a qualcuno piace caldo?
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A QUALCUNO PIACE CALDO? L’ITALIA NELLA MORSA DEL CLIMA CHE CAMBIA Novembre 2006 Introduzione Viviamo oggi con crescente consapevolezza in un contesto di crisi ambientale con problematiche legate alle variazioni climatiche. I prolungati periodi di siccità, i fenomeni erosivi, il dissesto idrogeologico e l’impermeabilizzazione, la salinizzazione associati all’alta frequenza di incendi boschivi con distruzione delle risorse forestali, alle condizioni di crisi dell’agricoltura tradizionale con il conseguente abbandono di vaste aree che divengono marginali, allo sfruttamento eccessivo delle risorse idriche, alla massiccia concentrazione delle attività economiche lungo le fasce costiere, all’inquinamento da metalli pesanti, al turismo e all’agricoltura intensivi sono alcune delle cause della diminuzione di produttività dei terreni e dell’emergenza idrica che si riscontrano in tutto l’ecosistema Mediterraneo e che colpiscono sensibilmente l’Italia. I più recenti studi sull’entità del riscaldamento globale hanno mostrato come tale fenomeno non sia uniforme, ma che, ad aree in cui la temperatura è aumentata, si alternano vaste aree in cui si è osservata una diminuzione della temperatura. Per quanto riguarda il bacino del Mediterraneo nelle ultime due decadi si è verificato un aumento della temperatura media annua superiore a quello globale (+0.6°C nel secolo appena passato) e le serie storiche termo-pluviometriche italiane mostrano un significativo aumento della temperatura media annua che negli ultimi 20 anni ha subito un brusco balzo all’insù di quasi 1 °C (0.4 °C al Nord, 0.7 °C al Sud) dando vita a estati eccezionalmente calde con temperature “tropicali”: 6 casi dal 1980 ad oggi - ’83, ’88, ’94, ’95, ’98, 2003 – di cui però 4 casi negli ultimi 10 anni e una significativa variazione delle precipitazioni annue, in particolare diminuzione sull’Italia meridionale. Il ciclo dell’acqua rappresenta l’elemento principale nel complesso fenomeno dei cambiamenti climatici e la sua alterazione è al tempo stesso causa ed effetto degli impatti sul nostro pianeta legati alla variazione di temperatura. In Italia il 71% delle 70 stazioni meteorologiche e di misurazione pluviometrica dislocate sul territorio nazionale, pari al 74% della superficie del paese, presenta un aumento annuale, o almeno stagionale dell’intensità media degli eventi estremi nel periodo 1976 – 2000 rispetto al 1951 – 1975. Al Nord le precipitazioni aumentano causando sempre più frequentemente alluvioni e dissesti. Negli ultimi 50 anni l’Italia è stata colpita da 6 grandi alluvioni autunnali: ’51 (Polesine), ’66 (Firenze), ’93 (Liguria), ’94 (Piemonte), 2000 (Piemonte e Val d’Aosta), 2002 (Lombardia), ma ben quattro di tali eventi sono accaduti negli ultimi 10 anni. Al Sud prevalgono fenomeni violenti concentrati in pochi giorni che causano frane nelle aree montane e fenomeni erosivi delle aree pianeggianti associati ad una forte riduzione delle precipitazioni. L’irregolarità annuale delle piogge ha ovviamente incrementato anche gli episodi di siccità come dimostra il fatto che negli ultimi 40 anni vi sono stati 6 casi di grave siccità (meno di 360 mm di precipitazione media annua) con durata di 9 mesi almeno: ’61, ’83, ’93, 2000, 2001, 2003. Ma la metà di tali eventi è avvenuto negli ultimi 5 anni. Nel decennio 1991-2001 in Italia si sono verificati 12mila frane e oltre mille piene. Solo nel 2003 i principali eventi alluvionali hanno coinvolto più di 300mila persone e le risorse economiche necessarie al ripristino delle aree colpite sono pari a 2.184 milioni di euro. Tantissimi poi sono gli episodi di piena e gli allagamenti minori che ogni anno provocano alluvioni di aree agricole, piccoli o grandi centri urbani, causando danni notevoli anche senza vittime civili. La superficie nazionale interessata da rischi idrogeologici legati a frane e alluvioni è pari al 7,1% del totale, vale a dire 21.505 Kmq. I comuni a rischio di alluvioni e frane sono ben 5.581, il 70% del totale. Calabria, Umbria, Valle d’Aosta sono regioni in cui il 100% dei comuni è a rischio, seguite da Lombardia (99%) e Toscana (98%). Soltanto i principali eventi alluvionali dal 1993 hanno causato 343 vittime ( delle quali oltre un terzo a Sarno in seguito all’alluvione del 1998), con danni economici per oltre 10 miliardi di euro. Questi dati dimostrano come in Italia la questione del rischio idrogeologico e il degrado dei corsi d’acqua siano un problema prioritario. L'esposizione al rischio di frane e alluvioni è molto elevata e costituisce un problema di grande rilevanza sociale, sia per il numero di vittime ed il rischio di focolai infettivi dovuti al ristagno delle acque che per i danni prodotti alle abitazioni, alle industrie ed alle infrastrutture. Il ricorrere di fenomeni di dissesto idrogeologico negli ultimi anni è strettamente legato agli eventi naturali estremi e alle intemperanze del clima ma anche e soprattutto a un modello di sfruttamento intensivo e poco programmato del territorio. Salute Serie politiche di adattamento possono aiutare a ridurre o a neutralizzare gli effetti sulla salute umana di eventi naturali estremi causati dal cambiamento del clima; l’incremento di malattie cardiovascolari, cerebro vascolari e respiratorie e delle morti causate dall’ondata di calore; e i casi addizionali di vettori, alimenti e acque contaminate, malnutrizione e malattie psicosociali associate ai diversi trend climatici. L’ondata di calore che ha colpito l’Europa nel 2003 con 4-5° C sopra la media del periodo, associata a livelli elevati di inquinamento atmosferico, è coincisa in Italia nei mesi luglio-settembre con un eccesso di mortalità rispetto allo stesso periodo nel 2002 di 18.257 morti pari ad un aumento del 14,5% con una punta di quasi 10.000 decessi in più (23,7%) per il solo mese di agosto. Se l’impatto dei cambiamenti climatici è di tale portata l’implementazione di politiche per ridurlo dovrebbe certamente portare dei vantaggi. Morti nel 2002 e 2003 e variazione per mese - Valori assoluti e percentuali. Variazione 2002 44.767 40.946 40.596 2003 49.299 50.650 44.617 v.a. 4.532 9.704 4.021 % 10,1 23,7 9,9 Totale periodo 126.309 144.566 18.257 14,5 Resto dell'anno 431.084 441.902 10.818 2,5 Totale anno 557.393 (Elaborazione Legambiente su dati ISTAT) 586.468 29.075 5,2 Luglio Agosto Settembre L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato, assegnando loro un valore economico, i potenziali benefici sulla salute umana dell’adattamento agli effetti dei cambiamenti climatici in termini di riduzione del tasso di mortalità causato da ondate di calore. L’assegnazione di un valore economico permette di monetizzare questi benefici e metterli in relazione con i costi e con altre categorie economiche. Il valore di vita statistica VSL (Value of Statistical Life) è calcolato dall’OMS in base alla volontà di pagare WTP (Willingness To Pay) per la riduzione di uno specifico rischio R di decesso per cause cardiocircolatorie e respiratorie ∆WTP VSL = ∆R Lo studio condotto in Italia su un campione di 800 persone ha prodotto come risultato un valore medio di VSL pari a € 3.7 milioni. In altri termini, una politica mirata a ridurre gli effetti mortali di un’ondata di calore porterebbe a ridurre i costi sulla collettività di € 3.7 milioni di media per ogni vita salvata. La modifica delle condizioni ambientali in seguito all’aumento della temperatura ha avuto conseguenze ecosistemiche su differenti scale influendo sull’adattabilità di numerose specie di insetti. Si assiste infatti ad una serie di fenomeni che interessano sia i cicli di vita delle singole specie sia le strutture e la distribuzione delle comunità biologiche con conseguente aumento delle probabilità di diffusione di infezioni e parassitosi trasmesse da questi vettori. L’aumento della temperatura ha, infatti, permesso un allargamento di alcune specie verso nuove zone che fino a qualche anno fa non erano colonizzabili, essendo la temperatura il fattore limitante, e favorirà in misura sempre maggiore l’ambientamento di specie vettori tropicali e sub-tropicali. Tuttavia ad esempio per quanto riguarda la zanzare l’effetto immediato sarà l’aumento della popolazione e solo in un secondo momento, all’espansione della loro distribuzione, anche delle