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PREMESSA PER UNA LETTURA DEL VERGA
"MAGGIORE": LA LETTERATURA COME "SINTESI"*
La fortuna del Verga sembra che abbia la tendenza ad essere
condizionata dall'inesorabile legge del pendolo: una volta in fase
ascendente, e poi l'inevitabile fase discendente. Al centro l'ipotetico
periodo di stasi che, superato dalla forza d'inerzia, la continuare il
movimento. Oggi la critica verghiana rimane ancora polarizzata nelle
due correnti predominanti: la critica idealistica e quella di sinistra. La
prima cerca di smussare le angolature testuali con una realtà
contradditoria, la seconda cerca disperatamente il nesso del sostrato
storico che possa connettere il contenuto alla realtà oggettiva dell'opera,
come risulta dagli ultimi tentativi del Luperini. Ma la figura letteraria
del Verga è stata sempre ricoperta da una patina di ambiguità. Infatti
l'autore riesce a crearsi una piccola nicchia nel mondo letterario del
tempo solo negli ultimi decenni del secolo e, caso non del lutto strano,
non come l'autore dei Malavoglia ο del Mastro-don Gesualdo, ma come
l'autore di Storia di una capinera. Per i suoi contemporanei il Verga
"scrittore" è quello "minore": il gusto per le vicende sentimentali della
borghesia erano più importanti del germe innovatore dell'opera
"maggiore" verghiana. Nel 1914 il critico Renato Serra non esitava ad
affermare che il Verga era uno di quegli scrittori "che nessuno osa
disprezzare, ma che nessuno più cerca" (Verga, Novelle, V. 1, p. 12).
Tuttavia, nel secondo decennio del nostro secolo iniziavano gli studi seri
dell'opera "maggiore" del Verga, e l'ottica della critica letteraria mise
a fuoco le prime immagini reali dell'opera verghiana. Si profila così una
critica del suo lavoro i cui obiettivi sono quelli di esaminare il
contenuto dell'opera partendo da una analisi del linguaggio; quel
linguaggio scarno e non tanto gradito al gusto "raffinalo" del pubblico
borghese del tempo abituato ai "manicaretti" letterari, come ebbe a
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commentare il Verga stesso. Siamo alla fase ascendente. "La storia della
critica verghiana [...] cominciò, appunto, allorché fu posto il problema
della lingua come stile, cioè linguaggio creatore e intraducibile nel quale
il poeta fissa in eterno la sua originale visione del mondo" (Santangelo,
p. 607). I primi passi, quindi, si fanno sulla falsariga dello stile
letterario che cerca di fissare una visione del mondo; per il Santangelo
si arriva al contenuto "sbucciando" l'opera dalla sua palina linguistica.
Nondimeno si iniziava ad analizzare seriamente l'opera "maggiore" del
Verga, e il Russo, raccogliendo Tipotesi del verismo (o naturalismo)
verghiano, per cui il racconto "si fa da sé," esplora e sintetizza i
contenuti negli slogan — che successivamente saranno moneta corrente
nella critica verghiana — della religiosità della famiglia e
dell'attaccamento morboso alla "roba": il primo lo ricava dai
Malavoglia; il secondo dal Mastro-don Gesualdo. 11 critico, quindi,
sintetizzando quelli che lui riteneva i concetti base dell'opera maggiore,
pubblica nel lontano 1919 una raccolta di saggi dal titolo: Etica e poesia
nei Malavoglia (Russo, p. 137). L'etica dei Malavoglia, secondo la
lettura del Russo, si fonda sul culto della casa come ricettacolo sacro di
tutte le virtù sociali e patriarcati: "Ed è questa primitiva e potente
religione della casa, e delle virtù patriarcali, che siringe in una ferrea
unità il romanzo. Una sola fede in tutti, un solo dio senza chiese, ma
che vive, ora per ora, nel cuore di tutti" (Russo, p. 159). Onesta lettura
si prefiggeva di cogliere l'oggettività dell'opera ma si curò pochissimo
della realtà oggettiva del periodo in cui l'opera verghiana era stata
scritta. Il Verga, anche se scrive nella lontana Milano, si era
documentato molto da vicino non solo sulla condizione sociale della
Sicilia popolana riportala dal Pitré ο dal Rapisarda (Luperini, p. 22), ma
anche sui risvolti economici e sociali dell'Italia unificata; e queste
componenti furono oggetto di studio accurato da parte degli
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"intellettuali" italiani del tempo i quali presero a modello le varie
inchieste fatte in Inghilterra prima e dopo la seconda rivoluzione
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industriale inglese. Insomma, il problema del decollo industriale, la
questione meridionale e quella dell'emigrazione sono già presenti nel
tessuto sociale della nazione (Villari, pp. 171-9). Dal 1870 al 1910
emigrano circa sei milioni e mezzo di Italiani (il 18,3% della
popolazione) che rappresenta il tasso emigratorio più alto d'Europa
(Trebilcock, p. 309); e per chi ha conosciuto l'emigrazione da vicino sa
che non c'è elemento più dissacratore dell'emigrazione, dei lari
famigliari. Nell'800 la famiglia nel meridione era già stata intaccata
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dalla ferrea legge economica e non fittizia come il Russo la riassume
nei Malavoglia. La Sicilia popolana, depositaria delle virtù ataviche, non
poteva certamente viverle in una società potenzialmente incapace di
assecondarle. L'osservazione che il Verga non scrive un trattato di
sociologia ma un'opera d'arte è accettabile, ma passando dall'estetica
all'etica si mette in discussione la validità del concetto etico con la
realtà sociale in cui il medesimo deve esperirsi; e la critica idealistica
deve innanzitutto affrontare queste aporie prima ancora di avanzare delle
premesse etiche. La religiosità della famiglia e il culto della casa dei
Malavoglia sono dei concetti idealizzali dal Verga nei salotti fiorentini
e milanesi come tentativo di recupero di un momento storico in via di
estinzione. Nondimeno, la realtà vissuta dalle masse emigratorie e ben
diversa: alcuni ritornano, ma la maggioranza abbandona "casa e
nespolo" e non rientra più; non perché il mondo da pesce grande e
grosso che è se li inghiottì — parafrasando una metafora verghiana —
ma semplicemente perché la fame e la miseria li avevano spinti a
cercare un lavoro, un tetto e da mangiare (Del Monte e Giannola, p.
