San Ranieri Patrono di Pisa - Associazione Amici di Pisa

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San Ranieri Patrono di Pisa - Associazione Amici di Pisa
San Ranieri Patrono di Pisa
SAN RANIERI PATRONO DI PISA
a cura di Gabriele Zaccagnini
A sinistra: una celebre raffigurazione di San Ranieri ad opera di Giovan Battista Tempesti
(Volterra , 1729-Pisa,1804)
A destra: “Viaggio di ritorno della Terrasanta” opera di Andrea di Bonaiuto (XIV sec.), Pisa,
Camposanto Monumentale
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L’unica fonte attendibile su san Ranieri è la Vita scritta dal canonico Benincasa, amico e
discepolo del santo. Il testo ci è pervenuto in due redazioni o stesure. La prima è testimoniata
dal manoscritto C181 dell’Archivio Capitolare di Pisa, la seconda, più breve e posteriore, dal
ms. cartaceo Ar 7/23 della Biblioteca del Convento della Ss. Trinità dei padri Cappuccini di
Livorno. Della prima redazione esistono numerose trascrizioni e traduzioni, a stampa e
manoscritte.
Pur trattandosi di un testo agiografico, il cui scopo principale è quello di tracciare un profilo
spirituale del santo, la Vita Raynerii ci consente di definire, con un buon grado di sicurezza
storica, le tappe dell'esistenza terrena di san Ranieri.
Il padre si chiamava Glandolfo e la madre Mingarda. Il cognome, Scaccieri, compare per la
prima volta nel sec. XVI, insieme al cognome della madre, Buzzaccherini, ma entrambi non
hanno alcun riscontro documentario. La Vita non ricorda nemmeno l’anno di nascita, tuttavia
l’analisi antropologica condotta sui resti mortali del santo dal prof. Francesco Mallegni, nel
2000, ha accertato che Ranieri è vissuto 40-45 anni. Ora, poiché conosciamo la data di morte,
fissata dal Benincasa nel quindicesimo giorno delle calende di luglio dell’anno 1161 (stile
pisano), cioè il 17 giugno 1160, ne consegue che l’anno di nascita deve essere fissato fra il
1115 e il 1120.
Il padre era un mercante e risiedeva nel quartiere di Kinzica. Non aveva fratelli ma una sorella,
di nome Bella. Della giovinezza del santo sappiamo poco o nulla. Nemmeno Benincasa,
probabilmente, ne sapeva molto e comunque ha preferito tacere, anche perché, forse, non era
una storia molto edificante. I genitori, per esempio, lo incolpavano di passare troppo spesso la
notte fuori casa, a gozzovigliare per le strade di Pisa. Di certo Ranieri amava la bella vita e la
compagnia dei suoi coetanei. Era un abile suonatore di ghironda, uno strumento a corda simile
a un violino, in cui una ruota ricoperta di pece, azionata da una manovella, produceva il suono
sfregando le corde, la cui altezza variava grazie ad alcuni tasti che si trovavano sul corpo dello
strumento. Benincasa ci descrive il giovane Ranieri nell’atto di cantare accompagnandosi con la
“lyra seu rota”, la ghironda appunto.
Per la conversione di Ranieri fu determinante l'incontro con Alberto Leccapecore: ne è
perfettamente consapevole lo stesso Benincasa, che dedica ad Alberto un lungo capitolo della
Vita di Ranieri, una vera e propria Vita nella Vita. Alberto era un nobile còrso che, dopo aver
assistito alla morte del fratello durante uno scontro armato, decise di abbandonare tutti i suoi
beni e di darsi a una vita di penitenza. Ranieri lo vide per la prima volta mentre si trovava a
casa di una parente in un luogo detto Arsiccio, un toponimo generico (allude a un terreno
bruciato, arso), tradizionalmente identificato con la zona corrispondente all’attuale Cisanello, ma
potrebbe ragionevolmente collocarsi anche dalla parte opposta della città, verso la zona di
Barbaricina. Appena vide Alberto, Ranieri gli corse dietro per parlargli, ma non riuscì a
raggiungerlo che in S.Vito. E qui avvenne il colloquio che cambiò la sua vita. Alberto, fra l'altro,
invitò Ranieri e recarsi dal priore di S.Jacopo “in Orticaria”, un sacerdote di provata esperienza,
per una completa confessione dei suoi peccati, in seguito alla quale visse un periodo di
profondo travaglio interiore, che i genitori pensarono fosse dovuto a infermità mentale. In
seguito, pur profondamente trasformato, riprese la vita consueta, intensificando però le pratiche
religiose. Quindi partì per l'Oriente, “per ragioni di commercio e di guadagno”, scrive Benincasa,
cioè come mercante, professione che, giunto a destinazione, continuò ad esercitare per quattro
anni. Poi venne la chiamata divina e abbandonò tutto per seguirla, recandosi prima a Tiro e poi
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a Gerusalemme. Appena arrivato nella Città Santa, andò nella cappella del Golgotha, all’interno
della basilica del Santo Sepolcro, dove si spogliò delle ricche vesti e indossò l’abito del
penitente, cioè la pilurica o sclavinia. Era un venerdì santo, probabilmente del 1140. Da quel
momento si dedicò alla preghiera e alla meditazione sulla vita di Gesù. Visitò anche i principali
luoghi santi, come Betlemme, Nazareth, il Tabor, il Monte della Quarantena, ma per gran parte
del periodo trascorso in Terrasanta preferì risiedere presso la basilica del Santo Sepolcro,
dedicandosi giorno e notte alla preghiera.
