La dittatura dell`ignoranza - Associazione Luoghi Comuni

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La dittatura dell`ignoranza - Associazione Luoghi Comuni
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ILLUSTRAZIONI DI
DORIANO STROLOGO
COME HANNO POTUTO TRIONFARE IL POPULISMO
TELEVISIVO E LADEMAGOGIA XENOFOBA?
PERCHÉ HA VINTO T.I.N.A., OSSIA «THERE IS NO
ALTERNATIVE»?E I SAPERIACCUMULATI
DAI MOVIMENTI SOCIALI SONO UN ANTIDOTO?
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LA
SU
DITTATURA
IGNO
RANZA
DELL’
«
M
di Guido Viale
A PERCHÉ NEL PAESE che ha avuto il più grande partito comunista e
il più forte movimento operaio dell’Occidente, una cultura di sinistra egemone per almeno tre decenni, una delle manifestazioni
più radicali e prolungate del «’68» e la maggiore proliferazione dei gruppi della sinistra
radicale siamo poi caduti tanto in basso da diventare lo zimbello di tutta l’Europa, sia
di destra che di sinistra?
Per alcuni, perché non sono stati elaborati quegli anticorpi che hanno permesso invece ad altri popoli e paesi di non venir travolti – o di venir travolti in misura minore –
dall’ondata di demagogia e populismo che ha accompagnato gli sviluppi della globalizzazione nel corso degli ultimi due decenni; e che rischia di avere effetti ancora più deleteri con lo scoppio e il prolungarsi – a tempo indeterminato – della crisi economica. Per
altri, perché la maggior parte delle risorse di quelle organizzazioni, o di una parte preponderante di esse, è stata per anni impegnata nel contenere, nel contrastare, nello screditare, assai più che nell’assecondare, le spinte sociali di cui pretendevano la rappresentanza; lasciando così liberi i germi della reazione di sviluppare indisturbati tutte le loro potenzialità; o addirittura alimentandoli. Forse le due tesi non sono così alternative
come la loro contrapposta formulazione potrebbe far credere.
Nelle condizioni materiali che stanno alla base del regime berlusconiano c’è certamente un risvolto specificamente italiano; ma ce ne è anche uno, sicuramente più rilevante,
di dimensioni planetarie, o comunque transnazionali. Entrambi sono il portato di una mutazione antropologica con cui occorre fare i conti. Anche se i suoi tratti sono complessi, la
cifra di questa mutazione è riconducibile a quella «dittatura dell’ignoranza» che
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Guido Viale, saggista, è nato a Tokio nel 1943. Ha scritto numerosi libri su movimenti del ‘68,
ecologia e critica alla società dei consumi e dell’automobile. Il suo ultimo saggio è uscito nel 2009
e si intitola «Prove per un mondo diverso» [Nda press, 172 pagine, 10 euro]
ha dato il titolo a un recente testo di Giancarlo Majorino. In Italia Silvio
Berlusconi non ha «sdoganato» soltanto il fascismo, ancora largamente diffuso tra i ranghi
dell’ex Alleanza nazionale, e anche altrove.
Questo è stato, almeno in parte, un mero epifenomeno della politica.
Quello che Berlusconi ha veramente sdoganato è l’ignoranza; l’orgoglio di essere ignoranti; il disprezzo, questo sì di stampo fascista,
per i saperi, qualsiasi sapere, e per i loro cultori; la pretesa di «fare» e saper fare anche senza conoscere e sapere; la convinzione, latente anche prima di lui nello spirito nazionale
ma promossa a piene mani dal sentire di cui
è espressione il suo regime, di essere migliori di tutti gli altri: in particolare di arabi, «negri», cinesi, slavi, ebrei, a seconda dei gusti.
Oggi è del tutto normale per personaggi come Borghezio, Gentilini o Calderoli sentirsi
e presentarsi come esemplari di un mondo e
di una razza superiori; e considerare e trattare figure come Mandela, Evo Morales o Gandhi,
e soprattutto i popoli che li hanno espressi, come
esemplari di un universo subumano.
Questo sdoganamento dell’ignoranza, il
cui strumento principale è stata in Italia la televisione, privata e di Stato - la peggiore del
mondo; e non solo nei notiziari e nelle trasmissioni «politiche», quanto soprattutto nella pappa securitaria [fondata sulla propalazione della paura] e decerebrata rifilata quotidianamente al pubblico culturalmente più
indifeso dalle trasmissioni di intrattenimento – si è innestato tuttavia su alcuni processi
di fondo che attraversano il panorama mondiale da decenni.
Il primo è il passaggio epocale – uso questo
termine abusato a ragion veduta, perché in
questo caso lo ritengo appropriato – dalla cultura scritta dei libri, dei giornali e delle riviste
alla cultura audiovisiva della televisione e di internet. Solo due o tre altri passaggi hanno avuto sulla storia umana un peso paragonabile:
quello tra cultura orale e scrittura, quello dal
manoscritto alla stampa e, forse, quello dalla lettura ad alta voce alla lettura mentale.
In tutti e tre i casi, le modalità di trasmissione e comunicazione
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precedenti non sono state eliminate [ancora oggi si imparano a memoria canzoni e persino poesie; qualcuno scrive ancora a mano; molti
leggono a voce più o meno sommessa]; ma soverchiate, sicuramente sì.
Sapere
Nello scorso
numero di Carta, Devi Sacchetto ha definito
quella della destra «cultura
just in time»
citando il caso
del sindaco
di Verona, Flavio
Tosi, che smentì
in tv lo studioso
di fama mondiale
Giovanni Arrighi
dicendo: «Sono
stato in Cina,
non è come
la descrivi».
Scrittura
Del passaggio
dalla cultura
orale alla scrittura si occupa
il Fedro di Platone. Questo è il
tema che trattò
nel 1964 Umberto Eco nel suo
«Apocalittici
e integrati»,
saggio sulla cultura di massa
Se è vero che i «contenuti» veicolati su questi supporti possono essere gli stessi – ma in genere non lo
sono – le modalità di trasmissione
e di recepimento ne alterano radicalmente la portata. In fin dei
conti il medium è il messaggio. Su
questo punto non occorre insistere
perché è stato ampiamente analizzato: la pagina scritta richiede attenzione, sforzo, riflessione, invita
a costruire schemi e griglie per sistemare – e sistematizzare sulla base di un principio di coerenza –
quanto appreso. L’audiovisivo è
molto più volatile; consente – anche
se non necessariamente impone –
una ricezione più passiva; non comporta, se non in rari casi, uno sforzo di apprendimento e meno ancora di interpretazione; permette di
passare da un tema all’altro – o addirittura da un universo all’altro –
con la semplice pressione di un tasto; non si deposita, o si deposita solo flebilmente, nel costrutto mentale del recipiente; soprattutto si rinnova ogni giorno, cancellando o relegando nell’oblio quello che era stato detto o comunicato solo ieri.
L’espressione «cultura del palinsesto», che un tempo indicava il
faticoso recupero di un supporto organico, raschiando la pelle di una
capra per depositarvi sopra un nuovo testo a spese di quello cancellato - che magari era assai più importante e che a volte oggi riusciamo a
recuperare con sofisticate tecnologie – ai giorni nostri sta a indicare
che le informazioni, come le affermazioni, cambiano ogni giorno;
che quello che viene detto o visto
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oggi può contraddire completamente quanto detto o visto ieri – o anche
oggi stesso - senza bisogno di spiegazioni. Quello che si perde, soprattutto, è la tensione alla costruzione
di un universo cognitivo coerente e
unitario. Come è noto, Berlusconi è
stato il più rapido a capire e ad appropriarsi di questo meccanismo.
In un ambiente del genere, l’unico modo per consolidare dei saperi
è quello di legarli strettamente a
un’attività pratica. Le cascate di parole e di immagini che ci investono
attraverso i media audiovisivi difficilmente si depositano, e quando lo
fanno si sovrappongono in strati tra
loro impermeabili. Ma come la moneta cattiva scaccia quella buona,
l’inflazione di informazioni e immagini prodotta dai media restringe
progressivamente lo spazio riservato al testo scritto e meditato.
La scuola tradizionale e tutta la
formazione scolastica odierna sono
state le prime vittime di questo
cambio di paradigma. Ancora quasi interamente affidate all’accumulo di parole scritte in quotidiana
competizione con la marea di suoni,
immagini e parole, gridate, sussurrate o cantate, provocata dai media.
