Il dono della legge - Oblati di Maria Vergine

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Il dono della legge - Oblati di Maria Vergine
Capitolo 9
Il dono della legge
(Esodo 20-23,33; Levitico; Deuteronomio 12-26)
Sul Sinai avviene l’alleanza. Si crea una nuova relazione con il suo popolo. Nuova perché se già
tale relazione era stata vissuta un tempo come librazione degli ebrei dall’Egitto, ora coloro che ascoltano Dio e lo accolgono («Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!» - 19,8) ora nasce la consapevolezza di essere popolo che JHWH si è scelto per farselo come vuole lui. Esso sarà la sua porzione, la sua dote. Le regole di condotta (i comandamenti, cuore della legge) che fanno di una collettività un popolo unito, solidale, sono allora volontà di Dio, e appartengono al senso della relazione-alleanza.
Quando la simbologia nuziale verrà a incarnare la nozione dell’elezione e dell’alleanza, Ezechiele dirà:
«Alla tua nascita, quando fosti partorita, non ti fu tagliato l’ombelico e non fosti lavata con l’acqua per
purificarti; non ti fecero le frizioni di sale, né fosti avvolta in fasce. Occhio pietoso non si volse su di te
per farti una sola di queste cose e usarti compassione, ma come oggetto ripugnante fosti gettata via in
piena campagna, il giorno della tua nascita.
Passai vicino a te e ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue e ti dissi: Vivi nel tuo sangue e cresci come
l’erba del campo. Crescesti e ti facesti grande e giungesti al fiore della giovinezza: il tuo petto divenne
fiorente ed eri giunta ormai alla pubertà; ma eri nuda e scoperta.
Passai vicino a te e ti vidi; ecco, la tua età era l’età dell’amore; io stesi il lembo del mio mantello su di te
e coprii la tua nudità; giurai alleanza con te, dice il Signore Dio, e divenisti mia. Ti lavai con acqua, ti ripulii del sangue e ti unsi con olio; ti vestii di ricami, ti calzai di pelle di tasso, ti cinsi il capo di bisso e ti
ricoprii di seta; ti adornai di gioielli: ti misi braccialetti ai polsi e una collana al collo: misi al tuo naso un
anello, orecchini agli orecchi e una splendida corona sul tuo capo. Così fosti adorna d’oro e d’argento; le
tue vesti eran di bisso, di seta e ricami; fior di farina e miele e olio furono il tuo cibo; diventasti sempre
più bella e giungesti fino ad esser regina. La tua fama si diffuse fra le genti per la tua bellezza, che era
perfetta, per la gloria che io avevo posta in te, parola del Signore Dio» (Ez 16,4-14; cf. Rt 3,9).
Il Sinai è il luogo del primo incontro tra YHWH e la donna, che egli farà sua sposa per sempre. Il
Dal monte il Signore vede, ama, possiede il popolo e gli parla. La Torah che JHWH dona ad Israele,
è una certa partecipazione agli uomini della rettitudine e della saggezza del Signore. Nel Deuteronomio, Mosé dirà:
«Vedete, io vi ho insegnato leggi e norme come il Signore mio Dio mi ha ordinato, perché le mettiate in
pratica nel paese in cui state per entrare per prenderne possesso. Le osserverete dunque e le metterete in
pratica perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo
parlare di tutte queste leggi, diranno: Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente» (Dt
4,5-6).
Il dono della Torah rende impossibile a Israele costruirsi una sincerità, una buona coscienza che
non sia normata dalla verità di Dio. Non potrà mai farsi una buona coscienza a proprio uso e consumo. Quando Israele sarà tentato di farlo, i profeti interverranno presso il popolo e il suo re: «Non
è questa la fedeltà a cui ci siamo impegnati al Sinai!».
La Torah è dunque un dono di grazia del Signore a Israele. A Israele JHWH comunica i suoi abiti – lo scambio degli abiti era proprio delle amicizie e delle alleanze (cf. 1Sam 18,1-4; 2Re 2,9-14) –
perché essi diventino i suoi abiti, che ispirino e guidino tutta la sua esistenza, sia nel rapporto con
Dio, sia nel rapporto con i fratelli, sia in quello con gli altri popoli e con la sua terra: la sua vita sociale, familiare, sessuale, culturale. Tutti gli aspetti della vita umana vengono regolati dai costumi
del Signore. E tutto questo tradotto nei termini culturali del tempo, perché Dio opera nella storia.
Oggi, la medesima Torah del Sinai, scritta nei nostri cuori (coscienze), ci giunge elaborata e
formulata dallo Spirito del Figlio in modo più adulto e differenziato, anche se ancora perfettibile
(cf. 1Cor 13,9-13). In questo senso Gesù ha pregato il Padre per i suoi discepoli: «Consacrali nella
Verità. La tua parola è Verità. … per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati
nella Verità» (Gv 17,17-19).
1. Il decalogo (Es 20,1-21; Dt 5,6-21)
1.1. La centralità del decalogo
La redazione di Es 20,1-21 differisce dal Dt 5,6-21. Per di più gli stessi evangelisti modificano
l’ordine del Decalogo di Mosé, e Luca per di più modifica quello di Matteo e di Marco.
