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Pubblicato il 24 Novembre 2012
Libri con musica -
Le meditazioni di Stevens
recensione di Sergio Stancanelli
Wallace Stevens, Il mondo come meditazione
Ugo Guanda editore, Parma marzo 2010, 224 pagine, 9.50 euro
Chiesto per recensione e ricevuto via posta il mattino del 7 dicembre 2011, iniziai a leggere questo
libro il giorno stesso, per terminarlo soltanto nel pomeriggio del 27 gennaio di quest’anno. Poco
avendovi capito e conseguentemente non essendo stato in grado di apprezzarlo, attesi di poter avere
la consulenza della mamma dei miei figli veronesi, Angela, a suo tempo autrice di poesie a mio avviso
all’altezza dei più qualificati poeti italiani nostri contemporanei (ma ribelle a sottoporle ad un editore), e
politicamente orientata (a sinistra). A tutt’oggi non essendomi stato possibile ottenere una sua
valutazione, né disponendo di possibili altre, senza ulteriormente attendere adempio all’impegno
assunto con l’editore, fosse pure limitandomi a segnalare, su una testata musicale, i passi che
abbiano riferimento con la musica.
Wallace Stevens è considerato uno dei massimi poeti statunitensi del ‘900. Perché feci richiesta di
questo libro? Perché il titolo mi fece ipotizzare una trattazione in forma poetica dei segreti della umana singola intimità di
pensiero. Un testo filosofico, insomma. Massimo Bacigalupo, in merito al quale non ci vengono fornite informazioni
biografiche (di Bacigalupo conosco Niccolò, poeta dialettale e soprattutto commediografo della seconda metà dell’800,
autore della celebre di “I manezzi pe’ majà ‘na figgia”), ha realizzato il volume raccogliendo e traducendo «tutte le poesie che
il poeta scrisse negli ultimi sei anni della sua vita» (nato in Pennsylvania nel 1879, morirà in Connecticut due mesi prima di
compiere i 76 anni) nonché introducendole con un ampio saggio titolato «Un cittadino del cielo eppure di Roma» nel quale
precisa che le poesie (le quali sono 57) vanno dall’ottobre 1949 - «Angelo circondato da paesani» - al 2 agosto 1955, giorno
del decesso - «Abbecedario di buonsoldato».
Cominciando dall’introduzione del curatore, segnalo: «Nell’organizzazione complessiva dei Collected poems (1954), la
dicitura The rock che ne è la sezione conclusiva sembra rispondere simmetricamente alla raccolta d’apertura che porta il
titolo Harmonium (1923)». “La roccia” (maggio 1950) è il titolo della poesia più lunga e più antica delle venticinque di quel
periodo che dall’autore furono raccolte nella sezione cui diede lo stesso titolo “La roccia” inserita nella “Raccolta di poemi”
pubblicata nell’ottobre 1954. “Harmonium” è il nome d’uno strumento musicale d’uso casalingo ma anche chiesastico, affine
all’organo ma di dimensioni modeste e per lo più portatile, capace di armonie semplici o complesse, che l’autore assume a
contrasto con la roccia, masso nudo di pietra che inamovibile emerge dal terreno.
L’angelo della realtà è la roccia reinventata e nasce dal bisogno dell’uomo di darsi una ragione del proprio esistere. «La
poesia dello Stevens aveva da sempre intessuto variazioni su questo tema. In particolare, la roccia compariva già nel
poemetto L’uomo con la chitarra blu (1937) e ancor più estesamente nell’altra poesia degli anni Trenta Come vivere, cosa
fare. Ancora, attorno al 1946 il poeta aveva dedicato alla roccia una sezione del poemetto Credenze d’estate». «Stevens
dunque propone versioni diverse ad altezze diverse dei temi a lui cari, tira fuori voci diverse nel suonare melodie analoghe su
l’harmonium».
In questa introduzione del curatore si incontrano Ezra Pound, che il cronista conobbe personalmente e in compagnia del
quale venne fotografato a Rapallo nel 1966, autore dei «Canti pisani» che dovrò tentar l’impresa di provare a rileggere, un
primo tentativo alcuni decenni addietro avendo abbandonato poi che non vi capivo alcunché. Ed Henry James, uno fra gli
scrittori miei prediletti. E l’impagabile Emily Dickinson. E «un Ippocrene americano» che corredato di articolo maschile in
vero non si lascia capire, Hippokrène essendo, se la scarsa conoscenza del greco antico non mi inganna, fontana del
cavallo, nella mitologia la fonte dell’Elicona sacra alle Muse e ad Apollo, fatta scaturire da un calcio di Pègaso. Nelle
Annotazioni finali troverò anche Eugenio Montale, che personalmente conobbi nella sua abitazione in Milano nel 1971.
In Per un vecchio filosofo a Roma lo Stevens evoca il suo mèntore George Santayana, e già nella prima delle sedici strofe
«tira fuori gli archi», come un altro vecchio cantore del bello, Richard Strauss nelle sue “Metamorfosi” sul tema della marcia
funebre su la morte di un eroe, secondo movimento della Sinfonia eroica. E’ una poesia delle cose ultime, «il celeste
possibile», di cui già si odono i canti: le campane di Roma. La conclusione si intitola Del mero essere, titolo astratto per il
tema della felicità: che non è la ragione a darci, bensì la consapevolezza di esistere. Oltre l’ultimo pensiero, il canto
incomprensibile d’un uccello su un ramo di palma – la lingua del mondo, l’immaginazione come realtà.