69).
La critica idealistica, dunque, ancorandosi a queste presunte
affermazioni etiche dell'opera verghiana, evita ogni dialogo sul piano
teorico che deve dimostrare la valenza dell'enunciato etico. Questa
critica non mette in discussione le premesse su cui si fonda l'enunciato,
quindi le conclusioni logiche di tali postulati devono per forza confluire
nelle affermazioni del Russo; ed ecco che da questa angolatura il Verga
emerge come "il poeta patetico delle virtù profonde, che vivono nei
primitivi, e che la società e i sofismi legali non riescono a guastare"
(Russo, p. 162). Questa visuale mette a fuoco la risultante, il dato di
fatto, dell'enunciato etico e non la sua validità; quindi secondo
l'argomento degli idealisti chiedersi se i lupini di zio Crocefisso siano
avariati ο no è un puro sofisma e non il presupposto che sigilla la
validità contrattuale dell'affare. In realtà l'enunciato etico rimanda
logicamente a questa condizione contrattuale che convalida le premesse
che ne conseguono. Perché non avanzare l'ipotesi che l'avvocato
Scipione non cerca di appigliarsi ad un cavillo legale ma alla validità
della legge stessa, e cioè al principio etico? Sul piano intellettuale e
speculativo bisogna riconoscere al Verga più di quanto gli è concesso
dalla critica idealistica; non perché l'autore è conscio di queste premesse
e tenti di esplorarle a fondo con una tesi sostenuta nell'ordito del
racconto, ma semplicemente perché seguendo il filo conduttore dei
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postulati del "suo" verismo tende a scoprire una realtà contraddittoria.
Dobbiamo pur chiederci perché mai viene messo in evidenza il latto dei
lupini avariati se il principio etico è al di sopra di ogni condizione dei
rapporti sociali; oppure perché in Jeli il pastore (Nov. Vol. 1, p. 165),
il padre, depositario anche lui dei valori etici atavici, propone al figlio
di chiedere al padrone "sedici tumoli" di frumento in più, mentre è
proprio il figlio — la nuova generazione — a rifiutale tale proposta? È
un puro sofisma chiedersi se sia giusto per compare Menu chiedere tre
onze e dodici tumoli (o due onze e quindici come sostiene Jeli), visto
che il vecchio vaccaro sta morendo di malaria — "di quella che
ammazza meglio di una schioppettata (Nov. Vol. 1, p. 164) — contratta
nelle zone putride e malariche delle paludi di Ragoleti per ingrassare le
vacche di un padrone che se ne sta comodamente in società a fare "bella
figura"? Questa variante della critica verghiana è rimasta invischiata
nelle affermazioni dell'enunciato etico delle premesse, e il Sipala,
secondo la nostra lettura, forse non và tanto oltre le premesse del
Russo. Crediamo che sia anche opinabile avanzare l'ipotesi che il
Verga, oltre a mettere in evidenza il ragionamento logico di compare
Menu, che col sigillo della morte riscatta il figlio da ogni possibile
recriminazione da parte del padrone, metta proprio in discussione la
validità di queste valenze etiche che si fondano su "una moralità integra
e primigenia." 11 negozio dei lupini è sigillato soltanto dalla parola data
da padron 'Ntoni a zio Crocefisso; ma se il vecchio 'Ntoni avesse
saputo che i lupini erano avariati quale sarebbe la morale "integra e
primigenia" che lo avrebbe legato a questo contratto? Non è questo
forse il Verga che nell'opera successiva (Mastro-don Gesualdo) metterà
in discussione proprio tutti questi valori, che in ultima istanza, come
sarà premesso nei paragrafi seguenti, sono i valori di una società in via
di estinzione? Perché non fare una lettura dei Malavoglia come tentativo
di sintesi di un momento storico — anche se mancato — in via di
trasformazione ed il Mastro-don Gesualdo come opera premoderna che
si stacca nettamente dalle premesse di sintesi dei Malavoglia e si cala
timidamente nel tessuto sociale della nazione semindustrializzata?