A parte la differenza delle redazioni il decalogo rimane il “cuore” della legge. Lo vediamo chiaramente in Dt 5,22 dove leggiamo che, dopo aver pronunciato queste «dieci parole», Dio «non aggiunse altro». Il che risulta per lo meno strano, dal momento che al Decalogo fanno seguito ancora
per parecchi capitoli i comandamenti della Torà. Il fatto è che per i saggi deuteronomisti questa
compilazione non costituisce un sovrappiù: è soltanto un commento, mentre il Decalogo domina
tutte queste leggi, come una montagna sovrasta una pianura, o, meglio, le contiene tutte. Queste
leggi provengono dal Decalogo e vi fanno ritorno.
1.2. La forma del decalogo
«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa di schiavitù» (v.
2). L’importanza della frase non può sfuggire. La “prima parola” che JHWH pronuncia non è un
comandamento ma un riassunto della storia della salvezza. L’atto salvifico di Dio apre il discorso
dell’alleanza e della legislazione. La grazia precede la legge, nell’AT come nel NT. Come nel racconto della creazione il comando di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male
(Gen 2,16) non occupa il primo posto; esso, infatti, è preceduto da un dono: la creazione consegnata
all’uomo. Così anche al Sinai: se Dio può richiedere qualche cosa da Israele, è perché ha agito a suo
favore. Israele, se esiste, è a causa di Dio. E nel deserto, l’esistenza d’Israele è un costante prodigio,
un “miracolo” permanente. Perciò il debito d’Israele non è un riconoscimento limitato a qualche
beneficio particolare. Deve tutto al suo Signore. Ed a questa azione salvifica di Dio deve corrispondere l’azione di Israele che osserva la legge. E’ l’etica a nascere dal dono della liberazione, e non il
contrario.
Dalla “prima parola” discendono, come un torrente da una montagna, tutti gli altri comandamenti. Due sono positivi: quello relativo al sabato (v. 18) e l’onore per i genitori (v. 12).
Impressionano invece molto di più l’importanza che viene attribuita ai comandamenti negativi.
Questa forma s’incontra non meno di undici volte. Perché non usare una formulazione positiva?
Certamente «dire ciò che si deve fare» è più vincolante di «dire ciò che non si deve fare». Leggendo
allora il Decalogo, si viene a conoscere ciò che Dio proibisce. I comandamenti del decalogo stabiliscono un senso vietato: «Non tornare alla schiavitù d’Egitto».Questa schiavitù non si riferisce solo
ai lavori forzati in Egitto, ma si sminuzza in numerose schiavitù: idolatria in tutte le sue forme, profanazione del tempo, disprezzo dell’autorità dei genitori, mancato rispetto della vita umana,
dell’amore, della propria altrui, dell’«altro» ecc. In tutti questi ambiti, la libertà non può dettarsi. E’
da farsi. Piuttosto che enunciare il modo in cui il popolo, liberato dalla schiavitù d’Egitto, può ora
vivere in libertà, Dio dice in quale momento la libertà cesserebbe di esistere. Saranno invece gli altri
codici a sviluppare il «ciò che bisogna fare», che tanto preoccupava il dottore della legge che si rivolse a Gesù (cf. Lc 10,25).
1.3. Le dieci parole
a) Il culto esclusivo di YHWH (vv. 3-6). Parlando in prima persona, YHWH esige dal suo popolo un culto esclusivo: «Io [sono] JHWH tuo Dio [...]. Non avrai altri dèi di fronte a me. [...] Non ti
prostrerai davanti a loro e non li servirai». L’espressione «altri dei», ingloba tutti quelli differenti da
JHWH, chiamati, in Dt 32,16-17, «stranieri» o «nuovi».Viene quindi interdetta la presenza di ogni
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altra divinità nel culto. Il Codice cosiddetto «sacerdotale» (Lv 1-7;8-10;11-16) svilupperà abbondantemente questo aspetto cultuale (vengono descritti i diversi tipi di sacrifici: cf. Lv 1-10) e preciserà che la disposizione necessaria dai soggetti per il culto è la «purità» (cf. Lv 11-16).
b) Abuso del nome di JHWH (v. 7). Come noto, nel mondo orientale il nome equivale alla persona stessa; se questa ha un grande potere, il suo nome possiede l’efficacia corrispondente e può essere sfruttato per finalità buone, o cattive. L’Esodo è stata la prima volta in cui JHWH ha donato il
suo nome a Israele, esponendosi di fatto a una sana invocazione, ma anche al rischio di una strumentalizzazione del suo nome. L’avverbio «invano» è la resa di un termine (shaw’) che in ebraico
può significare «per nulla», «per un inganno», o in senso traslato «per un idolo» (Ger 2,30; Is 5,8).
«Pronunciare il nome invano» alla luce di altri passi biblici (cf. Sal 24 [23],4) ed extrabiblici, sembra avere ampliato il senso originario di un falso giuramento fatto in nome di JHWH in
un’accezione generale, che si estende alla bestemmia del nome di Dio, alla sua manipolazione magica (Lv 24,11-16), alla sua strumentalizzazione per avallare false profezie e voti menzogneri (Ger
14,15; Nm 30,3), o per mascherare culti viziati dall’ingiustizia sociale (Am 5,21-27; Ger 7,3-15).
Questo interdetto tende a tutelare la «santità» del nome di JHWH contro ogni profanazione, non solo nell’ambito del culto, ma anche delle relazioni sociali,
c) Il sabato (vv. 8-11). E’ il giorno della Parola. Quando l’uomo si apre alla divinità, si pone in
ascolto, viene alimentato dalla fecondità della Parola ascoltata nell’ambito cultuale. Israele è cosciente della sua radicale dipendenza da Dio. Non per nulla il libro dell’Esodo collega il comandamento del sabato con il racconto della creazione. Chi non lavora il sabato riconosce che c’è
un’opera più importante della sua, quella di Dio. La vita è un dono, il tempo è un dono. La vita non
è il frutto del lavoro dell’uomo. Il comandamento del sabato ricorda la priorità del dono sulle nostre
realizzazioni umane, della gratuità del dono iniziale su tutte le altre iniziative.