Ovvio che a scuola non si impari più
nulla o quasi. Nessuno lo sa meglio
degli insegnanti, anche quando ne
danno la colpa ai ragazzi.
Il secondo processo a cui è riconducibile la dittatura dell’ignoranza è
il fondamentalismo, non solo religioso - islamico, cristiano, giudaico
o induista: ma sempre vissuto come
fattore identitario, con effetti sanguinosi perseguiti in nome del bene
contro il male – ma anche «razziale»: trasferendo magari dal piano
biologico a quello culturale – in senso «antropologico» - la pretesa superiorità di un’etnia o di una nazione
sull’altra. Il fondamentalismo è sta-
to e viene alimentato soprattutto da una reazione identitaria e difensiva
nei confronti dei processi di sradicamento, di perdita delle proprie certezze, di aumento dell’insicurezza indotti dalla globalizzazione.
Cresce in tutto il mondo il numero delle persone disposte a sostenere che
nella Bibbia, nel Corano, nelle Upanishad o nel Vangelo - spesso senza conoscerne o senza nemmeno saperne leggere il testo - o in loro interpretazioni schematiche, dogmatiche o addirittura false, sempre autoritarie, è contenuto tutto quello che una persona giusta deve sapere; e pronte a negare qualsiasi evidenza,
scientifica e non, che ne contraddica anche solo una singola sentenza.
Anche in questo caso il berlusconismo, questa volta anticipato dalla Lega, disinvoltamente passata dall’adorazione del dio Po, o Eridano, e dai riti celtici all’alleanza con Cristo re, ha saputo e potuto mettere a frutto la
sostanza fondamentalmente razzista di questa chiusura culturale. Lo ha
fatto con un’alleanza tra trono e altare configurata ad hoc per coprire reciprocamente le rispettive debolezze. Il risultato più feroce e grottesco di
questo innesto sono le dissertazioni psudoscientifiche sullo statuto dell’embrione, sulla tempistica dell’estinzione della vita o sull’omosessualità. E lo
sarà probabilmente ben presto anche l’imposizione del creazionismo, come
già avviene in molte scuole degli Stati Uniti.
Il vuoto culturale indotto o favorito da questi due processi, cioè la dittatura dell’ignoranza e il fondamentalismo, convive con – o addirittura si qualifica come – una sorta di pragmatismo «di ordinanza», imposto dalla cosiddetta fine delle ideologie: in realtà di una sola ideologia, quella socialista, con
la sua appendice comunista; che forse ideologia non era, bensì un insieme di
saperi, seppur parziali e di parte, e certo irrigiditi da una codificazione autoritaria, e in questa forma sicuramente inadatti all’interpretazione del mondo attuale; ma la cui cancellazione ha lasciato dietro di sé solo macerie.
Perché le altre cosiddette «ideologie» dei due secoli scorsi non sono certo scomparse. Quella cattolica - la «dottrina sociale della chiesa» nelle varie formulazioni che hanno tenuto uniti molti partiti occidentali
per più di un secolo – o genericamente cristiana, lungi dal3 0 AP R I L E - 6 MAG G I O 2 0 10 • 5 3
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Giancarlo Majorino, poeta e critico, è autore del pamphlet «La dittatura dell’ignoranza»
[Tropea, 96 pagine, 10 euro], di cui parla Guido Viale. Nel libro, Majorino descrive «un regime
invisibile che penetra dovunque, persino nelle convinzioni o nel fare di moltissime persone».
lo scomparire, è possentemente risorta negli ultimi decenni in forme
più radicali, brutali e «ideologiche» sotto le
vesti, appunto, di integralismo fondamentalista. E quella liberale, trasmutatasi in fondamentalismo liberista, ha ormai occupato tutta
la scena planetaria sotto forma di «pensiero
unico». Che altro non è che la forma più schematica e idiota di un «mercatismo» da tempo
impegnato a identificare tutte le manifestazioni della vita umana, e a volte anche quelle della natura, con una sorta di totalitario «darwinismo sociale»: un meccanismo fondato sulla competizione e la selezione comandato dal
gioco di un mercato concorrenziale che non è
mai esistito e mai esisterà in quella forma. Se
non negli scritti dottrinari di centinaia di migliaia di accademici che hanno fatto da scudo alla prassi dei rispettivi allievi.
I quali, come ha ben illustrato Naomi
Klein in «Shock Economy», dalle istituzioni
universitarie in cui sono stati allevati hanno
finito per occupare tutti i gangli vitali degli organismi che governano i processi della globalizzazione economica: dalla Banca mondiale alla
Wto, dal Fmi alla Commissione europea, fino a
coinvolgere i vertici di quasi tutti gli Stati sia
dell’Occidente che di quelli nati dalla dissoluzione dell’impero sovietico, e persino della Repubblica popolare cinese, che pure si dichiara ancora «comunista».
Proprio perché autentica ideologia, che non
ha alcun riscontro non solo nella realtà dei
processi economici [i «mercati» reali], ma
nemmeno nella prassi di chi la professa solo per farne un paravento delle proprie scelte, il liberismo o «pensiero unico» può essere senz’altro identificato con la forma più dispiegata e diffusa di ignoranza: una forma,
cioè, non solo di occultamento della verità, ma
di orgoglio nel volerla ignorare. Mentre i suoi
proseliti, di destra e di sinistra, o né di destra né
di sinistra, non sono che sacerdoti di questa
«dittatura dell’ignoranza».
Il riscontro più immediato di questo fenomeno – ma ce ne sono altri mille disponibili,
basta osservare un’assemblea di Confindustria - lo troviamo nell’Auditel: è
il mercato pubblicitario, che
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Shock
Economy
Il saggio del 2007
dell’autrice
di «No logo»,
Naomi Klein,
descrive
il modo in cui
il «capitalismo
dei disastri»
cerchi di fare
tabula rasa
della società
sfruttando
[e creando]
i disastri naturali
e le crisi sociali
ambientali
ed economiche.
Auditel
È la società che
si occupa della
rilevazione dei
dati di ascolto
televisivo tramite
un campione
di telespettatori,
influenzando le
tariffe del mercato pubblicitario e i palinsesti
di reti pubbliche
e private.
riflette puntualmente indici di
ascolto ampiamente determinati
da chi controlla i media, a indirizzare la programmazione, cioè le «scelte culturali» dei palinsesti: cioè a far
precipitare i contenuti delle trasmissioni televisive verso la decerebrazione totale. Il riscontro più massiccio e tangibile dello stesso fenomeno è invece il controllo totale del
mercato, cioè della rendita fondiaria, sulla morfologia delle città e sulle forme dell’espansione urbana: in
tutto il mondo. Cioè sulle basi materiali, fisiche, solide, che costituiscono l’infrastruttura della convivenza
umana; con il loro portato di idiotismo abitativo, di brutalità sociale, di
analfabetismo culturale e di bruttezza.
Per questi motivi il populismo
autoritario e personalizzato - di
cui Berlusconi è forse l’esponente
maggiore nel mondo odierno, e sicuramente quello di maggiore successo, ma non certo l’unico - è la manifestazione più vistosa di una tendenza che si radica in questi due
processi in atto, declinandoli in
differenti versioni nazionali, regionali, locali, o anche etniche e religiose [anche la chiesa cattolica, da
Wojtyla in poi - anzi, soprattutto
con Wojtyla - è una tipica manifestazione di questo andazzo: populismo, autoritarismo, fondamentalismo e dittatura dell’ignoranza].
All’interno di questo meccanismo infernale la competizione politica si è ridotta a una corsa al peggio: vince chi riesce a falsare di più
la realtà; a degradare di più contenuti e forme della comunicazione; a
solleticare maggiormente gli istinti più bassi – e sempre latenti – dell’umanità; a farle rinunciare più
tranquillamente alla propria dignità; a promuovere di più il servilismo [l’entourage di Berlusconi ne
è sicuramente l’esempio più vistoso
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del mondo; ma, anche qui, la gerarchia cattolica non gli è da meno]. E’
un processo di cui siamo quotidianamente spettatori; ma spesso anche, volontariamente o no, sia attori che vittime. Il suo fondamento è
noto, ed è stato battezzato con un
acronimo: Tina [«There is no alternative»: non si può fare diversamente]. È la gabbia in cui si sono autoreclusi tutti quelli che accettano
di competere nello stesso agone, sulla stessa arena. Ma individuare
un’altra arena e promuovere un impegno collettivo in essa è, come
ognun sa, tutt’altro che semplice.
