerezza mentre apre il borsellino
ed estrae le monete, contandole per bene, invece di comprare le
caramelle o le patatine si compra (e si gusta, perché sì, si gustava) la sua
birra.
Ma non è certo stato l'unico episodio che mi ha lasciato a bocca
aperta. Una volta ero a Tabor ed ho visto due suore sedute a un tavolino
davanti a una birreria, che si bevevano la loro bionda media. Non ho
resistito alla tentazione ed ho estratto la macchina fotografica per
documentare quello che altrimenti nessuno avrebbe mai creduto. Mi sono
nascosto dietro a un'edicola lì vicino e ho preparato la macchina
fotografica. Poi sono sbucato all'improvviso ed ho scattato una foto alle
suore birraiole. Be', una ha comprensibilmente cercato di nascondersi,
mentre l'altra ha allegramente alzato il bicchiere di birra! Passato qualche
giorno ho incontrato il mio amico Petr, e gli ho raccontato questo
episodio: «oh, ma lo sai che ho visto due suore che bevevano birra?», e
mi aspettavo una risposta tipo «No, davvero? Non ci credo ma
neanche...». Invece Petr mi ha guardato con fare dubitativo tipico di chi
non ha capito il punto della questione: «E allora?». «Ma come? Una
suora non può mica mettersi a bere alcolici così, apertamente facendosi
vedere da tutti» gli ho spiegato. Ma lui non capiva «Anche mia zia è una
suora, e beve la birra come tutti. Che problema c'è?». Niente, non c'era
verso di capirsi, il tipico caso di scontro di mentalità. Per i cechi l'alcool
non è “il male” e non si fa niente di male a berlo; anche il concetto di
trasgressione viene a cadere.
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C'è addirittura una canzone dei “Divokej Bill” un gruppo rock che si
intitola proprio “Alkohol” che recita proprio “Alcool, amico alcool”, in
pratica un inno all'alcolismo. Quando questo pezzo parte nei concerti
iniziano tutti a cantare in coro insieme alla band. In qualsiasi paese che
non si chiami Repubblica Ceca, probabilmente avrebbero censurato la
canzone, come diseducativa. Qualche deputato, che non ha niente di
meglio da fare, nei momenti liberi tra un'orgia a base di cocaina e l'altra
avrebbe fatto un'interrogazione parlamentare a un ministero a caso per
sapere se era lecito a un complesso musicale dare questi messaggi
diseducativi alle nuove generazioni. In Repubblica Ceca, no.
Eppure anche nella nostra terra il vino ha sempre rappresentato una
parte importante della nostra cultura. Basti pensare ai tantissimi vini di
qualità che ci invidiano in tutto il mondo. Ed anche la cultura popolare fa
la sua parte: come non citare i mitici alpini che del vino fanno
carburante. Non ho mai preso l'abitudine di bere il vino a tavola, come
invece fanno i miei genitori. A un certo punto quando avevo sui 16-17
anni mia mamma continuava a ripetermi «Ma su, perché non bevi il tuo
mezzo bicchiere di vino: come devi fare a far l'alpino». Certo, perché
ovviamente un ragazzo che non beve non può fare l'alpino! Ciò
nonostante, benché sia cresciuto in una famiglia wine-friendly, i miei
genitori hanno sempre avuto un giudizio negativo dell'alcool, quando
andava oltre il bicchiere di vino a tavola.
E allora mi chiedo quale sia la differenza. Perché invece, nella cultura
ceca non c'è il limite? Perché il bere – anche tanto – non è visto poi così
male? Mi viene da pensare a quello che fece mia nonna. Era appena
finita la seconda guerra mondiale e il suo fidanzato era arrivato sano e
salvo in paese. Per festeggiare era andato all'osteria e si era ubriacato:
purtroppo per lui mia nonna passò davanti all'osteria e lo vide in quella
condizione. Lo piantò in asso: non tollerava gli ubriaconi. Nella
situazione specifica poteva essere anche un po' tollerante, ma in generale
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la capisco: una volta gli uomini andavano all'osteria la domenica
pomeriggio, si ubriacavano e c'era chi litigava e faceva a botte
direttamente sul posto, e chi arrivava a casa e picchiava moglie e figli.
L'alcool era visto come la causa di tanta violenza, che si scatena negli
ubriachi. Forse è proprio per questo che per noi gli alcolici hanno
sempre e comunque uno sfondo di considerazione negativa, che resiste
alla cultura di quelli che fanno nei fine settimana i corsi di sommelier
(per poi atteggiarsi da esperti alle cene di Natale coi parenti: da prenderli
a sberle) o all'avanzata dei fighetti che passano il Venerdì sera nelle
wine-house very very cool.
In Repubblica Ceca invece la cultura alcoolica ha mantenuto un livello
ancora molto popolare, senza però essere considerato negativamente per
via della violenza dell'ubriacatura. E ciò è probabilmente dovuto al fatto
che i cechi sono principalmente ubriachi allegri, non ubriachi violenti.
Un ceco ubriaco è difficilmente cattivo; mi è capitato diverse volte di
salire su un tram nel pieno della notte e di trovare diverse persone
completamente ubriache, eppure nessuno si è mai comportato in modo
violento, nessuno ha mai scatenato una rissa. Il più delle volte si mettono
a sedere e si fanno passare la sbronza. Se si esclude allora la violenza tra
gli effetti dell'ubriacatura allora rimane poi ben poco di negativo da
imputare all'alcool.
Se qualcuno ha ancora dei dubbi sulla normalità alcolista di questa
gente, consiglio di farsi un giretto insieme a una compagnia di cechi. Mi
ricordo di una volta che ero stato invitato da una mia amica a vedere un
concerto in Staroměstské náměstí (la piazza della città vecchia) a Praga.
Siamo partiti da Strahov in cinque persone: tutti cechi tranne il
sottoscritto. Be', dopo cinque minuti, mentre scendevamo la collina di
Petřín per arrivare in centro, la mia amica apre lo zainetto e prende una
bottiglia di plastica, una di quelle dell'acqua minerale usata e riusata
diverse volte (del tipo che l'etichetta è ormai consumata). «Cosa hai
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portato di buono?». «Slivovice, fatto in casa da mio zio» mi risponde lei.
Lo Slivovice è una specie di grappa ceca: soprattutto in Moravia c'è una
gran tradizione nel farsi lo Slivovice in casa. Sarà anche illegale, ma
sembra che nessuno ci faccia troppo caso. Un ceco guarderà con orrore
lo Slivovice comprato nel negozio: quello è un prodotto industriale senza
qualità. Un vero ceco va in giro con la bottiglia nello zaino riempita con
lo Slivovice fatto dal cugino o dall'amico del papà. È visto anche un po'
come motivo di vanto, il fatto di avere lo Slivovice artigianale da bere.
Anche lo Slivovice della mia amica era davvero buono, e ovviamente
non mi sono tirato indietro. Ovviamente le ho chiesto, se era normale per
una ragazza andare in giro a bere la grappa dalla bottiglia di plastica fatta
passare tra gli amici (mettiamola così, c'è chi si passa la canna, e c'è chi
si passa la bottiglia di grappa). E lei mi ha raccontato di come lo
Slivovice sia in realtà una sorta di medicina. Quando era piccola, abitava
in un paesino di campagna, parecchi chilometri distante dalla più vicina
farmacia. Una volta prese una brutta influenza e la madre la portò dal
medico, il quale le prescrisse alcuni medicinali. Ovviamente la mamma
fece presente al medico che non potevano andare a prendere quei
medicinali, perché la farmacia era distante. La risposta del medico fu:
«allora le dia latte e slivovice». E funzionò! Di solito i cechi ti dicono
che lo Slivovice è talmente forte che brucia tutto, microbi compresi. Non
so se questa tesi ha un qualche fondamento medico, ma per i cechi non ci
sono dubbi.
***
A questo punto qualcuno potrebbe pensare che mi sono perso nei
vicoli della perdizione e passo le mie giornate insieme ad amici di infimo
livello dediti per lo più all'alcolismo. Per sgombrare il campo da ogni
dubbio, devo specificare che ho potuto osservare l'amore per l'alcool
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anche in persone “per bene” (se mai si potesse dare una definizione di
tale persona).
Mi ricordo di quella volta che stavo viaggiando in treno da Praga con
destinazione Budapest, per una conferenza scientifica. A Brno ci ha
raggiunti Paja, un collega moravo diretto alla stessa conferenza. Un
ingegnere, un ricercatore, insomma, non sto parlando di un alcolista ai
margini della società. Appena salito sul treno per prima cosa ha sistemato
la valigia sulla cappelliera, e subito dopo ha aperto lo zaino e preso la
classica bottiglia di plastica riutilizzata come biberon alcolico da viaggio.
«Vuoi un sorso?» . «Be', mi piacerebbe capire anche di che si tratta» gli
rispondo, visto che il liquido era abbastanza torbido e non ispirava
fiducia. Ho così scoperto che era una specie di vino novello, anche se
forse non è nemmeno corretto chiamarlo vino, visto che non era ancora
fermentato completamente. Diciamo che era metà vino e metà ancora
mosto. Un succo d'uva, che si è rivelato gradevolmente dolce, con una
gradazione alcolica interessante (oddio, questa frase fa il paro con i deliri
dei sommelier dal gusto “rotondo”!).
Be', per farla breve, io ho bevuto solo un sorso, mentre lui ha fatto
tutto il viaggio da Brno a Budapest, bevendo il vinello (per inciso,
quando è salito sul treno erano le dieci del mattino, e beveva).
Ora, uno può anche chiedersi se questa gente fa colazione con gli
alcolici. Ed è quello che mi sono chiesto la mattina dopo quando mi sono
svegliato e ancora nel dormiveglia ho visto Paja che beveva da una
bottiglia. «Oh, ma cos'è, stai ancora bevendo quel vino di ieri? Sono le 7
del mattino!». «No, è solo acqua». «Ah, per fortuna è solo acqua». «Sì,
purtroppo il vino l'ho finito». Altrimenti...
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7 Giugno 2009. Sono al quartier generale dell'ODS, il partito di
Topolanek, per una corrispondenza sui risultati delle elezioni politiche.
Sugli schermi passano le immagini in diretta di ČT24, dalle sedi degli
altri partiti. Nell'immagine il collegamento con la sede del KDU, il
partito cristiano. Mentre la giornalista si rivolge al politico, sullo sfondo
un sostenitore non ha vergogna a farsi riprendere col bicchiere di vino in
mano.
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Parco ceco
Un parco ceco è un luogo dove fare una passeggiata (se passate dal
Nord Boemia vi consiglio Český ráj, per esempio). Un ceco parco, è
semplicemente un ceco. Nel senso che un ceco è generalmente parco.
Voglio dire: parco inteso come aggettivo, ossia frugale.
I cechi infatti sono persone parsimoniose, che cercano sempre di
risparmiare e stanno attenti a non sprecare. Spesso quindi noto
atteggiamenti che in tanti paesi sarebbero considerati da pezzenti e che
invece in Repubblica Ceca sono considerati assolutamente normali.
Bisogna stare attenti però a non confondere questa caratteristica
parsimonia dei cechi con la povertà. Molti stranieri infatti pensano che la
Repubblica Ceca sia un paese povero; talmente povero che non si può
nemmeno permettere un nome ma solo un aggettivo (si dice infatti
Repubblica Ceca e non Cechia, anche se ultimamente si sta diffondendo
sempre più tra i cechi l'usanza di chiamare il proprio paese Česko, a mo'
degli altri paesi come Polsko, Slovensko...). La Repubblica Ceca ormai
non è più un paese povero, benché gli stranieri “dell'ovest” lo pensino
ancora. Una volta ero a tavola con parentame vario, e uno zio mi ha detto
«mah, non so se io vivrei in quel posto antico». Per “antico” pensava
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“povero”, arretrato. Pensava alla Cecoslovacchia di vent'anni fa; non si è
accorto che il tempo passa, e che in alcuni paesi passa più alla svelta.
Forse quelli che hanno qualche anno in più e che hanno vissuto gli
anni prima del 1989, si ricordano le differenze che c'erano tra l'Europa da
una parte e dall'altra della cortina di ferro.
Per chi invece è giovane e non se lo ricorda, vale ricordare il racconto
di quel mio amico che mi descriveva il viaggio a Parigi dei suoi genitori,
pochi mesi dopo la rivoluzione di velluto, quando le frontiere si aprirono
e finalmente divenne facile per i cechi viaggiare all'estero. Mi raccontava
infatti che i suoi genitori partirono la sera con il pullman, trascorsero la
notte a bordo, per arrivare a Parigi la mattina. Giornata trascorsa a
visitare la città, e partenza la sera, dormendo un'altra notte a bordo del
pullman. «Santo cielo, era il caso di fare un tour de force simile? Non
potevano passare una notte in albergo?». «No» mi ha risposto «pensa che
per i miei genitori a quel tempo, bere un caffè a Parigi corrispondeva a
spendere quello che guadagnavano in una giornata di lavoro. Di passare
una notte in albergo non se ne parlava nemmeno». E così mi immagino i
genitori del mio amico seduti sulle panchine degli Champs Elisee che
mangiano i panini avvolti nella stagnola e bevono la minerale portati da
casa.
Racconto analogo quello del rettore della mia Università: una volta mi
raccontò dell'unico viaggio che fece “ad Ovest” con la moglie, prima del
1989. Presero la macchina e viaggiarono in Germania, Francia e italia.
Non potevano permettersi di pagare una camera in albergo, perciò
dormivano in macchina. Quando arrivarono in Francia andarono in un
campeggio: «ci sembrava di essere dei Re perché finalmente non
dormivamo più in macchina». Racconti che fanno quasi tenerezza, ma
che appartengono al passato.
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Ormai la povertà non esiste più da un pezzo da queste parti. Notizia al
popolo: non si fa più la coda per le banane. Non bisogna andare al
mercato nero per trovare i generi alimentari. La gente non deve
impegnare i denti d'oro per mettere insieme il pranzo con la cena.
Certo, c'è tanta gente che fa fatica a sbarcare il lunario, soprattutto
lontano dalle città, dove gli stipendi sono sensibilmente minori. Ma di
gente che fa fatica a tirare avanti ce n'è ovunque. Basti guardare quanta
gente ormai si reca alle mense dei poveri nell'opulenta Lombardia;
persone – beninteso – che non rientrano nella categoria del classico
“povero”, ma sono normali lavoratori e pensionati che non arrivano a
fine mese.
Se si escludono quindi questi casi, comuni a tutti i paesi, in generale la
gente non se la passa male: i tempi della povertà sono ricordi ormai (se si
ha voglia di lavorare, ovvio).
Tuttavia, il turista che arriva a Praga non potrà non notare alcuni
dettagli che potrebbero essere fuorvianti, e far pensare che in questo
paese ci sia ancora una profonda povertà. Un giorno ero a spasso per
Praga con una persona che mi era venuta a trovare. Era arrivata nella
capitale ceca da poche ore, eppure uno sguardo attento alle strade le ha
fatto dire «Oh, ma che macchine schifose che hanno qua a Praga. Non
hanno due lire per comprarsi delle macchine decenti?». La frase era
ovviamente accompagnata da una faccia a metà tra lo schizzinoso e il
deridente. È vero, tante macchine a Praga sono vecchie, alcune molto
vecchie. Sulle strade di questa città trovi sia le auto moderne e lussuose,
sia le auto con tanti anni, e chilometri, alle spalle. Auto che appartengono
a una specie di via di mezzo: non sono più auto moderne, ma non sono
ancora auto storiche. Certo, capita di incontrare qualche Škoda 1000, un
modello di quarant'anni fa, con un design affascinante; una macchina che
tirata a lucido ti farebbe rimorchiare un sacco di fanciulle in una
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qualsiasi cittadina brianzola. Ma il più delle volte sono macchine proprio
vecchie e brutte, delle Škoda 120 che in confronto la Fiat 127 con la
pelle di agnello sul lunotto che aveva mio papà da giovane faceva un
figurone.
Ecco, però voi magari vi state chiedendo cosa veramente intendo
quando dico che le macchine sono vecchie. Allora è utile dare qualche
numero per farvi capire capire meglio. Mi vengono in aiuto alcuni amici
con i quali stavo cenando in trattoria. Il giorno dopo avevo in programma
di andare a Lecco in aereo e tornare di lì a tre giorni in automobile, la
vecchia automobile di mio papà. Infatti quella Opel Kadett di sedici anni,
per effetto di una classica legge regionale ai confini della demenzialità,
non poteva più circolare nell'area metropolitana di Milano. Mio papà
decise allora di regalarmela in modo che la potessi utilizzare almeno a
Praga (il motore funzionava ancora come un violino: rottamarla sarebbe
stato un delitto che grida vendetta al cospetto dell'industria
automobilistica tedesca).
Quando raccontavo ai miei amici che avrei importato la mia “vecchia”
automobile in Rep. Ceca, Honza mi ha fermato subito e mi ha chiesto:
«ma quando dici “vecchia” cosa intendi?». «Be', è vecchia, ha sedici
anni». Una grossa risata comunitaria mi ha scavalcato, modello ondatsunami. «Una macchina di trent'anni è vecchia», mi hanno spiegato. Si
riferivano a quelle Škoda 120, che sembrano tenute insieme con il fil di
ferro: delle volte le vedi fare una rotonda a tutta velocità e ti viene da
pregare che il tubo di scappamento non parta per la tangente (dove ci sei
tu). La mia “vecchia” macchina, considerata buona solo per la
rottamazione in Lombardia, ha guadagnato nuova verginità nella
Repubblica Ceca.