infezioni veicolate. La malaria è la principale infezione parassitaria nel mondo. Attualmente il 40% circa della popolazione mondiale vive in aree a rischio e si stima che ogni anno ci siano 300 milioni di casi acuti d’infezione e almeno 1 milione di decessi. L’infezione nell’uomo è causata dal Plasmodium un parassita veicolato dalla femmina della zanzara anofele. La trasmissione della malaria è strettamente legata a fattori climatici quali la temperatura e le precipitazioni oltre che ad una serie di fattori agricoli e socio-economici (uso del suolo, sistemi sanitari, etc. ). La temperatura infatti influenza direttamente il periodo di incubazione del parassita nella zanzara, il tasso di sviluppo del vettore e la frequenza della necessità di sangue, mentre le precipitazioni e i corpi d’acqua svolgono un ruolo cruciale nella determinazione della distribuzione dato che la zanzara si riproduce sull’acqua. L’Europa, e quindi anche l’Italia, era un area endemica fino al 1970, anno in cui l’OMS l’ha dichiarata libera dalla malaria. I cambiamenti climatici hanno potenzialmente il rischio di causare una nuova insorgenza dell’infezione nel continente, soprattutto perché il vettore zanzara è presente in tutti i paesi europei. Il declino della diffusione a livello europeo cominciò spontaneamente all’iniziò del ventesimo secolo nelle regioni settentrionali principalmente come effetto delle operazioni di bonifica di zone paludose, mentre in quelle meridionali fu solo in seguito all’introduzione del controllo tramite DDT che fu debellata la malaria. Attualmente non si registrano casi di trasmissione endemica di malaria in Europa ma tre fattori importanti sono tenuti sotto controllo: sporadici casi autoctoni; malaria aeroportuale e casi importati. I casi di malaria importati sono in forte crescita a causa della maggiore circolazione di beni e persone, del turismo e dell’immigrazione, nel periodo 1992-2000 c’è stato un incremento del 70% dei casi registrati d’importazione dai soli Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia. La malaria aeroportuale è un fenomeno ristretto con solo pochi casi registrati (6 a Parigi nel 1994, ma che è necessario tenere sotto controllo. Colpisce il personale degli aeroporti o la popolazione che vive nelle immediate vicinanze degli scali ed è causata da zanzare che viaggiano nelle cabine degli aerei o nei bagagli, per arginare il fenomeno è ormai prassi nebulizzare insetticidi durante i voli. I casi autoctoni sono invece dovuti alla trasmissione da un soggetto infettato dal virus tropicale ad un altro tramite vettore locale. Sono molto pochi i casi autoctoni registrati, a fronte della diffusione della zanzara, ma la cosa interessante è che si in Germania che in Italia i casi registrati nel corso dell’ondata di calore del 1997 si sono verificati in zone in precedenza altamente malariche. Questo potrebbe indicare che temperature superiori al normale dovute ai cambiamenti climatici potrebbero giocare un ruolo determinate nella recrudescenza della malaria in Italia. La lesmaniosi, trasmessa tramite minuscoli flebotomi o pappataci, è un’infezione presente in Italia solamente nella sua forma Leishmania infantum, responsabile sia della forma viscerale zoonotica che di quella cutanea. In tutto il mondo, le leishmaniosi appaiono in costante aumento, con 1-2 milioni casi nuovi/anno. E’ probabile che i cambiamenti climatici possano (e probabilmente già lo stanno facendo) modificare il comportamento biologico degli insetti vettori, anticipando e prolungando la stagione di attività e permettendo la colonizzazione di territori del nord-Italia, fino ad alcuni anni fa considerati indenni. Il cane rappresenta il serbatoio principale nella diffusione della leishmaniosi viscerale umana. Il controllo della malattia nell’animale, quindi, insieme alla lotta ai vettori, rappresenta il mezzo più valido per salvaguardare la salute umana, oltre naturalmente a preservare quella degli animali colpiti. A differenza del cane, l’uomo è molto più resistente all’infezione da L. infantum o alla sua manifestazione clinica. In genere, quindi, gli individui colpiti da leishmaniosi viscerale sono bambini al