Questo comandamento (o “parola”) è rivolto contemporaneamente verso Dio e verso il prossimo.
Verso Dio l’ebreo dovrà volgere il suo sguardo perché “ricordando” in questo giorno la liberazione
possa ridare senso al “quotidiano”, riconoscendo che tutto è dono di Dio da accogliere con riconoscenza e dono da condividere con i fratelli.
d) L’onore per i genitori (v. 12). I genitori sono visti nella linea ascensionale dell’uomo, mentre
il prossimo in quella orizzontale. In effetti i genitori sono a titolo speciale l’immagine di Dio che
ama presentarsi qual padre dell’uomo (Os 11,1-4; Is 1,2; Ger 3,19; 31,9; Is 63,16; Mi 1,6; 2,10) e
che rivela un cuore di madre (Is 49,15; cf Os 11,8; Ger 31,20). Inoltre sono i genitori a “rivelare” e
ad educare i figli alla Legge. Come la prima «parola», anche questo comandamento fa volgere
l’uomo verso la sua origine e verso le sue origini. In questa prospettiva si comprende la ragione della pena di morte comminata a chi maltratta (qlh) o maledice (qālal) i genitori (Es 21,15.17; Lv 20,9;
Dt 27,16), analogamente alla stessa pena inferta a chi maledice (qālal) Dio (Lv 24,15ss.).
e) Non uccidere (v. 13). Il divieto ricorda che la vita proviene da Dio e a Lui solo appartiene; la
vita è sacra e l’eliminazione di un uomo significa l’eliminazione di un volto di Dio!1 Forse sarebbe
più preciso tradurre «non assassinare», giacché il verbo ebraico usato (ratsach) indica normalmente
l’omicidio illegale (intenzionale) e arbitrario di una persona, non la pena di morte e l’uccisione in
guerra, legalizzati nell’AT.
f) Non commettere adulterio (v. 14). Il comandamento intende proteggere il legame matrimoniale come fondamento della convivenza sociale. Qui si proibisce a qualunque uomo, sposato o celibe,
1 Un testo tardivo (Gen 9,5-6) enuncia chiaramente il principio della sacralità della vita e lo giustifica ricollegandolo
alla dottrina dell’«immagine di Dio»: «Del sangue vostro, anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello. Chi sparge
il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché a immagine di Dio egli ha fatto l’uomo».
Il testo, anche se recente, esprime nondimeno un assioma che è concretamente verificabile nei testi più antichi. L’uomo
è stato fatto a immagine di Dio e perciò la vita umana è sacra. Chi distrugge l’immagine di Dio commette un «sacrilegio». Si tratti di un uomo libero o di uno schiavo, di un uomo, di una donna o di un bambino, si tratta sempre
dell’immagine di Dio e la sanzione è la medesima. A ciò si aggiunge l’idea che il sangue è sacro e appartiene solo a
Dio. Chi sparge il sangue dovrà dunque renderne conto a Dio, si tratti di un uomo o di un animale.
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di avere rapporti sessuali con una donna sposata, oppure fidanzata; correlativamente, si proibisce a
qualsiasi donna sposata, o nubile, di avere rapporti sessuali con altri uomini, sposati o fidanzati. Le
secca motivazione (sviluppata in Lv 20,10-16) ha una forte valenza sociale: tutela sia i diritti dello
sposo, sia quelli della sposa, come pure assicura la legittimità dei figli.
g) Non rubare (v. 15). Spesso il comandamento ha fornito argomenti a coloro che volevano difendere a ogni costo la proprietà privata. Tuttavia sembra che gli elementi elencati siano piuttosto
quelli indispensabili per poter sopravvivere: la moglie (la famiglia), la casa, il servo, la serva, il bue,
l’asino (Es 20,17). Rubare un asino o un bue non sembra essere un furto raro (cf. Es 22,3). Ma il
furto è grave. La legge parla in realtà dell’asino e del bue al singolare. Molto spesso, il contadino ne
aveva uno solo. Essere privato di questi due animali era grave, perché rendeva il lavoro dei campi
impossibile. La conseguenza era la miseria: la vittima cadeva in una condizione di dipendenza2.
h) Non pronunziare falsa testimonianza (v. 16). Il testimone è la persona che rende testimonianza in giudizio. Perché la vita in società sia possibile, è necessario che la testimonianza resa davanti
ai tribunali sia veritiera, tanto più che il testimone può anche essere l’accusatore, e dare così inizio
all’esecuzione della sentenza.
i) Non desiderare (v 17). Il nono e decimo comandamento parlano della «cupidigia» circa la
donna e i beni del prossimo. La cupidigia tradisce una volontà di accaparramento e di dominio. Il
verbo epiphumesai indica il desiderio efficace, la progettazione, la scelta mentale e volitiva) Vincere la cupidigia significa impegnarsi in un cammino di vita e di libertà.