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Avendo stabilito che la critica idealistica si limita alle affermazioni
dell'enunciato etico — quindi alla superficie dell'opera verghiana — e
che non prende in esame le valenze sociali nella loro giusta dimensione
storica — l'emigrazione, la questione meridionale e la trasformazione dei
modi di produzione dell'Italia unificata — volgiamo la nostra attenzione
alla critica marxista la quale, fin dall'inizio degli anni quaranta, ha
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contribuito notevolmente al corpus nutrito della critica letteraria
verghiana.
vSe la critica verghiana viene scissa nei due blocchi dominanti, e
cioè idealistica e marxista — senza ignorare i risvolti delle letture
storiciste, psicoanalitiche e stilistiche — quest'ultima ha certamente
contribuito a delle analisi sempre più accorte, spesso contrastanti e
raramente riconciliabili (tra idee e opera), fondendo così l'apparato
critico dell'opera verghiana. Ma la critica marxista ha messo a fuoco le
aporie dell'opera e della critica idealistica, senza però riuscire a
sintetizzare il pensiero dell'autore con la realta oggettiva, cioè l'opera.
La prassi e la teoria non si incontrano mai, e, per i marxisti, il Verga
rimane "uno di quegli scrittori in cui il sistema di idee dell'autore non
corrispondeva all'opera" (Paladini Musitelli, p. 141). La critica di
sinistra ha delle difficoltà a raggiungere il sostrato dell'opera verghiana
perché gli strumenti che usa per l'analisi sono ancorati al frasario e alla
topologia del marxismo italiano di matrice gramsciana e quindi intriso
da quell'idealismo subdolo crociano rimasto latente nelle fasce degli
intellettuali di sinistra dell'Italia post-resistenziale (Badeschi, p. 214). Il
mondo del Verga è un mondo agrario in fase di trasformazione e
l'autore, per via del "verismo," riesce a captarne soltanto i primi sintomi
senza essere cosciente delle implicazioni profonde di tali trasformazioni;
e questo mondo agrario in via di trasformazione ha dei metodi di
produzione così antiquati che rispecchiano esattamente quel mondo di
primitivi tanto caro alla critica. Quindi, quando la critica marxista lenta
l'aggancio col positivismo europeo ο il naturalismo francese di Zola,
raramente mette in evidenza che il decollo industriale inglese avviene
nel lontano 1780, quello francese nel 1829 — lasciando agli esperti i
dibattiti sull'esattezza delle date — (Trebilcock, p. 429) e circa un secolo
dopo quello italiano (Orlando, p. 70; Trebilcock, p. 429). Secondo noi
le valenze marxiste non prendono in esame il momento storico nella sua
interezza; l'intellettuale "organico" non ha radici nella società italiana
del tempo, quindi è inutile cercarlo nella "classe dirigente del nuovo
regno" (Giovanni Verga, p. 219), come sostiene Baldi, perché questa
subspecie della struttura marxista esiste solo nel mondo industrializzato;
a meno che non si accetti, per definizione, che persino Esiodo era un
intellettuale "organico" perché faceva parte della classe dominante.
Insomma non si può applicare l'apparato critico marxista, che emerge
da un'analisi del mondo industrializzato (Vernant, p. 15), ad una
condizione sociale le cui strutture portanti appartengono a un tipo di
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società con modi di produzione fortemente ancorati all'agricoltura. E nel
mondo agrario questi modi di produzione rimangono invariati fino a
quando non subentra una nuova fase: l'industrializzazione (Cipolla, pp.
220-1, 279-98).
