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Rinnovamento liturgico
A M E R I C A L AT I N A
i
l canto popolare
Tr a d i z i o n i e t n i c h e , i d e o l o g i e , s p e r a n z a c r i s t i a n a
I
l rinnovamento vissuto dalla
Chiesa latinoamericana nell’ultimo mezzo secolo comprende la
produzione di un canto religioso
che recupera la tradizione musicale autoctona ed esprime gli aneliti di
liberazione sociale fatti propri da settori
rilevanti delle comunità ecclesiali del
continente. Difficile farne un bilancio
completo. Conviene tuttavia darne una
qualche nota identificativa.
A questo fenomeno hanno contribuito almeno tre fattori. Prima di tutto la
riforma liturgica promossa dal concilio
Vaticano II, che, oltre a promuovere l’integrazione tra rito, vita e cultura nonché
ad affermare la rilevanza della partecipazione del popolo nel culto, rivaluta il
canto e favorisce l’inculturazione della
musica sacra, come sottolinea il n. 119
della costituzione dogmatica Sacrosanctum Concilium: «In alcune regioni, specialmente nelle missioni, si trovano popoli con una propria tradizione musicale,
la quale ha grande importanza nella loro
vita religiosa e sociale. A questa musica
si dia il dovuto riconoscimento e il posto
conveniente tanto nell’educazione del
senso religioso di quei popoli, quanto
nell’adattare il culto alla loro indole».
Così, nel 1969, dom Timóteo Amoroso Anastácio, abate del monastero
della Bahia, può dire: «Il Concilio ha liberato la liturgia dall’immobilismo. La
“rigida uniformità” precedente ha lasciato spazio a forme flessibili che, senza
pregiudicare il fondo inalienabile dei
riti, rendono possibile una celebrazione
incarnata. Il genio proprio del popolo e
della sua lingua, la sua sensibilità, la
sua musica, i suoi strumenti, il suo
mondo intellettuale – i suoi valori culturali sono chiamati a contribuire attivamente per esprimere la venuta di Dio
e la risposta dell’uomo nell’unità simbolica del rito. La liturgia è, per definizione, popolare». L’istruzione Musicam
sacram emanata nel 1967 dalla Sacra
congregazione per i riti per tradurre in
pratica tali principi consente, infatti,
l’uso di canti nelle lingue locali, di strumenti musicali diversi dall’organo e da
generi differenti dal gregoriano e dalla
polifonia. Ciò ha spinto molti autori a
comporre una nuova musica sacra più
vicina alla realtà dei fedeli e alle caratteristiche delle culture in cui la Chiesa
si trovava inserita.
In tale sforzo essi hanno, in secondo
luogo, attinto al ricco patrimonio di musica popolare tradizionale, ma hanno incontrato anche il movimento della «Nuova canzone latinoamericana», divenuto,
come ricorda Diana Marquez, «il
grido di coloro che non hanno voce, un
grido di dolore e speranza dei nostri
popoli di fronte alla situazione di dominio e agli sforzi di liberazione», con
figure come Atahualpa Yupanqui, Violeta Parra e Victor Jara, i quali, oltre a
restituire dignità al folklore locale,
hanno introdotto elementi di denuncia
sociale.
Infine, tale incontro ha trovato terreno fertile nelle comunità ecclesiali di
base, il cui «nuovo modo di essere
Chiesa» da una parte ha suscitato un
nuovo modo di celebrare, caratterizzato
dalla valorizzazione della cultura del popolo e da una «celebrazione degli avvenimenti» che supera la dicotomia tra sacro e profano per fare della liturgia uno
spazio di anticipazione del Regno, dall’altra ha favorito un’inedita partecipazione dei cristiani alle lotte popolari, i
quali hanno fatto propria nella militanza
la canzone di protesta latinoamericana,
che ha perciò preso a includere chiari riferimenti religiosi, fino al prodursi di
una vera e propria musica ispirata alla
teologia della liberazione.
Essa è fiorita rigogliosamente in
questi decenni, con interpreti come i
venezuelani Los guaraguao o il religioso
brasiliano José Fernandez de Oliveira,
alias p. Zezinho, oltrepassando non
solo i confini cattolici per diffondersi
nelle Chiese metodiste, luterane ecc.,
ma addirittura l’ambito liturgico per
entrare in molti casi nel repertorio popolare e artistico del continente. Secondo il guatemalteco Juan Guerrero
Pérez, «nessun genere musicale nel
mondo né corrente teologica o filosofica
ha avuto tra il 1950 e il 2000 tanta importanza nella vita sociale, politica e
religiosa di nazioni e popoli quanto la
canzone di protesta latinoamericana
collegata alla teologia della liberazione», suscitando «un sentimento collettivo popolare senza precedenti in
America Latina»..