In altra sede [«Prove di un mondo
diverso», NdaPress] ho proposto
una periodizzazione di questo processo per ricollocarlo in un tempo
storico: primo passo – ma indispensabile - per prospettarne un possibile superamento: gli oltre sessant’anni che separano la crisi attuale dalla fine della seconda guerra mondiale possono essere divisi in due parti. La prima, i cosiddetti «trenta gloriosi», si sono svolti, bene o male, all’insegna della decolonizzazione;
di una pretesa «competizione pacifica» tra Occidente e Comunismo
[pur nel quadro della guerra fredda;
e certo contrassegnata da orrori come i gulag, le dittature imposte con
colpi di stato, i conflitti sanguinosi
in Corea, in Vietnam, in Africa, in
Medio oriente]; e soprattutto all’insegna dello «sviluppo» economico,
della crescita dell’occupazione, dei
livelli salariali, del welfare e del
consumismo nei paesi «sviluppati»;
della loro attesa in quelli via via decolonizzati.
La seconda parte del periodo ha
visto l’inversione di tutti questi
processi: il fallimento delle promesse della decolonizzazione; la fine
dell’equilibrio bipolare e la moltiplicazione delle guerre locali; la con-
trazione dei redditi del lavoro e l’aumento di quelli del capitale, con il conseguente aumento stellare delle differenze sociali, tanto nel primo quanto nel secondo, nel terzo e nel quarto mondo; il crollo del welfare, l’esplosione del debito delle persone, delle imprese, delle economie, dei governi nazionali e locali, usato soprattutto per procrastinare una resa dei conti; la conseguente «finanziarizzazione» dell’economia mondiale.
Se a mettere in mora gli equilibri – meglio sarebbe dire gli squilibri – instaurati nel corso di questo secondo periodo è stata l’esplosione della crisi finanziaria, e poi economica, e in ultima analisi ambientale, a mettere in mora gli
equilibri dei «trenta gloriosi» era sta l’esplosione del ’68: cioè dei movimenti sociali che a partire dalla metà degli anni sessanta, e per tutta la prima metà
dei settanta, avevano attraversato quasi tutti i paesi, sia dell’Occidente che del
«Terzo mondo» e del mondo comunista, muovendo dalle università per investire in modo più o meno profondo tutto l’assetto sociale.
I tratti costitutivi comuni a tutti quei movimenti, per lo meno nella loro fase iniziale, erano stati uno spirito di rivolta e una temperie antiautoritaria tesi all’affermazione della propria autonomia personale nell’ambito di un processo di crescita collettiva. Temperie e spirito che si erano poi propagati in tutti gli ambiti sociali: dalle fabbriche all’università, dalle scuole alle carceri, dai
corpi militari all’amministrazione della giustizia, dai quartieri ai laboratori
di ricerca: con il tentativo di disarticolare le linee di comando gerarchico – e
non solo quelle del sistema di fabbrica – attraverso la messa in questione del
proprio ruolo e dei propri compiti. Ma quei movimenti si erano poi arenati,
sfrangiati e dissolti, non tanto sotto il peso della repressione [che pure in alcuni paesi era stata violenta], quanto per mancanza di punti di applicazione
concreti, una volta venute meno le ragioni e le occasioni che li avevano suscitati, come la mobilitazione contro la guerra in Vietnam o la rigidità delle strutture dell’università, delle professioni e, dove ancora prevaleva come modo di
produzione, della grande fabbrica fordista.
La «lunga marcia attraverso le istituzioni» propugnata dal leader degli studenti tedeschi Rudi Dutschke non aveva trovato a sua disposizione saperi adeguati a formulare e perseguire strade alternative a quelle di una contestazione ripetitiva, e a lungo andare sterile, degli assetti del potere costituito. Ed è qui
che vanno cercate probabilmente anche le radici di un irrigidimento dottrinario di tanta parte del movimento che ha poi generato una proliferazioni di gruppi e sottogruppi in concorrenza tra loro; una «mania» che in molti paesi, tra
cui l’Italia, si è poi protratta addirittura fino ai giorni nostri.
D’altronde, se fino ad allora il mondo accademico era stato dotto, ma chiuso di fronte all’evoluzione della società e alle istan3 0 AP R I L E - 6 MAG G I O 2 0 10 • 5 5
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There is no alternative è lo slogan che usava spesso il primo ministro conservatore
Margaret Thatcher quando si trattava di difendere alcune delle misure neoliberiste prese
dal suo governo. Da allora è diventato un motto del pensiero unico.
ze di autonomia delle persone,
il ’68 aveva sì spalancato sul mondo reale le finestre delle discipline universitarie,
ma senza saperne poi trarre delle indicazioni pratiche in grado di concretizzarsi in nuovi
saperi. Così l’accademia era ben presto tornata a chiudersi su se stessa; e da allora non è stata più né aperta né dotta. Il «pensiero unico»
che ha guidato e in cui si è concretizzata la reazione al «grande disordine» di quegli anni aveva dunque potuto inserirsi proprio in quella
debolezza dei movimenti del ‘68, affidando il
perseguimento di un obiettivo analogo al loro
– la realizzazione della propria autonomia individuale - non a un’azione collettiva e consapevole, ma ai meccanismi automatici [o presunti tali] del mercato: affermazione e realizzazione personali sarebbero da allora dipesi
dal funzionamento falsamente «meritocratico» della competizione individuale.
Questo approccio è stato poi gradualmente e quasi inavvertitamente assimilato da
tutta la società; soprattutto dopo che l’affievolirsi e il venir meno dell’«onda lunga» dei movimenti; e, in Italia, le conseguenze di un terrorismo, di Stato e dei gruppi armati, che ne aveva deviato la carica innovativa verso vicoli ancora più ciechi e tragici - ne avevano disperso i già fragili presidi culturali.
Oggi la situazione si è in qualche modo invertita rispetto a quegli anni: nei rapporti di
forza, il mondo del lavoro ha perso l’autonomia e la forza che aveva conquistato in anni
di lotte e di antagonismo nei confronti dei poteri forti del capitale, dei governi e delle grandi corporation. Queste ultime sono ormai organismi in larga parte sovranazionali, in grado sia di ricattare i governi nazionali che di assoldarne il personale [la corruzione è infatti diventata un elemento costitutivo dei «meccanismi di mercato» o, se vogliamo, del «modo di
produzione»; e non solo in Italia]. Oggi esse appaiono – e sono - più forti che mai, nonostante
la crisi; anzi, anche grazie alla crisi, che accresce la loro capacità di ricattare e sfruttare una
massa sterminata di lavoratori, dipendenti e
autonomi, manuali o intellettuali [il cosiddetto «cognitariato»], del nord e del sud del
mondo, ma sempre più precari,
dispersi su tutto il pianeta dai
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Pensiero
unico
È l'espressione
[in francese
«pensée unique»]
che identifica
la dittatura
e l’egemonia
del neoliberismo
nella prima fase
della globalizzazione. È stata
utilizzata per la
prima volta
nel 1995 da
Ignacio Ramonet
in un editoriale
di Le Monde
Diplomatique .
Cognitariato
L’egemonia del
lavoro cognitivo,
cioè la messa a valore della sfera più
intima della vita
[passioni, saperi,
affetti, relazioni
sociali] viene teorizzata da molti
«post-operaisti»
quali Toni Negri,
Paolo Virno,
FrancoBerardiBifo.
processi di delocalizzazione e sempre più esposti al ricatto che questi
processi consentono di esercitare.
Ma dal punto di vista dei saperi,
il grande capitale e gli establishment politici degli Stati – sia di maggioranza che di opposizione – e
persino il mondo accademico più direttamente interconnesso con essi
sono ormai imprigionati dentro la
gabbia sempre più stretta del «pensiero unico»: cioè della loro ignoranza. Ne sono prigionieri perché per
loro, allo stato di cose esistente «non
c’è alternativa»: Tina.