di sotto di due anni di età (nei quali il sistema immunitario è ancora immaturo) e soggetti HIV positivi. Nello scorso decennio le co-infezioni HIV-Leishmania hanno avuto in grande impatto sanitario in tutto il sud Europa e in Italia dove sono stati individuati alcuni casi di trasmissione tra tossicodipendenti tramite scambio di siringa. Dopo l’introduzione di terapie anti-HIV altamente efficaci nel 1998-1999, l’incidenza dei casi clinici di leishmaniosi in questi individui è diminuita, ma il problema sanitario persiste perché nessuno dei soggetti infetti guarisce dalla leishmaniosi, per cui sono richiesti continui cicli di terapia La Campania costituisce attualmente il principale “macrofocolaio” di malattia umana di tutto il sud Europa. Come evidenziato nel grafico, che mostra il contributo dei casi campani alla casistica generale italiana, a partire da una decina di casi registrati con sorveglianza attiva nel 1990, l’incidenza è andata progressivamente aumentando fino ad un primo picco di 65 casi nel 1995, e ad un ulteriore picco di 83 casi nel 2000 e ad una stabilizzazione attuale di 60-70 casi/anno Incidenza della leishmaniosi viscerale zoonotica in Italia e in Campania Fonte: Laboratorio di Parassitologia, Istituto Superiore di Sanità L'encefalite trasmessa da zecca o TBE (tick-borne encephalitis) è una malattia infettiva del sistema nervoso centrale causata da un Flavivirus denominato TBE virus (TBEV). Una caratteristica di questa infezione è la variabile incidenza nel corso degli anni e nei diversi periodi dell'anno solare: questo in relazione alla quantità di virus circolante nel focolaio, a sua volta influenzata da molteplici fattori climatici e correlata alle modificazioni nella popolazione dei vettori e dei loro ospiti vertebrati. In Italia l'andamento stagionale dell'attività delle zecche ha un picco nei mesi di maggio/giugno e settembre/ottobre. Nella maggior parte dei paesi europei nel corso dell'ultimo decennio, si è comunque osservato un aumento dei casi di TBE, con crescente coinvolgimento di persone che si dedicano ad attività all'aperto in aree endemiche. In Italia la malattia da TBEV è stata fino a pochi anni fa piuttosto rara: fino al 1993 erano stati descritti solo 18 casi di malattia, di cui 12 in Toscana e 6 in provincia di Trento. In Veneto i primi casi sono stati descritti a partire dal 1994; in seguito nella provincia di Belluno è stata riscontrata la maggiore incidenza di malattia con 57 casi diagnosticati dal 1994 ad oggi; inoltre 1 caso è stato diagnosticato in provincia di Treviso ed 1 in provincia di Vicenza. Nel Bacino del Mediterraneo, un caso esemplare di variazione della distribuzione, anche con conseguenze sanitarie notevoli è quello della Culicoides Imicola, un piccolo moscerino largamente diffuso anche in Italia che tramite puntura trasmette il virus della febbre catarrale degli ovini nota come Bluetongue. La Bluetongue è una malattia virale che colpisce tutti i ruminanti (domestici e selvatici); in particolare, mentre i bovini risultano essere portatori sani, gli ovini manifestano pienamente la malattia. Tra i principali sintomi: febbre alta, calo di peso, edema delle labbra, emorragie linguali, arrossamento della mucosa di labbra e lingua fino ad arrivare alla cianosi (da qui il termine lingua blu), zoppia, tendenza a camminare sulle ginocchia, assottigliamento del vello. La malattia può portare alla morte (anche per l’indebolimento dell’animale). La maggior parte delle specie del complesso Imicola sono africane e C. imicola, unica specie del complesso identificata nel bacino del Mediterraneo è stata finora catturata in Algeria, isole Baleari, Cipro, Corsica, Egitto, Grecia, Israele, Marocco, Portogallo, Spagna, Turchia e recentemente anche in Italia. Il primo focolaio di Bluetongue conosciuto in Italia (agosto 2000) è stato in Sardegna ma nello stesso anno anche Sicilia e Calabria sono state colpite dall’epidemia; da allora la malattia si ripresenta ogni anno con andamento stagionale (soprattutto in tarda estate: periodo settembre ottobre). Nel 2001 la malattia è stata riscontrata anche in Lazio, Toscana e Basilicata ed è stata evidenziata la circolazione