Le messe latinoamericane
L’espressione più compiuta di tale
produzione è rappresentata da almeno
un’ottantina di «messe folkloriche» o
«etniche», coi ritmi e gli strumenti musicali di ciascun paese. Tra loro si va da
quelle che ricalcano l’ordinario (Kyrie,
Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei) a
quelle che si estendono al proprio (introito, offertorio, comunione ecc.); e si
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M. CEREZO, affresco dell’altare maggiore della Chiesa dedicata a san Francesco, Rondonia (Brasile).
possono distinguere quelle che mantengono nei testi le preghiere del canone e quelle che le modificano per riferirsi alle ingiustizie subite dal popolo,
alle sue lotte e speranze.
Questo processo ha due precedenti.
Il primo è il «laboratorio ecclesiale»
creato dagli anni Cinquanta a Cuernavaca, in Messico, da mons. Sergio
Méndez Arceo, che anticipa molti cambiamenti liturgici e pastorali poi decisi
dal Concilio: sostituisce l’altare di spalle
al popolo con uno moderno davanti ai
fedeli, introduce la lingua volgare, la
lettura e riflessione della Bibbia e i canti
popolari nelle celebrazioni, per favorire lo sviluppo di una coscienza religiosa in grado di diventare fattore di
cambiamento sociale. In questo contesto promuove la misa panamericana,
accompagnata dai tradizionali mariachis, che recupera alcuni tipici generi
musicali messicani, e nel 1967 la misa
popular o tepozteca, che, non richiedendo un’orchestra, viene adottata da
molte comunità ecclesiali.
Il secondo precedente è la misa
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criolla, registrata nel 1964 dall’argentino
Ariel Ramirez (deceduto nel 2010, cui si
deve pure la misa por la paz y la justicia,
composta nel 1981 in seguito ai «fatti vissuti nel paese negli ultimi anni», inserendo brani recitati che coniugano invocazione a Dio e invito all’impegno
sociale) sulla base del testo della liturgia
eucaristica in spagnolo approvata l’anno
prima, introducendo ritmi andini e nazionali. Essa ha avuto un’enorme diffusione, diventando l’unica opera musicale argentina edita in tutti i continenti,
venendo interpretata da artisti come
Mercedes Sosa, José Carreras e Placido
Domingo, ed esercitando un notevole
influsso sulla successiva musica sacra.
L’etnomusicologo statunitense Thomas Scruggs parla di «messe tradotte»,
con funzione essenzialmente liturgica,
«quando il testo era formato da traduzioni complete dal latino alle lingue nazionali europee», e di «messe dell’impegno sociale», quando, con finalità
prevalentemente catechetica, promuovono una concezione della fede influenzata dalla Teologia della libera-
zione e rompono «la relazione che
l’estetica del culto aveva mantenuto per
secoli con la gerarchia cattolica per cercare una nuova connessione con le
classi popolari e trovare lì la propria
motivazione stilistica».
Quelle «tradot te» ...
Del primo gruppo fanno parte
opere create soprattutto poco dopo il
Vaticano II. Tra esse spiccano la misa
chilena, composta nel 1965 da Raul de
Ramon con ritmi di tutto il paese (dal
trote della regione settentrionale alla
cancion ovejera della Terra del fuoco)
«affinché il popolo del Cile canti all’Onnipotente nel proprio idioma e secondo il proprio stile musicale»; la contemporanea missa do morro (i morros
erano le colline dove vivevano i poveri
afrobrasiliani), eseguita da Pierre Sanchis a Salvador de Bahia come «concretizzazione delle intenzioni più profonde del Concilio e dell’aspirazione a
una liturgia ricostituita nelle fonti della
creatività popolare», inserendo melodie brasiliane ispirate al candomblé da
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cui deriva il samba e accompagnate da
strumenti popolari (violini, atabaques e
berimbaus); la misa folklorica paraguaya,
commissionata nel 1975, nel pieno della
dittatura militare del gen. Alfredo Strossner, dall’allora arcivescovo di Asunción, mons. Ismael Rolón, al maestro
Herminio Giménez, che per eseguirla
rientrò temporaneamente dall’esilio a
Buenos Aires; la misa andina, interpretata nel 1993 dal gruppo Altiplano e
considerata per completezza della strumentazione e varietà di generi una delle
opere di spicco della musica folklorica
latinoamericana.