Straccioni? Poveracci? No, semplicemente pragmatici.
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Perché in effetti quella macchina fa ancora egregiamente il suo lavoro.
Non è bella? Non ha un design alla moda? E chi se ne frega!
L'importante è che non mi lasci a piedi quando devo andare al
supermercato a fare la spesa. Io dico sempre che la mia macchina è come
una donna quarantenne: “magari non è più bellissima ed ha qualche
acciacco, ma funziona meglio di una diciottenne”. Poi certo, non ha il
condizionatore, non ha l'”agvssss”, ma il finestrino lo devi abbassare con
la “manetta”. Ma abbiamo abbassato il finestrino a mano per decenni:
davvero non possiamo vivere senza un finestrino che va su e giù da solo?
Quanti dei nostri desideri sono dettati più dalle strategie comunicative
delle aziende, piuttosto che dalle nostre reali esigenze?
Ecco, le macchine vecchie che potete vedere sulle strade ceche, sono
macchine che fanno ancora il loro lavoro. Probabilmente le persone che
le usano non sentono l'esigenza di cambiarle. Vivono con la macchina
vecchia e si accontentano. Magari vorrebbero cambiarla e non se lo
possono permettere. Invece di impegnare i denti d'oro perché «piuttosto
faccio la fame, ma non devo far vedere che sono uno straccione», si
tengono la macchina vecchia.
Questo non vuol dire che le macchine che girano sulle strade ceche
siano tutte vecchie e con la manetta al finestrino. È ovvio che le
macchine nuove sono normali macchine come in tutto il mondo. Ma ciò
non implica che si buttino via prima del tempo automobili che, anche
senza tutti i comfort del caso, possono ancora avere un'utilità. Lo spreco,
ecco ciò che si evita; e proprio in questo consiste la parsimonia.
Quello che ho osservato nei cechi è che sprecano decisamente poco.
L'ho visto in tanti piccoli atteggiamenti. Mi è capitato di frequentare
diverse mense in Lombardia, o in Veneto. E tante volte, quando dopo il
pasto riportavo indietro il mio vassoio, vedevo tantissimi altri vassoi sui
carrelli, pieni di cibo avanzato. Tanto cibo, buono, che poi veniva buttato
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via. Pensare che di lì a qualche minuto sarebbe passata una signora e
avrebbe buttato tutto quel cibo in un sacco nero, mi faceva arrabbiare. E
non parlo di qualche avanzo; spesso erano porzioni intere, panini
nemmeno iniziati. Tutto buttato via.
In Repubblica Ceca invece ho osservato che i vassoi sono restituiti
sempre vuoti, coi piatti ben spazzolati. E uno fa anche fatica a
spiegarselo, perché – diciamocelo – il cibo delle mense ceche non è
proprio eccelso, anzi. Quindi sarei anche portato a giustificare che le
persone si rifiutino di mangiare certa sbobba, lasciandola sul vassoio. Ma
nonostante ciò i cechi ingurgitano tutto, e leccano pure il piatto.
Non so perché lo facciano. Magari è dovuto al fatto che raramente
esiste il “menù a prezzo fisso”. Solitamente, anche in una mensa, si
prende quello che si vuole e si paga singolarmente ogni cosa. Anche il
singolo panino, per quanto poco possa costare, si paga al pezzo. Quindi
se uno sa che prende tre panini invece che uno pagherà qualcosa in più, e
forse questo invoglia a prendere solo quello che veramente si vuole
mangiare. Ma forse è solo una questione di educazione, della parsimonia
che ti porta ad evitare lo spreco fine a se stesso. Non penso infatti che i
giovani d'oggi lecchino il piatto perché si ricordano dei tempi andati
quando si faceva la fila per le banane. Ormai i giovani di oggi non si
ricordano nemmeno di quei tempi.
Proprio la questione “cibo”, mi fa ricordare una stranissima
sensazione che ebbi la prima volta che tornai a Lecco dopo tanti mesi
passati in Repubblica Ceca. Andai in un supermercato e rimasi stupito di
una cosa che prima di emigrare consideravo normalissima, avendola
vista migliaia di volte. Stando però per tanto tempo nella capitale ceca,
me ne ero scordato.
Sto parlando delle quantità: in un supermercato lecchese tutto è
“tanto”. Alla fine di ogni corridoio ci sono dei bancali pieni di cibo
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accatastato. Confezioni che non vengono nemmeno messe negli scaffali,
perché le quantità impongono che venga esposto tanto e portato subito
via dai clienti. Sono i generi alimentari più comuni (un tipico esempio
sono le cataste di panettoni a ridosso di Natale). Montagne di pasta,
montagne di salsa di pomodoro. Arriva la famiglia e ne carica enormi
quantità nel carrello. Carrello che arriva alla cassa ricolmo. Capita a
volte di vedere addirittura famiglie con due carrelli pieni rasi.
In Repubblica Ceca invece non funziona così: non ho quasi mai visto
gente arrivare con il carrello stracolmo alla cassa, e men che meno con
due. Spesso le merci acquistate coprono a malapena il fondo del carrello.
Non ci sono le cataste di cibo nei supermercati cechi. Non ci sono
nemmeno le confezioni famiglia, cosa che peraltro si rivela assai
scomoda per me. Quando devo comprare i biscotti mi tocca prendere
dieci confezioni da 130 grammi di BeBe. Purtroppo il sacco di biscotti da
un chilogrammo non esiste, forse perché sono io l'unico che compra dieci
confezioni di biscotti tutte insieme.
Un episodio in merito a questa faccenda è davvero emblematico: mi
trovavo al supermercato e la prima cosa che ho fatto è stato comprare
cinque chili di zucchero (memore di mio papà che ne comprava dieci alla
volta, ancora nel cellophane). Essendo gli unici articoli che avevo nel
carrello, quei cinque chili di zucchero si facevano notare. Si avvicina una
signora «Mi scusi: c'è lo sconto sullo zucchero?». «Prego?» pensando di
non aver capito. «Le chiedevo se c'era un'offerta speciale sullo zucchero»
ripete, indicando il mio carrello col ditino. Allora avevo capito bene la
domanda, ma non ne comprendevo la motivazione. Sono rimasto in
sospeso un paio di secondi. «No, signora, non mi sembra che ci sia
un'offerta sullo zucchero» le rispondo. «Ma perché questa domanda?»
(sottinteso: saranno poi cavoli miei quello che compro). «Pensavo che ci
fosse un'offerta sullo zucchero perché ho visto che ne ha comprato tante
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confezioni».
papà!
E cinque chili sarebbero tanti? Doveva conoscere mio
Penso che non ci sia la cultura della scorta, del comprare cibo per
accumulare. Quella cultura che a noi è stata imposta a botte di 3x2 (che
qui infatti è quasi inesistente), dove tu pensi di fare un affare, e invece ti
trovi a comprare molto più cibo di quello che ti serve, finendo poi per
gettarlo. I cechi comprano solo quel poco che gli serve per i giorni
successivi.
Sia chiaro, il ceco compra poca cosa, perché prende solo quello che
realmente gli serve, non perché non mangia (anche se a vedere come
sono pelle e ossa molti cechi, qualche dubbio verrebbe!). Una volta
abituato a questa realtà parsimoniosa è stato quasi un trauma tornare a
Lecco e vedere l'ostentata opulenza dei miei concittadini.
***
Uno dei punti centrali attorno al quale gira la parsimonia ceca è il non
aver vergogna della propria condizione. Hai le tasche vuote, va bene: e
allora? Non è che devi far finta di avere il portafogli gonfio. Non devi
declinare gli inviti ad uscire, inventandoti qualche scusa, per non dire
«No, guardate, non me lo posso permettere». Mi è capitato di andare a
cena con degli amici e notare che uno non mangiava niente, e si limitava
a bere la birra (che essendo molto economica, si può bere in abbondanza
senza avere un salasso finanziario). «Cos'è, non hai fame?». «No, ho
mangiato a casa.». Pora stella, si direbbe dalle mie parti. Non voleva
mancare alla serata in compagnia, ma è arrivato già cenato per poter
limitarsi a bere. E non aveva vergogna di dirlo. E la stessa cosa mi
capitata in tante altre circostanze; di volte che si sta lì a guardare anche
agli spiccioli, che in circostanze analoghe in Lombardia non passano due
secondi che qualcuno se ne esce dicendo di non fare gli spilorci.
Quell'atteggiamento, tipico dell'ostentatore che deve far vedere di non
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aver problemi a spendere, che considera poveraccio chi guarda le due
lire. Quell'atteggiamento in Repubblica Ceca non c'è. C'è il rispetto per le
condizioni di una persona, che non viene giudicata col criterio: più hai
soldi e più sei figo. Giusto pochi minuti fa mi è arrivato un invito da
un'amica per andare al cinema. Data, ora, luogo ... e costo del biglietto.
Così uno può fare in libertà le proprie considerazioni e decidere se
andare o meno.
Il minimalismo ceco non è una caratteristica necessariamente legata
alle condizioni economiche o alla classe sociale delle persone. Lo scorso
anno vidi un film dedicato a Václav Havel, ex Presidente della
Repubblica. Una delle poche occasioni in cui si riempì il cinema del mio
quartiere; cinema vecchio, di quelli con i lunghi tendaggi color verde
marcio e i sedili di legno scomodissimi (e proprio per questo mi piace
andarci... non sopporto le multisale!). Nel film si vede Havel che assiste
al concerto dei Rolling Stones a Praga nel 1994: e lo fa seduto su una
sedia di plastica bianca da campeggio...il Presidente della Repubblica!
Mi capita spesso di frequentare persone anche di rango sociale
elevato, ma non per questo le vedo spendere e sprecare, quasi come fosse
un modo per ostentare le proprie disponibilità finanziarie. Sono rimasto a
bocca aperta quando una mia alunna di italiano (sì, è capitato anche che
insegnassi italiano) mi raccontava i preparativi del suo matrimonio. Un
matrimonio con duecento invitati: sto parlando di gente che non lavora
come cassiera al supermercato. E quando gli ho chiesto dell'abito da
sposa mi ha risposto: «L'ho comprato a Parigi, bello, romantico. Ho
speso circa 250 Euro». «Come?». «Sì, poi magari lo vendo a 150 dopo il
matrimonio, così l'ho pagato solo cento euro». Dalle mie parti 250 euro il
vestito da sposa non lo paga nemmeno la figlia di un protestato con gli
usurai sotto casa. E tanto meno pensa di rivenderlo dopo la cerimonia.
«Ma che senso ha spendere mille euro per un vestito che usi un giorno
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solo nella vita». Il ragionamento ha buon senso e non fa una piega, anche
per lei che quei mille euro poteva permetterseli.
Proprio il matrimonio è una di quelle cose che mettono in risalto la
differenza tra l'opulenza del mio paese d'origine e la pragmatica
parsimonia ceca. Il matrimonio ceco non è una sagra dell'ostentazione
materialistica; proprio per questo è molto più bello e autentico.
Sono stato al matrimonio di un mio amico, Franta: è stata una
bellissima esperienza, che mi ha fatto capire tanto sui cechi. Paesino nel
Nord Boemia, lontano da Praga, tanto che quella mattina mi sono dovuto
mettere in viaggio quando era ancora buio, e il matrimonio era alle
undici. Chiesa povera, e decorazioni quasi inesistenti: un rametto di un
indefinito vegetale (non un fiore) legato con un nastro di tulle alle
panche della chiesa. Un tappeto che iniziava a metà della navata, che
sembrava essere stato usato mille volte (e probabilmente lo era stato).
Due sedie d'onore davanti all'altare solo per gli sposi, i testimoni si sono
messi sulle prime panche, da cui sono usciti per la cerimonia. Senza
troppi fronzoli.
L'unico lusso di tutta la cerimonia è stato il coro e i musicisti: a dir
poco perfetti (giudizio che non elargisco facilmente). Ho poi saputo che
era un coro dell'oratorio, non professionisti. Anche la lista nozze è stata
alquanto inusuale. In realtà non esiste la tradizione della lista nozze in
Repubblica Ceca. Alla fine della cerimonia gli sposi si girano verso la
navata e ricevono amici e parenti che si congratulano e portano i regali
(cosa che comporta qualche difficoltà pratica quando il regalo, per
esempio, è un asse da stiro). Il mio amico ha deciso di fare una lista allo
scopo di non ricevere doppi regali e far sapere quello che gli serviva,
senza però imporre agli invitati l'acquisto in un negozio specifico. Tu
andavi sul suo sito, vedevi cosa potevi regalargli. Ora, all'inizio facevo
un po' di fatica a comprendere il contenuto della lista, perché era –
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ovviamente – scritta in ceco. Temevo quindi di non capire bene cosa
intendevano. Poi, dizionario alla mano, mi sono dovuto arrendere al fatto
che i regali erano proprio quelli: potevo scegliere tra la forma per la
torta, le presine, due lenzuola o il ferro da stiro. Il regalo più caro era un
robot da cucina, ma nella lista c'era scritto «È un regalo costoso, quindi
se volete potete darci un contributo e poi ci pensiamo noi a comprarlo».
Quando penso a certe liste nozze, dove devi cercare col lanternino un
regalo che ti consenta di far benzina per arrivare a casa! No, in questo
caso il matrimonio è stato una festa organizzata in modo sobrio, senza
sprechi inutili. Sia chiaro, non era una cosa da straccioni: gli ospiti erano
eleganti e gli sposi pure, tuttavia sono state evitate le esagerazioni. Mi
riferisco a quegli eccessi secondo cui, quando ti sposi, devi mostrare di
essere ricco senza alcun limite. Una sorta di ipocrisia materialista che
stona come una una campana crepata, ostentata dal campanaro per
festeggiare un evento. Siccome ci sarà sempre un limite realistico
all'opulenza che puoi dimostrare in un matrimonio, ogni tentativo di
mostrare ricchezza risulterà goffo e patetico. I miei amici cechi invece,
hanno organizzato un matrimonio semplice ed essenziale. Dove
giocoforza finisci per interessarti di più alla sostanza dell'evento, ossia al
fatto che due persone si vogliono bene e vogliono passare la vita insieme.
Una festa in cui sei felice per il passo che fanno, e festeggi in allegria
insieme a loro. Non è un caso infatti che poi al ricevimento, non ci si
limita a banchettare ingordamente, ma si passa gran parte del tempo a
ballare. Sì, a ballare, uno dei divertimenti preferiti dai cechi. Così, con
semplicità e senza sprechi puoi gustarti di più un matrimonio.
La conferma poi, che questi non siano casi isolati, ma siano
consuetudini, mi è poi venuta in altre occasioni. Come quella di Franta
(un altro) che mi dice «Mah, forse mi sposo a luglio». «Ma luglio è tra
quattro mesi» gli rispondo. «Be', sì. Ma non serve molto di più a
organizzare un matrimonio». Certo, se non devi far passare al setaccio
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almeno sette negozi di bomboniere per cercare quelle che vanno per la
maggiore, perché «no, tesoro, non possiamo rischiare che Jerry e
Chanelle dopo vadano in giro a sparlare dicendo a Julie che abbiamo
fatto delle bomboniere da straccioni».
A me Franta e Ždenka dopo la festa mi hanno dato, come
consuetudine in Repubblica Ceca, una scatola con una fetta di torta e altri
dolci assortiti, per la colazione del giorno dopo. Onestamente: l'ho
apprezzata di più che un osceno oggetto di ceramica da mettere sul
comodino.
***
In tante altre occasioni mi è capitato di sperimentare la parsimonia
ceca. I raduni dei giovani cattolici sono un caso quasi estremo. Ho visto
gente farsi la doccia con l'acqua gelida (non è un eufemismo), e gente
che si lavava all'aperto, mettendo la testa sotto il rubinetto di un
lavandino da campo, di quelli lunghi dieci metri. Ho visto la colazione in
stile naia, con un bidone di latta da cinquanta litri, da dove un tizio
estraeva il the, e un sacco di plastica nero, modello spazzatura, con i
rohlík (i panini più economici che esistano). Ed era tutto lì. Ho visto
pranzi dove il tutto consisteva in fette di pane e una specie di crema dal
contenuto indefinito (ancora non ho capito cosa contenesse) da spalmarci
sopra. E mai nessuno si lamentava. Ho dormito in una casa scout, in un
paesino sulle montagne ceche, con i tripli letti a castello, e le coperte
marroni che sembravano uscite da un film degli anni quaranta (se mai ci
fosse stato il cinema a colori a quei tempi).
E poi ci sono quelle cose che hai sotto gli occhi tutti i giorni e che non
noti mai. Come il fatto che in Repubblica Ceca non ci siano i motorini.
Ne ho visti talmente pochi che non so nemmeno come è fatta la targa
ceca di un motorino. E ciò la dice lunga, perché il formato della targa è
una delle prime cose che noti, quando cambi paese: mi accorsi di essere
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stato lontano da Lecco per tanto tempo quella volta che ci ritornai e vidi
che i motorini avevano una targa grande il doppio di quella a cui ero
abituato.
La targa del motorino ceco invece non la conosco, perché l'avrò vista
quattro o cinque volte. Mi sono reso conto dell'inesistenza dei motorini,
d'un tratto mentre tornavo da pranzo con dei colleghi. Ben inteso, non
che la cosa mi dispiaccia, anzi. Quando ti fermi a uno STOP, non vieni
circondato da nugoli di ragazzi, e finti giovani che ti accerchiano
impedendoti di muoverti. Ma la cosa mi sorprendeva: se non esistevano i
motorini, con cosa si muovevano i ragazzi sotto i diciotto anni? E allora
l'ho chiesto ai miei colleghi: ma scusate, in Rep. Ceca non esistono i
motorini? Sì, mi ha risposto Vojta, ma di solito sono appannaggio di
qualche smanettone che si diverte a montarli e smontarli, per passione
nella meccanica. Al massimo ci fanno mezzo chilometro nella via del
paesino, così per provarlo, ma non lo usano come mezzo di trasporto.
