Giacomo Ponti Dato Magradze Giuliano Ladolfi 2012, pp. 101

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Giacomo Ponti Dato Magradze Giuliano Ladolfi 2012, pp. 101
Giacomo Ponti
Dato Magradze
Giuliano Ladolfi 2012, pp. 101
Traduzione di Nunu Geladze, redazione di Marienza Coraci, prefazione di Giuliano Ladolfi e nota
critica di Zaza Shatirishvili; e con un appunto di Tonino Guerra.
I
Nelle polemiche che da tempo coinvolgono le grandi case editrici - attente più a creare novità che
a cercare quelle vere, o spesso arroccate in un immobilismo che porta ogni volta alla ribalta gli
stessi nomi - da più parti si afferma che il vero lavoro di ricerca e diffusione della cultura arriva dal
basso, dalle piccole case editrici. Generalizzare è pericoloso (ho avuto anche prova del contrario),
eppure questo è certamente il caso di Ladolfi editore, che con questo Giacomo Ponti offre al
pubblico italiano i versi di Dato Magradze, uno dei maggiori poeti georgiani contemporanei,
candidato al Nobel nel 2011.
Questo poemetto “oratorio epico multi genere” (dalla nota critica di Zaza Shatirishvili) va letto per
più di un motivo. Non solo per il valore e la compattezza dell’opera (ne parlerò dopo), ma perché
pone fondamentali questioni sul rapporto tra poesia e società, e tra due paesi e tradizioni culturali
differenti. Succede così quando si traduce - letteralmente ed etimologicamente - una cultura in
un’altra. Chi abbia una qualche dimestichezza con la poesia italiana contemporanea e occidentale
in genere, dovrà allora riadattare le proprie diottrie, disporsi diversamente all’ascolto davanti a
un’opera come Giacomo Ponti. Non vorrei che questa affermazione suonasse come un elogio o
una critica, e meno ancora come una di quelle frasi di circostanza che si usano spesso nelle
recensioni. Entro allora nel merito: il fatto è che Giacomo Ponti è radicato nel genere epico (non a
caso, nella prefazione, Giuliano Ladolfi fa riferimento a Omero) con una naturalezza disarmante,
impensabile o quasi in Italia e nel mondo occidentale in genere. Perché? Il punto è che la
narrazione epica in Giacomo Ponti ha come premessa la convinzione o perfino constatazione vissuta sulla propria pelle - che il poeta abbia una funzione importante e insostituibile. Bastino
questi passaggi a esemplificare quanto appena detto: “Io sto lì, dove c’è l’uragano / E l’angelo è
ormai torturato, / è mio dovere lottare contro i mulini a vento” (p. 58), e “La mia legge è unire i
secoli / Con il fascio delle parole” (p. 59). Tale funzione è tanto più rivendicata quanto più
calpestata nei fatti, quanto più svuotato il suo ruolo dal regime georgiano da un lato - regime di cui
Magradze è fiero oppositore - e dall’avanzata del consumismo nei suoi aspetti più aggressivi e
condannabili.
Da qui, una drammatizzazione della figura del poeta da una parte, e dell’autorità dall’altra, funge
da impianto per l’intera opera, votata a un continuo e aspro confronto tra le istanze rappresentate
da ambedue le parti. L’autorità è nel potere corrotto del tribunale - visto dai cittadini georgiani
come una semplice appendice dell’esecutivo (postfazione, p. 94) - che cerca di mettere a tacere il
poeta Giacomo Ponti, a mio avviso non solo alter-ego di Magradze, ma anche simbolo incarnato
(“ponti” significa “finzione” in georgiano, come apprendiamo dalla prefazione) dei valori della
cultura e della bellezza. Magradze, dunque, davvero parla a nome di una collettività di cui è parte
e che vuole liberata, ritrovando un umanesimo innervato di cristianesimo: “voi cercate il colpevole
in me / Io, nel colpevole, cerco l’uomo” (p. 78).
In lui, come nel poeta balcanico Sidran, nell’ungherese Radnóti e in altri grandi, la storia è quanto
di più reale possa esserci, l’oppressione e la censura sono reali e si abbattono una volta per tutte i
complessi filtri (ironia, allusioni, dispersione della voce autoriale) imposti dal modernismo europeo
da Eliot in poi. E in effetti, come dice Shatirishvili nella postfazione, la poetica di Magradze è
“ostentatamente sobria e tradizionale”, opponendosi in ciò alle influenze moderniste penetrate in
un paese come la Georgia, il cui canone letterario è di matrice islamica (p.89).