Nella stessa categoria si possono
iscrivere messe che contano un maggior numero di parti cantate, con testi
recenti, senza però allontanarsi da una
spiritualità tradizionale né porre enfasi
sull’impegno sociale, come la misa pampina, registrata nel 2002 da p. Alex Vigueras, che utilizza ritmi e strumenti
del Nord del Cile per darle un tono
particolarmente allegro, e la santa misa
campesina, composta l’anno prima dal
Conjunto Graneros, che si distingue per
la sua semplicità, ricorrendo a melodie
più dolci delle aree rurali del centro del
paese (valzer, cueca ecc.). Se inoltre la
maggior parte, per temi e generi, ha
valenza nazionale, non mancano quelle
che esprimono specificità locali (come,
in Argentina, la brillante misa santiagueña, coi suoni di chacarera e vidala
della regione settentrionale, eseguita nel
1988, e la solenne misa patagonica, coi
ritmi tehuelches, mapuches e onas dell’estremo Sud, registrata nel 2005 a 28
anni dalla sua composizione da parte di
Guillermo Rios), né quelle che assumono una proiezione «panamericanista» (dalla misa de la cruz del Sur, musicata nel 1973 dal cileno Vicente
Bianchi, alla misa de las Indias, composta nel 1992 dall’olandese Will Hus).
Testimonianza della progressiva
adozione delle lingue indigene sono,
inoltre, le versioni della misa en guaraní
(dalla prima, più essenziale, composta
nel 1968 dal paraguayano Abdon Irala,
a quella, più ricca, scritta nel 2002 dal
figlio, il gesuita Casimiro), della misa
quechua, come quella interpretata nel
1977 dai boliviani Los Tawantin Cusis,
e la garifuna mass, cantata dal 1998
nella lingua delle comunità nere anglofone della costa caraibica dell’Honduras. Infine l’emigrazione ispanica negli
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Stati Uniti ha condotto Mauricio Centeno e José Cordova a creare nel 2003
la nueva misa latinoamericana, in inglese e spagnolo, per animare le celebrazioni in comunità multiculturali.
… e quelle «dell’impegno
sociale»
Al secondo gruppo appartiene un
numero molto alto di proposte. Nella
misa por un continente, registrata a Parigi nel 1972 dai paraguayani Ruben
Bareiro-Seguer e Francisco Marin (con
un introito del guatemalteco Miguel
Ángel Asturias, premio Nobel per la
letteratura 1967), si proclama il «Credo
in Dio che crede nell’uomo» e gli si
chiede salvezza da «prigioni e commissariati», da «governi corrotti, venduti
alle potenze imperialiste».
La misa campesina nicaragüense,
composta da Carlos Mejía Godoy nel
1975, durante la dittatura di Anastasio
Somoza, su ispirazione di p. Ernesto
Cardenal (monaco poeta e poi ministro
della Cultura del governo sandinista), è
considerata da Montserrat Galí Boadella, docente dell’Istituto di scienze sociali e umane dell’Università autonoma
di Puebla, «la musica più rappresentativa della teologia della liberazione» e
da Scruggs «una delle opere creative
più importanti della seconda metà del
XX secolo in America Latina e nei Caraibi», poiché l’inculturazione vi è data
non solo da strumenti (violini, chitarre,
timpani ecc.) e ritmi locali (mazurca,
«son de toro» ecc.), ma dal linguaggio
quotidiano, con le espressioni gergali
(come il «vos os» invece del «tu eres») e
la spagnolizzazione di vocaboli anglosassoni (per esempio «chequeando» da
«to check»), dai riferimenti alla flora e
alla fauna del paese, come pure a città
e villaggi (Siuna, Jalapa ecc.) nonché a
nomi e nomignoli di persone comuni
(Eusebio, Chenta ecc.), mentre i canti,
secondo i teologi della liberazione p.
José Maria Vigil e p. Angel Torrellas,
«distruggono l’universalità astratta di
chi vuole nascondere le contraddizioni
sociali ricoprendo oppressori e oppressi
sotto il manto di una fittizia fraternità
eucaristica».