In Italia questa perdita di conoscenze – e di capacità di conoscere
– ci viene ribadita quasi ogni giorno dai rappresentanti dell’opposizione: «Non abbiamo saputo riconoscere e interpretare l’evoluzione
della società» è ormai diventato un
ritornello. Ma forse che i rappresentanti della maggioranza lo hanno saputo fare? Certo sono «al passo» con
molte delle sue trasformazioni: anzi, a volte le anticipano e nel caso di
quelle peggiori, come la rinata virulenza del razzismo, la competizione
senza freni, il disprezzo per la conoscenza, l’ipocrisia e la truffa, le solleticano e le moltiplicano. Hanno
«fiuto» si dice. Ma il fiuto è una facoltà che ti tiene legato a terra, impedisce di sollevare lo sguardo verso l’orizzonte, costringe a seguire
tracce di itinerari già percorsi.
Ma di quali strumenti dispongono mai i membri dell’establishment di tutti i paesi del mondo, e del
nostro in particolare, per fare fronte alla crisi ambientale, alla globalizzazione dell’economia, alla sua finanziarizzazione, alla dissoluzione
dei legami sociali? Sia loro che l’opposizione non possono fare altro che
rincorrere questi processi e cercare
di adeguarvisi; perché «non c’è alternativa» [Tina]. Giocano con i nu-
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meri – e con il fuoco; e con la guerra; e con i disastri economici, e con
la crisi ambientale – come stregoni:
dividendosi i compiti. Alcuni sono
addetti a esorcizzare i disastri: va
tutto bene; altri a prospettare giorno per giorno soluzioni fasulle, il cui
unico risvolto è il business ad esse
connesso; altri, infine, a dare la caccia – una caccia spesso brutale – a
qualche capro espiatorio: gli immigrati, la concorrenza cinese, il pubblico impiego e persino il ricorrente fantasma del ’68.
Di contro, nel corso di questi
stessi anni, e in forma quasi carsica, è andata sviluppandosi, ad opera di una molteplicità di organismi,
di movimenti, di studiosi indipendenti, di «imprenditori sociali»,
spesso collettivi, una serie di saperi autonomi che coprono quasi tutto l’arco dei problemi e dei settori
decisivi per affrontare sia la crisi
ambientale, tanto a livello globale
che locale, sia la crisi occupazionale, la crisi alimentare, quella energetica, quella urbanistica, quella
educativa. Si tratta di saperi direttamente legati a una prassi, o a verifiche pratiche dirette o già sperimentate altrove, o messe comunque alla prova in attività di disseminazione mirate e capillari. Per
ora coinvolgono solo alcune minoranze più o meno diffuse, ancora
insufficientemente collegate tra
loro; soprattutto perché quei movimenti sono spesso monotematici e
la ricomposizione di iniziative del
genere è difficile e complessa.
Quarant’anni fa gli unici ambiti
intorno a cui erano andati sviluppandosi saperi e pratiche alternative alle conoscenze egemoni erano la
medicina – soprattutto per quanto
riguarda le prevenzione sui luoghi
di lavoro, anche grazie all’apporto
di alcune organizzazioni sindacali –
e, in misura più ridotta, e certo con
esiti meno sostenibili, l’urbanistica.
Oggi i saperi che i movimenti degli anni più recenti hanno contribuito a costruire, o a consolidare attraverso una pratica diretta, o intorno a cui sono andati sviluppandosi nel corso degli anni, permettendo la formulazione e la condivisione di piattaforme rivendicative o programmatiche sempre più ampie
e circostanziate, riguardano una vasta gamma di ambiti: innanzitutto le tecnologie e l’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili come alternativa a un
sistema interamente dipendente dai combustibili fossili; l’efficienza energetica; l’edilizia ecocompatibile; l’urbanistica partecipata; l’agricoltura biologica; l’alimentazione e il ciclo agroalimentare nel suo insieme. E poi la gestione
dei rifiuti [prevenzione e riciclo] per ridurre il consumo di risorse vergini, ma anche per interconnettere e sviluppare processi industriali su basi locali; la mobilità flessibile; la conservazione della biodiversità; la manutenzione del territorio e del patrimonio edilizio e soprattutto l’informatica open source e la condivisione di contenuti: un processo che nelle sue diverse espressioni coinvolge milioni di soggetti in tutto il mondo e consente circolazione e gestione di
informazioni e idee in forme autonome.
In realtà sono tutti i saperi su cui sono cresciuti i nuovi movimenti a unire
in forme inscindibili competenze tecniche specialistiche, più o meno largamente diffuse, con competenze gestionali che derivano da una pratica diretta. Ma si parla qui di competenze gestionali che riguardano beni comuni o
procedure condivise, apprese ed eventualmente codificate in corso d’opera, nell’ambito di processi partecipativi che prevedono come loro pre-condizione l’impegno al confronto e alla collaborazione tra soggetti diversi, con interessi, valori e condizioni materiali diverse; e anche tra loro conflittuali.
Un «know how» del tutto estraneo alle pratiche e alle competenze della maggioranza delle amministrazioni locali, per non parlare delle società di servizi pubblici locali, pubbliche private o miste, che spesso coltivano il tema della «responsabilità sociale dell’impresa» o pubblicano i loro bilanci sociali in carta patinata solo per imbellettare il loro operato; ma che sono del tutto impreparate a misurarsi con processi collettivi di presa in carico di una gestione condivisa dei beni comuni oggi affidati alle loro amministrazioni. Conoscenze
tecniche, conoscenza del territorio e competenze gestionali autonomamente acquisite, cioè capacità di autogoverno, o comunque di partecipazione tesa a accrescere o realizzare un controllo dal bas3 0 AP R I L E - 6 MAG G I O 2 0 10 • 5 7
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con rate mensili
da 30 euro.
Nonostante i tagli
del serial ministro
alle tariffepostali
Giulio Tremonti,
abbonarsi nel 2010
costa come il 2009
OLIAMO
GLI
ABBONA
MENTI
Il frantoio di Maria Rosa
In Terra d’Otranto, a pochi chilometri da Santa Maria di Leuca, l’azienda agricola «Merico Maria Rosa
snc» produce olio extravergine d’oliva da ulivi secolari. L’olio Merico è di qualità garantita: tracciabilità
della filiera produttiva, coltivazione biologica, raccolta delle olive al giusto grado di maturazione, molitura a temperatura controllata nel piccolo frantoio aziendale entro pochissime ore dalla raccolta.
Sono tutte caratteristiche che rendono questo olio qualcosa di più di un semplice prodotto.
www.oliomericosalento.it, www.carta.org, bottega.carta.org
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26-04-2010
21:02
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so dei processi economici e delle
scelte politiche, sono dunque indissolubilmente legati ai processi di
partecipazione.
A differenza di quanto era successo quarant’anni fa, quando i
movimenti si erano arenati soprattutto per l’incapacità di confrontarsi con la dimensione pratica dei problemi, oggi la forza dei movimenti
risiede in primo luogo nella qualità
dei saperi che hanno sviluppato o
sulla cui diffusione sono cresciuti.
Democrazia e partecipazione sono
ormai inscindibili da conoscenza e
saperi diffusi.
L’esempio più luminoso di questo
accoppiamento ci è forse fornito
dal movimento No Tav della Val di
Susa: un movimento fondato su una
larghissima partecipazione, che ha
saputo rinnovarsi e resistere a una
serie di attacchi concentrici per
anni. E che ha polarizzato gli schieramenti a tal punto da spingere i signori delle tessere e delle leve di governo di Regione, Provincia e comune di Torino a imporre ai loro referenti locali di allearsi con i propri
[pretesi] avversari politici, nel vano
tentativo di mettere alle corde i protagonisti del movimento. Con l’esito, in termini elettorali, che tutti
sappiamo: hanno consegnato alla
Lega e a Berlusconi le chiavi della
Regione, oggi; e probabilmente
quelle della Provincia e della città,
domani.