Il frasario marxista, quindi, deve essere legato alla struttura dei
modi di produzione da cui emerge e non può essere utilizzato per
scendere in senso verticale nella storia, perché è proprio questa diversità
dei modi di produzione che crea le strutture intrinsiche a quel tipo di
società; e il periodo in esame, come sostiene il Cipolla, è fortemente
ancorato ai modi di produzione che caratterizzano il mondo
dell'agricoltura: e cioè, un forte accentramento della forza lavoratrice
nel settore agrario ed un'economia di mercato regolata dalla richiesta di
questi prodotti. Né va messo in discussione che la nazione tende verso
l'avvio dell'industrializzazione (1890). A noi interessa dimostrare che
la dialettica dei modi di produzione non si è ancora esperita nella storia
e che il Verga non ha assorbito la dimensione mentale dell'uomo come
prodotto dell'industrializzazione: l'industria non ha ristrutturato il nesso
sociale che costituirà la nuova società — e l'uomo — industriale. Da
questa angolatura tutta la critica di sinistra va rivista perché il momento
storico verghiano è un periodo di transizione, turbolento, contorto e
contraddittorio. Il Baldi infatti è uno dei critici di sinistra più accorti che
coglie — in parte — dell'opera verghiana proprio questo elemento storico
nella sua contraddizione vivente; tuttavia il tentativo di diluirlo
nell'anticapitalismo verghiano di destra (Giovanni Verga, p. 224) e vano
perché il Verga non può essere cosciente delle strutture di un
capitalismo inesistente. Verga, come tutti i grandi della letteratura, è
molto sensibile agli eventi del momento storico, e si inserisce nel
medesimo tentando di identificarlo. Si potrebbe avanzare l'ipotesi che
lui intravede uno sprazzo della realtà storica che tende a concretizzarsi,
e cioè a farsi "storia," momento storico:
e cioè l'inizio
dell'industrializzazione della società italiana. I Malavoglia, quindi — e
su questo siamo in parte d'accordo col Baldi (Giovanni Verga, p. 224)
— si possono leggere come un tentativo di sintesi del momento storico:
il trapasso da una società agraria a quella industriale, però privo di ogni
valenza ideologica perché questa sintesi deve abbracciare il passato (il
mondo agrario) e proiettarsi nel futuro, il mondo industriale. Crediamo
che non esista una netta demarcazione ideologica in questo periodo e
che il Verga agisca più per intuito che per convinzione. Si potrebbe,
quindi, avanzare l'ipotesi che il Verga tenta una sintesi e che questa
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sintesi può effettuarsi ricucendo le esperienze sociali del passato
(l'atteggiamento conservatore del Verga?) e riproponendo delle
premesse per protendersi verso il futuro. Nel caso verghiano la
contraddizione è evidente: i modi di produzione del mondo industriale
non precludono quelli del mondo agrario e questa dicotomia
(contraddittoria) non è stata messa a fuoco né dai critici marxisti, né,
tantomeno, dalla critica idealistica. I Malavoglia quindi, sono un
romanzo che cerca di recuperare — e lo fa malamente — tutte le
esperienze di un mondo in via di trasformazione: la casa del nespolo è
riscattata alla fine del romanzo, ma le fondamenta del nesso sociale di
quella società sono state intaccate. Il Verga della vita quotidiana, il
Verga dell'introduzione di Eva, sa benissimo che non può arrestare la
nuova fase storica e sociale della nazione; ma in questo romanzo alle
incertezze del futuro preferisce il tono rassicurante di un mondo
familiare, conosciuto, però senza presa ideologica.
Teniamo a precisare che a questo punto il discorso ideologico non
deve essere viziato dalle premesse marxiste da cui emerge questo
lemma nella critica letteraria di sinistra. A noi sembra necessario
spostate l'asse di questo termine dalle valenze epistemologiche
hegeliane da cui emerge (A Dictionary of Marxist Thought, pp. 219-23),
e riportarlo alla conoscenza soggettiva dell'autore e cioè ad una
conoscenza della società da lui presa in esame; quindi il mondo agrario.
Questo è l'"abito mentale" del Verga e volerlo diverso è forzare
l'argomento; le categorie del pensiero dell'autore fanno parte di una
società preesistente, e questa società vive ancora in una struttura feudale
e gerarchica che è quella di un mondo preindustriale legato a
un'economia di scambio basata sul valore assoluto della terra. Infatti nei
Malavoglia il denaro è un mezzo e non un fine; il fine è la terra, la
casa. Questo dovrebbe anche mettere in evidenza la differenza di fondo
fra il naturalismo zollano ed il verismo verghiano: l'ottica del primo
filtra il passalo con le lenti del presente, ma le punta verso il futuro
perché il decollo industriale è già avvenuto (Germinale); l'ottica
verghiana invece filtra il presente con le lenti del passato (del mondo
agrario). Secondo noi questa è una differenza sostanziale, in quello il
Verga rimarrà invischiato nel rapporto soggettivo dello scrittore con
l'oggettività dell'opera, che in ultima istanza è ciò che la critica
marxista non può conciliare; e ciò si deve al fatto che il Verga non
segue l'ideologia di classe cui i marxisti fanno riferimento.
Ma questo non diminuisce la grandezza dello scrittore; in effetti i
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grandi momenti storici sono delle contraddizioni viventi, e lo scrittore
"engagé" è proprio colui che lentamente incomincia ad esplorarle alla
base. Senza tanti preamboli, la grande letteratura ha valore conoscitivo,
gnoseologico, solo quando va alla radice del momento storico; quando
raggiunge l'ousia, l'essere della storia, allora si ha la grande opera
letteraria. Le grandi letterature emergono dai conflitti epocali della storia
dell'uomo che si manifesta nei suoi modi di produzione e lo scrittore —
ο rapsodo ο nomade — è colui che tenta una sintesi del momento
sincronico della storia e propone oppure "opina" le valenze diacroniche
della storia stessa. Non a caso, quindi, lo storico Giuseppe Giarrizzo
riscontra nel letterato il più acuto osservatore del momento storico:
Né Gentile né Pitrè (e neppure il modesto Luigi Natoli, lettore e
ammiratore di Sighele) ci hanno dato una storia della Sicilia
contemporanea come storia del conflitto tra "popolo" e "progresso."