Dopo molti anni, Ranieri sentì il bisogno di tornare a Pisa per raccontare ai concittadini la sua
esperienza spirituale, per comunicare loro ciò che aveva udito dalla viva voce di Dio e per
assumere, in loro favore, il ruolo di intercessore, di predicatore e di pacificatore. Poi venne un
esplicito mandato divino e la decisione divenne definitiva.
Così si imbarcò ad Accon sulla galea di Ranieri Bottaccio, che era stato inviato dal Comune
pisano come ambasciatore presso il califfato d’Egitto, e tornò a Pisa. Era il 1154.
Non si può affermare, sulla base della Vita, che Ranieri, al ritorno da Gerusalemme, abbia
avuto un’accoglienza trionfale da parte dei pisani. Certamente già prima del suo arrivo si era
sparsa la voce della sua santità: Benincasa, infatti, afferma che a Gerusalemme, negli ultimi
tempi del suo soggiorno, Ranieri incontrava spesso i pisani, parlava con loro e chiedeva notizie
della sua città. E chiaro che costoro, tornati a Pisa, raccontavano certamente la storia del loro
concittadino Ranieri che si era distinto per una vita esemplare. Tuttavia la Vita dice solo che il
santo fu accolto con grandi onori dai Canonici del Duomo, che lo invitarono a pranzo e
ascoltarono, riuniti in Capitolo, un suo discorso.
Per un anno fu ospitato dai monaci vittorini di S. Andrea in Kinzica. Qui, dodici mesi esatti dopo
il suo arrivo, cominciarono improvvisamente ad arrivare i primi devoti, attirati dal manifestarsi
dei suoi poteri taumaturgici. Poi, per ispirazione divina, decise di tornare in S.Vito, dove era
avvenuto l'incontro con Alberto che aveva cambiato la sua vita. Non vi entrò, però, come
religioso, né come converso o oblato, ma rimase laico.
Trascorse gli ultimi anni della sua vita dedicandosi intensamente a una predicazione di
carattere morale-esortativo e ricevendo, in S.Vito, un numero enorme di devoti e ammiratori,
che si recavano da lui per ascoltarlo – spesso, dice Benincasa, stavano davanti a S.Vito tutto il
giorno, anche durante la calura estiva – sperando magari di beneficiare di uno dei
numerosissimi miracoli che lo resero famoso.
Alla taumaturgia di Ranieri è dedicato il Libellus miraculorum inserito da Benincasa nella
seconda parte della sua opera, costituita dal racconto di 136 miracoli, gran parte dei quali
avvenuti dopo la morte. Si tratta soprattutto di guarigioni, ma c’è anche un buon numero di
miracoli a favore di naviganti. I beneficiari sono prevalentemente populares, cioè rappresentanti
dei ceti minori, lavoratori, artigiani e professionisti. Pochi, invece, i nobili. Molti miracoli
avvengono per mezzo dell’acqua, benedetta da Ranieri mentre era in vita e dai custodi della
sua tomba, in cattedrale, dopo la morte.
Benincasa non racconta come avvenne la morte di Ranieri, ma fa un resoconto abbastanza
accurata delle solenni esequie, presenti l'arcivescovo Villano, tutto il clero pisano e una folla
enorme, che si conclusero con la sepoltura. Era il 17 giugno 1160.