Che cosa dicono quei signori, e i
loro corifei, per giustificare un’aberrazione del genere, perpetrata a spese di tutta la popolazione che avrebbero dovuto rappresentare? Dicono
«non c’è alternativa» [Tina]. Tav è
progresso, è industria, è finanza, è
occupazione, è collegamento con
l’Europa, è riduzione dell’impatto
del trasporto. E si fermano lì. Non
un’analisi dei flussi di merci presen-
ti e futuri, che per tutti gli esperti di trasporto non richiedono assolutamente un investimento del genere. Non un’analisi costi benefici [anzi, una sì: dei
professori Pennisi e Scandizzo, due luminari del settore, che manipolano dati di cui non espongono né fonti né procedure di elaborazione e ne ignorano
altri ben più significativi]. Non la minima attenzione per le condizioni di vita di una popolazione che vorrebbero condannare a vivere dentro un cantiere, per di più altamente nocivo, per i prossimi quindici o vent’anni. E, soprattutto, la favola della riduzione dell’impatto del trasporto merci di una ferrovia pensata per trasportare solo passeggeri a 250 chilometri all’ora, pur essendo chiaro che il passaggio delle merci dal trasporto su gomma a quello su
ferro o si fa – gradualmente – in tutto il paese, o non avverrà in nessuna sua tratta. E’ il trionfo dell’ignoranza.
Guardate ora la conoscenza diffusa che larga parte della popolazione della
Val di Susa ha sviluppato nei confronti del progetto di Tav Torino-Lione, dei
problemi relativi al trasporto e agli impatti ambientali, dei costi e dei benefici e soprattutto degli impatti sociali ad esso connessi. Una conoscenza su
cui è stata costruita la forza del movimento. Se ne può ricavare un’idea navigando nei diversi siti web gestiti collettivamente dai comitati che animano il movimento e che sono aperti a una partecipazione corale di tutta la popolazione. Come in molte altre situazioni analoghe, la cosa che impressiona di più è la conoscenza, anche tecnica, dei problemi che essi dimostrano;
la ricchezza della documentazione, anche di parte avversa, che espongono;
l’onestà intellettuale nella gestione dell’informazione. Tutte risorse oggi del
tutto inutilizzate da chi ha le leve del governo a qualsiasi livello. Ma tutte cose che fanno dire che democrazia e conoscenza costituiscono ormai un binomio inscindibile.
Quello che vale per la Val di Susa vale dappertutto. Democrazia e partecipazione vengono costruiti intorno o attraverso saperi che non possono prescindere da una conoscenza specifica del territorio: quella che solo chi ci vive e lavora può possedere. E che è indispensabile per mettere a punto progetti specifici di rientro nei parametri della sostenibilità ambientale, sociale ed economica, che sono necessariamente diversi da un territorio all’altro, come sono diverse le risorse fisiche e umane su cui contare, le opportunità da valorizzare, i problemi specifici da risolvere. Ma che proprio in questa differenziazione locale, all’interno di una visione globale, radicano la pratica di una autentica democrazia partecipata.
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26-04-2010
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{
Edicole in crisi Negli ultimi dieci anni in Italia hanno chiuso novemila edicole. Solo nel
2009, i ricavi dei giornalai sono calati del 15 per cento. Pesa la crisi della carta stampata
ma anche la liberalizzazione della vendita dei quotidiani e l’aumento del costo degli affitti.
Una crisi «made in Italy»
di Sara Rocutto
Q
della Montefibre di
Porto Marghera hanno distribuito un
volantino per spiegare all’opinione pubblica la loro situazione di crisi e per chiedere il
riavvio degli impianti, hanno capito che «più
autonomi dalla politica riusciremo a stare e più
la gente sosterrà la nostra proposta»: una realtà
industriale che chiude e trasforma 330 lavoratori in esuberi per mantenere la produzione in
Spagna e in Cina non è solo un danno per 330
famiglie, ma per l’intero sistema manifatturiero territoriale.
Quello della Montefibre di Porto Marghera è
solo un esempio. Quante narrazioni della crisi
si possono incontrare e intrecciare attraversando la pianura padana? Matteo Gaddi nel
suo «Lotte operaie nella crisi» ha scelto di utilizzare i materiali d’inchiesta elaborati da
Rifondazione comunista nell’ambito della sperimentazione del «partito sociale».
Viene fuori un quadro molto duro della situazione in cui stanno scivolando tanti territori dell’ormai ex «locomotiva d’Italia». Allo stesso tempo, il risultato è una chiave abbozzata
per leggere le storie della crisi attraverso i lavoratori, le paure e le attese rispetto ad avvenimenti finanziari dentro a cui si sono trovati
spesso inaspettatamente catapultati.
Ci sono storie simili a tante altre: mentre
legge della storia dell’Ideal Standard di Brescia
al lettore friulano potrebbe venire in mente
quanto accaduto nello stabilimento della stessa azienda di Pordenone. Così che i lettori di altre regioni, dentro alla storia raccontata per la
ex Ineos di Marghera, forse troverebbero analogie con la cronaca degli stabilimenti della
chimica di Mantova, Ferrara e Ravenna.
La crisi entra solo nei casi più eclatanti dentro alle colonne dei giornali locali, ma svanisce
spesso dalle narrazioni nazionali senza permettere di leggere il puzzle del paese.
Per questo l’inchiesta diventa elemento della costruzione più complessa di un’informazione svanita sulla narrazione della vita di miUANDO I LAVORATORI
6 0 • C A R TA N . 1 4
UNA INCHIESTA SULLA CRISI
NEL SETTENTRIONE D’ITALIA.
UNO SGUARDO D’INSIEME
PER USCIRE DAI LUOGHI COMUNI
MATTEO
GADDI
«Lotte operaie
nella crisi»
[Punto rosso,
296 pagine,
15 euro]
gliaia di persone. Forse è da questa constatazione che muove l’avvertimento di una mancanza, e in fondo è anche questo lo scopo nascosto tra una pagina e l’altra: portare il lettore a guardarsi attorno. «È ancora largamente
diffusa l’attitudine a ragionare solo per parole d’ordine e slogan, magari con lo stesso volantino da Bolzano e Enna, con gli stessi temi
indipendentemente che si tratti di un Centro di
ricerca sulle nanotecnologie o di un’acciaieria»,
scrive Gaddi.
Le tante lotte qui raccontate si oppongono a
un vocabolario ormai consueto, fatto di cassa
integrazione, mobilità, delocalizzazione, e pongono questioni comuni: i lavoratori della Tecnotest di Sala Baganza, in provincia di Parma,
chiedono una legge che tuteli il know how italiano perché «è assurdo che le multinazionali
vengano qui, comprino e poi si portino via il patrimonio di competenze, esperienze e professionalità». La pensano così anche i lavoratori
intervistati della Valentino Fashion Group di
Valdagno, dove la produzione si è ridotta del 70
per cento per essere delocalizzata in Egitto, Tunisia, Marocco, Romania, Cina per lasciare poi
ai vicentini solo il compito di attaccare la famigerata etichetta «Made in Italy».
Spetta a Gaddi infine presentare le proposte
di legge di Rifondazione comunista per le Regioni del Nord: il blocco dei licenziamenti, il
contrasto della delocalizzazione delle attività
produttive, la riqualificazione e la riconversione industriale. Il libro è stato scritto prima di
conoscere l’esito delle elezioni regionali. Ma
dentro a una crisi dove nessuno si può sentire
in salvo non è poi una cattiva idea pensare a
scialuppe che partano dal basso.
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26-04-2010
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ALESSANDRO DAL LAGO
«Le nostre guerre»
[manifestolibri,
264 pagine,22 euro]
Striscia la notizia «Ritengo che l’opera televisiva di uno come Antonio Ricci
sia una fedele e magari anche inconsapevole espressione del fascismo del mondo
dei consumi: usa lo stesso linguaggio», afferma lo scrittore Nicola Lagioia.
MUSIC SHARING
Alle radici degli Africa Unite
P
ALTRO CHE «fine della storia»: da
venti anni a questa parte, dalla prima guerra del Golfo in poi, i conflitti
in armi sono entrati dentro il nostro
vissuto quotidiano, sono diventati
parte della normalità delle democrazie occidentali grazie ad acrobazie politiche e linguistiche come le cosiddette «missioni di pace» e la «polizia internazionale» e
grazie alla militarizzazione delle città e alle emergenze
sulla «sicurezza».
ANDRÉ ORLÉAN
«Dall'euforia al panico»
[Ombre corte, 224 pagine,
18 euro]
QUESTA RACCOLTA DI SAGGI di un
economista eretico francese spiega
come la crisi non sia dovuta alla corruzione e alle manovre degli speculatori ma alla struttura stessa del capitalismo finanziario. Il liberismo, spiega Orléan, ha traformato i valori
d'uso in titoli finanziari, tentando quindi di misurare
l’immisurabile [come la vita stessa] e facendo della
crisi il fondamento principale del suo meccanismo di
accumulazione.