La missa da terra sem males e la
missa dos quilombos, composte rispettivamente nel 1979 e nel 1981 dal poeta
Pedro Tierra e da mons. Pedro Casaldáliga, vescovo della prelatura aposto-
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lica di São Felix do Araguaja, in Brasile,
evocano l’una il genocidio degli indigeni
compiuto dai «cristianissimi colonizzatori occidentali» e l’utopia della «terra
senza mali» della cultura guaraní,
dando spazio alla memoria penitenziale
degli eredi dei conquistadores, l’altra il
dramma della schiavitù e la speranza di
emancipazione del popolo nero radicata nella storia ribelle degli schiavi fuggiti dalle piantagioni per costituire comunità-rifugio (i quilombos) e nella
prospettiva di uno stile liturgico nero,
con danze afro, abiti conformi all’estetica nera, memoria degli antenati.
La misa popular salvadoreña, terminata nel 1980 da Guillermo Cuellar, celebra l’incontro dei poveri coscientizzati
e organizzati col Dio che «non sopporta
un nuovo faraone e comanda a tutto il
popolo di realizzare la propria liberazione», trasformando «questo mondo in
una tavola di uguali, lavorando e lottando insieme, condividendo la proprietà»; dello stesso autore, ma di vent’anni dopo, è la misa mesoamericana,
che nel contesto sociopolitico non più caratterizzato dalla repressione militare,
a cura di Roberto Reggi
Profeti
Traduzione interlineare
in italiano
D
ei diciotto libri profetici, il volume
offre il testo ebraico, la traduzione
interlineare in italiano (da destra a sinistra, seguendo la direzione dell’ebraico)
e il testo della Bibbia CEI (a piè di pagina, con a margine i passi paralleli).
Non si tratta di una ‘traduzione’, ma di
un ‘aiuto alla traduzione’: un utile strumento di sostegno per affrontare le difficoltà dell’ebraico e introdursi nel testo
biblico in lingua originale.
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EDB
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Dehoniane
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Fax 051. 4290099
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ma dall’esclusione provocata dal neoliberismo, rappresenta Cristo col volto delle
varie etnie indigene della regione (miskito, chorti, lenca ecc.), della bambina di
strada che vende chewing-gum e del ragazzino che sniffa colla, dell’emigrante
che attraversa la frontiera illegalmente e
dell’operaia di una maquiladora (le fabbriche di assemblaggio a capitale statunitense o asiatico; ndr).
Nella misa colombiana Alfonso Franco
nel 1987 cerca di «esprimere poeticamente e musicalmente l’esperienza di
fede nel Dio della vita e della giustizia», nel mezzo della crisi politica e sociale manifestatasi nel 1985 col massacro di 95 persone durante l’irruzione
dell’esercito nel Palazzo di giustizia di
Bogotà occupato da guerriglieri del
Movimento 19 aprile (M-19) e con la
morte di 25.000 persone a causa dell’eruzione del Nevado del Ruiz, per cui
al Signore si chiede perdono «per il sangue sparso, i tanti odi e le tante guerre,
i rancori conservati, le aspre divisioni
che distruggono l’unità».
La misa tica, registrata nel 1989 dal
gruppo Cantares coi ritmi tradizionali
costaricensi per la «festa gioiosa in cui
si costruisce la liberazione», invoca
Gesù «amico e compagno», celebrando
Dio che «ci riunisce perché cresciamo
come comunità» e chiedendogli pietà
«perché quando ai contadini tolgono
la terra non denuncio la persecuzione».
La misa de los 500 años (opera del
gesuita panamense p. Néstor Jaén nel V
centenario della scoperta-conquista dell’America), raccoglie ritmi di tutto il
continente, con un importante apporto
caraibico, per «riunire popoli fratelli che
l’egoismo divise» e «presentare le nostre
culture, i nostri conflitti, sete di giustizia
e libertà» al Dio «creatore di questa
terra americana», il quale non vuole «le
oscure nubi che vengono dal Nord, relazioni inique di oppressione, ma giorni
brillanti di giustizia, quando arrivi alla
nostra patria grande la liberazione»; la
misa afro, prodotta dai missionari afroecuadoregni di Guayaquil, tra danze e
strumenti africani, chiede al «Cristo negro» di accogliere «questo popolo nero
che vive nell’oppressione», ma vuole «riscattare l’identità nera cancellata dal
passato»; la misa Pacha mama, eseguita
nel 2004 dai Los Kusis de Bolivia mescolando spagnolo e quechua, forza i
testi canonici dando loro una tonalità in-
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digena, che enfatizza la dimensione femminile del divino, la coscienza degli
sfruttati e l’armonia con la terra.