2. Il codice dell’alleanza (Es 20,22-23,33)
Il decalogo fonda la Legge come legge di libertà, ma ciò non è tutta la Legge. Temi importanti
della fede e della morale ebraica non vengono presi in considerazione. Leggi alimentari, divieti matrimoniali, responsabilità politiche e sociali, feste religiose, disposizioni cultuali, ecc.: nulla di tutto
questo viene menzionato. Bisogna quindi riferirsi alle quattro grandi raccolte legislative dell’AT: il
Codice dell’alleanza, il Codice deuteronomico (Dt 12-26), la Torah dei sacrifici (Lv 1-10) e la Legge di santità (Lv 17-26) e purità (Lv 11,15,33).
Una caratteristica del codice di alleanza (chiamato così da Es 24,7), che è il più antico3, è il fatto
che le diverse leggi relative la convivenza sociale sono inquadrati tra due gruppi di leggi cultuali:
quelle relative all’altare (Es 20,22-26) e il calendario delle feste religiose (Es 23,14-19). E’ normale,
si dirà, dal momento che i redattori erano sacerdoti! Questo allora non è, prima di tutto, il modo per
suggerire l’esistenza di un legame tra la liturgia da una parte e la vita quotidiana dall’altra? Non è
come se ci dicesse: sappi che non si rende culto a Dio solo in questo o in quel momento, ma anche
nel vivere con Dio in ogni momento!
La parte centrale del Codice (Es 21,2-23,9) tocca casi concreti della vita sociale4. Ci soffermiamo – a titolo di esempio – sulle prescrizioni nei confronti dei poveri, che mostrano una notevole delicatezza nei loro confronti.
● «Non molesterai, né opprimerai il forestiero...» (Es 22,20). Il forestiero (gher, una parola che
alcuni apparentano alla radice egiziana grj «estero», altri a quella accadica gheru «nemico») è colui
che per vari motivi ha abbandonato il suo paese d’origine e si è stabilito in un altro paese; si tratta
dunque di uno «straniero residente» in Israele, una categoria che annoverava esuli e profughi, tutti
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Cfr. J.L. SKA, Il libro sigillato e il libro aperto, EDB, Bologna 2005, 344-345
La redazione del codice può essere del tempo di Ezechia, nell’VIII secolo. Le sue prescrizioni riflettono i problemi di
una società poco strutturata (Es 22,27) e suppongono una collettività sedentarizzata (Es 22,1.6-7) e rurale (Es 21,28-37;
23,10-11), che vive soprattutto di allevamento di bestiame.
4 Vengono toccati diversi campi: leggi relative agli schiavi (Es 21,2-11); disposizioni riguardanti l’omicidio (Es 21,1217); leggi riguardanti colpi e ferite (ivi compresa la «legge del taglione»), furti di animali, delitti che necessitano di risarcimento, stupri (Es 21,18-22,16); pratiche proibite (Es 22,17-19); comandamenti morali e religiosi (preoccupazione
per il povero, bestemmia, primizie e primogeniti, giustizia).
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accomunati dalla loro condizione di «sradicati», senza terra e senza patria, costretti ad appoggiarsi a
qualche famiglia del posto; la stessa situazione di Mosè nella terra di Madian (2,22) e di Abramo a
Ebron (Gn 23,3). Di fatto privo di parentela - un legame fondamentale nel sistema sociale dell’Antico Vicino Oriente -, il forestiero, riassumeva in sé le categorie del povero e del nemico, rischiando
l’esclusione da ogni forma di solidarietà, in balìa delle prepotenze dei cittadini e delle istituzioni del
paese ospitante.
Il duplice divieto riassume ogni sorta di angheria; il verbo «molestare» (janah, particolarmente
ricorrente in Ezechiele, Cf. Ez 18 e 22) indica un sopruso condotto con protervia e frode su una vittima impossibilitata a difendersi; il verbo «opprimere» (lachats) trasuda odio xenofobo (cf. 3,9; Gdc
4,3). Il divieto viene motivato dall’esperienza «di essere stati un tempo forestieri (gherim) in Egitto» (ripetuto in 23,9),
● «Non maltratterai la vedova e l’orfano...» (Es 22,21). Le altre due categorie più marginali sono
quelle della vedova e dell’orfano. La condizione della vedova in Israele e nell’antico diritto orientale non corrisponde esattamente alla nostra; infatti una donna diventava vedova non solo per la morte
del marito, ma anche per la mancanza di figli e di generi che potevano mantenerla, o di cognati che
potevano garantirle discendenza, secondo la nota legge del levirato. Senza più forza-lavoro, senza
più legami con il clan del marito defunto, non era obbligatoriamente riaccettata e mantenuta dalla
sua famiglia d’origine (tranne nel caso fosse figlia di sacerdoti, Lv 22,13); un nuovo matrimonio
non era sempre possibile, anzi, talvolta proibito; le alternative per sopravvivere erano o la prostituzione e il concubinato, oppure, dall’epoca monarchica in poi, il rifugio al tempio (Sal 68,6). Siffatte
situazioni di precarietà e di umiliazione, ma soprattutto di non protezione giuridica, risultano
drammaticamente illustrate in alcuni racconti (Cf. Gn 38; 1 Re 17,9-16), ripetutamente denunciate
dai profeti.
Al pari della vedova, in una società dove non esistevano chiaramente sistemi assicurativi, anche
l’orfano (jatom), dopo la morte del padre, si trovava senza qualcuno che poteva anzitutto garantirgli
un «nome», sostenerlo, educarlo, e proteggere pubblicamente i suoi diritti, facilmente calpestati dagli sfruttatori di turno.