«E allora come vi muovevate quando non avevate la patente per la
macchina?». «Be', col pullman» mi ha detto con la sua tipica scrollata di
testa che significa «ma che cazzo di domande mi fai?». «Va bene, col
pullman ci potrai andare a scuola, ma quando uscivate la sera?». Parlavo
con persone che sono cresciute in paesini di trecento abitanti, dove quando ti va bene - c'è un solo posto per andare a bere qualcosa. Allora è
normale che un adolescente voglia spostarsi e andare nei paesi vicini, per
evadere dalla monotonia. «In bicicletta, o a piedi», mi ha risposto. Anche
se sono cinque chilometri li puoi fare a piedi senza problemi. Era così
anche dalle nostre parti cinquant'anni fa, mentre ora vedi le madri che se
potessero, entrerebbero in classe col SUV per depositare il pargolo
direttamente sul banco. Guai fargli fare cento metri a piedi! Figuriamoci
qualche chilometro. In Repubblica Ceca invece non c'è quella pigrizia
indotta dalla eccessiva disponibilità. Una mia amica morava una volta si
mise a ridere perché mi vide arrivare in macchina alla piscina (distante
50
due chilometri da casa mia). «Mattia! Ma perché sei venuto in macchina?
Non sarai mica uno di quelli che usano la macchina per fare due
chilometri?» (per la cronaca, ero sono a corto di tempo e non potevo
farla a piedi). Ecco, spesso in realtà il mezzo c'è ma se ne fa anche a
meno. Così poi non ci si sente handicappati quando manca, e fare
qualche chilometro a piedi non è uno scandalo!
O come di quella volta quando ero all'aeroporto di Praga, in partenza
per Francoforte. Di fronte a me una coppia di trentenni cechi con i loro
insostituibili zaini. Prima di consegnarli all'assistente del check-in uno di
loro estrae dallo zaino un rotolo di domo-pack e si mette ad avvolgere il
bagaglio. No, non era insania improvvisa, non ha avuto un miraggio
vedendo un quarto di manzo da congelare al posto dello zaino. Chi
frequenta gli aeroporti sa che negli ultimi anni ha preso moda questa
mania di avvolgere le valigie col il cellophane, per evitare di rovinarli (e
per evitare che gli addetti di Malpensa li aprano). In tutte le aree check-in
si trova quindi un omino che per soli otto euro ti avvolge la valigia nella
plastica trasparente. Ora, l'ambientalista pensa: perché sprecare tutta
quella plastica? Perché portare un rifiuto da smaltire in paradisi naturali
(se viaggia verso posti come le Maldive). Il ceco invece pensa: perché
diavolo devo spendere otto euro per farmi conciare la valigia come in un
profilattico? Con otto euro mi compro quattro rotoli di domopack e vi
avvolgo la valigia per una dozzina di viaggi. Perché pagare una cifra così
spropositata quando si può ottenere lo stesso servizio con una cifra ben
minore? E questo è proprio quello che mi disse Vojta mentre arrotolava il
suo zaino nel domopack, quella volta che siamo andati a Napoli. Gli otto
euro buttati via il viaggio precedente, proprio non gli erano passati giù.
***
Forse leggendo queste pagine avete già capito che per me la
parsimonia ceca è una cosa positiva. Probabilmente non per tutti è lo
51
stesso. Il tipico personaggio che fa le vasche in centro con i capelli
scolpiti dal gel e le mutande di Dolce e Gabbana pagate 50 euro fuori dai
calzoni, probabilmente non apprezza questa caratteristica dei cechi. Lo
stesso si può dire per il tipo che fa l'aperitivo perché “fa cool”. Il tizio di
mezz'età che va in giro con la macchina sportiva, indossando la
giacchetta di pelle, e sfoggiando la trentenne bionda (che vuole apparire
figa mascherando disperatamente le prime rughe e spingendo in alto le
tette), credo che sia della stessa opinione.
Ma io non appartengo a queste categorie di persone, ed è per questo
che mi trovo in Repubblica Ceca, dove invece non si bada così
ostinatamente a queste vuotaggini. E non vuol dire che sono tutti devoti a
sacri valori antimaterialistici; anzi, delle volte è il contrario, c'è
chiaramente l'ambizione per alcuni beni materiali, ma la minore
accessibilità a questi beni spinge al contenimento e alla moderazione.
Non si vive da asceti, ma non si diventa matti per l'ultimo modello di
cellulare da possedere ad ogni costo. Perciò i cechi sono felici anche con
poco, e non si fanno paranoie per cose inutili. Tutto qui. E a me piace
così.
***
Un pomeriggio mi trovavo a Stoccolma, per la precisione a Gamla
Stan, il centro storico della città. Aspettavo il 53 per tornare a TCentralen, e di lì all'ostello dove alloggiavo. E mentre aspettavo il
pullman si avvicina un ragazzo con uno zaino enorme sulle spalle: «Mi
scusi, parla inglese» «Sì, mi dica»; magari, pur non essendo del luogo,
potevo essergli utile.
«Mi sa dire dove si va in direzione Nord?». Uhm, strana domanda.
Uno di solito ti può chiedere come andare in Piazza San Babila, o al
Giambellino. Ma non mi era mai capitato che qualcuno mi chiedesse
52
generalmente “direzione Nord”. «Be', è da quella parte, ma mi scusi...
dove sta andando di preciso?».
«Sto cercando di uscire dalla città, quindi vado verso Nord per trovare
un posto nella natura dove accamparmi». «Ma allora perché non prende
un bus, o una metrò. È molto più veloce», ho chiesto io. «Penso di non
potermelo permettere. A me piace viaggiare a piedi, sono tre mesi che
giro Norvegia e Svezia camminando. Ho con me solo i soldi per il cibo, e
me la vivo così», mi ha risposto sorridendo. Un nomade moderno, di
quelli a cui basta uno zaino sulle spalle, due lire per comprare da
mangiare, e via, a scoprire il mondo. Solo con le proprie gambe.
In quel momento mi sono sentito un po' un fighetto. Per il fatto che
usavo il pullman per fare due miseri chilometri di strada (a dire il vero
avevo la scusante che il giorno prima avevo corso una maratona), per il
fatto che dormivo in un ostello da 23 euro a notte. O per la giacca che
indossavo: è vero che l'avevo pagata 2 euro a un mercatino dell'usato, ma
mi faceva sembrare un signorino, e la mia immagine stonava con quel
ragazzo che emanava quella serenità di chi vive con poco.
«Ecco, se vuoi ti posso regalare la mia mappa di Stoccolma, tanto io
parto domani e non mi serve più. Ma... ad ogni modo, di dove sei?»
«I am from Czech Republic».
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Happy days
«Dai, non fare il Fonzie» dissi a un amico che si era messo a fare lo
sbruffone. «Fonzie? E chi è Fonzie?». «Doh!» direbbe Homer.
Dannazione, ogni tanto mi dimentico del passato di questo paese.
Vivere a Praga significa vivere in una capitale europea che non ha nulla
da invidiare ad altre città dell'Europa occidentale. A chi oggi arriva a
Praga, non sembra vero che in questa terra, vent'anni fa, ci si trovava
oltre cortina. Un adolescente di Praga oggi ascolta la stessa musica e
guarda gli stessi telefilm di un adolescente di Milano; vent'anni fa non
era affatto così. In questi casi, quando si parla della musica o della TV
con cui siamo cresciuti negli anni ottanta, sento un gap con i miei
coetanei cechi. Una differenza che suona strano vista la realtà odierna,
dove le differenze – come detto – sono minime.
Ai tempi del comunismo tutto era controllato dal regime, soprattutto la
televisione. Ed ovviamente non c'era modo di vedere i telefilm
americani. Mi hanno riferito che trasmettevano i film di Fantozzi e le
canzonette dei Ricchi e Poveri perché tutto sommato in Italia c'era un
forte partito comunista.
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Le persone della mia generazione in Repubblica Ceca non sono
cresciute a pane e telefilm americani. Niente Supercar, niente Starsky &
Hutch, ma soprattutto niente Happy Days (e quindi niente Fonzie).
Io sono cresciuto con il sogno americano di Happy Days. Non parlo
del tipico “sogno americano” di ricchezza, ma di quell'atmosfera
giovanile basata su cose semplici e affascinanti. Come non ricordarsi dei
balli di Happy Days? Quei balli organizzati nella palestra della scuola,
dove i giovanotti facevano a gara a invitare la ragazza più bella (e poi
ripiegavano su quelle meno belle). I balli in cui le fanciulle dovevano
aspettare che qualcuno le invitasse, e in cui il ragazzo si presentava a
casa della fanciulla con un fiore in dono.
Mi sarebbe sempre piaciuto che anche nel mio paese ci fosse questa
tradizione. Forse avrò una mentalità antiquata, ma penso che invitare una
ragazza ad un ballo sia molto più elegante (e intrigante – cioè efficace!)
che invitarla a bere una birra. Purtroppo da noi questa tradizione non è
mai esistita, e a dire il vero sono cresciuto pensando che i balli di Happy
Days fossero in realtà finti, che non ci fosse davvero un paese dove si
invitava una fanciulla al ballo.
Quando sono arrivato in Repubblica Ceca ho invece scoperto che qui i
balli esistono ancora. Ho scoperto che la gente balla (tutti ballano!); ho
scoperto che io – non sapendo muovere un piede – ero ancora una volta
il pesce fuor d'acqua. Se tra i miei amici lombardi probabilmente non c'è
nessuno capace di ballare un Walz, tra i miei amici cechi (ma in generale
tra tutti i cechi che conosco) non c'è nessuno che non sappia ballare.
In Repubblica Ceca ci sono ancora i balli, ad esempio all'ultimo anno
delle scuole superiori si organizza il ballo dei diplomandi (al quale si
indossa un'orrenda fascia – modello concorsi di bellezza – con la scritta
“Maturita 20XX”). Alla mia Università ogni anno si organizza il ballo
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ufficiale dell'Università; ma anche le associazioni studentesche
organizzano il loro ballo.
E sono proprio balli da Happy Days! Quei balli con l'orchestra che
suona il Waltz sul palco, le ragazze con l'elegante abito lungo (e truccate
in modo che anche le più brutte sembrano decenti), e con i ragazzi che le
accompagnano a braccetto in smoking e col fiore all'occhiello. Quando ci
si trova in questi balli sembra davvero di ritrovarsi in un telefilm
americano.
L'aspetto interessante è che non si tratta di una sceneggiata, o di una
tradizione in via d'estinzione. Il ballo è una componente fortemente
radicata nella società ceca. Spesso diventa un modo per conoscersi e
trovare la morosa; basti pensare che le diocesi o altre organizzazioni
religiose spesso organizzano balli per giovani cristiani. Si vede che in
questo paese ci sono così pochi cristiani che bisogna organizzare i balli
per giovani cristiani per farli fidanzare!
Un esempio è il mio amico Petr che ha conosciuto la sua morosa ad un
ballo di cristiani. Tipica scena da telefilm americano lui che adocchia lei,
la quale però sta insieme ad un altro. Vorrebbe provarci ma c'è quel
dannato ragazzo con lei. «Ma guarda che è suo fratello!» gli dice un
amico; così si fa coraggio e la invita a ballare. Tra una polka e una
mazurca si sono conosciuti e fidanzati (e tra poco si sposano: auguri!).
È proprio così, i balli esistono ancora e sono una vivissima tradizione
nella Repubblica Ceca. Sparse per tutto il paese ci sono tantissime sale
da ballo create proprio per questo scopo. Nei piccoli paesi spesso si
ricava uno spazio alla casa della cultura (riadattata al nuovo corso), ma
mai mancherà una sala da ballo, piccola o grande che sia. Passeggiando
per le vie di Praga (non quelle centrali, ma quelle dove vivono i
praghesi) vi capiterà senza dubbio di trovare volantini appesi ai pali della
luce che pubblicizzano i corsi di ballo. È vero, li puoi trovare anche a
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Lecco, ma con una differenza. I corsi di ballo in Lombardia, sono
solitamente corsi di latino americano (o altri stili, poco importa) dedicati
a gente dalla poca vita sociale; persone che non hanno molto da fare la
sera, e si iscrivono a un corso di ballo, per impegnare il tempo e magari
conoscere qualcuno (spesso nel disperato tentativo di trovare un partner,
sfumata ormai la giovane età). Potrebbe essere il corso di ballo, o il corso
di bricolage, o di massaggi thailandesi. Non cambia molto: in questo
caso il ballo è solo un pretesto per socializzare, e un argomento di cui
parlare il giorno dopo in ufficio («cara, ma sai come sono diventata brava
a fare il passo del rumba chica?»).
In Repubblica Ceca invece il corso di ballo è destinato a coloro che
hanno bisogno di imparare a ballare. L'educazione danzereccia ceca
infatti, parte da piccoli. È tradizione seguire dei corsi di ballo quando si
fanno le scuole medie, in modo che già da adolescenti si può iniziare a
partecipare ai balli. In verità ho visto anche ragazzini di undici, dodici
anni ballare già con maestria, ma in generale possiamo dire che attorno ai
tredici, quattordici anni, si impara a ballare. Questa usanza di organizzare
i corsi di ballo alle medie, è diffusa un po' ovunque: forse solo a Praga si
perde, così che ti ritrovi adulto e non sai ballare. Sai che problema, direte
voi. Sì, è un bel problema, e bisogna correre ai ripari. Perché non saper
ballare ti complica la vita sociale. Se ti invitano ad un ballo non puoi
partecipare, se vai alle nozze di qualcuno te ne stai tutto il tempo come
uno stoccafisso a guardare gli altri che si divertono in pista. «Ballare
serve!», proprio così mi disse Matej, che alla veneranda età di 26 anni si
iscrisse ad un corso di ballo per adulti.
Il corso di ballo ceco quindi non è un passatempo serale per persone
che hanno bisogno di conoscere qualcuno. È qualcosa di importante:
serve saper ballare! Forse è un po' una forma di conformismo. Perché ai
balli ti trovi quelli che ballano davvero bene, ma anche quelli che
abbozzano i passi. Come Václav, amico di un mio amico: non
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sembrerebbe un tipico ragazzo da ballo tradizionale, il ragazzino
dabbene, morigerato... Al contrario, è un po' uno scavezzacollo, poco
incline allo studio e decisamente più dedito alla vita sbandata. Davvero
non ce lo vedo ad impegnarsi per imparare i passi della polka. Eppure
l'ho visto più di una volta a dei balli: lo fanno tutti, lo fa anche lui.
Certo, non è un ballerino provetto, e delle volte lo vedi trascinare i piedi
(be', forse quello è dovuto alla birra...) ma balla anche lui.
E forse non si tratta nemmeno di conformismo, ma soltanto di
divertimento. Perché alla fine l'atmosfera del ballo è davvero bella, ci si
diverte davvero tanto. Mi è capitato di vedere anche un paio di preti ad
un ballo: con giacca e cravatta, che danzavano con delle giovani
fanciulle. Perché è divertente! Quel divertimento per una cosa bella, e
che nel contempo non richiede di strafare: una cosa semplice. No, non
pensate subito male, i preti che ballavano con le ragazze non avevano
nessuna malizia in quel che facevano. Ai balli cechi infatti si invitano a
ballare anche le donne degli altri (quante volte ho ballato con
fidanzate/mogli/madri di miei amici!). Si invitano a ballare ragazze che
non si conoscono, con le quali fai due chiacchiere e fai conoscenza
mentre balli; e non ti dicono (quasi) mai di no, perché il fatto che le inviti
a ballare non implica necessariamente che ci stai provando. Significa
solo che vuoi ballare quel pezzo e ti fa piacere ballarlo con lei. E poi
come va, va. Ma non c'è necessariamente un doppio fine, quando inviti
una ragazza a ballare. Semplice, senza complicazioni mentali, senza
ragazze che se la tirano, ma solo per divertirsi. Proprio come piace a me.
Quando penso che dalle mie parti si trova questo genere di balli solo
alle feste dell'Unità. E che bisogna avere almeno sessant'anni per non
sentirsi un pesce fuor d'acqua...
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Hi! How are you?
Scrivo in viaggio. Sono in California e mi sto spostando in treno da
Sacramento a Livermore, dove vive il mio amico John. L'impatto con la
California è stato a dir poco traumatico. Mi era già capitato un anno
prima sulla costa Est, ma qui in California il fenomeno è mille volte
peggio. Mi riferisco al grado di cordialità che hanno le persone.
Chiunque tu incontri, la cassiera del supermercato, il barista da
Starbucks, davvero chiunque ti saluta chiedendoti come stai. Anche se
non vi siete mai incontrati prima. «Ciao, come ti è cominciata la
giornata?» Eh?!?.
Succede anche nelle grandi città come San Francisco, dove ti può
capitare che stai per attraversare la strada e una signora che aspetta il
verde insieme a te, inizi a raccontarti di quello che ha fatto durante la
giornata. Senza che tu le chiedessi niente.
Lo ammetto, la cosa mi ha sconvolto: sulle prime, quando uno
sconosciuto ti chiede «How are you doing?», ti viene da pensare
«Saranno poi anche affari miei! Sai, soprattutto oggi, che mi sono alzato
con le corna girate, non ho mica voglia di farlo sapere al mondo». Poi
passi alla fase «Ok, da queste parti si usa così. Ma cosa rispondo?».