CORRADO STAJANO
«L Italia ferita»
[Cinemazero, 274 pagine,
15 euro]
UN LIBRO senza soluzione di continuità,
che mescola riflessioni, annotazioni e articoli di uno dei più acuti osservatori della società italiana. La raccolta comincia
dal 1981 con un omicidio di camorra a
Pagani, comune del salernitano, e ripercorre questi anni
alla ricerca di soluzioni per i problemi e cure per un paese
«ferito». «Nulla è più romanzesco dei fatti che stanno accadendo - nota Stajano lungo il suo cammino - Devo raccontare storie apparentemente minute capaci di far da
simbolo, mi dico».
{
AFRICA UNITE
«Rootz»
[Universal]
DOWNLOAD
ROBERT CRUMB, fumettista-simbolo della controcultura americana [è l’autore di «Fritz il gatto»],
è anche un discreto suonatore di
banjo. Ecco quindi che ritroviamo
le musiche country, bluegrass e
blues dei suoi antenati con diverse band dal 1972 al 2003: dalla
Keep On Truck’in Orchestra alla
Crumb Family. Ascoltando la raccolta «Sampler» sembra di trovarsi dentro le tavole del grande
Robert, ed è un ottima occasione
per riscoprire quelle sonorità.
INEROLO, 1981: mentre scompare
Bob Marley nascono gli Africa Unite.La band di Madaski e Bunna ha saputo nel corso di tre decenni contaminare il reggae con il dub e l’elettronica, rivestendo il tutto di una poetica
tutta italiana. Quindici album in studio, un turbine live che ha attraversato lungo un ampio arco temporale i
confini dentro e fuori il Belpaese. A
quattro anni dall'ultimo lavoro in studio, gli Africa Unite recuperano i colori fiamminghi del genere, reintroducono la sezione fiati e iniettano di dub
e poetry un album che porta un titolo
più che esemplificativo: «Rootz», le radici. C’è aria di creatività solida da gustare a pieni polmoni, da queste parti.
Il perfetto taglio del beat a srotolarsi, il canto che svolge sempre un primissimo piano nella ricerca melodica,
gli arrangiamenti dalla freschezza
contemporanea che hanno un peso
determinante nel costruire una traccia musicale aderente al presente. Poi
ci sono le parole che attraversano acidule immagini del quotidiano, che
puntano il dito contro la deriva
omofoba di alcuni dei nuovi nomi del
reggae internazionale, la cura per il sé
che passa per la tutela della terra.
Nuovi e vecchi amici partecipano alla
festa: da Patrick ‘Kikke’ Benifei [Casino Royale] a Mama Marjas, passando
per Alborosie e i Franziska. Un album
accessibile ma per nulla accomodante, che si nutre di una scrittura nitida
capace di percorrere le strade della
molteplicità senza che l'identità poetica della band di Pinerolo si smarrisca, con spalle larghe, decine di sentieri percorsi e radici rigogliose e millenarie proprio come gli alberi di Monterey che vengono ritratti sulla loro
copertina: solidi e ancorati alla terra
che dà loro nutrimento. [ESTER APA]
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26-04-2010
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TUT TA SCENA
D I AT T I L I O S C A R P E L L I N I
A PELLE NUDA
In bici È interamente girato vicino a piazza San Babila, in una ricca casa borghese nel centro
di Milano, il film di Salvatores, prodotto ancora dalla Colorado Film. Un’occasione per gli spettatori
per scoprire le bellezze inesplorate della città, che lo stesso regista ha conosciuto andando in bici.
B A S S A D E F I N I Z I O N E D I A N D R E A B AG N I
Dedicato a chi ha paura
A
LL’INIZIO DI OPHELEIA, Alessandra Cristiani è già in scena, ma non ci si accorge subito di lei: schiacciata come
un geco su un lato del muro di fondo del
teatro Furio Camillo di Roma, il corpo torto in un fregio indescrivibile, tiene un tulipano tra le dita. La sua nudità – la sua
trasparenza – si mimetizza nella bassa
striscia di luce che corre lungo il muro. Bisogna tornare a certe immagini di Francesca Woodman [fotografa a cui non a caso la danzatrice romana si è ispirata per
uno dei suoi precedenti lavori] per trovare la stessa capacità di nascondere l’evidenza nell’evidenza, di rendere il nudo
un’altra dimensione del segno, e non il
brusco corto-circuito di tutti i segni: l’inizio di qualcosa e non la sua fine.
«Nude» e mai «naked» [per usare una
distinzione cara agli anglosassoni], Cristiani nuota nello spazio vuoto che la sorella Sabrina trasforma in funebre giardino di gigli, e incarna le epifanie più sottili di un corpo che ha il potere di non apparire mai lo stesso: alto, statuario, persino sontuoso – torso greco che si restringe e scompare in una mandorla di luce –
eccolo farsi minuto, debilitato, klimtiano. Ofelia butoh, nell’arco di una sola
performance va da oriente a occidente,
evocando intere ere del movimento e della visione. Fasciata da un lungo abito verde, usa la propria potenza organica per
deformarlo in una figurazione inaspettata – à la Graham – poi si slancia in una
danza libera di sorprendente precisione,
prima di ricadere in una nudità lustrale,
arborescente.
Torna all’agonia della terra da cui si
era momentaneamente staccata e a una
bellezza che è sublime perché ferita. Dimostrando quanto Valéry avesse ragione
a sostenere che ciò che possediamo di più
profondo è la pelle.
6 2 • C A R TA N . 1 4
S
I COMINCIA CON UNO davanti a un portatile che
parla direttamente verso la macchina da presa.
L'Autore. Un 33 giri. Simon e Garfunkel, Greatest hits. Sarà la cifra stilistica di tutta la narrazione.
Un racconto musicale dolce, happy-familistico. Tessuto di note pieno di echi, voci che si richiamano in
un'armonia un po' stucchevole ma che scivola lieve.
Tutto torna, fluido e compiuto. Ezio crea i suoi personaggi. Le creature gli parlano, bussano al suo monitor, protestano quando la conclusione progettata non
conclude. Roba buona per i critici. Non si
fa così, noi abbiamo dei diritti, il pubblico
vuole sapere. Io per esempio potrei avere
un po' più di spazio, no? E io vorrei tanto
innamorarmi. Non posso innamorarmi?
Reti di simmetrie attraversano ogni inquadratura. Come in uno specchio. Vita da
una parte, scrittura dall'altra.
Che ci fa un gabbiano in una città senza mare? Bici, sguardo verso il cielo a cercare spiegazioni, scontro con donna che
attraversa, svagata. Invito a cena riparatorio e incontro con le due famiglie i cui figli «particolari» si vogliono sposare. A sedici anni. Abatantuono, abbronzato fric-
HAPPY FAMILY
[ITALIA 2010]
Un film di Gabriele
Salvatores.
Con Fabio De Luigi,
Diego Abatantuono,
Fabrizio Bentivoglio,
Margherita Buy,
Carla Signoris.
Sandra Milo.
01 Distribution
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26-04-2010
21:02
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Checco Zalone «Volevo raccontare non la solita terra in mano a delinquenti e ladri. Era facile
cadere nella retorica dello scontro sud e nord, ma il mio personaggio è cosi puro che non si accorge
neppure della Lega, né della cocaina che scambia per gesso», dice del suo film «Cado dalle nubi».
chettone, porta le barche a clienti che vogliono solo mostrarle in porto, mai che
pensino davvero di navigare il mare. Ci
pensa lui. Bentivoglio è l'avvocato fascinoso, malato, strepitoso nel suo understatement, mai prendersi troppo sul serio. Vi comunico che ho una malattia – grave e inguaribile naturalmente. Con quel tipo bizzarro sempre in cerca di canne farà
discussioni filosofiche strampalate via
mare. La figlia dell'avvocato è quella che
vuole innamorarsi. Ma ha
paura: di non
UN RACCONTO
piacere, di avere
MUSICALE DOLCE
un cattivo odore. Ezio alla cena
IN UNA MILANO
arriva con GianNOTEVOLE.
ni. Gianni salta
UNA COMMEDIA
subito addosso
TIPICA ITALIANA
alla prima femmina che trova.