In forte affinità con la poetica di Magradze, nella sua accesa e fervente prefazione Ladolfi parla con
toni assai critici di un “Novecento sperimentalista durante il quale si è consumato il divorzio tra
parola e realtà, nell’abdicazione alla vocazione più autentica della scrittura in versi che consiste nel
parlare all’uomo dell’uomo” (p. 5). Il progetto culturale di Ladolfi è perciò coerente con le sue
proposte editoriali che ho avuto modo di leggere (Guerra alla tonnara di Andrea Italiano, recensito
qui, e l’antologia La generazione entrante). Libri caratterizzati da una poesia comunicativa che
sembra opporsi tout-court non soltanto all’ideologia avanguardista, ma anche ai suoi portati
stilistici, perfino quelli (relativamente) moderati. Entrare nel merito di tale scelta non è certo nelle
intenzioni di questa recensione; ma questo punto va meditato e discusso al di là delle sporadiche
polemiche (vd. la querelle Carabba-Ostuni).
Mi chiedo però se una poetica del genere sia possibile e perfino auspicabile in Italia, dove la
cultura, la situazione politica e la fase storica sono assai diverse da quelle della Georgia. Certo, c’è
dell’ottima poesia civile in Italia (Sereni, Fortini, Pasolini, Roversi, Di Ruscio, Mesa… e, lasciatemelo
dire, il De André di “Domenica delle salme” - e non per aggiungere carne al fuoco dell’altra
polemica tra poeti e cantautori, in questa Italia piena di polemiche). Eppure, in Italia la postura del
poeta assume toni meno eroici e di sfida, più passivi o in minore, senza perlopiù rinnegare le
rotture stilistiche portate dal modernismo e i suoi schermi o filtri. Il fatto è che la funzione
dell’intellettuale (e del poeta) è entrata in crisi oltre cinquant’anni fa, e attualmente è pressoché
scomparsa: è quindi di per sé comprensibile che constatazione e disillusione, o emarginazione
senza eroismo prevalgano su una postura “forte” (ma naturale nel suo contesto) come quella di
Magradze. Riproporre senza filtri o adattamenti tale posizione nel discorso poetico italiano
presterebbe il fianco a molte critiche, alcune delle quali forse giustificate. C’è però anche da dire
che tale operazione presuppone una indignazione, una riappropriazione della cosa pubblica come
bene collettivo, per la quale l’Italia come collettività non sembra ancora pronta: una posizione
tradizionalista di questo tipo potrebbe quindi, paradossalmente, essere pionieristica. Un’ipotesi,
questa, da formulare con cautela, e che andrà vagliata alla luce dei testi, della produzione poetica
reale che vedremo nei prossimi anni.
Questa lunga premessa mi pareva necessaria, e il lettore non interessato ai dibattiti culturali e
letterari, ma desideroso, più semplicemente, di leggere buona poesia, la salterà senza troppi
indugi. È infatti della poesia di Magradze che adesso, finalmente, è giunto il momento di parlare.
II
Apriamo e leggiamo il libro dall’inizio, come si conviene a una narrazione in versi. Si veda la
semplicità e incisività della lingua poetica nella prima poesia, intitolata “Premessa”: “Parla così
quest’uomo, / si turba così, parla così, / per nutrire l’anima e renderla colma. […] Parla, soltanto,
così. […] Si turba, parla così” (p. 19). L’essenzialità del lessico, imperniato sul valore della
comunicazione non artefatta (“parla”) è risarcita dalle variazioni nell’ordine sintattico degli
elementi, per un effetto di ripresa che evita la monotonia. La disillusione amara non manca, come
nel lungo “Prologo”: “L’abito nuovo si è impolverato / ma a che serve se non c’è niente di nuovo”
(p. 21). Oppure, il senso di inutilità e inerzia (che mi ricorda la “sterminata domenica” con cui
Sereni descrive l’Italia del dopoguerra) si palesa nel tono e nelle immagini di questi bellissimi versi:
“E noi, noi col metodo usuale, / con la grappa fetida scaveremo le trincee, / giustificandoci cos’altro si può fare - / stenderemo l’elenco delle donne belle” (p. 24).