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Perché ovviamente non posso mica rispondere sempre che sto bene e
sono al settimo cielo. Ma potrò mai dire che sto da schifo? E quindi cadi
nella trappola del conformismo del rispondere che stai sempre bene.
Ecco, tutto questo, la confidenza automatica, la sfrontatezza benevola
con cui ti chiedono come stai e ti rivolgono la parola, mi mette molto a
disagio. Perché ormai sono cechizzato. E, se non si era capito, in
Repubblica Ceca, non ci si comporta in questo modo. Anzi, ci si
comporta in modo diametralmente opposto. Uno dei pochi luoghi
comuni sui cechi che rivela avere un fondo di verità, è infatti la loro
freddezza.
Un barista ceco non ti chiederà mai con un sorrisone sulla bocca
«Ciao, come stai?». Di come stai non gliene frega assolutamente niente.
Gli frega che ordini alla svelta il tipo di birra che vuoi, perché ha altre
decine di persone da servire. Una cameriera in una trattoria non ti
saluterà mai dicendoti “Hi, sweetie”, come mi successe in un diner, di
ritorno dallo Yosemite Park. In Repubblica Ceca la cameriera se sei
fortunato resta inespressiva mentre prende l'ordinazione. Se sei
sfortunato te la trovi con la faccia incazzata perché sa che lavora per
quattro euro all'ora.
Essendomi cechizzato, sono ormai abituato a certi comportamenti,
abbastanza freddi. Un caso emblematico è quello del mangiare in
silenzio. Vado spesso in mensa con dei colleghi, coi quali non si
proferisce parola durante tutto il pranzo. Ovvio che non è sempre così,
qualche sparuto collega che parla mentre mangia c'è, ed è vero che
qualche altra persona nella stessa mensa parla. Non sto quindi dicendo
che tutti i cechi stanno zitti quando mangiano. Ma ci sono molti che si
comportano proprio così, e non mi era mai capitato prima. Nella ditta
brianzola dove lavoravo prima di trasferirmi a Praga, quando si andava a
pranzo bisognava stare attenti a non accavallarsi nelle discussioni: a
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Praga non mi è mai capitato di essere a tavola con tutti colleghi che non
parlassero. Qui invece mi capita quasi ogni giorno: ci si siede, si dice
«Dobrou Chut'» (buon appetito), e si mangia in silenzio, che viene
interrotto al termine del pranzo dalla domanda «Jdeme?» (Andiamo?).
I primi tempi mi sembrava di mangiare in un convento, con l'abate che
ripeteva «ricordati che devi morire!». Poi ci ho fatto l'abitudine, e mi
sono reso conto che la faccenda ha anche risvolti positivi: si parla solo se
si ha qualcosa importante da dire, quindi la quantità di scemenze che si
sente è molto bassa. Poi è vero, che quando si va a cena insieme per
passare una serata in compagnia, si conversa senza problemi, ma il
pranzo quotidiano in mensa è visto come qualcosa di asettico, un rito che
si compie perché si deve compiere, puntualmente tutti i giorni, e non un
piacevole momento in compagnia.
Oddio, non che in altri contesti di ritrovo conviviale invece i cechi
siano molto più caldi. Basti pensare all'atteggiamento del tifoso ceco. Era
il 2008 ed era in programma per il tardo pomeriggio la partita di calcio
della Repubblica Ceca contro... qualcun altro (onestamente, non me lo
ricordo) per il campionato europeo. Avevo appena finito la mia giornata
lavorativa, e avevo due alternative: o mi guardo la partita sul PC, oppure
vado al Masarikova (uno studentato lì vicino) a guardare la partita in
birreria. Siccome nessuno dei colleghi era interessato, ho preferito andare
al Masarikova, se non altro per non dovermela guardare da solo.
Arrivo alla birreria del Masarikova e vedo un sacco di ragazzi col naso
all'insù verso lo schermo. Ci sono rimasto dieci minuti, poi sono tornato
a vedermela da solo sul PC: era più coinvolgente. Io ero arrivato
rampante, pensando di essere avvolto da bandiere, cori, urla... e invece
l'unico momento in cui si è sentita una reazione dei “tifosi”, è stato in
occasione del goal. Altrimenti, solo un gran silenzio tombale: nessuno
che gridava a Jankulovski di tirare a destra anziché sinistra, nessuno che
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gridava “cornuto” all'arbitro, nessuno che inveiva contro l'avversario, reo
di aver zappato “uno dei nostri”. Tutti zitti, sorseggiando birra. Tutti
fermi, nessun braccio alzato nel classico segno del «ma dai!». Sembra
che per i cechi guardare la partita sia come andare al cinema. E infatti,
quando ho timidamente provato a iniziare qualche insulto al portiere
avversario (così, per scaldare l'ambiente) c'è stato chi si è girato e mi ha
fatto «shhhhh». E che cavolo, mica siamo al cinema, che non si può
parlare! Che gusto c'è a guardare la partita, senza fare un po' di casino.
Tanto valeva guardarmela da solo. E infatti, è ciò che ho fatto di lì a
pochi minuti.
Hockey su ghiaccio: altro sport, altri tifosi. Ma medesimo
comportamento. Lo scorso anno sono stato trascinato a vedere
l'amichevole Repubblica Ceca – Slovacchia di hockey su ghiaccio, lo
sport nazionale ceco. «Hai comprato i biglietti nel settore ceco o in
quello slovacco?» chiedo al “trascinatore” mentre arriviamo all'arena del
ghiaccio. «Boh! Non c'è mica scritto...». E non c'era scritto perché le
tifoserie erano mescolate. Tutti gli spalti erano popolati da cechi e
slovacchi mischiati tra di loro. Ora, capisco che era un'amichevole,
capisco pure che si scontravano due squadre di nazioni amiche, ma mai
mi sarei aspettato le tifoserie mescolate. Poi ho capito il perché: sia cechi
che slovacchi non si scaldavano nemmeno durante le azioni più dure
della partita. Ancora una volta l'unico che ha provato gridare un paio di
«rimbambito!» all'arbitro, sono stato io. Prima di capire che stavo
facendo la figura del pirla, in mezzo a tutte quelle persone rilassate. Poco
calore, poca eccitazione, poca reazione: anche nell'uscire i cechi non
hanno avuto alcuna reazione contro gli slovacchi che festeggiavano per
la vittoria. Gli passavano di fianco, nel percorso verso il metro,
sventolando sciarpe e bandiere, e nessuno che iniziasse ad attaccar briga.
Probabilmente non hanno diviso le tifoserie perché sapevano di aver a
che fare con dei pezzi di ghiaccio... sugli spalti.
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Un altro tipico esempio di freddezza ceca, è il comportamento in
luoghi pubblici, come il pullman o il tram (scenografia quanto mai in
tema di questo libro!). Mi è capitato per diversi mesi di prendere, tutte le
mattine lo stesso autobus, il 217, per andare in Facoltà a Dejvicka (Praga
6). Tutte le mattine lo stesso ambiente, tranne una particolare mattina.
Una mattina di settembre, quando era prevista l'immatricolazione degli
studenti Erasmus presso la nostra Facoltà. E studenti Erasmus, significa
orde di ventenni spagnoli che, qualora fosse necessario spiegarlo, non si
comportano come cechi. La differenza si è sentita: soprattutto nel livello
di decibel all'interno dell'autobus. All'inizio non capivo cosa stesse
succedendo, non avevo mai sentito un rumore del genere sull'autobus;
dopo poco mi sono reso conto che era generato da studenti non cechi.
Poi certo, ci sono dei casi del tutto straordinari in cui i cechi si
rivelano del tutto amichevoli. Dicembre 2007, il 31 per la precisione.
Sono insieme a Petr, la sua morosa Klara e altre due amiche sul treno che
ci porta da Praga a Liberec, per festeggiare l'ultimo dell'anno. A un certo
punto nella nostra carrozza entrano due ragazzi con delle scatole di
cartone in mano: giravano il treno regalando i biscotti e i chlebičky (delle
specie di mini sandwich) ai viaggiatori. Raccontavano (durante il resto
del viaggio, passato insieme a fare merenda) che le loro premurose
madri gliene avevano rifilati troppi, e siccome non sapevano come finirli,
li distribuivano sul treno. Quello è stato forse l'unico caso in cui mi sono
trovato con un ceco caciarone, con la voglia di far festa insieme a degli
sconosciuti.
Ma proprio perché i cechi non si comportano normalmente così, posso
confermare questo atteggiamento si è rivelato oltremodo strano,
inconsueto. La stessa sera infatti mi sono trovato ad una festa di fine
anno in un dormitorio dell'Università tecnica di Liberec, che definirei
surreale. Ora, io non sono un tipo trasgressivo, che deve fare casino a
tutti i costi, ma quella festa mi ha davvero sconvolto. Eravamo una
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dozzina di persone stipate in una stanza di questo dormitorio: è vero, la
stanza non era grande, e non si adattava bene a ballare. Insomma, non
aspettatevi spazio per una pista da ballo. Ma un po' di animazione io me
la aspetterei. C'erano diversi gruppi di persone che si conoscevano tra di
loro... che continuavano esclusivamente a parlare (poco!) tra di loro.
Potevano avere una persona che non conoscevano a 50 cm di distanza, e
mai che gli sfiorasse l'idea di attaccare bottone. Un mortorio generale,
mai vissuta un'esperienza simile. Io stesso ero seduto vicino a gente che
non conoscevo: ci hanno messo due ore – sì, proprio due ore – prima di
rivolgermi la parola e chiedermi da dove venivo (avevano capito che ero
straniero) e che cavolo facessi in quella stanza di un dormitorio a
Liberec, dove per arrivarci dovevi attraversare chilometri di neve.
Niente, neanche la vicinanza forzata, dovuta a quella micro stanza,
stipata di persone riusciva a farli smuovere dalla loro innata freddezza.
Freddi, sì, i cechi sono freddi. Nel conversare con le persone che
conoscono, ma a maggior ragione con le persone che non conoscono.
Poche settimane dopo essere arrivato per la prima volta a Praga, Katka
mi spiegava che la sua propensione a parlare con tutti, anche con gli
sconosciuti, gli aveva procurato qualche problema coi suoi connazionali:
«sai, qui non si attacca bottone con gli sconosciuti, così quando io lo
faccio pensano immediatamente che ci sto provando!»
L'unica volta che qualche sconosciuto mi ha rivolto spontaneamente la
parola è stato il giorno seguente la semifinale (o quello che era) del
mondiale di hockey su ghiaccio. Mi ero accorto che quella sera c'era la
partita di hockey quando, seduto al computer, ho sentito un urlo
provenire dall'esterno. Ho acceso il televisore e ho visto che la
Repubblica Ceca aveva segnato: l'urlo era lo stesso a cui ero abituato per
i goal della nazionale ai mondiali di calcio. Così per curiosità ho
continuato a guardare la partita. Se non ricordo male la Repubblica Ceca
ha condotto buona parte della gara per poi perdere nel finale. Il giorno
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dopo, mentre salivo le scale mobili del supermercato, un tizio si è messo
a commentare la partita con me, chiedendomi un commento su quella
bruciante sconfitta. Gli ho risposto che sì, avevo visto la partita, ma
fondamentalmente non ci avevo capito molto di come funzionava quello
sport, e ho troncato sul nascere la conversazione. Anche perché mi ero
spaventato: uno sconosciuto mi aveva rivolto la parola? No, da queste
parti non si fa!
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Co nadělaš?
«Co nadělaš?» ossia «Cosa ci puoi fare?». È una delle prime frasi che
ho imparato in ceco. L'ho imparata quando ancora non parlavo ceco e
usavo l'inglese anche per chiedere quanto costava il prosciutto. È una
frase ricorrente e molto utile: ad esempio puoi usarla per bloccare sul
nascita una discussione che si preannuncia noiosa, con un interlocutore
paranoico. Alle sue storie di proteste basta rispondergli con un «Cosa ci
puoi fare?» e la discussione muore lì, visto che l'unica risposta possibile
è «nic» ossia «niente».
Niente. Che è tra l'altro è anche l'unica risposta che i cechi danno a
questa domanda. Una risposta che palesa la propensione dei cechi a
subire senza protestare. Questo è uno degli atteggiamenti che non
condivido appieno nella mentalità ceca. In molti aspetti della vita di tutti
i giorni ci capita di subire dei torti o dei soprusi.
Mi ricordo di quando andai alla notte bianca di Como nel 2006. Tutta
la città era chiusa al traffico, perciò chi proveniva da Lecco doveva
parcheggiare la macchina a qualche km di distanza e prendere un bus (o
scendere in città a piedi). Ovviamente l'organizzazione era stata a dir
poco fallimentare: i bus navetta erano talmente pochi da essere ridicoli.
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All'andata abbiamo facilmente risolto il problema andando a piedi, e
come noi molti altri hanno fatto lo stesso. Al ritorno tuttavia la
disponibilità delle persone a farsi qualche km a piedi (oltretutto in salita),
non era la stessa dell'andata. Purtroppo il numero di bus navetta non era
aumentato e trovare un posto su di essi era un'impresa. Ci
incamminammo a piedi e ogni volta che un bus passava mi rendevo
conto di quanto la nostra scelta di camminare era stata quella giusta: i
pullman erano talmente affollati che sembravano quelli di Nuova Dehli;
non mi sarei stupito se avessi visto persone aggrappate alle porte o sopra
il tetto.
Nonostante ciò c'era ancora qualche pazzo volenteroso che voleva
salire e faceva gesto all'autista di fermarsi. L'autista – ovviamente –
tirava dritto. Alcuni di questi pazzi si piazzavano addirittura in mezzo
alla strada a braccia aperte impedendo al pullman di proseguire e quando
l'autista si rifiutava di caricarli (dannazione era fisicamente impossibile
entrare nel pullman!) la loro reazione consisteva nell'imprecare contro
l'autista, il sindaco, Berlusconi e – giusto per non farsi mancare nessuno
– il Papa.
Pochi mesi dopo mi trovavo già a Praga quando fu organizzato lo
“Strahov Open Air”, un grande concerto sulla collina di Strahov, presso
lo studentato della mia Università. Ricordo che anche in quella
situazione i bus era sovraccaricati. Gli autisti aprivano le porte, in quanto
sono tenuti a farlo dal regolamento, ma ovviamente nessuno poteva
entrare. La reazione dei cechi di fronte a questa situazione – del tutto
analoga a quella di Como – fu per me davvero sorprendente: invece di
imprecare con il sindaco, Topolánek e Krusciov, i cechi semplicemente si
facevano un sorriso, sollevavano le spalle, e proseguivano a piedi
salendo la collina di Strahov.
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A Como bestemmie e imprecazioni, a Praga un'alzata di spalle e un
«Co nadělaš?».
Dopo qualche giorno raccontavo l'episodio ad alcuni colleghi cechi,
sottolineando il fatto che mi sarei aspettato almeno qualche timida
protesta, almeno un «ty vole!». Be', i miei colleghi mi hanno dato una
risposta illuminante: alla fine i protestanti (non nel senso religioso!) di
Como hanno dovuto camminare esattamente come i non protestanti di
Praga. Che cosa hanno risolto imprecando contro l'autista, il sindaco,
Berlusconi e il Papa? Niente, e forse è proprio questo il motivo per cui
molti cechi non protestano, perché si rendono conto che la protesta non
porta a nessuna soluzione. Questo è sicuramente un atteggiamento di
buon senso nel caso della corriera piena di persone: se anche mi metto in
mezzo alla strada e prendo a male parole l'autista, non è che per magia si
crea del nuovo spazio disponibile nel pullman. Ma in tante altre
occasioni la protesta è doverosa. In molti casi si subiscono soprusi senza
senso, ma i cechi non alzano mai la voce, non protestano mai.
Mi è capitato di andare alla società che fornisce il metano nelle
abitazioni per fare il contratto, e trovarmi di fronte a un'impiegata con le
unghie finte, lunghe cinque centimetri, che probabilmente aveva più a
cuore la decorazione in tema viola delle sue unghie che la soddisfazione
dei clienti. E forse nemmeno la soddisfazione, diciamo meglio la banale
risoluzione di problemi basilari. Come quello di cambiare il nome sul
contratto del gas. Impossibile, senza la presenza fisica del precedente
intestatario. Impossibile. Poi dopo una ventina di minuti di proteste e
qualche mezza parola buttata lì per far capire che non mi arrendevo, la
signora dalle unghie in tinta viola ha estratto il modulo magico per
cambiare il contratto. E – diamine – non poteva farlo prima,
risparmiandomi venti minuti di collera in ceco?
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Questo è uno dei tanti casi in cui per me è lecito protestare: lecito e
doveroso, perché non si richiede qualcosa di impossibile, ma di venire
aiutati su un problema, che può essere facilmente risolto con un po' di
buona volontà. No, i cechi non protestano, nemmeno in questi casi. Non
alzano la voce e non si impongono.
Se escludo qualche barbone alcolista, e qualche dibattito politico visto
per sbaglio cambiando canale alla televisione, non penso di aver mai
sentito un ceco alzare la voce.
Mi hanno spiegato che questo atteggiamento di accettazione
incondizionata e rassegnata dagli eventi derivi dal fatto quando in questo
paese c'era il regime comunista, non era lecito protestare, non si poteva
alzare la voce. Non sono stato in grado di capire quanto, questa capacità
di influire anche sui minimi comportamenti delle persone, fosse diffusa
in ogni angolo del paese. Se ci penso, anche dalle mie parti c'era il
fascismo, e anche sotto il Duce non si poteva contestare; ma nei piccoli
paesi la situazione era più blanda. Al mio paese capitò che un ragazzo fu
portato dal podestà per una bricconata: davanti all'autorità fascista nel
paesino si difese afferrando il busto del Duce dalla scrivania e
misurandolo direttamente al podestà. E non fu messo in gattabuia.