Una cagna, un
cane, vite parallele.
L'odore di Caterina allo scrittore piace
ma lei si va a lavare continuamente, pensa di sapere di sottaceti. Simmetria di pensieri asimmetrici. I personaggi sempre fra
due finestre, al centro di guanciali ordinati perfettamente, su sfondi perfetti contenitori. La macchina da presa si muove
morbida a fare tessuto di quelle vite. Simon e Garfunkel pure. Quando lei suona i
notturni di Chopin, campo e controcampo
con l'innamorato fra i fiori in platea, scorrono le immagini in bianco e nero di una
Milano notevole.
Regia musicale come poche, sinfonia
leggera, eine kleine musik. Un po' consolatoria. Forse troppo. Ma il film è dedicato a quelle/i che hanno paura. Gianni e la
sua amica pelosa avranno vari cuccioli –
ce lo racconta lei, felice. La figlia correrà
dal padre che muore a Panama – stanza di
ospedale, vetrata splendida sul mare. È incinta. Poi una uguale a lei incontrerà uno
scrittore, fuori della storia, davanti a due
campanelli e due portoni. Forse pioverà a
Milano, forse no. Forse ci bagneremo. Ma
si può provare. Non c'è da avere paura.
{
SEMAFORO
D I M A R C E L LO WA LT E R B R U N O
MENO TETTE PER TUTTE
C
proprio adesso le
major hollywoodiane hanno deciso che i prossimi casting controlleranno che le aspiranti protagoniste posseggano
veri seni e non protesi? Se i divi
che fumano in scena contravvengono a una norma salutista
che ha ricadute sulla sanità pubblica, in che senso un airbag alla
Ekberg non è politically correct?
In Italia la videocrazia diffonde modelli di vendibilità femminile tali che la stessa politica diventa appannaggio delle giovani
e belle: eleggibilità fa rima con
velinità. Poi, però, la sottogreteria leghista alla salute acchiappa
consensi vietando il silicone alle
minorenni, notoriamente ansiose per il loro decolleté. Nostalgia
per quando le maggioranze silenziose si riconoscevano nelle
maggiorate fisiche «nature»?
Certo, c’è di mezzo la prevenzione: in epoca di tette esplosive,
non è bene investire in attrici a rischio e teenager alla ventura. Ma,
dicono le statistiche, sulle venticinquemila italiane che ogni anno chiedono protesi mammarie
solo il due per cento ha meno di
OME MAI
vent’anni, e le minorenni sono poche decine. Dunque, la presa di posizione governativa è più ideologica
[d’apparenza] che sostanziale. Si
tratta, insomma, del solito finto moralismo: le ragazze vengono tutelate finché non raggiungono la maturità, poi la loro conoscenza dell’inglese permetterà di sapere cos’è un
call center e cos’è una escort. Come
togliere fondi alla scuola ma reintrodurre i grembiulini e la bocciatura
per cattiva condotta.
Un presidente del consiglio che
si vanta di aver fatto il trapianto dei
capelli si lamenta del fatto che la
criminalità organizzata italiana è la
più famosa internazionalmente pur
essendo solo al sesto posto delle
classifiche mondiali. La discrasia,
dice il proprietario della Mondadori, è colpa di libri come «Gomorra».
A N CO N A
Africa in festival
ANCONA OSPITA, fino al 30 aprile, il nono Festival del cinema
africano. Le proiezioni sono nelle sale di Mister Oz, alle 21,30
[via Damiano Chiesa 3]. È una delle iniziative del Circolo culturale Africa, associazione di volontari impegnata nella promozione delle relazioni mondiali tra Nord e Sud del mondo,
diventata un punto di riferimento per migrati e non.
www.circoloafrica.eu
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26-04-2010
21:02
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In produzione «Il segreto dell’acqua» è una fiction Rai su un agente della Dia [Riccardo Scamarcio]
che, trasferito in Sicilia, scopre di essere figlio di un boss. «È un romanzo in sei capitoli su un’indagine lunga
e una travagliata storia d’amore - dice lo sceneggiatore Umberto Contarello - la mafia c’è ma non è La Piovra».
DIVANO
PARABOLE DI SELENE PASCARELLA
C’era una volta Cosa nostra
S
dieci anni dall’ultima stagione de «La
piovra», eppure Berlusconi
giura che se la mafia italiana,
«solo la sesta nel mondo», è anche la più conosciuta, la colpa è
di Roberto Saviano ma anche
dello sceneggiato alla cui regia
era Damiano Damiani mentre
davanti alla macchina da presa
c’erano Michele Placido, Remo
Girone e Vittorio Mezzogiorno. E
se il mitico Placido-commissario
Cattani manda a dire al premier
che le sue televisioni sfornano
prodotti su Cosa nostra a tutta
forza, non sfugge che tra la serie
più importante della tv italiana
e le sue pro-nipotine è avvenuta
una vera e propria rivoluzione
culturale. Un’involuzione.
Ciò che nel 1984 rese deflagrante la creatura di Sergio Silva ed Ennio De Concini era l’idea
di fondo, esemplificata dal geniale titolo, ovvero che la mafia
non fosse un fenomeno locale ma
la forma globalizzata di un malaffare capace di creare una mitologia criminale adatta allo spirito dei tempi, in grado di muo-
RaiTre Speciale
John Cassavetes
a «Fuori Orario»,
venerdì 30 aprile
alle 2 «Faces» [1968]
con John Marley.
Alle 4, va in onda
«Una moglie» [1974]
con Peter Falk.
ONO PASSATI
QUANDO LA MAFIAIN TV
ERA ATTUALE ,
NON SOLO UN FENOMENO
ARCAICO E PITTORESCO
versi agevolmente nel sistema
delle lobby economiche transnazionali e di parlare il gergo della
politica e delle istituzioni. Rifiutando l’immagine di una struttura criminale destinata a soccom-
IN RETE
Google entra dentro
DOPO AVER IMMORTALATO strade e piazze con GoogleMap, Google ora invia i
suoi fotografi a ritrarre l’interno di negozi, alberghi e ristoranti con GooglePlace.Gli utenti avranno la possibilità di guardare dentro ai locali pubblici: «Se si
cerca un ristorante romantico per festeggiare l’anniversario di nozze si vuole
trovare un locale con la giusta atmosfera», spiegano da Google. In fase sperimentale da alcuni mesi, il servizio appena lanciato copre una trentina di città in
Usa, Giappone e Australia. Presto i fotografi sbarcheranno in altri paesi.
6 4 • C A R TA N . 1 4
bere di fronte alla modernità incarnata dallo Stato-buono e dai
suoi paladini cui oggi assistiamo
in televisione.
In queste settimane viene
presentato da Raifiction e dalla
Regione Sicilia un cartoon ispirato alle figure di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Si intitola «Giovanni e Paolo e il mistero dei Pupi», e per parlare di mafia e coraggio civile sceglie l’ambientazione non contemporanea
[gli anni cinquanta] e la chiave
favolistica.
Cooltoon Ogni
martedì alle 10.30
e alle 17 «Excel saga» : dal manga di
Koshi Rikdo un cartoon per ca[r]pire i
paradossi dell’immaginario seriale di
massa.
Italia 1 se «Lost»
non vi è bastato perdetevi nella scienza
di confine di «Fringe», ogni venerdì alle 23, che entra in
campo «quando
succede qualcosa
di cui nessuno sa
niente e che non ha
alcun senso» .
{ {
Drammi medici È ricominciato diretta-
mente dalla terza serie [la seconda è andata
perduta] il telefilm di Maccio Capatonda con
Elio nei panni del brizzolato dottor Giolsot, che
prende in giro i serial ospedalieri: ogni puntata
è piena di battute nonsense. Si può vedere in
streaming dal sito www.floptv.tv.
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26-04-2010
21:02
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{
Reti «Nella crisi sistemica del capitalismo, la rete indica altre strade, in cui pubblico
e privato sono concetti che non rappresentano più nulla», dicono gli organizzatori
del seminario «Digital Commons»: il 7e 8 maggio 2010 al Vega di Venezia.