capace di tradurre in problema storiografico la crisi e la vitalità di
quei caratteri (originari) del popolo quali trovano consistenza e realtà
in classi sociali, urbane ο rurali, in gruppi, in individui: l'unico serio
tentativo in questa direzione fu fatto — con mezzi, e in condizioni
peculiari — dai tre grandi veristi Verga innanzitutto, quindi De
Roberto (ma il De Roberto de I Vireré!), e Capuana [...] può esser
utile osservare tuttavia [...] che quella problematica fu lasciata cadere;
e seguì la sorte della demopsicologia siciliana dopo Salomone Marino
e Pitrè, alla quale si è continuato ad attingere come a un serbatoio di
caratteri e aspetti (perenni) del popolo siciliano. (La Sicilia, pp.
xxxviii-xxxix)
Insomma una lettura dell'opera verghiana secondo noi va fatta
prendendo in esame tutte le componenti storiche, Verga incluso; quindi
quell'"abito mentale," quel "soggettivismo verghiano" non va smussato,
eliminato perché crea delle contraddizioni; anzi, va messo in risalto
perché mette a nudo il tnessaggio verghiano nella sua interezza e cioè:
che i "vinti" del Verga sono dei "vinti" perché seguono l'inesorabile
percorso della loro vita in un mondo in via di trasformazione — "il
progresso" — con delle categorie del pensiero ancorate nel passato.
Questa è l'ottica (ma non l'ideologia) verghiana a cui si è fatto
riferimento sopra. La critica marxista, con i suoi vari risvolti, coglie in
parte alcuni aspetti dell'opera dello scrittore; ma le tesi di questi critici
hanno come premessa di fondo una concezione storicista del momento
storico non riscontrabile nell'opera del Verga. Queste correnti non
mettono a fuoco il momento storico nella sua giusta dimensione storica
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perché, sostanzialmente, soffrono tutte dello stesso malessere: storicismo
marxista. Insomma, secondo l'ottica di questi critici la storia non è un
"tentativo" di sintesi delle contraddizioni, come la intuisce (secondo la
nostra lettura) il Verga. Nei momenti epocali della cultura italiana il
Verga è colui che tenta una sintesi del diacronico della cultura del
mondo agrario e "intravede" le antinomie storiche della cultura del
mondo industriale. Dopo I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo Verga
non scrive più perché non ha più niente da aggiungere. Il pessimismo
verghiano tanto caro a questo indirizzo critico, è tutto in queste
antinomie storiche in cui il passato sta per estinguersi ed il futuro è
"postulato" — come quello che vagamente intravede il Verga — con i
concetti del passato, e quindi incerto, dubbioso, torbo, cupo. Il Verga
tuttavia non è il solo nella letteratura occidentale: l'Odissea è un'opera
"scritta" tra il periodo degli invasori Dori e l'emergere della nuova
cultura; Esiodo ha molte caratteristiche verghiane; e l'opera dantesca si
pone tra la fine del Medioevo e la nascita dei comuni. Il Verga scrive
durante il periodo di transizione della società italiana: dal mondo agrario
a quello industriale. Non è certamente l'unico autore; tuttavia è un
"grande" della nostra letteratura perché è il solo che tenta una sintesi del
momento storico della società del tempo.
Da questa angolatura l'opera "maggiore" verghiana si cala nella
storia ed assume un valore gnoseologico, conoscitivo. Infatti, in Mastrodon Gesualdo il Verga analizza il momento storico con le categorie del
pensiero che si oggettivano nella realtà quotidiana del "moderno," delle
banche, del denaro come valore assoluto, mentre svanisce all'orizzonte
ogni vana speranza di sintesi, di ricostruzione e ciò che emerge è lo
sfaldamento totale della vecchia società, la forza distruttiva del
"moderno" nella sua fase embrionale e l'impossibilità di un sintesi
storica perché mancano i parametri sociali (i rapporti sociali creati dai
modi di produzione della società industriale) e le "nuove" categorie del
pensiero per poterla effettuare. Nei Malavoglia s'intravede un tentativo
di proiettarsi nel futuro: il negozio dei lupini, restando però sempre
ancorati ai valori del passato: la "terra," la casa e la famiglia; insomma
il Verga presuppone che sia possibile una sintesi del premoderno col
moderno. Con Mastro-don Gesualdo cade ogni speranza di recupero
perché il premoderno non può essere integrato nelle categorie del
moderno. Lo slittamento sull'asse dei valori non rende possibile una
sintesi, e dopo l'opera dell'88 il Verga tace: l'epifania del moderno sarà
per le generazioni future: il De Roberto de L'Imperio, Svevo e
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Pirandello.