Non so quanto invece potesse capitare da queste parti: di fatto qui
tutto era stato. Qualsiasi attività economica era gestita dallo stato.
Protestare all'ufficio dell'azienda che ti forniva energia elettrica,
equivaleva a protestare contro lo Stato, contro il regime, che tanto si
prodigava per i lavoratori. Protestare contro il salumiere significava
essere nemico del popolo. Quindi la gente ha semplicemente disimparato
a protestare, accettando passivamente tutto ciò che le veniva imposto.
Me l'hanno raccontata così, e forse un fondo di verità può esserci. Ma
sono tanti i popoli che hanno subito un regime, e non ne sono usciti tutti
come agnellini. Se questo meccanismo ha funzionato, è perché di base i
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cechi sono un popolo pacifico. Qualcuno più esperto di me potrà
spiegare la predisposizione ad essere violenti o pacifici è basata su
qualcosa di genetico, o se è semplicemente tradizione. Ma
indubbiamente posso dire che ci sono popoli che per loro stessa natura
hanno un comportamento più incline alla violenza rispetto ad altri.
Ecco, i cechi sono buoni.
Qualcuno potrà scomodare la storia, e ricordare che mentre i ragazzi
ungheresi lottavano col sangue per la libertà, i cechi subivano l'invasione
dei russi. Qualcuno potrà ricordare di come di fatto le frontiere caddero
di fronte agli invasori tedeschi, di fronte ai quali non si fece nemmeno
finta di reagire. Ma io non sono uno storico, e forse la ragione di tutto
questo si trova solo parzialmente nella storia del popolo. Io vivo la
Repubblica Ceca di oggi e osservo i comportamenti di chi mi circonda.
Vedo che la la poliziotta sgrida il ragazzo seduto sulla ringhiera della
tramvia (cadendo all'indietro verrebbe travolto dalle auto), vedo il
ragazzo che scende, anche se sbuffante. E vedo anche che la mamma –
una volta allontanatasi la poliziotta – provvede a sgridarlo (e non a
difenderlo, come succederebbe dalle mie parti!). Vedo che la gente non
ama scontrarsi, perché i cechi quando la pensano in un modo diverso
magari fanno morire la conversazione ma non si oppongono. E vedo che
anche quando gli animi si scaldano, non si arriva mai alle mani: l'unica
volta che ho visto dei cechi picchiarsi è stato una domenica mattina, in
pieno centro, davanti alla chiesa dove stavo entrando. Erano due barboni
che litigavano per chissà cosa; ed erano talmente ubriachi che in realtà
non avevano nemmeno la forza di stare in piedi, figuriamoci di
picchiarsi. Quell'attimo di violenza ceche si è quindi trasformato in un
siparietto simile ai pagliacci del circo.
Ho visto che tu puoi andare in discoteca, provarci con una ragazza,
metterti a ballare senza tenere le mani in tasca, per poi scoprire dopo
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venti minuti che il suo fidanzato è li vicino. E ho visto che non ti
mettono le mani addosso, mentre conoscevo posti dove usciresti con
qualche osso rotto, solo per uno sguardo di troppo a una ragazza
impegnata (che poi mi sono sempre chiesto, come cavolo faccio a capire
che è impegnata? Non ce l'ha scritto in fronte!).
Ma soprattutto ho sentito uscire da tante bocche ceche quel “co
nadělaš”: forse pavido, talvolta rassegnato. Ma ogni volta nasceva
dall'animo buono di chi lo pronunciava.
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Titoli di testa
Lo ammetto, su questo tema dovrei essere l'ultimo a parlare. Vengo da
un paese dove il culto del titolo (accademico o meno) raggiunge apici di
barocchismo ottocentesco. Mi è capitato di leggere sulle pagine bianche
(quando ancora si chiamavano poeticamente rubrica del telefono) un tale
che si era fatto mettere come titolo “capostazione”. Un mio insegnate di
educazione artistica lo trovavi invece riportato col titolo “ins.”: siccome
non era laureato non poteva usare il “prof”; ma guai a stare senza titolo.
In effetti è così, tutti gli insegnanti sono “professori” e tutti i laureati,
anche quelli in esercizi ginnici, sono “dottori”. Una situazione
paradossale: quando dicevo ai miei amici stranieri di essere “dottore” per
il fatto di avere un Bachelor, si sganasciavano dalle risate (e alcuni me lo
ricordano ancora adesso).
Ma se questa svalutazione dei titoli può essere considerata ridicola
(soprattutto agli occhi di uno straniero), bisogna tuttavia riconoscere che
ha un vantaggio considerevole: non si sbaglia mai a usare titolo. Basta
dire “dottore” o “professore” che si indovina sempre.
Le prime settimane in cui vivevo in Repubblica Ceca invece mi hanno
posto davanti al campo minato dei titoli cechi. Ovunque vai ti trovi
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davanti a miriadi di sigle: talvolta intuibili ma spesso davvero criptiche. I
cechi usano decine di titoli accademici, altro che il semplice “dottore”
che va bene per tutti.
Un dottore, nel senso di quello che ti cura l'influenza, userà il titolo
MUDr. Ci ho messo un paio d'anni per scoprire che MU sta per
“medicinae universae” (il Dr sta per dottore, ovvio). Un ingegnere
sfoggerà il titolo “Ing.”, il cui significato – almeno in questo caso – è
abbastanza intuibile. Meno intuibile il motivo per cui usino “Ing.”
quando ingegnere in ceco i dice inženýr. Il mio amico Jirka mi
raccontava che deriva dal francese ingénieur: Delusione, mi ero illuso
derivasse da ingegnere. Mi ha anche detto che gli capitò per le mani
qualche anno fa un vecchio libro dove l'autore usava il titolo “Inž.”. Poi
hanno pensato che un titolo ceco non suonava abbastanza altisonante, e
l'hanno cambiato col francese (che fa sempre la sua figura).
La cosa non mi stupisce, il ceco ama sfoggiare il proprio titolo, e
vuole che sia il più altisonante possibile. Probabilmente è per questo
motivo che molti titoli derivano da lingue straniere, soprattutto dal latino.
Oltre al già citato “MUDr”, vale la pena di ricordare il diffusissimo
“CSc” che sta per “candidatus scientiarum”. Era il titolo che
corrispondeva al nostro dottorato di ricerca, prima che venisse cambiato
nel più moderno e internazionalmente diffuso “PhD” (nel nuovo
millennio sembra che l'inglese faccia più figo del latino). E come non
citare il MVDr. (medicinae veterinariae doctor), nient'altro che un
normale veterinario. L'avvocato in carriera sfoggerà un JUDr. (juris
doctor), che tutto sommato è intuibile per uno straniero (magari non sa
che JU sta per Juris, ma pensa che sta per Justice, e fa un po' lo stesso).
Mentre il suo tirocinante appena laureato, potrà usare un criptico Mgr.
(Magister), ossia laureato semplice.
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La cosa che però mi fa imbestialire è la lettura di tali titoli. Quando
uno si trova davanti un “CSc” deve leggere “kandidát věd” che è la
traduzione ceca del titolo latino. Oppure se incontri un sacerdote, il suo
titolo sarà una striminzita “P.”, che ovviamente sta per il latino “Pater”,
padre. Ma andrà letto “Otče”, il vocativo di “Otec” (padre, in ceco)
Sembra che lo facciano apposta per creare un sistema di regole,
regoline e codicilli col solo scopo di avere un complicatissimo sistema di
titoli; solo gli iniziati possono entrare a far parte di questo sistema di
codici e sigle misteriose! Per uno straniero è una lotta continua per capire
tutti questi titoli, per leggerli correttamente e sapere come chiamare le
persone nella vita di tutti i giorni. Sì perché la faccenda non si limita ai
biglietti da visita.
Bisogna essere in grado di chiamare ogni persona col proprio titolo. Il
mio amico Petr mi raccontava una scena a cui aveva assistito durante un
esame universitario. Lo sprovveduto studente non era venuto a sapere
che l'insegnate era salito di grado la settimana prima. Da professore
associato, a cui spetta il titolo Doc. (Docent, che si legge Dozent) era
entrato nell'olimpo dei professori ordinari, a cui invece spetta il fatidico e
sospirato titolo Prof. (Profesor).
Quello studente commise un grave errore; durante la prova orale
chiamò “Pane Docente” (Signor Docente) quello che invece era ormai
un professore. Fulmini! Saette! Qualcuno racconta che l'edificio della
facoltà tremò e che le tende si stracciarono nel mezzo. «Ma come si
permette di chiamarmi Docente, non lo sa che sono un Pro-fe-sso-re?
Ritorni al prossimo appello!».
I cechi hanno un culto spasmodico per i titoli; li usano come
intercalare. Ogni frase che si rispetti inizia chiamando per titolo
l'interlocutore. Durante una conversazione non connettono le frasi con
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parole tipo “ecco”, “ebbene”, “quindi” ma ripetono venti volte un “Pane
Inženire”, “Pane Dottore” etc.
I cechi sono degli esibizionisti del titolo. Lo espongono con fierezza in
ogni occasione, anche quando se ne dovrebbe fare a meno. Mi è capitato
di fare benzina ad una stazione di servizio distante cento chilometri da
Praga. Quando ho guardato lo scontrino mi sono cadute le braccia (e
anche qualcos'altro). Il proprietario era “Bc.” Tizio Caio. Non so cosa ha
spinto quel signore a specificare sullo scontrino della sua pompa di
benzina che ha una laurea di primo livello (titolo Bc, dall'inglese
Bachelor). Il servizio che mi ha fornito mi è sembrato uguale a quello di
tutti gli altri distributori. Anzi, se invece di preoccuparsi di scrivere “Bc.”
davanti al nome si preoccupava di farmi pagare meno la benzina ero più
felice.
Ovunque sia possibile scrivere il titolo, i cechi ce lo mettono. Sulla
porta di casa, sul citofono, addirittura sul contatore del gas! La faccenda
è così seria che i titoli li scrivono addirittura sul passaporto (c'è proprio la
voce “Titoli:” dopo “Nome” e “Cognome”). Diventano, di fatto, una
parte del nome. Mi ricordo che qualche tempo fai mi recai all'ufficio
anagrafe del comune di Praga 6. Nell'aspettare il mio turno cercavo di
ingannare il tempo leggendo le istruzioni, su come compilare i moduli
per la richiesta della carta d'identità, riportate alle pareti. Alla voce
“Firma”, una solerte impiegata aveva aggiunto a penna “Solo nome e
cognome, SENZA TITOLO”. Se non li fermi subito, ti mettono il titolo
anche nella firma.
In Repubblica Ceca, infine, esiste una speciale categoria di persone,
quelli del titolo-pisello: fanno a gara a chi ce l'ha più lungo. Un giorno
stavo proprio discutendo con Michal di questa mania che i cechi hanno
per i titoli. «Fermo!» mi disse. Si mise ad armeggiare su google e in
pochi istanti... eccola! Una pagina internet di un professore ceco che
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metteva in bella mostra tutti i suoi titoli. Li riporto per diritto di cronaca:
“prof.Ing., CSc.D.Eng.h.c.”. E considerate che il suo nome era uno
striminzito “Petr Zuna”. Se contiamo i caratteri, il titolo batte il nome 23
a 8.
Ma il caso che più mi ha fatto stranire, è stato quando il mio dentista
mi ha consegnato il suo biglietto da visita: “Dr. Dr. Sempronio Tizio”.
Non ce l'ho fatta a trattenermi e gli ho chiesto: «Oh, bella! E come mai
ha scritto due volte lo stesso titolo». «Perché sono medico due volte: ho
una laurea in medicina più una laurea in odontoiatria», mi ha risposto
con orgoglio. Quello stresso orgoglio che gli ha fatto pensare che “Dr.”
ripetuto facesse una più bella figura. Sarà, ma a me è sembrato solo un
inutile sfoggio di vanità.
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Pochi, ma buoni
Quando parlo dei cechi con qualche amico, ogni tanto salta fuori il
discorso della religione. Forse perché essendo io credente mi capita di
frequentare spesso questo ambiente, e di riflesso capita che ne parli. La
domanda che di solito mi fanno è sempre la stessa «cosa sono qua?
Protestanti?». Forse c'è l'impressione che, essendo vicini alla Germania
si debba essere per forza protestanti. Normalmente gli “occidentali” non
conoscono che questa terra ha avuto un sviluppo storico indipendente, e
che di conseguenza molte cose – religione compresa – non hanno niente
a che vedere con i paesi che la circondano. Qualcuno si addirittura spinto
a chiedermi se fossero ortodossi «sai, la Russia...». Penso (spero) che
non sia necessario spiegare perché mi sono messo a ridere.
No, la risposta è che sono cattolici. Quelli che ci sono, sono cattolici.
Poi, ci sono ovviamente anche delle minoranze protestanti, che rispetto
al nostro paese sono molto più diffuse; devo dire che questo è anche un
vantaggio: quando non c'è una sola voce c'è più dialogo e meno
estremismo fondamentalista.
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Il punto è che sono talmente pochi i credenti cechi che con tutta
tranquillità puoi dire che anche la maggioranza (cattolica) è in realtà una
piccola minoranza (nel paese).
Se si vanno a vedere le statistiche ne esce che circa il 40% dei cechi si
definisce cattolico, ma questa percentuale di persona, in chiesa, non si
vede. Di fatto, include tutti quelli che sono stati battezzati.
Tanti cechi infatti, non solo non sono credenti, ma non sono nemmeno
battezzati. Un mio amico abruzzese aveva la morosa ceca, Petka. Quando
gli disse che non era battezzata, egli ci rimase molto male. Non che lui in
chiesa ci andasse molto spesso, sia ben chiaro. Ma considerava strano,
inusuale, che una persona non fosse battezzata in modo predefinito.
Tra le persone che conosco, posso confermare che una buona metà
non è battezzata, giusto per avere una conferma delle statistiche ufficiali.
Poi, come dicevo, i veri cattolici sono molto meno numerosi. Certo,
bisogna fare delle distinzioni, perché la Repubblica Ceca non è un paese
tutto uguale: in Moravia c'è una concentrazione di credenti sicuramente
superiore a quella che c'è a Praga o nel Nord del paese. Mi ricordo di
quella volta che stavo tornando da Příchovice, paesino del Nord a 5 km
dal confine con la Polonia. Ero in macchina con alcuni amici a cui avevo
dato un passaggio verso Praga. Il discorso cadde proprio sulla
percentuale di persone che vanno regolarmente in chiesa la Domenica
nella loro diocesi (Litoměřice). Uno di quei casi in cui i numeri sono
talmente bassi che devi usare la calcolatrice del cellulare per fare i conti
per bene (no, non mentre guidavo, tranquilli; eravamo in coda dal
benzinaio economico dove mi aveva condotto uno della compagnia). Se
non ricordo male uscì uno 0,9%. La stessa percentuale che dalle mie
parti vota Fattuzzo.
79
Certo, questo dato delle desolate terre nel Nord Boemia è
probabilmente è un estremo. Ma anche se consideriamo nel suo
complesso tutta la Repubblica Ceca, i dati non cambiano molto.
Allora uno potrebbe pensare che non valga la pena parlare di come i
cechi vivano la religiosità. Invece no, penso che sia utile; innanzitutto è
uno dei tanti aspetti che caratterizza questo popolo: un tassello di un
mosaico ben più grande. Ma soprattutto, si possono cogliere nel
comportamento dei cattolici cechi, tante caratteristiche comuni a tutti gli
abitanti di questo paese.
Innanzitutto la presenza dei cattolici in Repubblica Ceca è molto
discreta, silenziosa. Se vi capita di andare in Polonia, non avrete
difficoltà a vedere tanti religiosi (sacerdoti, suore, frati) per la strada. Se
andate in città come Cracovia, potete sentire questa presenza imponente
nella religione, semplicemente osservando quanti preti (spesso giovani)
incontrate per le strade della città in una giornata.
Se invece fate una vacanza a Praga, o in una altra città ceca,
probabilmente non vi capiterà mai di incontrare un prete. O meglio,
probabilmente lo incontrerete, ma non capirete che è prete. I sacerdoti
cechi infatti, non si vestono mai da preti. A parte pochissime eccezioni si
vestono tutti praticamente in civile. Non usano il clergyman (il vestito
civile nero con il collarino), vestono proprio come la gente comune. Di
solito non portano nemmeno la classica croce-spilletta al petto per farsi
riconoscere. Certo, anche in Lombardia ho conosciuto qualche prete che
vestiva completamente civile; di solito di trattava di personaggi un po'
speciali: cappellani delle carceri, preti che seguivano tossicodipendenti,
gente abituata ad avere a che fare con situazioni difficili, dove non si
guarda tanto all'aspetto, ma alla sostanza. Poche eccezioni insomma. Per
quanto riguarda i preti cechi invece, praticamente tutti vestono civile. A
memoria, mi sembra di ricordare solo due eccezioni: un anziano
80
sacerdote che veste il clergyman e un giovano monaco benedettino, che
incontrai nel suo tipico saio bianco; per il resto tutti in civile. Ho chiesto
più volte il motivo di questo diffuso atteggiamento tra il clero ceco, e mi
è sempre stato risposto che durane il comunismo i preti si dovevano
vestire civili, perché era pericoloso essere riconosciuti come preti. «Sì,
ma ormai il comunismo non c'è più: perché non tornate a vestirvi da
preti?», ho sempre ribattuto. «Ormai si è persa l'abitudine!» mi dicono. E
probabilmente è così: i preti più anziani che scelgono di vestirsi da preti
lo fanno come rivincita: sono quelli che normalmente hanno un odio
incancrenito contro il regime, e che – ora che possono - usano anche
l'abito presbiterale per gridare la loro avversione al comunismo. I preti
più giovani invece scelgono di vestirsi da preti per una testimonianza più
autentica della propria fede, per fare evangelizzazione. Tutti gli altri
invece sono semplicemente abituati a non vestirsi da preti, e non vedono
perché dovrebbero cambiare le loro abitudini adesso che finalmente c'è la
libertà; credo che inconsciamente sia un modo per dimostrare che non
era il comunismo a vincolarli.