SOPRA LE RIGHE
FUORI GIOCO DI RUDI GHEDINI
Pivetti
all’ergastolo
CHAMPIONS LEAGUE E SPECULAZIONI EDILIZIE
D
4 A 3: DAL 2011-12, l’Italia perderà una squadra in Champions
League. Materialisticamente parlando, un disastro [calcolabile in decine di
milioni di euro]. La classifica più importante non è quella di Serie A, ma quella
che deriva dai cosiddetti «coefficienti Uefa», la formula matematica che sintetizza
i risultati ottenuti nelle coppe europee nel
corso delle ultime quattro stagioni. Irraggiungibili Inghilterra e Spagna, il calcio
italiano è stato progressivamente avvicinato da quello tedesco, e adesso siamo al
sorpasso, con grave danno di immagine
per il nostro movimento calcistico, proprio adesso che si sta per decidere dove
verranno giocati gli Europei 2016.
Alcuni spiegano questa perdita di competitività in ambito europeo con la mancanza di stadi di proprietà. In effetti, quasi tutte le squadre giocano su terreni comunali e pagano affitti, più o meno risibili. Molte società si dicono impegnate nelA
P
ER ME non cambia nulla:
nel mio matrimonio continuo a crederci». Irene
Pivetti, passata nel giro di qualche anno da presidente della
camera leghista e baciapile a
conduttrice trash in abiti sadomaso, prova a rigiocare la carta
della moglie inconsolabile dopo essere stata mollata dal marito. Spiega la signora Pivetti a
Gioia: «Nel mio matrimonio ci
credo ancora».
Il motivo di tanta ostinazione è
molto serio, e non ha che fare
non con solenni cerimonie religiose ma con uno show televisivo: «Quando ci siamo sposati
siamo andati ospiti in un programma condotto da Frizzi che
si chiamava ‘Per tutta la vita’.
Un giornale disse che il titolo
del programma era da ergastolani: fine pena mai. Ecco, a me
va bene il fine pena mai. Naturalmente lui è libero: non posso
mettergli il guinzaglio e neanche vorrei. Ma il matrimonio
per me è la scelta della vita. Non
mi interessa quello che pensano gli altri, per me nel matrimonio non c’è game over. C’è solo
il game on».
«
la costruzione di nuovi stadi – da Euro 2016
si aspettano una spinta ulteriore, cioè finanziamenti agevolati – ma se si va a vedere sotto la superficie delle dichiarazioni di circostanza, si scopre che il calcio professionistico è funzionale alla speculazione edilizia.
La formula magica è: «cambio di destinazione d’uso». Accanto alla richiesta di edificabilità del nuovo impianto, le società piangono miseria e si rivolgono alle amministrazioni comunali per chiedere il cambio di destinazione di vaste porzioni dei terreni circostanti, per edificare supermercati e cinema, palestre e centri convegni, magari un
po’ di villette a schiera.
A rafforzare queste richieste, una nuova
ideologia, quella per cui la squadra di calcio sarebbe «un patrimonio della città». Per
non divenire complici degli insuccessi sportivi, sindaci e consigli comunali sono chiamati a uno scambio: svendere la programmazione urbanistica per il miraggio della
Champions League.
CRASH TEST
Sony blinda la Playstation
CON LA CONSOLLE PLAYSTATION3, Sony ha deciso di inserire negli
aggiornamenti dei veri e propri downgrade funzionali: per strada è
sparita l’emulazione Ps2, il supporto ad alcuni formati audio e, per ultima, la possibilità di installare un altro sistema operativo, tipicamente Gnu/Linux, a fianco dell’Os nativo. Eppure, la possibilità di eseguire qualsiasi software sulla console aveva portato a esperimenti scientifici di calcolo parallelo. Nel 2007, ad
esempio, l’Università di Stanford ha
sperimentato una configurazione di
Ps3 per la ricerca biomedica. Nell’attesa che Sony ci ripensi, l’hacker Geohot
[http://bit.ly/4D1Q7] sta sviluppando una patch che ripristina il supporto
OtherOS. Intanto, consigliamo agli
utenti Ps3 di non aggiornare il proprio
sistema.
VIDEOGAME
TORNA Lara Croft, star
virtuale dei videogiochi
con Tomb Rider: in «Lara
Croft and The Guardian
of Light» vive un’avventura che ha che fare con
il popolo dei maya...
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26-04-2010
21:02
Pagina 66
CLANDESTIN
mondiali al contrario
MAGLIETTA
FELPA
LA COPPA DEL MONDO, ospitata in Sudafrica a giugno 2009, rischia di nascondere le condizioni di milioni di poveri. In particolare dei baraccati, che numerose amministrazioni comunali hanno deciso di
sfrattare per mostrare città «accoglienti» e pulite ai
turisti in arrivo da tutto il mondo.
Abahlali BaseMjondolo [«quelli che vivono nelle
baraccopoli» in lingua zulu»] è il più grande movimento di impoveriti del paese, con sedi in più di
quaranta città, in particolare a Durban, Pinetown,
Pietermaritzburg e Port Shepstone. Negli ultimi
mesi Abahlali ha promosso molte manifestazioni e
iniziative di protesta che sempre più spesso sono
state represse con la violenza dalla polizia.
Gli articoli e i reportage pubblicati negli ultimi mesi sul settimanale Carta e su clandestino.carta.org
hanno posto le basi per la nascita di una grande
campagna, «Mondiali al contrario», il cui obiettivo
è l’organizzazione di un viaggio in Italia [dal 18 al 30
maggio] per ospitare alcuni tra i promotori del movimento. Qui di seguito le notizie principali sull’iniziativa, diventata un pezzo della campagna Clandestino organizzata da Carta; tutti i dettagli sono su
clandestino.carta.org.
Il tour di Abahlali in Italia
dal 18 al 30 maggio
DVD
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Per conoscerle chiamate
il numero 0776 832873
[dal lunedì al venerdì
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Presto i mondiali ci porteranno virtualmente in Sudafrica. Poco prima, tre persone di Abahlali percorreranno la strada inversa per venirci a trovare in Italia. Dal 18 al 30 maggio Busisiwe, Thembani e Philani incontreranno associazioni e movimenti per raccontare che cosa significa la Coppa del mondo per
i sudafricani più poveri, parlare della lotta di Abahlali per terra, case, dignità e democrazia nel Sudafrica post-apartheid e ascoltare a loro volta il racconto delle lotte sociali che stiamo portando avanti qui. È un’occasione preziosa e straordinaria che
diversi soggetti hanno già colto al volo: sono previste iniziative a Caserta [18 maggio] Reggio Calabria [19], L’Aquila [21], Pisa [22], Verona [23], Vicenza [24], Milano [25], Varese [26], 27 e 28 Val
di Susa, Roma [29 e 30 maggio]. Le tappe del
«tour» definitivo saranno su clandestino.carta.org.
Gli «zapatisti»
del Sudafrica
Secondo alcuni sudafricani esiste una connessione tra Abahlali e
il movimento degli zapatisti: entrambi portano avanti una critica del potere e sono impegnati in prassi democratiche e di partecipazione, ma mentre quello
zapatista è radicato in una cultura indigena, dicono
quelli di Abahlali, e quindi più legato alla terra, Abahlali sembra più cosmopolita e interculturale. La grande sfida che il movimento dei baraccati lancia in queste settimane alle istituzioni è il rifiuto della politica
dei potenti, per promuovere quella che viene chiamata «ipolitiki ephilayo», la politica della vita.
Il coordinamento
Mondiali al contrario è coordinata da Filippo Mondini e Antonio Bonato [missionari comboniani a
Castel Volturno], Francesco Gastaldon [ricercatore], Michele Citoni [giornalista e videomaker], la redazione di Carta. Per informazioni: tel. 06
45495659, [email protected]
È possibile partecipare alla raccolta fondi
per sostenere la campagna con piccole quote
di almeno 30 euro, 200 euro per le organizzazioni sociali. Queste le coordinate bancarie per effettuare un bonifico: Banco di Napoli – Collegio
Missioni Africane, via Matilde Serao 8 81030
Castelvolturno [Ce], causale «Mondiali al contrario» IBAN IT92Y0101074820000027005524ccp
n. 19884808 oppure conto corrente postale n.
19884808, sempre intestato a Missionari Comboniani via Matilde Serao 8, 81030 Castel Volturno [Ce], causale «Mondiali al contrario».