Il caso letterario del Verga non è un fenomeno; esso è un incipit
del romanzo moderno nella letteratura italiana che va giù, fino alle
radici della società moderna, all'ousia della storia. I contrasti e le
contraddizioni presenti nell'opera del catanese non emergono dalle sue
aberrazioni ideologiche e non sono nemmeno i punti nevralgici della
letteratura verghiana; tutt'altro, esse sono invece le incertezze di un
ricercatore nel tentativo di gettare il ponte che connette il vecchio al
nuovo mondo; il premoderno al moderno; il mondo agrario e feudale al
mondo preindustriale. Ma nel mondo dell'incognito, del futuro, le
categorie del passato non hanno posto perché queste sono offuscate,
confuse, quasi inesistenti; e per percepire il mondo bisogna cambiare
ottica, "abito mentale." Il fallimento di don Gesualdo e inevitabile,
perché non può percepire il moderno con le lenti del passalo; e il
momento tragico dell'opera è la presa di coscienza nel personaggio
dell'impossibilità di sintesi della sua dimensione esistenziale col
momento storico (e cioè dell'impossibilità di esperirsi nella storia) e
quindi di essere un nulla, di non essere vissuto né nel passato né,
tantomeno, nel presente. E in questo istante emerge davanti agli occhi
della mente del personaggio verghiano un abisso cosmico che annienta
e annulla un periodo storico: Mastro-don Gesualdo. Questo è il
"silenzio" del Verga.
Crediamo che una lettura di "sintesi" dell'opera verghiana sia
possibile e che la critica debba spostare l'asse sui contenuti sintetici
dell'opera del Verga e non nel suo successo ο fallimento delle analisi.
Conoscere significa anche "scoprire il fenomeno," cioè illuminare,
rendere chiaro accessibile il momento storico nella sua poiesi, nel farsi,
nell'esperirsi, nel concretizzarsi nella storia dell'uomo, fatta dall'uomo,
con i modi di produzione effettuati dall'uomo; e il Verga, come
giustamente ha sottolineato il Giarrizzo, "con mezzi, e in condizioni
peculiari" (La Sicilia, p. xxxix) aveva tentato proprio questo.
COSIMO STIFANI
University of Toronto,
Toronto, Ontario
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NOTE
* Lo studio prende in esame i concetti di fondo della critica verghiana
idealistica e marxista e si limita a quelle analisi che, secondo noi, hanno
maggiormente contribuito al dibattito letterario fino agli anni '90-91.
Nella raccolta di saggi dell'83 — Il romanzo di 'Ntoni Malvoglia e altri
saggi — il Sipala punta ancora sulla "moralità" dei personaggi verghiani "che
rifiuta la legge come norma generale ο convenzione sociale" (p. 38). Questo
filone della critica verghiana non prende in esame il periodo storico in tutte le
sue componenti sociali ed economiche che, in ultima istanza, è il terreno da cui
emerge l'opera letteraria.
Se si prendono in considerazione i dati demografici e la disponibiltà dei
posti di lavoro (soprattutto nel meridione), la questione della "morale" pone un
problema. "The mezzogiorno" — scrive Clive Trebilcock — "experienced the
classic trauma of demographic explosion in a backward economy: between 1861
and 1936 its inhabitants increased by 5.7 m., but its economically active
workforce by only 200,000; the participation ratio fell from 76 to 50 per cent.
Unlike Spain or Austria-Hungary, the southern Italian section did experience
population pressure upon economic resources — and of overbearing and
stupefying rather than stimulative dimensions" (Trebilcock, p. 311). Nell'Italia
post-unitaria la maggioranza della popolazione lotta per la sopravvivenza; e in
uno stato "ferino" il lemma "morale" pone dei dubbi.
Nella raccolta di saggi, Simbolo e costruzione allegorica in Verga, Romano
Luperini esplora ancora le tematiche verghiane da un'angolatura filomarxista
(non si è certamente sulle posizioni degli anni Settanta) e propone una lettura
dei Malavoglia molto diversa dalle precedenti.
La posizione del Luperini è interessante per la nostra lettura perché
propone I Malavoglia come romanzo "sperimentale" "al confine fra premoderno
e moderno" (p. 10). Tuttavia il critico sostiene che il Verga in questo romanzo
fonde l'invenzione con i contenuti. "A questo punto" — scrive Luperini — "si
può avanzare l'ipotesi che I Malavoglia siano un romanzo sperimentale
(nell'eccezione tecnica e scientifica che il termine aveva allora, nel dibattito
culturale e letterario) non solo sotto il profilo letterario ma anche sotto quello
della rielaborazione dei temi sociali. Si può, in altri termini, presumere che
Verga intendesse fornire un esempio di 'romanzo moderno' (vale a dire,
'sperimentale' e scientifico) sia sul piano dell'invenzione formale sia su quello
della organizzazione dei contenuti" (Luperini, p. 23). Crediamo che si potrebbe
forzare la premessa del Luperini e proporre una lettura del primo romanzo
verghiano come un "tentativo" di sintesi del premoderno col moderno, e, quindi,
proporre il Verga come grande scrittore che intuisce la necessità di un lavoro
che proponga una risultante dei due momenti storici presi in esame. Sul piano
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intellettuale della cultura italiana il Verga deve occupare uno spazio più
significativo di quanto la critica letteraria gli ha concesso.