I contenuti di queste messe seguono
l’evoluzione della riflessione teologica
ispirata alla liberazione, allargatasi alle
culture e a nuovi soggetti sociali: così, se
nella misa campesina nicaragüense si
invoca «il Dio umano e semplice, il Dio
che suda per la strada, il Dio dal volto
bruciato dal sole, il Dio operaio», la
missa da terra sem males si celebra «nel
nome del Padre di tutte le genti, Maíra
(il maestro ancestrale dei riti guaranì;
ndr) di tutto, eccelso Tupá (il dio del
tuono nella cultura indigena; ndr)» e la
missa dos quilombos «nel nome di Dio di
tutti i nomi: YHWH, Obatalá, Olorum, Oio (i tre nomi della divinità creatrice delle religioni afrobrasiliane; ndr)»,
mentre nella misa Pacha mama si chiede a «Dio madre, pane per i poveri» e
a «Dio Padre, Dio Sole, libertà per gli
oppressi e rispetto per la natura».
Liturgia in conf lit to
Soprattutto la produzione musicale
«sociale» è stata oggetto di polemica
nella Chiesa. Esemplare, in tal senso,
l’opposto giudizio di due teologi benedettini brasiliani: secondo dom Estevão
Bettencourt, la missa dos quilombos costituisce «un infelice tentativo di inculturazione che ricorda le feste folkloristiche popolari associate al carnevale e
ai culti non cristiani», mentre per p.
Marcelo Barros «la missa da terra sem
males non è ancora una messa “della”
terra senza mali, ma una messa “sulla”
terra senza mali. Il bellissimo testo e le
melodie di origine indigena si sono limitate a introdurre nella celebrazione
ufficiale il tema e il ricordo della vita e
della morte degli indios». La critica di
fondo è quella espressa, per esempio,
dalla sociologa conservatrice nicaraguense Elida Solorzano, secondo cui la
misa campesina nicaragüense è «eretica» perché «presenta un Cristo rivoluzionario, che si oppone ai ricchi e fa
causa comune con gli oppressi», una
posizione «impossibile da conciliare con
l’autentico significato del messaggio del
Vangelo che san Giovanni sintetizza
quando dice: “Dio è amore”». Perciò
essa è stata proibita nel 1976 dalla Conferenza episcopale del Nicaragua e nel
1989 la Congregazione per il culto divino ha ribadito il divieto di usarla
(come la precedente misa popular nicaragüense e la successiva misa popular
salvadoreña) negli atti liturgici, così
come aveva fatto 7 anni prima con la
missa da terra sem males e missa dos
quilombos, sottolineando che «la celebrazione dell’eucaristia è soltanto memoriale della morte e risurrezione del
Signore, e non già rivendicazione di
qualsiasi gruppo umano o razziale».
L’opposizione a queste forme liturgiche non è stata minore in ambito civile
e politico, con punte di vera e propria repressione. Racconta p. Ronal Vargas,
direttore della Pastorale sociale-Caritas
della diocesi di Tilaran, in Costa Rica,
che quando era novizio salesiano in
Guatemala, negli anni Ottanta, «il regime militare accusava chi ascoltava o
promuoveva questa musica di essere comunista e guerrigliero. Non pochi miei
amici furono fucilati senza processo per
questa simpatia artistica o ideologica».
Mons. Oscar Romero, arcivescovo di
San Salvador, nell’ultima omelia pronunciata nella cattedrale, il 23 marzo
1980, il giorno prima del suo assassinio,
elogiava la misa popular salvadoreña,
che debuttò proprio al funerale del primate. Subito dopo il gruppo YolocambaItá, che l’aveva musicata insieme a Cuellar, dovette andare in esilio in Messico.
Emblematica è la vicenda della misa
para el tercer mundo, composta nel 1974
dal prete bonaerense Carlos Mugica,
uno dei leader del Movimento dei sacerdoti per il terzo mondo. Quando la
RCA stava per pubblicare il disco, l’Alleanza anticomunista argentina (la Tripla A), lo «squadrone della morte» dell’estrema destra peronista, lo uccise l’11
maggio 1974. Pochi giorni dopo il ministro dell’Interno, Alberto Rocamora,
ordinò alla casa discografica di distruggere il vinile, ma un funzionario ne
salvò tre copie, due delle quali furono
vendute dalla vedova alla sua morte.
Dopo il ritorno della democrazia, a diversi esponenti governativi fu proposto
di pubblicare il disco, ma nessuna risposta arrivò. E dopo che nel 2007 la
Sony-BMG, cui sembrerebbero appartenere i diritti, ha annunciato la decisione di stamparla, senza però che sia
seguita l’effettiva messa in vendita, uno
degli acquirenti del vinile lo ha reso disponibile su Internet.
Mauro Castagnaro