L’imperativo «non opprimere» (‘anah) non è una mera esortazione a essere buoni e comprensivi,
ma scaturisce da una giustizia che viene lesa e che va ristabilita. JHWH come supremo garante del
diritto, rivelerà la sua «ira» (che esprime sia la sua distanza dall’ingiustizia, sia il suo coinvolgimento con la sofferenza degli offesi) e rilancerà come un boomerang il delitto contro i suoi autori. Il linguaggio richiama quello di Es 2,23-25; come JHWH ha ascoltato il grido degli Israeliti oppressi e
maltrattati dagli Egiziani, così ascolterà il grido degli oppressi all’interno del popolo d’Israele (Sir
35, 12-18)!
● «Se presti denaro... non ti comporterai da usuraio...» (Es 22,24). La richiesta dei prestiti a interesse (in denaro o altri beni materiali) e l’accettazione di pegni come garanzia affondano le loro radici nella notte dei tempi. Qui non si proibisce in assoluto il prestito a interesse, bensì l’usura a tassi
esagerati che strangola persone già alle strette, designate genericamente con il collettivo «indigente» (‘anì), un termine che etimologicamente sembra derivare dal «curvarsi» tipico di uno schiavo.
La richiesta di un prestito, che creava una vera e propria dipendenza del debitore dal suo creditore
(Pro 22,7) non di rado lo costringeva a vendere i propri figli come schiavi (cfr. 2Re 4,1-7; Ne 5,112).
● «Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole...» (Es
22,25). La legge permetteva sotto certe condizioni il pignoramento come garanzia, in modo da arginare gli effetti dell’indebitamento delle fasce più deboli, cercando di prevenire gli abusi. Qui si
parla del povero come «prossimo» (in ebraico re’a, che, guarda caso, ha le stesse consonanti di ra’
= persona malvagia, ostile...), in nome di una solidarietà da rispettare. Significativamente il pegno è
il «mantello», che nella Bibbia designa la dignità, l’identità e i diritti del proprietario (cf. Gn 9,23; 1
Re 19,19). La norma, motivata, mira al cuore e al buon senso; va restituito prima della notte, perché
è l’unica coperta che permette di difendersi dal freddo. Il primo passo della compassione è restituire
all’altro la sua dignità.
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Anche queste due norme, se disattese, minacciano l’intervento di JHWH, motivato dal fatto che
Egli è «pietoso» (channun); questo bel soprannome divino, originariamente indicava la condiscendenza gratuita di un sovrano verso un suo suddito; esso ricorre tredici volte nel Primo Testamento e,
tranne qui, risulterà sempre accompagnato da «compassionevole» (rachum).
● Durante l’anno sabbatico, la terra non veniva seminata né lavorata, ma lasciata produrre i
frutti ‘spontanei’ che erano a disposizione di tutti, del proprietario e dei poveri, del cittadino e del
forestiero (Es 23,10-12). Al di là dell’efficacia pratica di tale provvedimento economico, resta il valore simbolico del “mettere a disposizione” ciò che si possiede, favorendo così il senso di uguaglianza fra tutti, di fratellanza nel godimento dei frutti che Dio fa crescere senza lo sforzo umano.
3. La legge Torah dei sacrifici (Lv 1-10)
Il culto è il modo privilegiato del rapporto del popolo (e all’interno di questo il singolo) con
JHWH, il modo in cui il suo dono e la sua promessa vengono costantemente resi evidenti e rinnovati. In questi capitoli troviamo quattro tipologie principali di sacrifici:
a) Il sacrificio di «‘olah». Olah – che la traduzione greca ha reso con olocausto – significa letteralmente «tutto bruciato, tutto consumato». Il fedele, prima che l’animale venisse bruciato, vi poneva sopra la sua mano, trasferendo quasi se stesso in modo che l’animale lo rappresentasse e in lui vi
sciogliesse tutto il suo essere con le sue miserie e salisse verso Dio.
b) Il sacrificio di «minchah». E’ un sacrificio – rispetto agli altri - molto più quotidiano In ebraico lo si chiama minchah che significa «dono», offerta consacrata, dono completo, ma è fatto con elementi vegetali, farina, olio, torte schiacciate (cf. Lv 2). Si tratta di un dono molto semplice, preso
appunto dalla quotidianità e offerte a YHWH. Una parte di questa offerta veniva bruciata e la rimanenza era data ai sacerdoti. Sopra la parte dell’offerta che veniva bruciata si metteva l’incenso (cf.
vv. 2-3), ma anche del sale che, oltre a richiamare fortemente la perennità dell’alleanza tra YWWY
e il suo popolo («sale dell’alleanza»: v. 13), per le sue qualità purificanti e preservanti era anche segno di una salatura del rapporto umano, della relazione interpersonale che, in quanto «salata» si
conserverà nel tempo.
c) Il sacrificio di comunione. E’ il sacrificio di zebah shelamîn, cioè «sacrificio delle paci», sacrificio «pacifico» o di «comunione». La vittima viene offerta a Dio (con lo spargimento del sangue
sull’altare e la bruciatura di alcun organi, in quanto strettamente connessi con i processi vitali: intestini, fegato e reni) e il resto veniva consumato insieme nel recinto del tempio.
d) Il sacrificio del peccato. In Lv 4 è descritto nelle quattro forme principali con estrema precisione: per il peccato del sommo sacerdote, per il peccato dell’intera comunità, per il peccato del capo di stato (il principe), per il peccato del singolo. All’interno di questo quarto sacrificio, troviamo
anche la grande celebrazione di Lv 16: il supremo dei rituali di espiazione e di perdono, la solennità
del Kippur, il vertice della liturgia di Israele.