Luigi Russo valorizza l'opera del Verga, ma limita l'interpretazione del
contenuto: dal '20 fino a dopo il '45 le varianti della critica idealistica non
differiscono tanto nel contenuto. Paolo Pullega, infatti, nella nota bibliografica
del terzo capitolo dell'antologia Leggere Verga, intitolata "La presenza del
Verga tra le due guerre" (pp. 115-54) rimanda il lettore al capitolo precedente
per i riferimenti bibliografici, e questo indica che in sostanza non vi erano stati
dei cambiamenti significativi.
Dopo l'unificazione le inchieste sull'economia del paese e sulla condizione
sociale della popolazione si susseguono a ritmo molto accelerato. La più
importante rimane quella di Franchetti e Sonnino del 1876 e quella pubblicata
nel '84 da Stefano Jacini. Quest'ultima era stata promossa dal Parlamento nel
1877. A queste inchieste vanno aggiunte quella del Romilli sul mantovano del
79 e di Giuseppe Zanardelli sulla Basilicata del 1902.
Franchetti, Jacini e Sonnino — quest'ultimo, figlio di un ebreo italiano e di
madre inglese — conoscevano molto bene il sistema politico ed economico
dell'Inghilterra vittoriana.
Il Verga sembra che sia il primo ad intuire i risvolti traumatici
dell'emigrazione; e l'emigrazione è un argomento molto attuale durante la crisi
agraria degli anni '70.
La critica idealistica fa leva su questi valori perché cerca di dimostrare la
coerenza "ideologica" del lesto con gli obiettivi "ideologici" dello scrittore;
come se il Verga avesse un "programma" da mettere in atto.
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L'opera del Verga è caratterizzata da una contraddizione interna, ma la critica
idealistica non riesce a metterla a fuoco perché parte dalla premessa
dell'armonia concettuale dell'opera verghiana.
Secondo il Sipala la moralità dell'opera verghiana "[... è] un moralità che
rifiuta la legge come norma generale ο convenzionale sociale, diritto privato ο
diritto penale che sia, perché si colloca al di qua della legge, in una contabilità
elementare del dare e dell'avere; una moralità integra e primigenia con cui gli
altri devono misurarsi" (Sipala, p. 38). Ci sono molti dubbi su questa legge
naturale di padron 'Ntoni; a noi sembra che il Verga la violi con compare
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L'Italia del 1900 ha una produttività, secondo i dati raccolti dal Trebilcock.
che la relega all'ultimo posto tra le nazioni europee del settore agrario
(Trebilcock, p. 434, Tav., 7.5). Come giustamente ha ravvisato il Cipolla, con
il declino commerciale e il trasferimento dell'industria tessile all'inizio del
Seicento verso l'Europa del nord — Inghilterra e Olanda — il capitale italiano
viene investito nella coltura delle campagne. Questo dirottamento del capitale
risana momentaneamente l'economia — vi è infatti una forte richiesta dei
prodotti agricoli da parte del Nordeuropa — ma, ritarda il decollo industriale.
Così l'Italia rinascimentale istruita e colta si declassa a nazione di
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accentramento agrario per i tre secoli successivi (Cipolla, pp. 92-3, 253-63), e
questo comporterà: "a) the reduction in number of both the literate craftsmen
and the enterprising merchants; b) the growth in size of the illiterate peasantry;
c) and the rise in power of the landed nobility" (Cipolla, p. 263). Questi tre
fattori sono ancora presenti nella società italiana del periodo verghiano.
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Il percorso storico di un'economia, il cui asse portante è l'agricoltura, crea
dei beni di consumo la cui richiesta rimane invariata negli annali della storia,
e cioè, come hanno evidenziato gli economisti: prodotti alimentari, prodotti
tessili e le abitazioni (Cipolla, pp. 207-8). Quindi la nuova struttura sociale
emerge con l'industrializzazione, che riorganizza e riassesta le strutture portanti
che caratterizzano la nuova società e l'abito mentale dell'uomo (la soggettività)
nella nuova dimensione dialettica della storia (l'uomo riorganizza ma è anche
"riprogrammato," "ristrutturato").
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Secondo il Leakey i modi di produzione determinano la struttura fisica e
sociale di una società: "The numerical composition of a foraging band, roughly
thirty people, has been called one of the "magic numbers" of hunter-gatherer
life. Throughout the world hunting-and-gathering people have as the core of
their social and economic life a band of about this size" (Leakey, p. 99). Le
società nomadi, ο dedite alla pastorizia, oppure le società agrarie ο quelle
industriali ο post-industriali hanno delle strutture interne che le
contraddistinguono dalle precedenti e da quelle che vengono dopo. La critica
marxista deve prendere in considerazione queste varianti.