Per qualsiasi motivo lo facciano, il fatto che i religiosi non siano
riconoscibili, fa in modo che la presenza di credenti nella società sia
avvertita ancora meno di quella che in realtà è (se si guardano le
statistiche ufficiali il numero di fedeli per sacerdote nella diocesi Praga è
come quello della diocesi di Milano). Ma se qualcosa non è visibile, lo si
avverte meno.
Il comunismo, è vero: tutti danno la colpa al comunismo. Perché sono
così pochi i credenti in Repubblica Ceca? Colpa del comunismo, ti
rispondono. Eppure il comunismo c'è stato anche in Polonia, ma non per
questo sono diventati atei, anzi. Qualcuno mi ha detto che il regime è
stato più duro in Cecoslovacchia, che non in Polonia. Può darsi, ma
ancora non spiega tutta questa differenza.
81
Certo, il comunismo non aiutava. Un mio collega, classe '81, mi
raccontava che i suoi genitori volevano battezzarlo, e per farlo dovettero
affrontare un viaggio clandestino in Croazia, con un bambino di pochi
mesi. Probabilmente non era sicuro cercare di farlo battezzare nell'allora
Cecoslovacchia.
Una lettura interessante fu un libro scritto da un medico ceco, che
raccontava la sua esperienza in missione nella Repubblica Centro
Africana. Nel primo capitolo raccontava di come era diventato medico e
del suo percorso di studi. Diceva che per accedere all'Università si
doveva presentare una lettera di presentazione da parte degli insegnanti
della scuola superiore dove ci si era diplomati. Serviva a garantire che
l'aspirante universitario fosse politicamente allineato al regime
(sostanzialmente le facoltà umanistiche erano inaccessibili se c'era il
sospetto che lo studente non abbracciasse il comunismo). Essendo
cattolico, avrebbe avuto molte difficoltà ad iscriversi a Medicina, ma –
diceva – ebbe la fortuna di non essere fermato in quanto era un ottimo
studente. Ma quanti altri non hanno potuto fare carriera perché cattolici?
Allora uno inizia a pensare che in un paese dove non ce la si passa alla
grande, non vale la pena di fare il credente, se questo ti preclude un
minimo di carriera, spingendoti verso i lavori più umili.
Tuttavia credo che ci siano anche altri motivi che hanno portato questo
paese all'ateismo diffuso. Sicuramente c'è stata una mancanza di
leadership. La Repubblica Ceca non ha avuto un Karol Wojtyła che
lottava contro il comunismo. Questo paese è sempre stato passivamente
succube di Mosca, non c'era un sentimento nazionale organizzato con il
quale la Russia dovesse fare i conti, probabilmente anche perché essendo
la popolazione numericamente molto inferiore era più facile da
dominare.
82
Anche le uniche iniziative di resistenza civile nascevano dal mondo
culturale (come Charta 77 di Václav Havel), non certo dal mondo
religioso. Le chiese venivano utilizzate come magazzini, i preti venivano
umiliati; a molti di loro veniva vietato di celebrare la messa. Era difficile
quindi che nascesse una leadership religiosa, perché la religione veniva
vissuta in clandestinità. Dopo la caduta del comunismo, nel 1991
Miloslav Vlk divenne arcivescovo di Praga, fino ad allora “prete
semplice”. Nel giro di quattro anni diventò arcivescovo e cardinale.
Eppure era un signor nessuno, uno che per lunghi periodi non poteva
celebrare la messa pubblicamente. Ha dovuto lavorare come
metalmeccanico e come libraio. Capitava che mentre lavorava come
lavavetri, qualcuno – riconoscendolo – gli faceva un segno: egli capiva, e
appena poteva gli si avvicinava per confessarlo, in un angolo nascosto
della strada. Vivevano la loro missione, consapevoli che non potevano
spingersi oltre. Ed è questo un atteggiamento che ha accomunato tutti i
cechi durante il regime: l'assenza d'impeto rivoluzionario. Conigli? No,
penso siano semplicemente persone miti. Almeno, questo ho avvertito
tutte le volte che ho incontrato il card. Vlk: una persona mite, e per un
cattolico questa è una virtù.
Un altro atteggiamento che ho notato da parte dei cattolici cechi, è la
poca importanza che viene data alle personalità. Quelle volte che ho
incontrato infatti il card. Vlk, sono rimasto stupito dal fatto che non ci
fosse la ressa per baciargli l'anello o anche solo per salutarlo. Una volta
lo incontrai in una parrocchia: arrivò nel cortile dell'oratorio: chi giocava
a calcio continuò a giocare a calcio, chi la contava su, seduto sulla
panchina, non interruppe la conversazione. Alla fine, l'unico che andò a
salutarlo e fare un po' di accoglienza come si deve fui io. Provate a
portare un cardinale in una parrocchia italiana e vedrete se si scatena il
finimondo, con i vari presidenti delle bocciofile che sgomitano per essere
in prima fila.
83
Forse questo atteggiamento distaccato deriva da una generale
freddezza dei cechi, non abituati a fare le scenate. Ma probabilmente
dipende anche dal fatto che i credenti cechi sono pochi ma buoni. In altre
parole: i credenti sono pochi, ma quelli che ci credono ci credono
veramente. E per uno che ci crede veramente, un vescovo, un cardinale o
anche il Papa non è oggetto di fanatismo. Ogni domenica un credente
incontra Gesù in carne ossa, - pardon, sangue: sai cosa se ne fa di un
cardinale. È pur sempre un uomo!
I cattolici cechi sono pochi ma sono credenti fino in fondo. Ero infatti
abituato ad una situazione di credenti in scala di grigi: di quelli che sono
“credenti-praticanti-osservanti”, di quelli che “ci-mancherebbe-che-nonvado-in-chiesa”, di quelli che “credo-in-Dio-ma-non-nella-Chiesa”, di
quelli che “credo-in-qualcosa-di-più-grande” o di quelli che non ci
credono proprio.
In Repubblica Ceca invece la scala di grigi non c'è: o bianco o nero.
Se sei credente lo sei davvero. Normalmente chi va in chiesa aderisce
totalmente alla dottrina della Chiesa. E questo si ripercuote in estremi
che non sono immaginabili nemmeno dal più talebano dei ciellini
lombardi. Mi raccontava un mio amico ceco (non citerò il nome
nemmeno sotto tortura) che una volta incontrò una ragazza slovacca in
un locale. «E sai com'è, una parola tira un'altra, una birra anche... e alla
fine siamo usciti che era troppo tardi e lei non aveva più autobus per
andare a casa».
«E cosa hai fatto?». «Be', le ho dato ospitalità io allo studentato».
«Spero che tu abbia fatto il tuo dovere». «Allora, per farla breve lei si è
messa a letto... ma io mi sono messo al computer a lavorare al mio
progetto». «Eh? Cosa?», «Sì, lei mi chiamava, diceva che si scioglieva
come cioccolato, che aveva bisogno di calore umano... ma io sono stato
al computer fino all'alba». Roba da beatificazione in vita, aggiungerei io.
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Il fatto è che in generale cercano di essere coerenti: «ma se non mi
comporto così, che differenza c'è tra noi e i non cristiani?» mi sono
sentito dire più di una volta.
Ecco, il fatto di essere estrema minoranza in Repubblica Ceca, li porta
a cercare di distinguersi. E visto che per i cristiani non ci sono strane
tradizioni come il taglio del prepuzio, la barba ricciolosa o la moglie
bardata sotto pesanti palandrane, allora si cerca il segno distintivo
nell'atteggiamento.
***
Dicevo che i cattolici cechi sono uno spaccato della società Ceca nel
suo complesso. Lo sono nella mitezza, nella rassegnazione, e nel nonfanatismo verso le personalità. Ma lo sono anche nell'educazione e nella
compostezza. L'esempio più lampante è l'esperienza che ho vissuto a
Pasqua 2008. Il sabato sera sono andato alla parrocchia di Kobylisy, nella
periferia Nord di Praga. Una bella parrocchia, gestita da padri salesiani
che hanno costruito un centro molto attivo, con tante iniziative e una
comunità molto partecipe. Non è la tipica parrocchia, con quattro vecchie
che ripetono le litanie sulle panche che puzzano di chiuso. Al contrario, è
una parrocchia dove a messa ci trovi tanti giovani e tante famiglie coi
bambini.
La veglia pasquale del sabato santo l'ho passata lì. Ed è stata una
signora veglia. Chiesa strapiena, ma nessun problema: tutti composti,
senza chiacchierare, senza fare confusione. Tutti che si alzavano quando
c'era da alzarsi e si sedevano quando c'era da sedersi. Tutti, che si
inginocchiavano quando c'era da inginocchiarsi (all'elevazione e
all'agnus dei). Chi – come gli anziani – non poteva inginocchiarsi si
sedeva: gli altri si inginocchiavano, tutti.
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Ne è uscita una celebrazione bella, organizzata bene, e “sentita”. Sì,
perché la compostezza, il silenzio e l'atteggiamento rispettoso di tutti ha
contribuito a creare la giusta atmosfera per pregare. Durante la veglia si
sono svolti anche i battesimi degli adulti, quelli che decidono di
diventare cristiano, invece di ritrovarcisi. Quelli che spesso sono cristiani
con un pizzico di coerenza e di fede in più rispetto a chi vede nella fede
solo uno strumento per diventare primario in un ospedale lombardo.
Il giorno dopo sono andato alla messa pasquale delle 11.30 alla Chiesa
di Santa Croce, a Na Příkopě, nel centro di Praga. Messa in italiano,
come ogni domenica a quell'ora, e che di solito ospita quattro immigrati e
cinque turisti italiani, e che per l'occasione di Pasqua invece, traboccava
di fedeli italiani (presumibilmente tutti turisti).
Un mercato delle vacche, avrebbe detto mio nonno. Gente che
gridava, bambini che sbraitavano e madri che invece di dare loro un paio
di sberle li lasciavano fare, orgogliosi delle loro creature. Italiani di tutte
le regioni che cercavano di accaparrarsi un posto in prima fila. Non vi
dico poi di quando il sacerdote ha chiesto se c'era qualcuno disponibile
come lettore: facevano a gara per poter salire sull'altare a leggere, per
sentirsi importanti. Una mancanza di sobrietà che urtava, come quella
signora di mezza età, avvolta in un vestito di due taglie più stretto,
truccata all'esagerazione, che ha sgomitato per leggere (e non era
nemmeno capace di usare il lezionario).
Una confusione, un esibizionismo, una mancanza di rispetto per il
luogo, in una parola una cafonaggine, che mi ha dato il voltastomaco. La
sera prima, alla messa pasquale ceca, benché la chiesa fosse strapiena
uguale, non c'è stato niente di tutto questo ma, al contrario, rispetto,
compostezza, educazione. Nemmeno i bambini davano fastidio: magari
camminavano per la chiesa incuriositi dall'ambiente, ma non sbraitavano,
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non disturbavano. Sembra che sin da bambini i cechi imparino a non far
casino.
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Brava con le lingue
«Accidenti, ma parli italiano perfettamente. Davvero, complimenti.
Ma come fai?». «Be', si vede che sono brava con le lingue!» mi risponde
Kateřina; e sì, sapeva il doppio senso che si nascondeva dietro quella
frase (è lo stesso anche in ceco). Stavamo uscendo da “U Pětniku” dove
eravamo andati a pranzo insieme. Prima volta che ci incontravamo, e lei
mi esce con questa battuta: grandissima! Non per la battuta in sé, ma per
la capacità di non aver false remore e perbenismi di facciata. Quello che
si deve dire si dice, si fa una risata senza malizia e nessuno si
scandalizza.
Devo aggiungere, dopo anni che la conosco, che è davvero brava con
le lingue. Parla l'italiano perfettamente, praticamente livello
madrelingua, oltre a parlare fluentemente inglese e francese. Insomma,
una di quelle persone che invidii davvero, per l'abilità di imparare lingue
straniere.
Purtroppo però è un caso estremamente isolato in questo paese. Tanti,
tantissimi giovani parlano solo ceco e non provano nemmeno a imparare
un po' di inglese. Certo, è un problema comune a molti paesi europei. Un
ragazzo italiano non parla molto meglio l'inglese di un coetaneo ceco.
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Qualche settimana fa ho incontrato il mio amico Michal che ora lavora in
Normandia, e mi raccontava delle sue enormi difficoltà a comunicare con
i colleghi, perché sembra che pochissimi parlino inglese. E non è andato
in Normandia a raccogliere pomodori; lavora come ricercatore, quindi ci
si aspetterebbe un ottimo livello d'inglese da parte di chiunque in un
ambiente di ricerca. Al contrario, mi raccontava come, in Francia, gli
risultava più facile comunicare con i negozianti (che per via dei turisti
qualche parola basilare di inglese l'avevano imparata) che non con i
colleghi ricercatori. Il problema è che forse (forse!) i francesi se lo
possono permettere. Sono una grande nazione, e forse si trascinano
ancora un po' di retaggio di grandezza dal passato; tutto sommato tanti
paesi al mondo parlano francese. Lo stesso non si può dire per la
Repubblica Ceca. Il ceco è una lingua parlata da poche persone, perciò ci
si aspetterebbe una maggiore predisposizione per le lingue straniere.
Perché imparare una lingua significa poter comunicare con tante persone
in più. E se tu parli solo ceco, puoi parlare solo con cechi (e ti puoi
intendere con slovacchi e polacchi...). Ma di certo non ci sarà verso di
comunicare con una persona di origine non slava. E allora, perché i cechi
non hanno l'ambizione di studiare l'inglese? Non hanno voglia di
comunicare con persone straniere? Non vogliono aprirsi ad altre culture?
Innanzitutto bisogna fare un passo indietro nella storia di questo
paese. Fino al 1989 qui si studiava il russo a scuola. L'inglese era
prerogativa solo di chi lavorava nella scienza, dove la lingua franca è
l'inglese. Per il resto, solo russo. Mi raccontava Aleš, classe 1975, che
dopo la rivoluzione, iniziarono a insegnare inglese nelle scuole
cecoslovacche. Piccolo problema: per insegnare una materia ti servono
anche gli insegnanti, e gli insegnanti di inglese non c'erano. Bisognava
creare una classe di insegnati di inglese dal nulla. Aleš diceva che la sua
maestra di russo si era convertita a maestra di inglese: andava ella stessa
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a scuola d'inglese e insegnava ai propri alunni quello che aveva imparato
due lezioni prima.
È evidente quindi che la Repubblica Ceca, così come gli altri paesi
oltre cortina, ha dovuto scontare un ritardo didattico per quanto riguarda
l'inglese, rispetto agli altri paesi europei. Ma questa scusa poteva valere
per i primi dieci, quindici anni dopo la rivoluzione. Ora ci si aspettano
dei cambiamenti.
È vero, ogni tanto capita di incontrare dei ragazzi molto giovani che
parlano molto bene inglese. Una volta aspettavo la valigia all'aeroporto
di Bergamo, proveniente da Praga. Un gruppo di ragazzini cechi,
massimo dodici anni, si era seduto sul nastro bagagli, e siccome stavano
per arrivare le valigie ho detto loro di alzarsi. Ovviamente hanno capito
dalla mia orribile pronuncia ceca, che ero straniero, e si sono rivolti a me
in un ottimo inglese. Poche frasi mi sono bastate per capire che quei
ragazzi l'inglese lo parlavano davvero bene.
Ma per tanti altri non è così. Un caso emblematico è stato quello di
Tomaš, un moravo di Ostrava, che si era trasferito a Praga per lavoro (si
era appena laureato in ingegneria e iniziava a lavorare per compagnia di
costruzioni sotterranee). Un giorno è arrivato disperato dicendomi:
«Devo imparare l'inglese entro settimana prossima». «Auguri!». «Grazie,
il problema è che arriva una delegazione di un'azienda coreana e il mio
capo – siccome non parla inglese – mi ha delegato al compito di
interprete». Dato che era giovane il capo dava per assodato che parlasse
inglese, ma in effetti il suo inglese era molto debole, tanto che tra di noi
si parlava normalmente in ceco. Alla fine la faccenda si è risolta con
l'assunzione di una interprete per i tre giorni della visita. E Tomaš, invece
di prendere l'occasione dopo questa esperienza, di imparare seriamente
l'inglese, è tornato nel suo allegro fregarsene di questa lingua.
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Non capisco fino in fondo i motivi per cui i cechi sono così restii ad
imparare lingue straniere. Sì, restii. Magari gli piacerebbe parlare
inglese, ma hanno una sorta di rassegnazione. Forse è la paura di non
farcela, vista la differenza tra le due lingue.