virale nei bovini sentinella in Puglia e Campania. La febbre del Nilo occidentale è una malattia virale acuta trasmessa dalle zanzare che colpisce principalmente gli uccelli e i cavalli. Nell’uomo nella maggior parte dei casi l'infezione decorre senza che il soggetto colpito presenti sintomi della malattia ma in rari casi può causare encefaliti e anche la morte. Gli uccelli costituiscono il serbatoio principale del virus. Gli uccelli migratori o dei vettori, zanzare e zecche, sono responsabili della diffusione della malattia in altre aree geografiche. Il contagio avviene di norma nel modo seguente: una zanzara punge un uccello portatore del virus della febbre del Nilo. Il virus raggiunge il flusso sanguigno della zanzara e vi circola alcuni giorni prima di istallarsi nelle sue ghiandole salivari. Se una zanzara infetta punge una persona o un cavallo, avviene una trasmissione del virus e le persone o i cavalli possono ammalarsi di febbre del Nilo occidentale. L'uomo e il cavallo (o altri ruminanti) sono i cosiddetti ospiti finali. Essi normalmente non sono in grado di diffondere ulteriormente il virus, perché la quantità di virus presente nel loro sangue non è sufficiente per causare ulteriori contagi. Fattori ambientali che aumentano la densità della popolazione dei vettori sono piogge intense seguite da inondazioni associate a periodi seguenti di tempo caldo e secco, temperature medie superiori al normale e anche correnti di aria calda che possono trasportare zanzare infette Degrado suolo/desertificazione La desertificazione è uno dei più allarmanti processi di degrado ambientale in atto a livello globale, causato principalmente dalle attività umane e dalle variazioni climatiche che colpiscono le terre aride, semi-aride e sub-umide secche. L’aridità climatica è un fattore necessario, ma spesso non sufficiente per lo sviluppo dei processi di degrado, governati da sistemi complessi di cause, in cui un ruolo determinante gioca l’utilizzo irrazionale delle risorse naturali da parte dell’uomo. L’effetto è un declino persistente e irreversibile della produttività biologica del territorio interessato e dunque delle sue possibilità di utilizzazione a fini agricoli, pastorali o forestali. Va evidenziato come lo stress idrico nella vegetazione, sia in grado di annullare l’effetto positivo che l’aumento della CO2 atmosferica potrebbe avere sull’accrescimento degli alberi e delle foreste e di conseguenza anche sulla loro capacità di assorbimento. Il bacino del Mediterraneo rappresenta una zona di transizione in cui sono presenti aree desertificate e aree a rischio di desertificazione. Il Sahara ha oramai “attraversato” il Mediterraneo: un quinto dei territori in Spagna è soggetto a desertificazione e anche il Portogallo, l’Italia e la Grecia sono colpiti seriamente dal fenomeno del quale non è immune nemmeno la Francia meridionale. Tutto l’ecosistema Mediterraneo subisce i prolungati periodi di siccità e presenta una marcata tendenza all’erosione. 30 milioni di ettari di terra lungo le rive del Mediterraneo sono colpiti da desertificazione, fenomeno che mette a rischio la sopravvivenza di 16,5 milioni di persone. Inoltre numerosi eventi si ripetono ormai da anni con crescente intensità: gli incendi boschivi, con la conseguente distruzione delle foreste; lo sfruttamento non sostenibile delle risorse idriche; le condizioni di crisi dell’agricoltura tradizionale caratterizzata dall’abbandono delle terre e dal deterioramento delle strutture di protezione del suolo e dell’acqua; l’allocazione delle attività economiche concentrata lungo le coste; la massiccia urbanizzazione, il turismo e l’agricoltura intensivi. Soltanto nel 2005 dal sud al nord d’Italia sono divampati ben 7.951 incendi boschivi, che hanno trasformato in cenere 47.574 ettari di territorio, di cui 21.469 ettari di boschi e foreste, un’ennesima ferita profonda che ogni anno il territorio subisce e aggrava ecosistemi fragili lasciando spazio ai fenomeni erosivi e di desertificazione. Anche nel 2005 il triste primato di territorio distrutto dalle fiamme spetta alla Sardegna (13.416 ettari), subito seguita dalla Sicilia (8.589 ha). Nelle grandi isole italiane