4. La legge di santità (Lv 17-26) e di purità (Lv 11,15,33)
La cosiddetta legge di santità (Lv 17-26) è così designata dall’espressione: «Siate santi perché io,
JHWH vostro Dio, sono santo», ricorrente a più riprese in Lv 19-22. La santità è vista come una
partecipazione alla condizione divina. JHWH è la proprietà stessa di Dio, è ciò che ha di proprio.
Ora, Dio comunica il suo Spirito. Il fatto straordinario è che egli comunichi ciò che ha in proprio.
Perciò lo Spirito viene chiamato «santo» (Sal 51,13; Is 63,11). La teologia sacerdotale si allinea qui
ai profeti, che avevano annunciato che Dio non soltanto avrebbe richiesto la giustizia voluta dalla
Legge, ma l’avrebbe anche concessa, donando all’uomo il suo Spirito, cioè la sua santità sostanziale.
Come partecipa il credente a questa santità divina? Con la santità di tutto l’essere: del corpo (che
è ciò che gli è di più proprio) e della vita. Facciamo alcuni esempi.
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3.1. La santità del corpo
I capitoli 18 e 20 (vv. 9-21), caratterizzati dalle norme matrimoniali e sessuali, affrontano senza
imbarazzo anche le questioni più spinose, come la bestialità, la sodomia, le mestruazioni, gli incesti
e gli infanticidi rituali (che la Bibbia condanna duramente).
Come un ritornello leggiamo: «Non scoprirai la nudità di…», «se uno scopre la nudità di…»5. La
nudità del corpo è la sua gloria e, in quanto tale, è riservata. In altri termini, la nudità può essere solo «rivelata» in un contesto di reciproco amore, di dono di sé, non può essere esibita né trattata per
oggetto per il proprio piacere. Anche la trasmissione della vita non può che avvenire in un rapporto
stabile, amorevole, tra il marito e la moglie.
Interessante è la motivazione che regola la legge dell’incesto: evitare la «confusione» degli amori. Perché impedire l’incesto? Perché viene così lasciato un posto per l’Amore unico, da cui ogni
amore proviene. Non può essere confuso l’amore della sposa e quello della madre, perché il padre e
il figlio possano essere padre e figlio in spirito per via della carne. Nella santità dell’unione coniugale si manifesta la paternità divina. Invece fuori di tale santità, questa paternità viene macchiata,
come pure viene macchiato il nome di Padre, invece di essere «santificato».
4.2. La santità della vita
4.2.1. Amerai il prossimo tuo
Proprio nel Levitico (19,18) troviamo il comandamento che Gesù cita come comandamento «simile al primo»: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22,39; Mc 12,31; Lc 10,27). Questo
comandamento è il frutto del tentativo di fare una sintesi di tutti i comandamenti della torah riguardanti il rapporto con i propri simili6. Questa formulazione, come ben si vede, va oltre il divieto di
azioni esterne improntate dall’odio e dalla vendetta, in quanto afferma che ciascun membro della
comunità deve riconoscere nel suo prossimo un altro se stesso, dotato dei suoi stessi pregi e difetti,
che va amato con il cuore (= atteggiamento interiore).
Gesù farà pienamente capire cosa vuol dire «amare se stessi»: è il giusto amore per sé che scaturisce dall’esperienza di sentirci amati in modo diretto e assoluto, in sé e senza condizioni, da Dio; è
su questa base che anch’io posso amare gli altri in maniera simile a Dio e cercare di promuovere il
vero bene (come lo desidero «per me») degli altri.
4.2.2. Il sabato e le feste religiose
In Lv 23,3-4 troviamo il precetto del «sabato»: «Durante sei giorni si attenderà al lavoro, ma il
settimo giorno è sabato, giorno di assoluto riposo e di santa convocazione. Non farete in esso lavoro
alcuno; è un riposo in onore del Signore in tutti i luoghi dove abiterete».
Nei versetti seguenti il capitolo è scandito secondo cinque feste (pasqua e azzimi, pentecoste, capodanno, giorno dell’espiazione, festa delle capanne), che mostra il ramificarsi del sacro
nell’interno del tempo, al punto che i giorni feriali sono sostenuti da queste esperienze come da un
alimento, come un dissetarsi per il cammino successivo.
4.2.3. L’anno sabbatico e il giubileo
Il calendario delle solennità termina con Lv 25, che tratta dell’anno sabbatico e di quello giubilare.
L’anno sabbatico – come abbiamo già sopra detto commentando Es 23,10-12 - imponeva di far
riposare la terra ogni sette anni e di lasciarne i frutti spontanei anche ai poveri e ai forestieri (cfr. Lv
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Cf. Lv 18,8.9.10.11.12.13.14.15.16.17.19; 20,11,17.19.20.21.
Un altro tentativo di sintesi “orizzontale” della legge lo troviamo nella cosiddetta «regola d’oro». Essa non è formulata esplicitamente nei libri canonici dell’AT (sebbene non manchino testi che si ispirano ad essa: cf. Es 23,9; Dt 15,1215). Nel giudaismo, invece, ha acquisito una grande popolarità. E’ citata anche da Gesù: «Tutto quanto volete che gli
uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt 7,12). Notiamo che ha la stessa
struttura di pensiero del comandamento riguardante l’amore del prossimo: quello che ognuno ritiene giusto o ingiusto
per sé deve considerarlo tale anche per chiunque altro.