Quello che non mi piace è che spesso il menefreghismo, la
rassegnazione o questa paura di imparare l'inglese, viene mascherato
come nazionalismo. Becero nazionalismo. Perché il nazionalismo è bello
quando è orgoglio della propria cultura e della propria origine. Ma
quando serve a mascherare le proprie ignoranze è una delle più grandi
forme di ipocrisia. «Qui siamo in Repubblica Ceca e si parla ceco», ho
sentito dire tante volte. Dal poliziotto incazzato con uno studente
canadese all'ufficio immigrazione, al senatore accademico che voleva
nascondere la sua ignoranza linguistica. È vero, alcune volte ci sono
anche i nazionalisti veri: quelli che per esempio hanno scritto “no
all'inglesizzazione” sul messaggio “Beware of pickpockets” sul tram.
Oppure quelli che ti vengono a dire che parlare ceco nelle Università è
stata una conquista, visto che prima si doveva parlare tedesco. Magari
pensano così perché tratti in inganno da qualche politicante che paventa
la perdita di identità nazionale se ci si apre agli stranieri.
Il tedesco, vero; perché se dalle mie parti nessuno parla tedesco, qua
invece la percentuale è molto più alta. Conosco giovani (20, 25 anni) che
non parlano una parola di inglese, ma che parlano correttamente tedesco.
E no, non deriva dal fatto che le due lingue, tedesco e ceco, siano simili,
perché non lo sono. Anzi, forse dovrei fare una precisazione: sapete che
esiste il ceco, vero?
Non è una domanda stupida, perché fui io il primo a cadere in questo
tranello, credendo che i cechi non avessero una loro lingua. Quando ci
ripenso rabbrividisco a quanto ero ignorante.
91
Era l'estate 2003, e mi trovavo all'aeroporto di Heathrow, Londra. Era
sera, e stavo tornando dalla mia vacanza nella capitale inglese. La prima
volta che prendevo un aereo, che facevo una vacanza all'estero per i fatti
miei, con tanto timore di non riuscire a cavarmela. Eppure era andato
tutto a gonfie vele. Be', avevo l'aereo che partiva alle 7 della mattina e
siccome temevo di non raggiungerlo in tempo partendo all'alba, mi ero
portato all'aeroporto verso mezzanotte, con l'intenzione di passare
qualche ora in dormiveglia all'aeroporto, in attesa dell'imbarco.
Purtroppo però non avevo fatto i conti col fatto che i posti comodi per
dormire sdraiati erano già stati tutti occupati. Uno anche da un barbone,
anche se poi è stato allontanato dalla polizia (no, lì poi non mi ci sono
azzardato a sdraiarmi). Non mi rimaneva che stare seduto e aspettare il
mattino senza dormire. Poco dopo mi si è avvicinata una ragazza
stupenda, che senza dubbio avrebbe potuto fare la modella. Mi guarda
l'etichetta della valigia: «Ehi, ma sei italiano?», dicendolo in italiano.
Perché Iva, così si chiamava, parlava perfettamente italiano, e ne ha
approfittato per attaccare bottone. Una conversazione durata tutta notte
fino all'imbarco, avvenuto all'alba. Era una ragazza ceca che viaggiava
per l'Europa, vivendo di lavori come baby-sitter e cambiando
continuamente paese. Io all'epoca sapevo ben poco del suo paese, la
Repubblica Ceca, e non avrei mai pensato che un giorno ci sarei andato a
vivere. Ma ancora meno avrei pensato che un giorno mi sarei trovato a
fare di interprete ceco-italiano per dei napoletani beccati col biglietto
sbagliato sul metrò di Praga (successo stamattina). Perché all'epoca
nemmeno sapevo che in Repubblica Ceca si parlasse ceco, lingua di cui
ignoravo totalmente l'esistenza. A Iva lo chiesi anche «Ma cosa parlate
nel tuo paese? Tedesco?». Santo cielo, quanto ero ignorante. «Ma no,
abbiamo la nostra lingua!» mi rispose stizzita. Non l'aveva presa bene.
Eppure tanti stranieri, tanti turisti che arrivano a Praga non sanno
dell'esistenza del ceco, e pensano che si parli tedesco. Forse perché
pensano che un paese così piccolino non riesca ad avere una lingua
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autonoma. O forse perché pensano che se in Austria parlano tedesco,
perché non dovrebbero farlo in Repubblica Ceca. Invece no, i Cechi ci
tengono alla loro lingua, perché è una parte della loro identità, e Iva –
con quella sua permalosa reazione – me l'aveva dimostrato.
Ancora di più, tanti pensano che esista il Cecoslovacco, inteso come
lingua. Mi è successo all'aeroporto di Praga, mentre attendevo di
imbarcarmi su un volo diretto a Bergamo e quindi pieno di connazionali.
Visto che l'imbarco tardava ho chiesto alle assistenti – in ceco – il motivo
di tale ritardo. E un orobico vicino a me mi ha chiesto «Ah, ma tu parli
Cecoslovacco?». «No, Ceco» ho risposto io. «Sì, vabbe', è lo stesso».
«No, non è lo stesso, il ceco e lo slovacco sono due lingue diverse, e il
cecoslovacco non è mai esistito». «Eh, ma per noi è cecoslovacco».
Proprio vero che a lavare la testa a un asino si spreca tempo e sapone. C'è
purtroppo questa convinzione diffusa che, siccome esisteva la
Cecoslovacchia, per forza doveva esistere anche la lingua cecoslovacca.
E invece no, perché anche durante il periodo di convivenza sotto un
unico stato di cechi e slovacchi (dal 1918 al 1993) le lingue sono state
sempre due: il ceco e lo slovacco. Due lingue che non si sono mescolate
grazie al fatto che nelle scuole ceche si insegnava il ceco mentre nelle
scuole slovacche si insegnava slovacco. Ma soprattutto perché la
televisione trasmetteva programmi in entrambe le lingue, così che di
fatto i cittadini erano bilingue, ma una lingua cecoslovacca in sé non è
mai nata dalla mescolanza delle due lingue. Probabilmente per un
orgoglio identitario dei due popoli, che magari sono fratelli, non si
odiano come altri popoli trovatisi sotto un unico stato, ma che comunque
ci tengono a far sapere che gli uni sono cechi e gli altri sono slovacchi.
Bello quando uno conserva la propria identità, un po' meno quando la usa
come paravento per altri scopi.
Uno potrebbe infatti chiedersi quanto, in realtà, siano diverse le due
lingue. La tipica osservazione che lo straniero fa quando abita nella
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Repubblica Ceca : «Oh, ma io quando guardo l'etichetta del detersivo, sia
la versione ceca che quella slovacca mi sembrano uguali!». Ditelo a
loro... Un mio carissimo amico slovacco, Ondra, mi raccontava un giorno
di essere abbastanza incazzato: aveva ricevuto i dati e i commenti che i
suoi studenti gli avevano dato, tramite il questionario sulla qualità degli
insegnanti, nella Facoltà in cui insegna. C'è stato un simpaticissimo
studente che ha scritto: «Penso che all'Università Tecnica Ceca, si debba
parlare ceco, e non slovacco. Se questo insegnate vuole parlare Slovacco,
se ne torni in Slovacchia». Specchio del problema delle nuove
generazioni, che – dopo la separazione del 1993 – crescono senza la TV
bilingue e imparano o solo ceco o solo slovacco (a dire il vero gli
slovacchi sono un po' più inclini a imparare il ceco). Ma segno anche
della permalosità di un popolo che non vuole vedere intaccata la propria
lingua, quasi ne vada della propria indipendenza nazionale.
Sentivo di comunità turche in Germania dove si parla esclusivamente
turco: i membri di queste comunità non si arrendono all'imparare
tedesco. In Repubblica Ceca invece gli immigrati imparano (quasi) tutti
il ceco. Spesso mi capita di vedere un coreano e un africano nei corridoi
dell'Università, che parlano in ceco tra loro. Io stesso ho un amico
bulgaro col quale parlo principalmente in ceco. Senza contare gli
adolescenti vietnamiti di seconda generazione che parlano tra loro in
ceco: buffo! Forse dipende dal fatto che l'immigrazione in Repubblica
Ceca è ancora a bassi numeri, e che quindi è più facile imporre ai nuovi
arrivati di adattarsi e imparare la lingua: è semplicemente una questione
di sopravvivenza. Eppure penso che dipenda anche dalla capacità del
popolo ceco di non perdere la propria identità. Certo, poi c'è anche la
politica di mezzo. Se il mio amico di Bratislava era stato criticato perché
insegnava in slovacco e non in ceco, io non ho mai avuto di queste
rimostranze da parte dei miei studenti (e il il mio ceco è sicuramente
meno comprensibile per gli studenti, rispetto allo slovacco di Ondra). Ma
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non si lamentano perché sentire un Lombardo che parla ceco, li
inorgoglisce. I cechi hanno questo atteggiamento a doppia faccia nei
confronti degli stranieri che si confrontano con la loro lingua. Delle volte
si arrabbiano per niente e pretendono che tu debba parlare perfettamente
ceco, adducendo motivazioni nazionalistiche. Altre volte si sciolgono in
lodi sperticate anche quando parli un mezzo ceco stentato. Capita di
solito quando provieni da un paese non slavo, e quindi per te imparare
ceco è molto più difficile che non per uno slovacco o un polacco.
Una domenica mattina, andai in negozio a chiedere un pollo arrosto.
Purtroppo pollo si dice kuře, con quella difficilissima lettera da
pronunciare: ř. Talmente difficile che anche tanti cechi – Václav Havel
compreso – non la sanno pronunciare e devono andare dal logopedista (e
a questo punto ti chiedi: se nemmeno i cechi la sanno pronunciare,
abolitela dalla lingua, no?). Di solito abbozzo un suono che assomiglia
all'originale e la gente capisce. Quella volta mi era uscita una schifezza
indecifrabile anche per me che l'avevo pronunciata. Ma forse, più della
mia frase ceca, ha fatto il dito puntato sul pollo, e la commessa ha capito
al volo. Ovviamente mi sono scusato per la mia pessima pronuncia, e la
commessa – probabilmente di buon umore – ha semplicemente sorriso e
mi ha risposto «Non c'è problema! Almeno voi ci provate». Sì, perché gli
immigrati – non solo in Repubblica Ceca - li puoi dividere in due
categorie: gli immigrati di lusso e gli immigrati poveri. I primi sono
imprenditori, dirigenti, banchieri, insomma colletti bianchi che vengono
in Repubblica Ceca solitamente da paesi occidentali d'Europa, o dagli
Stati Uniti d'America, per assumere ruoli lavorativi altamente qualificati.
I secondi invece sono persone che vengono da paesi poveri che arrivano
in Repubblica Ceca per fare i muratori e gli operai.
Uno si aspetterebbe che il bocconiano, con master al MIT, che arriva a
Praga per dirigere un'azienda, sia una persona talmente in gamba da
imparare il ceco in pochi mesi. E altrettanto ci si aspetterebbe che il
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muratore ucraino con la quinta elementare abbia meno capacità di
apprendere una lingua straniera. E invece capita esattamente l'opposto:
gli immigrati poveri imparano tutti il ceco, mentre gli immigrati di lusso
passano dieci anni in questo paese senza imparare nemmeno le frasi da
manuale di conversazione. Alcuni, dopo due lustri in questo paese,
ancora non conoscono nemmeno la pronuncia delle lettere.
Il motivo è semplice: il lavoratore qualificato lavora in inglese, ha la
segretaria che gli traduce a comando, e manda il fattorino in questura per
i documenti di immigrazione. Va al ristorante di lusso dove il cameriere
parla inglese: tutto sommato il ceco non gli serve. Il muratore ucraino se
non parlasse ceco non sopravviverebbe: dalla questura, quando deve fare
il permesso di soggiorno, al lavoro, per far valere i propri diritti. E allora
ecco che le parti si invertono e i più istruiti si dimostrano più ignoranti di
quelli che invece sono andati molto meno a scuola.
È questo che i Cechi non sopportano: l'immigrato di lusso che non
impara il ceco. Perché dimostra scarso rispetto per il paese che lo ospita:
vivere per dieci anni in un paese e non impararne la lingua significa
fregarsene del mondo che ti circonda, non interessarsi della cultura e
della gente, del popolo che costituisce il paese. Significa che Praga,
Parigi, o Tokyo per te fa lo stesso, perché non ti mischierai mai con la
gente del posto, ma solo con i tuoi colleghi colletti bianchi dal portafogli
gonfio. E questo – del tutto comprensibilmente – ai Cechi non va giù.
Soprattutto per via di quel portafoglio gonfio, usato come passaporto di
ignoranza per non imparare il ceco.
E allora capisci perché delle volte ti guardano con disprezzo quando
capiscono che non sei un turista, che in Repubblica Ceca ci vivi, e non
sai dire due semplici parole in ceco (anche se non fai parte degli
immigrati di lusso, ma sei solo arrivato da due settimane) e nel frattempo
si dimostrano entusiasti se invece ti metti a parlare ceco, benché non
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perfettamente: significa che ti sei fatto un bagno di umiltà e hai deciso di
ripartire da capo per imparare una lingua, che è utile praticamente solo in
questo paese. Loro lo capiscono e ne sono lusingati. Tutto sommato i
cechi sono un po' come le donne: fanno i sostenuti, ma poi basta poco per
conquistarli.
Anche per questo ho deciso di imparare il ceco, perché significa
integrarsi meglio, o più precisamente, integrasi e basta. Certo, la strada
non è facile, perché essendo una lingua slava le parole sono praticamente
tutte diverse. Ogni tanto si trova qualche eccezione: il volante, che in
inglese è chiamato con un complicato “steering wheel”, in ceco si dice
semplicemente “volant”. Per rimanere in ambito automobilistico il
semaforo ceco è “semafor”, mentre gli anglofoni ricorrono ancora a due
parole: “traffic light”. Ma se si escludono queste poche eccezioni, il
vocabolario ceco è totalmente diverso dal nostro. Se quindi per noi è
facile imparare una lingua come l'inglese, dove ufficio diventa office,
dentista si dice dentist e ospedale di dice hospital, diventa molto più
difficile imparare il ceco dove queste tre parole sono nemocnice,
kancelář, zubař (messe in ordine casuale... vediamo se riuscite ad
assegnarle al loro significato).
Oltre al fatto che le parole siano completamente diverse, e che uno se
le debba imparare tutte da zero, ci sono anche altre difficoltà. Una di
questa è rappresentata dalle parole impronunciabili: per chiedere un
gelato, dovrai pronunciare la parola “zmrzlina”, cinque consonanti di
fila, alla faccia della mia maestra delle elementari che diceva
materialmente impossibile pronunciare più di tre consonanti consecutive.
In ceco esiste addirittura una frase di senso compiuto che non ha
nemmeno una vocale: Strč prst skrz krk (ficcati un dito attraverso la gola,
e devo ancora decidere se mi piace meno il senso della frase e la fatica
per pronunciarla).
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Poi esiste la categoria delle parole difficili da ricordare. Non ho ancora
capito perché ma ci sono parole che non mi entrano in testa. Un giorno di
pioggia ho chiesto ai miei amici come si diceva ombrello in ceco.
“Deštník”: ci ho messo cinque giorni per ricordarmelo. Ma questo, lo
ammetto, è probabile che sia solo un problema personale.
Poi certo c'è la grammatica, che presenta alcuni tratti addirittura
ironici (o sbeffeggianti, per lo straniero che cerca di impararla). Ci ho
messo due anni per trovare qualcuno che mi spiegasse perché il plurale
di molte parole dipende dal numero: da due a quattro si dice in un modo,
da cinque in su in un altro. Perciò se vai in birreria chiederai una birra
dicendo “jedno pivo”. Due, tre o quattro birre le potrai ordinare dicendo
“dva, tři, čtyři piva”, ma se sei insieme a tanti amici (o se la fidanzata ti
ha lasciato e vuoi affogare nell'alcool il tuo dolore) dovrai chiedere
cinque birre dicendo “pět piv”. Mi hanno spiegato che dal due al quattro
di usa il genitivo singolare (“due di birra”), mentre dal cinque in su, si
usa il genitivo plurale (“cinque di birre”). Purtroppo ancora nessuno mi
ha spiegato il motivo di tale astrusità mentale.
La lingua ceca ha però anche degli aspetti divertenti: per dire “tutto
bene” i cechi usano la parola inglese fine. Il problema è come la
scrivono: fajn. E lo stesso vale per tutte le parole straniere importate in
ceco, che vengono trascritte come un ceco le leggerebbe (con poche
eccezioni, come cappuccino che fortunatamente non viene scritto
kapučino se non raramente). Perciò il ketchup diventa kečup, il camping
si scrive kempink, un gruppo di persone compone un tým (team) e se fai
il finesettimana parti per il vikend. Sul cartello di un cantiere mi è
capitato di leggere il nome dello studio di ingegneria che aveva redatto il
progetto: c'era scritto Inženýring! Mi immagino la faccia dei linguisti
italiani che si strappano i capelli per una misera s in più o in meno per il
plurale delle parole inglesi usate in italiano.
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Difficoltà e stranezze, curiosità e disperazione. Anche disperazione; il
ceco è tutto questo. Disperazione perché delle volte mi sembra davvero
impossibile imparare certe parole o il senso di certe regole. Eppure sono
gradini che si devono affrontare, pena il cadere nella categoria degli
immigrati di lusso che snobbano il ceco; mentre io ho deciso di
impararlo. Non certo nelle scuole di lingua: non ho né il tempo né la
pazienza per mettermi al tavolo e scrivere venti volte “la penna è sul
tavolo” (“pero je na stole”, ad ogni modo).