si sono registrati complessivamente 3.734 incendi boschivi che hanno distrutto oltre 22.000 ettari di territorio, quasi la metà del totale nazionale. Al Centro e al Nord invece le regioni che lo scorso hanno subito meno perdite a causa degli incendi boschivi, le Marche e in Veneto hanno visto nel 2005 rispettivamente soltanto 38 e 31 ettari percorsi dal fuoco. L’Italia negli ultimi 20 anni ha visto triplicare l'inaridimento del suolo e si stima che oltre 10 milioni di ettari pari ad un terzo (34%) del territorio nazionale sia a rischio desertificazione. Le regioni individuate come principalmente a rischio sono Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna, in particolare nelle ultime tre i processi di degrado sono più avanzati (la Sardegna è la regione più esposta con l’88% della sua superficie a rischio) per la scarsa copertura forestale, la presenza di aree naturali denudate e la dominanza di pascoli eccessivamente sfruttati. Sono però identificabili anche ambiti geografici a rischio desertificazione localizzati sia nell’Italia centrale, come la Maremma tosco-laziale, che settentrionale, come la pianura veneta Incidenza dei territori a maggior rischio relativo di desertificazione nelle regioni italiane. Regione Sardegna Puglia Sicilia Molise Basilicata Abruzzo Calabria Emilia Romagna Lazio Marche Piemonte Campania Toscana Liguria Umbria Lombardia Valle d’Aosta Veneto Friuli Venezia Giulia Trentino Alto Adige (Fonte:Progetto CLIMAGRI) Superficie regionale (ha) 2.399.116 1.953.594 2.575.147 446.103 1.007.280 1.083.015 1.522.338 2.212.324 1.722.629 974.954 2.538.879 1.367.046 2.294.614 540.595 846.108 2.386.386 326.093 1.842.400 785.993 1.360.077 Superficie a maggior Superficie a maggior rischio rischio desertificazione (ha) desertificazione (%) 2.120.500 1.631.500 2.142.700 229.600 517.700 386.100 501.000 696.800 474.900 259.900 485.200 241.900 397.800 70.400 102.000 118.900 11.100 49.600 2.000 1.100 88 84 83 51 51 36 33 31 28 27 19 18 17 13 12 5 3 3 0 0 La Convenzione ONU per la Lotta alla Desertificazione (UNCCD), che identifica l’Italia tra i paesi affetti da desertificazione, indica nei Programmi Nazionali di Azione (PNA) lo strumento principale che i Paesi devono sviluppare per organizzare le politiche, la programmazione e la pianificazione per contrastare tale fenomeno. Il PNA italiano redatto dal Comitato Nazionale per la Lotta alla Siccità e alla Desertificazione (CNLSD) ha individuato le aree vulnerabili alla desertificazione e promuove attività di prevenzione e sensibilizzazione. La sequenza temporale qui sotto elaborata dal progetto CLIMAGRI, mostra il progressivo peggioramento delle condizioni legate all’indice di aridità dal 1951 al 2000. Variazioni dell’indice di aridità nelle regioni italiane. [Le classi indicate nelle regioni insulari e del meridione con colorazione da rossa (nero) ad arancione (grigio) comprendono le zone climatiche semi-aride e sub-umide secche maggiormente predisposte al rischio di desertificazione)] Fonte Progetto CLIMAGRI Salinizzazione L’ENEA stima un aumento di 25/30 cm del livello dei mari italiani entro il 2050 con un rischio di inondazione di circa 4.500 Km2 di coste. Nelle zone costiere l’equilibrio che si viene a formare tra la falda di acqua dolce e quella salina costituisce un “sistema “ non stabile che dipende da numerosi fattori, se il livello di base relativo del mare sale, di conseguenza varia l’equilibrio in senso negativo. Al tempo stesso se la falda acquifera dolce decresce, in seguito ad intenso sfruttamento, si rompe l’equilibrio. Tutte le coste basse italiane sono interessate, in maniera più o meno spinta, dall’ingressione di acqua marina nelle falde idriche e in molte zone ha portato ad intrusioni di cuneo salino per molti chilometri all’interno della costa. Il fenomeno essendo conseguenza della diversa densità dell’acqua di mare rispetto a quella dolce delle falde è in parte naturale, ma il concorso dello sfruttamento delle risorse idriche e dell’innalzamento del livello del mare sta avendo conseguenze disastrose di salinizzazione delle falde e dei suoli irrigati: l’acqua marina, più pesante, s’inserisce con una geometria a