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25,2-7). La prima motivazione di questo «riposo assoluto della terra» (v. 3.5.6.) è la seguente: se la
terra è di Dio e gli Israeliti sono semplici ospiti e affittuari, preme a Dio non far sfruttare la terra fino allo stremo in modo che non abbia più nulla da dare alle future generazioni. Nessuno ha il diritto
di saccheggiare la natura, la deve rispettare anche nei suoi tempi di ricarica energetica. E’ la prima e
unica legislazione ecologica della storia antica.
Il giubileo. Dopo sette settimane di anni (= 49 anni compiuti), al 50° anno, il 10 del mese di Tisri
(settembre) nel giorno del “Kippur”, suona il corno, lo yobel (da cui la parola “giubileo”), e comincia un anno tutto straordinario, in cui tutto Israele ricomincia da capo. In 50 anni ci sono quelli che
sono riusciti a diventare ricchi sfondati e quelli che invece sono arrivati alla miseria, ci sono i latifondisti seduti su troni e quelli che si sono venduti come schiavi per sopravvivere. Ma quando suona quel corno, per un anno tutto viene pareggiato e si ricomincia da zero, tutti uguali. Il «giubileo»
(v. 10) era perciò un deciso ritorno alle origini, quando ognuno in Israele aveva la sua proprietà e
quindi la sua libertà e uguaglianza di dignità. In quest’anno «ciascuno tornerà in possesso del suo»
(Lv 25,13). Anche le persone che si erano vendute schiave per riscattare debiti contratti, dovevano
recuperare gratuitamente e automaticamente la libertà (25,39-43). L’ebreo non poteva subire schiavitù perché era stato riscattato da Dio dalla schiavitù egiziana.
Questo ci aiuta a capire che il Levitico non è un libro solo ritualistico, e che la santità proposta
da Dio esige anche una santità morale.
4.3. La legge di purità (Lv 11,15-33)
La distinzione tra puro e impuro era fondamentalmente riferita al culto; l’integrità era infatti richiesta in relazione al servizio reso a YHWH, sia sotto forma di culto attivamente prestato sia in
quanto semplice membro dell’alleanza. L’impurità era mancanza di santità, considerata non dal
punto di vista morale, ma come situazione esistenziale del momento, incompatibile con la santità di
YHWH, quindi inibente qualsiasi contatto con lui.
Questa torah, quindi, si occupa della varie situazioni che possono determinare l’insorgere dello
stato di impurità e dei mezzi per riacquistare la purità. Il codice presenta quattro categorie maggiori:
animali puri e impuri (11,1-47), nascita e puerperio (12,1-8), lebbra (13,1-14,57) e impurità sessuali
(15,1-33).
5. Il codice deuteronomista (Dt 12-26)
E’ un corpo legale destinato a sostituire il precedente eliminando alcune disposizioni, modificandone altre e introducendone di nuove. In esso troviamo la legge per il santuario (12,1-27); le disposizioni per l’apostasia, che si verificava per la seduzione che esercitavano i culti cananei (12,2813,18); le leggi sulla purità (14,1-21); una raccolta di doveri religiosi periodici: decime, anno sabbatico, primogenito e ceste di pellegrinaggio (14,22-16,17); una sezione sugli uffici e cariche: giudici
e dei procedimenti giudiziari, monarchia, sacerdoti e profeti (16,18-18,22); l’omicidio (19,1-21); disposizioni per la conduzione della guerra (20,1-21,14); una raccolta di leggi varie (che inizia e termina trattando di costumi sessuali e familiari) (21,15-23,1); leggi sui requisiti richiesti ai non ebrei
per poter partecipare al culto (23,2-25,19); l’offerta delle primizie (26,1-15).
Per la prima volta in un codice biblico abbiamo anche una finale contenente le “benedizioni” e le
“maledizioni” contro coloro che ne trasgrediranno le leggi (Dt 28,1-69).
6. Il compimento della Torah
Nel Vangelo di Matteo Gesù espressamente afferma di non essere venuto per abolire la Torah,
ma per portarla a compimento (cf. Mt 5,17). E avverte:
«Finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno, senza che tutto sia
compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare
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altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini,
sarà considerato grande nel regno dei cieli» (Mt 5,18-19).
Ma subito precisa: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20). Gli scribi insegnano la giustizia della legge; i farisei la fanno.
Gesù dice che per entrare nel Regno non basta conoscere ed eseguire la legge. E’ necessaria una
giustizia che eccede i limiti della legge: è quella dell’amore (che il credente riceve dal Padre, che
ama, perdona e salva gratuitamente i suoi figli), perché esso non conosce misura!
Le cosiddette «antitesi» del discorso del monte («Ma io vi dico»: Mt 5,22.27.32.34.39.44) dichiarano la «giustizia eccessiva» del Figlio che fa entrare nel regno del Padre. Gesù parla con autorità pari Colui che sul Sinai diede le Dieci Parole. Non contraddice quanto è stato detto, ma lo chiarisce, passando dalle semplici azioni ai desideri del cuore, da cui tutto promana. Ma ciò che dice
non è un’imposizione legalistica, ancor più severa della precedente, che giudica non solo le azioni,
ma addirittura le intenzioni. E’ invece la «buona notizia» di ciò che Dio opera in noi mediante queste stesse parole, che hanno l’autorità di compiere ciò per cui sono mandate. Sono «rivelazione» e
dono della vita stessa di Dio per noi in Cristo Gesù. E’ grazia dello Spirito Santo che mi sostiene
nel conformarmi alla coscienza di Gesù-Maestro, di assumere i suoi «costumi». Per questo Gesù, in
Mt 5,21-48, potrà chiedere al discepolo:
- di non uccidere il fratello, non solo materialmente, ma anche con l’offesa e il disprezzo. E –
più attivamente - chiede di riconciliarsi con lui. Non si può onorare Dio senza essere in armonia
con il fratello; vero culto di Dio è che tu faccia il primo paso per riconciliarti con il tuo fratello, anche se sei tu l’offeso.