Ascolto e ripeto, all'incirca come i bambini che nascono in Repubblica
Ceca e imparano il ceco senza bisogno di libri di grammatica. Poi ovvio,
è un metodo imperfetto. Delle volte ascolto cose che non dovrei ripetere,
collezionando in questi anni un discreto numero di figuracce (molte delle
quali non si possono nemmeno citare per questioni di censura). Mi basti
raccontare di quella volta che, pochi giorni dopo il mio arrivo a Praga,
fui invitato a una cena di benvenuto dai miei colleghi e dal mio
professore, che arrivò in trattoria con la moglie. Durante la discussione
mi uscì di bocca un «ty vole» (tu bue, un esclamazione comune tra
amici) verso la moglie del professore. «Mattia, non si dice ty vole» mi
corressero subito i colleghi. «Ah, scusi – Ty kravo!» (tu vacca, inteso
come la versione femminile di ty vole, ma molto più volgare). Ho visto il
volti che mi circondavano diventare paonazzi. Da quel giorno, nel nostro
gruppo, quel locale è stata ridenominato la trattoria ty kravo.
Nonostante ciò, nonostante le difficoltà e le figuracce, sono riuscito a
imparare discretamente il ceco. Oh, certo, conosco tanti stranieri che lo
parlano molto meglio di me (sia per purezza grammaticale, sia per
assenza di quel tono da scaricatore di porto che talvolta mi
contraddistingue). Sono conscio del fatto che dovrei migliorare
tantissimo la grammatica. Ma sono felice ugualmente, perché è una cosa
importante per me. Quando mi rendo conto che posso insegnare in ceco a
dei ragazzi cechi, quando riesco a comunicare con un vietnamita in ceco
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(in quanto unica lingua comune), o quando riesco a fare un discorso in
senato accademico in ceco (e a braccio) significa che è una piccola cosa
di cui posso andare fiero.
E non mi dimenticherò mai di quella volta che un mio amico mi
presentò sua sorella: vivendo lontano da Praga non era comune per lei
incontrare uno straniero, e tanto meno un bizzarro Lombardo che parlava
ceco. A ogni frase scoppiava a ridere. È vero, ci vuole poco a conquistare
i cechi!
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Il capitolo più corto
Che poi non so nemmeno se posso chiamarlo capitolo, visto che
probabilmente questo non è propriamente un libro. Ma non riuscivo a
trovare un'altra parola più adatta.
Qualsiasi cosa tu scriva, uno dei consigli più consumati ma
sicuramente validi, è di scrivere con la mente. Prima di prendere in mano
la penna o mettere le mani sulla tastiera, è sempre meglio scrivere il
proprio pezzo con la testa, provando le frasi e facendole vorticare
liberamente finché non prendono il loro posto: solo in un secondo
momento puoi scrivere su carta o computer, ciò che in realtà hai già
pronto. Ed è così che nasce quasi tutto quello che scrivo.
Questo “capitolo” è nato un tardo pomeriggio di giugno, mentre
sostavo sulla scalinata del Museo Nazionale di Praga. Un libro di Václav
Havel tra le mani, e lo sguardo che ogni tanto si alza su piazza
Venceslao. Il sole tramonta e il colore si fa poetico sulla pelle di chi ti
passa sotto gli occhi. Forse sarà il fatto che nell'insieme della lunga
piazza, vedo tante ragazze, che in questa stagione sono decisamente
scoperte, riflettendo la luce del sole sulla pelle. O forse sarà che proprio
su questa scalinata aspettavo – giusto un paio d'anni fa – una ragazza
101
(slovacca, ma fa lo stesso) per andare a cena. Fatto sta che mi sono
deciso a scrivere dell'argomento ragazze.
In effetti il lettore si aspetterebbe, dopo aver letto delle manie
alcoliche e naturiste dei cechi, del loro modo di usare lo zaino o della
passione per il ballo, di leggere anche qualcosa sulle ragazze ceche. Un
po' perché è tipicamente il primo argomento di cui parlano certi
giornalisti italiani (quelli che pensano di conoscere un popolo per aver
vissuto qualche settimana nel loro paese, frequentando nel frattempo solo
ambasciate e istituti di cultura). Fare l'articoletto descrivendo le donne di
un paese attira il lettore e ti fa passare per il latin lover di turno. Sapendo
che il più delle volte i giornalisti, grazie all'abilità di scrittura, inventano i
pezzi da un singolo episodio (quando non dal nulla), la cosa mi risulta
decisamente patetica.
Un po' uno si aspetterebbe questo tema perché tra gli italiani è
convinzione comune che le ceche la diano via facile. La Repubblica
Ceca è quindi diventata, nell'immaginario comune del maschio italico, il
paradiso della gnocca. Se vedete una mandria di italiani in vacanza in
Repubblica Ceca al grido di «stasera me le scopo tutte io»,
probabilmente la pateticità della situazione salterà all'occhio anche a voi.
Per questo mi ero imposto di non trattare questo argomento. Ma poi ho
pensato che due righe, giusto il necessario, si potessero fare. Poca roba,
solo qualche opinione personale senza pretesa, che faccio guardando
questo mondo con l'occhio di chi cerca di capire, consapevole di non
riuscirci.
E allora posso dire che a me le ragazze ceche sembrano donne forti,
che vogliono la loro indipendenza e non vivono necessariamente in
funzione del proprio uomo. Sicuramente c'è ancora quella che cerca
l'uomo occidentale per scappare via, ma il più delle volte è solo voglia di
uscire dalla monotonia, di un paese piccolo o degli uomini cechi, troppo
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flemmatici e senza sale (o anche troppo imbenzinati per fare il loro
dovere...). Ci sono le ventenni di Praga, che sono più belle, non per un
fattore genetico ma sociologico. E le ragazze morave, che te le
raccomando. Vedo le donne ceche che sono mamme, e che a trent'anni (e
spesso anche meno) scalano il tram con il passeggino, cercando di non
far cadere il figlio. Non sono certo le trentenni, con la borsa di Gucci, gli
occhiali di D&G, i capelli sempre perfetti e i jeans da 200 euro che
alzano il culo.
E per finire le ceche sono oneste, nel dire che anche a loro piace
godere delle cose belle della vita. Non significa che sono tutte “poco di
buono” come pensa il maschio italico dall'ormone impazzito. È solo che
non hanno l'ipocrisia di far finta che a loro non piace e non hanno
bisogno di fare sesso. Forse si sentono libere di dirlo perché il maschio
boemo non è abituato a considerale negativamente per questo. Si
dovrebbe riflettere su questo fatto.
Per il resto, capire le donne (non necessariamente ceche) è in sé
un'impresa probabilmente riuscita a ben pochi uomini, ed io non ho la
pretesa di essere tra questi. Il rapporto che si ha con una donna è quasi
sempre qualcosa che entra nel profondo della vita, e dipende strettamente
dalla persona in questione. Fare una generalizzazione partendo dalle
limitate esperienze che ognuno di noi può avere, è semplicemente
stupido. Lo lascio fare agli altri.
103
Ai cechi
Usare una citazione non è mai una mossa saggia. Citare poi qualcosa
di molto famoso, è ancora più pericoloso: il rischio di cadere nel banale
diventa molto alto. Ciò nonostante voglio correre questo rischio. Vi
ricordate il film “L'attimo fuggente”? In una famosa scena il prof.
Keating invita i propri studenti a salire sulla cattedra per guardare il
mondo da un'altra prospettiva. È sempre lo stesso ambiente, è sempre la
stessa aula con gli stessi banchi e le stesse sedie, ma se la guardi da una
posizione più in alto sembra diversa. Una sensazione ben nota a chi si
arrampica su mobili e sedie per fare le pulizie domestiche. Con questo
piccolo esperimento il prof. Keating voleva far capire come ogni giudizio
che diamo dipende dall'angolazione con cui osserviamo.
Sinceramente non ho mai avuto ben chiaro chi dovesse essere il lettore
tipo per quello che stavo scrivendo. Probabilmente queste pagine
possono risultare interessanti ai miei connazionali, o comunque a gente
non ceca che vuole scoprire qualcosa di questo popolo.
Temo che molti dei temi trattati qui siano noiosi o incomprensibili per
i cechi. Noiosi perché raccontare a un gatto quanto è bravo ad
arrampicarsi non attirerà di certo la sua attenzione. E incomprensibili
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perché tanti argomenti nascono dalla contrapposizione tra le usanze
ceche e il modo di vivere a cui ero abituato prima di trasferirmi in
Repubblica Ceca. Atteggiamenti che spesso sono considerati normali
proprio perché usuali: spesso spiegare ai cechi che per me
quell'atteggiamento è strano, diventa un'impresa davvero ardua: essendo
per loro normale, non capiscono il motivo della mia sorpresa.
Tuttavia penso che qualche ceco, prima o poi, leggerà queste pagine e
la reazione che immagino sarà probabilmente qualcosa del tipo «che cosa
dice? non siamo mica così noi cechi».
Ecco, fate come il prof. Keating suggerì ai suoi studenti: cambiate
prospettiva, e vedrete cose di cui non vi siete mai accorti. Infatti, l'unico
vantaggio che posso avere come straniero, è quello di avere una visione
privilegiata sui cechi, non influenzata dalla appartenenza a tale popolo.
Io sono già con i piedi sul banco e guardo voi cechi da un'altra
angolazione. Un francese potrà guardarvi sdraiato per terra, un tedesco vi
potrà guardare sospeso dal soffitto: il loro punto di vista sarà sicuramente
diverso, ma ugualmente valido. Questo era il mio, e per quanto non
completo – e mai lo potrebbe essere – , spero sia utile.
C'è una cosa che però vorrei sottolineare: penso che la quasi totalità
dei cechi, leggendo questo libro penserà che il mio giudizio su di loro è
stato troppo generoso. Una delle caratteristiche dei cechi infatti è una
sorta di rassegnazione e di auto commiserazione per i loro lati negativi.
Un ceco di lamenta per la burocrazia, e sbuffa «ecco, questa è la
Repubblica Ceca!». Un ceco vede i politici corrotti, governanti che
hanno più a cuore la poltrona che il proprio paese, e pensa che non ci sia
nulla da fare, che fa tutto schifo. Ho sentito un ceco dire una volta, che
mentre viaggiava in treno di ritorno dalla Germania, aveva capito di aver
passato il confine con la Repubblica Ceca, perché in territorio tedesco
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l'area attorno alla ferrovia era ben pulita mentre appena entrati in
Repubblica Ceca, si iniziavano a vedere i rifiuti vicino ai binari.
Leggendo questo scritto il ceco medio potrà domandarsi perché io
abbia questa visione positiva della Repubblica Ceca, come traspare lungo
tutti i temi trattati.
Ve lo ripeto: cambiate prospettiva. Tutte questi problemi che ho citato
sono problemi veri, che ci fanno arrabbiare e che ci complicano spesso la
vita. Ma ditemi: dov'è che non li trovate? Ho conosciuto persone
provenienti da tutti i paesi del mondo, e vi posso assicurare che quei
problemi per cui voi vi lamentate, per cui considerate negativamente il
vostro paese, in realtà ci sono ovunque. Non ho mai incontrato nessuno
che mi dicesse di essere felice dei propri politici: nessuno che li ritenesse
delle persone in gamba. La burocrazia esiste ovunque, anche nei paesi
dove si dice che tutto funzioni meglio: ad una mia amica ceca l'ufficio
immigrazione britannico ha trattenuto due mesi (due mesi!) la carta
d'identità, quando si è trasferita nel Regno Unito. È vero, in Repubblica
Ceca c'è tanta burocrazia, ma tutto sommato basta alzare un po' la voce, e
il modo di risolvere il problema magicamente si trova. Dalle mie parti
alzare la voce davanti a un burocrate ottuso non serve a niente, la pratica
non si muove di un millimetro. L'unico risultato è che probabilmente
chiameranno i carabinieri. E parlando dei rifiuti, devo forse accennare al
fatto che esistono città e regioni intere con problemi ben peggiori?
Probabilmente la rassegnazione che vi portate con voi quando uscite
di casa la mattina è figlia di speranze disattese. È tipico dei popoli che
affrontano un grande cambiamento, come la fine di un regime e la
conquista della libertà. Ci sono grandi aspettative, e si fantastica oltre
misura. E allora capita che qualcuno si lamenti perché questa nuova
società non è poi così perfetta come si aspettava. Tutto sommato anche
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Mosè ebbe i suoi problemini con gli ebrei quando li aveva liberati dalla
schiavitù: avrebbero addirittura preferito essere schiavi!
Io vi chiedo allora di cambiare prospettiva, e guardare il vostro paese
da un altro punto di vista: vedrete quello che è stato fatto negli ultimi due
decenni. È stato creato uno stato democratico, quando solo vent'anni fa
c'era una dittatura. È stato creato un sistema economico moderno: certo,
avrà le sue pecche, ma rispetto a tanti altri stati dell'Est il vostro paese è
stato quello che probabilmente è stato capace di gestire meglio la
transizione creando un modello di economia che stesse in piedi. Le porte
del vostro paese si sono aperte: giovani cechi fanno esperienze all'estero
e tanti stranieri vengono in Repubblica Ceca.
E proprio dai giovani sento i discorsi più belli: c'è voglia di mettersi in
gioco e impegnarsi per migliorare il proprio futuro; c'è voglia di lavorare
per crearsi la propria posizione, forse perché da queste parti è ancora
possibile fare un salto sociale se ci si impegna, senza necessità di
raccomandazione (pochi giorni fa ho conosciuto una ragazza in gamba
assunta in un Ministero... senza conoscere nessuno!).
E allora vi chiedo di non disperdere queste cose. Non preoccupatevi se
non siete ricchi come i tedeschi. Conservate la semplicità di saper vivere
con poco: è una qualità preziosa, che serve anche quando i soldi
arriveranno, perché ti fa badare alle cose essenziali. Siete un popolo
dall'animo buono, non violento: dovete essere capaci di valorizzare
questa predisposizione e di non viverla come soccombenza. Penso che
nel vostro paese ci siano tante potenzialità positive, che possono
consentirvi di costruire grandi cose. Non sono risorse materiali, ma
principalmente le qualità umane, e spero di essere riuscito a farvele
scoprire. Potete decidere di farle fruttare e diventare un paese migliore,
oppure di lasciarle marcire, aspettando di diventare come il paese da cui
sono scappato. La scelta, ora, spetta a voi.
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Dieci aggettivi
Dieci aggettivi, quasi come un gioco di società. Sembrano tanti, ma
per descrivere un popolo sono in realtà pochi: vi propongo i primi che mi
vengono in mente, un po' per riassumere quello che vi ho raccontato, e
un po' per includere qualche spunto di riflessione che si è perso per
strada.
NORMALI
Non so se è conformismo o mancanza di trasgressione. È che se fai un
giro sui mezzi pubblici in Repubblica Ceca, fai fatica a trovare qualcuno
di stravagante. Al massimo qualche ceco si concede la trasgressione dei
capelli lunghi, ma sono pochi anche quelli. Rarissimi i cechi che si
infighettano.
EDUCATI
Drammaticamente educati. Pieni di riverenze, rispettosi delle persone
e delle situazioni. Fin troppo: mai sentito un giovane che alza la voce con
un vecchio, anche quando se lo merita.
DISFATTISTI
Difficile trovare un ceco orgoglioso del proprio paese. Hanno la
propensione a sottolineare i lati negativi, e a considerarli con fatale
rassegnazione.
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PERMALOSI
Sono loro i primi a parlar male del proprio paese, ma guai se lo fa uno
straniero. In quel caso sono capaci di trovare tutti i difetti del tuo paese,
pur di difendere il loro orgoglio.
SILENZIOSI
Parlano solo se c'è da parlare. Non sentono la necessità di riempire un
silenzio. Da una parte questo atteggiamento riduce la probabilità di dire
stupidaggini; dall'altra diventa un problema imbarazzante se hai invitato
una ragazza ceca a cena.
PUNTUALI
Se si dice un orario, quello è. Arrivano puntuali, sia sul lavoro che in
altri contesti. Per un maniaco della puntualità come me, è una goduria.
CALOROSI
Non nel senso affettivo, ma nel senso che hanno sempre caldo, tanto
che appena arriva la primavera si va tutti in giro in pantaloni corti, anche
se si ha cinquant'anni e una posizione di tutto rispetto. Ed anche
d'inverno non sono da meno: mi è capitato di barbellare dal freddo sotto
la neve, e veder passare cechi in maglietta.
PRECISI
Sulle scale mobili si sta a destra, e chi va di fretta passa a sinistra. Se
questo è comprensibile sulle affollate scale mobili del metrò, è un po'
meno normale che si faccia anche sulle scale interne ad un edificio. Sì,
sono stato rimproverato perché stavo a sinistra sulle scale della mensa:
questa è paranoia!
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NERVOSI
...e indisciplinati, quando guidano. State attenti ad attraversare la
strada, anche se siete sulle strisce pedonali rischiate la vita. Provate a
protestare: si incazzeranno, pretendendo pure di aver ragione.
Probabilmente i più furbi di voi si sono accorti che gli aggettivi sono
soltanto nove. Però non volevo tornare a cambiare il titolo, e ad ogni
modo avrebbe stonato il titolo “Nove aggettivi”: chissà perché uno si
aspetta sempre un decalogo. Ma se proprio volete il decimo aggettivo...
be', venite in questo paese, mischiatevi tra la gente, osservate senza
pregiudizi, criticate ad apprezzate. E poi il decimo aggettivo datelo voi.
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© Copyright 2009 Mattia Butta
versione 1.4 – Luglio 2009
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