cuneo sotto quella dolce che, in condizioni indisturbate, si riversa in mare. Gli effetti dell’irrigazione con acque ad elevata concentrazione di cloruri per quel che riguarda il terreno dipendono soprattutto dalla durata e dalla frequenza di somministrazione di acqua alle colture e si manifestano principalmente sulle piante e sul suolo dove dimorano le colture. Lo stress da elevata salinità provoca sulle piante manifestazioni del tutto analoghe a quelle da carenza idrica. Nella maggioranza delle specie agrarie lo stress salino comporta, in linea di massima, riduzione del contenuto idrico dei tessuti vegetali con generale abbassamento del potenziale totale dell’acqua nelle varie parti della pianta rendendo più coriacee le bucce dei frutti e meno elastiche le loro pareti L’irrigazione con acqua contenente cloruro di sodio innesca un processo chimico per cui i sali inglobano al loro interno granelli di terreno o precipitano, consolidando fra loro le varie particelle solide preesistenti nel suolo. Questo fenomeno causa un aumento della fase solida complessiva nel terreno con conseguente diminuzione della percentuale degli spazi vuoti. Questa diminuzione di porosità e permeabilità del terreno provoca difficoltà nell’infiltrazione dell’acqua nel suolo. L’aumento della fase solida, provoca anche effetti sulle piante che devono spendere un’energia maggiore per estrarre l’acqua a loro necessaria dal terreno. I pericoli maggiori derivanti dall’impiego di acque salmastre per irrigazione sono quindi associati al suolo che subisce un fenomeno di salinizzazione che si traduce in alterazioni della sua permeabilità e conseguente degrado. Il fenomeno erosivo della spiaggia di Bocca d’Ombrone nella Toscana meridionale oltre a determinare una consistente riduzione dell’area del delta, minaccia la funzionalità dei canali di bonifica ed è causa dell’intrusione del cuneo salino nella piana costiera maremmana che provoca la salinizzazione dei chiari, un caratteristico sistema di specchi d’acqua frequentemente raggiunti dall’acqua marina. Nel Po in particolari condizioni di magra fluviale (cioè quando il fiume ha portate minime come nel mese di agosto) da una parte e in condizioni di alta marea dall'altra, si possono verificare lungo l'alveo fluviale delle ingressioni anche di alcune decine di chilometri dell'acqua salata del mare. Anche nel sottosuolo, soprattutto se in condizioni di scarsi apporti di acque dolci, si verifica l'avanzamento delle acque salmastre, che può essere più evidente lungo zone con caratteristiche idrogeologiche favorevoli. Agricoltura Nelle regioni aride e semi-aride la variabilità dei fattori ambientali e meteorologici è un elemento chiave nel determinare la produzione agricola. In queste regioni la variabilità interannuale del clima e, in particolare, delle precipitazioni piovose rappresenta, infatti, una componente intrinseca del sistema e il principale fattore di rischio. In Sardegna è stato osservato un incremento generale della frequenza di eventi siccitosi nel trentennio 1971-2000 con una maggiore estensione delle aree classificate a medio e alto rischio climatico nella porzione meridionale dell’isola e in quelle nordoccidentali e nord-orientali. È stato stimato come ad un aumento compreso tra 1 e 6 gradi si registra un decremento della produzione di grano duro oscillante tra il 3% e il 17%. La riduzione crescente delle precipitazioni rispetto ai valori medi climatici da un minimo del 5% ad un massimo del 30% provocherebbe un decremento delle produzioni che non supera il 9%. L’analisi mostra quindi un maggiore impatto sulle rese dell’aumento delle temperature rispetto ad una riduzione delle precipitazioni. Il trend positivo della temperatura e il decremento delle precipitazioni che gli scenari climatici futuri prospettano per il bacino del Mediterraneo potrebbero determinare un aumento del rischio climatico, riducendo in maniera significativa (sino al 24% per le condizioni più estreme considerate, aumento della temperatura di 6 gradi e riduzione dl 30% delle precipitazioni) il potenziale produttivo di questa coltura, determinando una contrazione del ciclo produttivo. Specie invasive La situazione