La prima vera e propria sezione (“Essenza della vita”) mette in atto la drammatizzazione del
dialogo tra il poeta e il potere costituito di cui si accennava all’inizio di quest’intervento. Così, nelle
quartine di “Sala del tribunale”, Giacomo Ponti orgogliosamente si difende dalle accuse kafkiane
(non sappiamo di cosa sia accusato il poeta) che gli vengono rivolte: “Io, cittadino Giacomo Ponti, /
non riconosco a me nessuna colpa” (p. 27). Il sarcasmo nei confronti dell’avvocato (“Questo mio
avvocato sa muovere il didietro / ed è bravo nella danza del ventre”, p. 27) rientra in una più
generale sfiducia in chi, pur essendo formalmente investito dal suo compito, manca di
responsabilità e coraggio. Il poeta è “nostromo di una flottiglia di navi di carta” (con un’immagine
già presente in Montale: “Sbarbaro, estroso fanciullo, piega versicolori / carte e ne trae navicelle”,
da Ossi di seppia). L’affondo in tono di sfida di Magradze nell’opporre il suo “vecchio” al nuovo che
avanza non potrebbe essere più esplicito e fine al tempo stesso: “Mi conduce Mosé alla locanda
promessa / e sullo sfondo della vostra nuova epoca / i versi del mio archivio / s’invecchieranno
come cognac” (p. 28).
Figure religiose, storiche e mitologiche esemplari, come Gesù, Mosé, Socrate, Achille, Prometeo,
costellano l’intero libro, invocate come nell’epica tradizionale e fatte dialogare col presente; ne
raccoglie il testimone quell’idealizzazione personificata che è Giacomo Ponti. Il messaggio è quello
dell’uguaglianza e della fratellanza (“Che io perda le orme del cervo bianco / e non mi protegga la
musa della poesia / se non trattassi allo stesso modo / la chiara occidentale e la khanum di
oriente”, p. 38). La Georgia, porta tra oriente e occidente, è naturalmente terra di commistione
etnica di cui il poeta si fa incarnazione: “Chiamatemi canale del Bosforo, se gradite, / mi ritengo
due fonti di una sola acqua” (p. 42).
La battaglia culturale di Magradze è su due fronti: uno interno e l’altro esterno. Al fronte interno ci
sono falsi patrioti che indagano “quante gocce erano proprio russe / nel sangue di Tolstoj” (p. 48);
in quello esterno la vanità occidentale: “lancia Gucci un nuovo profumo” e “Chanel ha concesso la
casa ai gatti”, mentre “lo tsunami ha colpito il Giappone” e “la Libia ha aperto un nuovo fronte”.
Politica, sesso e ipocrisia si fondono in ritratti fulminanti e caustici come questo: “la ragazza
pronta all’amore / con la spuma di liberalismo sulle labbra” (p. 52). Altri affondi assumono la
forma dell’epigramma (ad es. “Riforma”, p. 53), un genere non molto praticato in Italia.
Non mancano momenti più lirici e confessionali, come questi (p. 78):
Veneravo umilmente le orme della mia amata
non abbellivo i versi con civetteria
scrivevo sul limite delle lacrime trattenute
quando la festa mi doleva.
Quello che qui colpisce e che vorrei leggere più spesso nella poesia italiana, è la varietà tonale e
attitudinale dei versi: si va dall’invettiva alla confessione, dalla narrazione al dialogo drammatico il tutto in una rimarchevole omogeneità stilistica (benché la cosa vada proposta con cautela,
trattandosi di poesia tradotta e senza testo originale a fronte) che contribuisce all’unitarietà
dell’opera.
Peccato, allora, per certi momenti in cui la traduzione è a mio avviso infelice e nuoce per rifrazione
su numerosi momenti riusciti, dando a volte un’impressione di qualità alternata che non mi
permetterei di attribuire a Magradze. Nocivo, sempre a mio modesto parere, l’uso insistito delle
inversioni, ad esempio, che da un lato conferisce musicalità e vivacità al verso, ma dall’altro lo
appesantisce di una patina di letterarietà poeticamente scontata: “prima che il raggio il foglio
sfiori”; “un uomo su dorso scivolato”; “le locandine / col verso piovoso contendenti”, “raggiunge la
pioggia il colletto dischiuso”, “elisir sorseggia”; solo per fare qualche esempio. O anche
l’eliminazione arcaizzante (di matrice ermetica!) dell’articolo (“come funamboli su corda”), o
qualche verso da traduzione di servizio come “fanno arrivare il momento di emarginare l’uomo”.
Piccoli incidenti di lettura, oppure scelte ponderate che avrebbero potuto essere spiegate in nota,
ad esempio accennando allo stile dell’originale e ai motivi che hanno guidato le scelte traduttive.
Poca cosa, ad ogni modo, rispetto al grande merito di un’iniziativa come questa e della
opportunità che ci offre di conoscere una voce vera e importante al di fuori dei nostri a volte
troppo stretti confini.
Pubblicato su www.criticaletteraria.org
© Davide Castiglione