L’esperienza spirituale di Ranieri si colloca in un momento storico, il secolo XII, durante il quale
i laici, dopo quasi un millennio di marginalizzazione, riscoprirono il loro carisma, la loro funzione,
la loro identità di membra vive della Chiesa, sentendo di nuovo il bisogno di pregare, di
avvicinarsi alla Bibbia (soprattutto ai Vangeli), di impegnarsi nell’apostolato, di partecipare
attivamente alla liturgia e alla vita della Chiesa. Di questa grande “rivoluzione” Ranieri, insieme
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ad Alberto, è forse il più precoce e autorevole testimone. Egli scelse una via alternativa alla vita
religiosa non per una forma di dissenso o di critica ma semplicemente perché questa non era la
sua vocazione. E' un fatto accertato, in ogni caso, che la spiritualità monastica tradizionale non
rispondeva più alla domanda di rinnovamento proveniente dalla società di quel periodo,
soprattutto dai ceti inferiori, anche perché la conversatio morum, fondamento della vita
monastica, era allora intesa esclusivamente nell’accezione specifica di “cambiamento di vita” e
postulava la fuga dal mondo e l’ingresso in monastero, dove era possibile realizzare gli altri due
obbiettivi del percorso spirituale benedettino, la stabilitas loci e l’oboedientia. Una fuga che si
fondava, per molti, sul disprezzo delle cose terrene, sul contemptus mundi. In Ranieri ci
troviamo davanti a un cambiamento di prospettiva: dal colloquio con Alberto in poi, la sua vita fu
sì una graduale e irreversibile conversatio morum, ma nell’accezione evangelica di metànoia,
che significa ravvedersi, cambiare modo di pensare e di vivere, non cambiare stato civile.
Questo modo di convertirsi non richiedeva più la fuga dal mondo ma l’impegno nel mondo e non
si fondava sul disprezzo della realtà, del creato e della società, ma solo sul ripudio di ciò che
nella società e nell’uomo era contrario al progetto di Dio e agli insegnamenti di Gesù.
Solo cinque anni dopo la morte ebbe luogo la prima traslazione, in un sepolcro donato dal
Comune, segno della crescente popolarità del santo e della devozione dei pisani. Il dies natalis,
cioè il giorno della morte di Ranieri diventò subito una festa importante per la Chiesa pisana.
Già nella Vita si ricorda che la ricorrenza annuale del 17 giugno era preceduta da una
celebrazione vigilare.
Nel secolo XIII si moltiplicano i “segni” della devozione a san Ranieri: chiese e oratori, ospedali,
confraternite attestano l’ormai avvenuto radicamento del culto e la sua progressiva espansione.
Nel 1286 il Comune interviene per regolamentare la festa. Nel Breve Pisani Communis di
quell’anno si stabilisce l’obbligo di osservare la ricorrenza del 17 giugno.
Agli inizi del secolo XIV, fu costruito un nuovo e grandioso sepolcro, capolavoro di Tino di
Camaino, completato nel 1306. L’opera, che era costituita da un sarcofago tripartito a
bassorilievo poggiato su mensole, sovrastato da un frontone, fu collocata originariamente nella
parete sud del transetto destro, ed è attualmente conservata nel Museo dell’Opera.
Alla seconda metà del secolo XIV risalgono le “Storie di san Ranieri” affrescate nel
Camposanto Monumentale da Andrea di Buonaiuto da Firenze e, dopo la sua morte (1378), da
Antonio di Francesco, meglio noto come Antonio Veneziano, con cartigli che ne illustravano il
significato. Le scene del ciclo di san Ranieri affrescate su due registri da Andrea di Bonaiuto,
lungo il corridoio sud, avevano per soggetto “La conversione”, “San Ranieri in Terra Santa”, “Le
tentazioni e i miracoli in Terra Santa”; quelle di Antonio Veneziano riguardavano “Il ritorno a
Pisa”, “La morte e i funerali” e, infine “I miracoli postumi”. Due grandi sequenze, che seguono
esattamente lo schema della Vita, percepita quindi come divisa in due parti: conversione –
viaggio in Terrasanta; ritorno a Pisa – morte e miracoli. Se ne discostano principalmente per il
racconto del miracolo dell’oste disonesto, avvenuto, secondo una tradizione risalente proprio al
periodo in cui furono eseguiti gli affreschi, a Messina o Gaeta.
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sinistra:vecchio
del
Duomo
di
Pisa.
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