attuale del Mar Mediterraneo presenta evidenti segnali di un processo di cambiamento in atto che sembra proiettato verso un aumento crescente della biodiversità marina dovuta all’aumento della temperatura del mare. L’Istituto per la ricerca applicata sul mare (ICRAM) ha di recente sottolineato come ogni sei mesi venga rilevata una nuova specie di pesci nel Mediterraneo per un totale attualmente di 110 nuove specie. Considerando che quelle definite 'mediterranee' sono 550, quelle straniere rappresentano già un buon 20%. Alcune di queste sono specie rare, altre più comuni, mentre una trentina hanno acquisito un valore commerciale. Con il riscaldamento delle acque dei nostri mari sono arrivate ben otto specie dal Mar Rosso, tra cui il pesce flauto e il siganus luridus, uno dei pochi erbivori nel Mediterraneo, entrato subito in competizione con i 'locali', cioè salpa e pesce pappagallo. Non sono necessariamente specie 'cattive' ma stravolgono il delicato ecosistema marino del Mediterraneo, il mare più colpito al mondo da questo fenomeno. Le specie aliene arrivano per vie naturali e artificiali, come lo stretto di Gibilterra e quello di Suez. Oppure vengono introdotte dall'uomo in modo volontario, per acquacoltura o acquariologia, come il fenomeno della undaria pinnatifida tipo di alga arrivata nel 2000, all'interno delle ostriche giapponesi importate e presenti in molte aree di allevamento, come nei mari di Taranto. Adesso si e' propagata anche nella laguna di Venezia, perchè ha trovato condizioni di diffusione favorevoli, lungo le pareti dei canali, eliminando un'alga autoctona. L’introduzione di queste specie invasive avviene anche in modo involontario, attraverso le acque di zavorra delle navi cisterna, incrostazioni degli scafi o parassiti ospiti di specie importate. Come e' successo per le alghe killer dell'anno scorso in Liguria e trasportate con l'acqua di zavorra, la cui fioritura crea problemi ai mitili e quindi direttamente all'uomo. Ad impazzare sui fondali di tutta Italia, in particolare al Sud, nel golfo di Salerno e nello stretto di Sicilia, e' diventata la Caulerpa racemosa, parente della taxifolia 'killer', che assomiglia a piccoli grappoli d'uva verde, con acini di 3 mm di diametro molto più invasiva dell'altra con un 'corpo' ridotto, le fronde più piccole e per questo meno evidente nel paesaggio marino. Ma si propaga, anche nelle acque più fredde, fino alla Liguria, grazie alla sua aggressività riproduttiva, infatti rispetto alla taxifolia, che si riproduce per scissione, la racemosa lo fa tramite le spore. C’è poi la vongola filippina, ugualmente commestibile rispetto alla nostrana, che ha ormai sostituito del tutto, in particolare nell'alto Adriatico, la vongola autoctona. In totale le specie aliene presenti oggi in Mediterraneo sono 750 tra cui il percnon gippesi, granchio, segnalato per la prima volta 5 anni fa nell'isola di Linosa, che ora abbonda in tutti i mari italiani. E’ stata agevolata l’introduzione di specie quali i barracuda, Sphyraena chrysotaenia, e Sphyraena flavicauda, parenti dell’autoctona Sphyraena sphyraena , altresì conosciuta come Luccio di mare; la Ricciola fasciata (Seriola fasciata), la Ricciola atlantica (Seriola rivoliana) e la Ricciola carpenteri (Seriola carpenteri), ritrovate nel Tirreno meridionale e nello stretto di Sicilia e che si vanno ad aggiungere all’unica specie autoctona. I cambiamenti climatici, oltre ad aver favorito la comparsa di organismi alloctoni, ha permesso anche l’ampliamento (o la riduzione) dell’areale di diffusione di alcune specie indigene del bacino del Mediterraneo. Un chiaro esempio è quello del Pomatusus che, fino a qualche anno fa, veniva avvistato sporadicamente nel Mar Ionio e nell’arcipelago Toscano: attualmente la sua distribuzione è ampliamente testimoniata da catture avvenute a Castiglione della Pescaia, Punta Ala, Viareggio, La Spezia e Genova, facendo registrare uno spostamento latitudinale di oltre 3° nord. Lo stesso è capitato per l’Aguglia imperiale che ha ampliato il suo areale fino al Tirreno settentrionale. Temperatura di superficie (SST) del Mediterraneo e relativa anomalia del mese di Luglio 2003, IBIMET