- di non cadere nell’adulterio, non solo materiale, ma anche nel desiderio di esso. Non si deve
misurare l’atto morale soltanto sul gesto esterno, ma sulla profondità della coscienza. Per questo
Gesù indica la necessità di un’ascesi: «Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, càvalo... E se la
tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettala via da te» (vv. 29-30). L’occhio è espressione del desiderio del cuore. E’ dal cuore che nascono desideri buoni e desideri cattivi.
L’occhio asseconda questi desideri e “vede” ciò che interessa per soddisfarli. Invece la mano è segno dell’uomo che “fa”, che “agisce”. Perché l’occhio e la mano non siano per la morte la persona
deve saper de-cidere (=tagliare) ciò che non porta alla vita. C’è una responsabilità personale nel custodire i sensi che è indispensabile per la custodia del cuore. Qualora non c’è tale custodia (e si
permette che tutto entri nel cuore) il cuore viene devastato!
- l’indissolubilità nel matrimonio, comprensibile non come legge, ma come dono del cuore nuovo: in quanto amati con fedeltà e senza condizioni, possiamo amare con lo stesso amore con cui
siamo amati. Il fallimento della relazione maschio/femmina è il fallimento della verità profonda
dell’uomo, che lo rende simile a Dio: la capacità di amore.
- di non giurare (che per gli ebrei significava chiamare Dio a testimone della propria veridicità),
perché la parola dev’essere di per sé vera, mezzo di comunicazione e di comunione. Diversamente è
falsa, mezzo di dominio e di divisione. Dire il falso è stare al gioco di Satana, padre della menzogna. La menzogna del serpente (Satana) portò la morte nel mondo. La menzogna ha bisogno di molte parole («il di più viene dal Maligno»), per confondere e persuadere. L’imbroglione è sempre un
abile comunicatore, che cerca di avere in mano l’altro dicendo il minimo di sé. Gesù ci chiama a
quella sincerità totale che è capace di ammettere le proprie colpe e negligenze, a quella lealtà che
non si rimangia la parola per comodo, a quella schiettezza che sa dire a chi sbaglia: “tu sbagli”, a
cercare la verità com’è. Bisogna non voler ingannare gli altri, prevalere su di loro, violentarli psicologicamente, in alcun modo; ma aver rispetto per tutti.
Solo su una parola trasparente, verace, può fondarsi una relazione autentica con Dio e tra gli uomini; solo su essa si può fondare una comunità di vita.
- di non opporsi al malvagio (5,38-42). Gesù introduce il principio della superiorità dell’amore
rispetto alla giustizia: la giustizia è necessaria, ma esiste la legge cristiana dell’amore che riesce anche a varcare ed andare al di là del confine della pura giustizia.
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L’amore, che è apparentemente un segno di parzialità, diventa un segno di imparzialità suprema,
di generosità, di superiorità. La vendetta non risolve il male, semplicemente lo raddoppia, nella speranza, per lo più vana, che ciò serva da deterrente. La legge cristiana dell’amore riesce anche a varcare ed andare al di là del confine della pura giustizia. Gesù si pone nell’ottica “eccessiva” del Padre «che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli
ingiusti. (...) Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,46.48). La prima regola per vincere il male è opporsi al male e non al malvagio, il che vuol dire: il male non va
restituito perché creerebbe altro male, e chi mi fa del male non deve essere visto come un concorrente ma come un fratello che va amato con più cuore.
- di amare il nemico. E’ essenza del cristianesimo. Il fondamento si trova nell’agire stesso di Dio.
La sua misericordia porta il discepolo a vivere lo stesso atteggiamento di incondizionata apertura al
prossimo. Amare il nemico vuol dire aver conosciuto Dio nello Spirito. Dio, infatti, non ha nemici,
ma solo figli, che per me sono fratelli da amare. Il suo sole e la sua pioggia, il suo amore e la sua
misericordia sono per tutti, in attesa che qualcuno lo riconosca come Padre (cfr v. 45). Così il cristiano deve amare ogni uomo come lo ama Dio «perché diventiate figli del Padre» (v. 45). E’ interessante notare il verbo: non si dice che già siamo figli (il che è vero, perché abbiamo lo Spirito
Santo), ma che lo dobbiamo diventare nel nostro vivere concreto, nell’esercizio della nostra libertà.
G. VANHOOMISSEN, Cominciando da Mosè. Dall’Egitto alla terra promessa, EDB, Bologna 2004, 155-187; P.
BEAUCHAMP, All’inizio, Dio parla, ADP, Roma 1992, 39-74; 91-100; A. NEPI, Esodo (capitoli 16-40), Messaggero, Padova 2004, 91-103; G.F. RAVASI, Deuteronomio e Levitico, EDB, Bologna 1988; R. BROWN – J.A. FITZMYER – R.E.
MURPHY, Nuovo grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1997.
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