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Una lettura dei Malavoglia come viene proposta, e cioè come romanzo che
tenta una sintesi del periodo storico, prende in esame le contraddizioni esistenti
nell'opera senza nessun tentativo di risolverle perché in ultima istanza il Verga
non le elimina. Il Verga nei Malavoglia analizza una società in via di
estinzione; l'affare dei lupini è un postulato dello stato embrionale della nuova
società. Tuttavia, quest'ultimo non è importante nei Malavoglia; in questo
romanzo emergono le tematiche del trapasso tra mondo agrario e mondo
industriale.
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Lo studio del Luperini (Simbolo e costruzione) è molto sensibile a queste
contraddizioni interne presenti nella struttura del romanzo. Il critico, infatti,
osserva che "nella costruzione dei Malavoglia si fondano realtà antropologiche
diverse: quelle "marinaresche" del bozzetto iniziale e quelle contadine analizzale
da Sonnino ο da Villari e dagli studiosi di folclore e di etnologia — Pitrè,
Salomone, Marino, Guastella, Rapisarda — " (Luperini. p. 22) e nella pagina
successiva propone I Malavoglia come romanzo "sperimentale" (Luperini, p. 23)
dopo aver ricondotto Alessi e Nunziata nel mondo contadino dove i modi di
produzione (come abbiamo cercato di dimostrare) sono proprio quelli di una
società produttiva a forte accentramento agricolo.
Crediamo che si potrebbe avanzare l'ipotesi (facendo leva sulle analisi del
Luperini) che il Verga non cerca di sperimentare ma di sintetizzare: e cioè
connettere tutte le esperienze di una società "passata" — l'obiettivo delle
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inchieste era anche di superare quelle strutture sociali anacronistiche dei ceti
rurali — con la conoscenza del presente. Questa è una differenza sostanziale
perché pone I Malavoglia veramente come romanzo premoderno le cui radici
scendono fino all'essenza della storia. Da questa angolatura I Malavoglia sono
un'opera epocale proprio per questo.
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Va messo in risalto che secondo l'Hopkins, uno studioso inglese del mondo
antico, nell'Inghilterra del 1801 i più quotati banchieri e commercianti
dell'epoca avevano un reddito annuo medio di 2600 sterline "compared with
8000 pounds sterling per year for the top group of landowners" e 3000 sterline
per la "upper gentry" (Hopkins, pp. 52-3). Quindi se l'Inghilterra all'inizio
dell'800 fa ancora leva sulla proprietà come investimento lucrativo ottimale
perché non dovrebbe esserlo nel mondo malavogliesco? Il Verga vede molto
chiaro nel ritenere la "roba" un bene assoluto.
Il libro del '65 di Asor Rosa, Scrittori e popolo, pone addirittura l'opera
verghiana su un piano metafisico. "Dietro ai proletari dei Malavoglia" — scrive
Asor Rosa — "e di tante delle novelle siciliane del Verga c'è una visione di
carattere più metafisico che storico, un atteggiamento morale più ontologico che
terreno, un'indignazione e un pessimismo più universali che umani" (Scrittori
e popolo, p. 59). I "proletari" del Verga non sono certamente i "proletari" di
Asor Rosa; le valenze ideologiche di quest'ultimo forzano l'argomento per
giustificare una metodologia della critica letteraria fondata sulle premesse del
materialismo storico.
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Nello stesso periodo Vitilio Masiello polemizza con Asor Rosa e sposta
l'asse dell'ideologia "privala" — come sostiene Asor Rosa — a quella collettiva;
e così il Verga diventa "l'intellettuale organico" del blocco agrario-conservatore
(Rossi, p. 163).
La critica marxista coglie in parte alcuni aspetti dell'opera verghiana; ma la
tesi di G. Trombatole che il Verga è un grande scrittore di una certa levatura
morale, però incapace di fare il salto "qualitativo" e riscattale le plebi, oppure
quella di Asor Rosa dell'intellettuale "refoulé" ο del Masiello che lo ritiene un
intellettuale "organico" (Rossi, pp. 161-3). ο del Luperini, che negli ultimi saggi
scava nella sfera del simbolismo antropologico dell'opera verghiana. non
pongono il momento storico come "tentativo" di sintesi delle contraddizioni. Il
Verga, secondo la nostra lettura, fa proprio questo. La critica deve ravvedersi
sulla validità delle valenze ideologiche. La storia ha dimostrato che il
proletariato ha subito una metamorfosi perché sono mutati i modi di produzione
e non l'ideologia.
La nostra posizione differisce da quella sostenuta dal Luperini in Simbolismo
e costruzione allegorica in Verga in quanto la nostra lettura si avvale delle
contraddizioni presenti nell'opera verghiana, però riscontrabili anche nel periodo
storico. Quindi, ponendo il lavoro del Verga sul piano storico l'opera letteraria
assume una valenza gnoseologica e quindi valida per scendere nel diacronico
della storia, nel mondo oggettivo.
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