La stessa contemplazione del proprio operato assume forma concisa e sobria (La poesia che prese il posto di un monte): il
piacere della creazione in atto viene espresso con asciutta potenza. Lo Stevens propone dunque delle versioni dei temi che
gli son cari, ad altezze diverse, «tira fuori voci diverse nel suonare su l’harmonium melodie analoghe». Non cede, il
Bacigalupo, alle preposizioni inesistenti, e scrive “lo scorrere di Il fiume dei fiumi” (titolo di una poesia composta su
commissione di Renato Poggioli). Trascura però che Terra e Sole son nomi propri. Ed eccoci alle poesie: la prima delle
quali, Angel surrounded by paysans come già detto, troverà in pagina 199 spiegazione della parola francese nel titolo (non
però di Earth, Terra, scritto e ripetuto in due versi successivi, in inglese e in italiano, come nome comune).
A questa poesia per così dire introduttiva, seguono i venticinque componimenti del gruppo “La roccia”, il quale prende titolo
dalla ventesima di tali poesie, che per inciso vede il nome proprio Moon, Luna, scritto con l’iniziale minuscola nel titolo e tre
volte nel testo, tanto in inglese che in italiano (mentre al pianeta Saturno viene riconosciuto lo status di nome proprio). Ancora
Earth, Terra, trattati come nomi comuni, tanto nell’originale quanto nella traduzione, nella prima poesia del gruppo, An old
man asleep, e nella seconda, The Irish cliffs of Moher, mentre nella quinta, dal titolo non tradotto Lebensweisheitspielerei,
nella sesta, The hermitage at the center, e nella settima, The green plant, ad esser scritto con l’iniziale minuscola è Sun,
Sole. Nell’ottava, Madame La Fleurie, minuscoli abbiamo due volte Earth ed i corrispondenti Terra, ed una volta Moon e Luna.
Passiamo alla musica con la già menzionata L’eremo al centro: «Le foglie su l’asfalto danno un suono / - quanto soffice
l’erba su cui la desiderata / giace nella temperatura del paradiso - / come storie raccontate ieri l’altro / - lustra in nudità
naturale / ella intende i tintinnaboli - / e il vento ondeggia come un grande vacillamento / - di uccelli evocati da un Sole più
grande, / uccelli più ingegnosi, che sostituiscono – / il quale ad un tratto si disfa e scompare / il loro cinguettio comprensibile
/ all’incomprensibile pensiero » ecc. Ritorna la musica con Ad un vecchio filosofo in Roma, nona poesia del gruppo (che
contiene il concetto geometrico di due parallele che in una prospettiva convergono): «… uomini che rimpiccioliscono nelle
distanze dello spazio, / cantando con fievole e sempre più fievole suono / l’inintelligibile assoluzione della fine…», «I suoni si
fanno strada. Le campane vanno ripetendo nomi solenni / in cori, ed in corali di cori, / perché … alcuna solitudine dei sensi /
(non) possa darti più dei loro accordi particolari». Nella successiva, Vacancy in the park: «… E’ come una chitarra lasciata sul
tavolo / da una donna che se n’è dimenticata ».
La dodicesima, Two illustrations that the world is what you make of it, si fa notare solo per tre Sun, e altrettanti Sole, nonché
una Luna e la corrispondente Moon, scritti minuscoli. Nulla da segnalare nella pur lunga Prologues to what is possibile,
mentre in Looking across the fields, oltre a due Sole e due Sun declassati a nomi comuni, abbiamo di musica solo che il
«vento, progressivamente alzandosi, fa un suono / come l’ultimo ammutolire dell’inverno…». Siamo a Song of fixed accord,
Canzone ad accordo fisso, dove la musica sta solo nel titolo, il testo dovendosi menzionare invece per Suns, due Sun, i Soli e
due il Sole, tutti minuscoli. E’ la volta della poesia che dà titolo al libro (nella edizione italiana), The world as meditation,
introdotta da una epigrafe firmata Georges Enesco (non tradotta): «Ho trascorso troppo tempo impegnato col mio violino, e a
viaggiare. Ma nulla ha mai interrotto in me l’esercizio essenziale del compositore – la meditazione. Io vivo in permanenza un
sogno che non s’arresta né di notte né di giorno».
A parte che Sun e Sole son ancora una volta trattati quali nomi comuni, l’argomento, che come ritornerò a dire più avanti è il
ritorno di Ulisse a Penelope, ad una prima lettura mi ha ricordato il Saroyan di “Gente magnifica” che le mie amiche d’allora
Lolita, futura chitarrista, e Luisella, futuro medico, mi fecero leggere ventenne: «Gli alberi sono mondi». Ma l’originale non
dice «worlds», bensì «mended»: termine che ignoro, ma che devo supporre sia aggettivo che significhi «spogli». I “mondi”
sostantivo dunque non c’entran per niente. In Long and sluggish lines si legge: «Could it be that yellow patch, the side / of a
house, that makes one think the house is laughing», espressione che curiosamente anticipa il titolo del film del 1976 “La
casa dalle finestre che ridono” di Pupi Avati. Vi si legge anche «forsythia», «forsizia», altro termine che ignoro (questa volta
anche in italiano.
Nella successiva, A quiet normal life, non senza che «generosi prìncipi» o «principii stabiliti dal freddo» sian chiariti
dall’originale «notions», ritorna la musica con «E il cuore più vecchio e più caldo era tagliato / da generosi princìpi stabiliti
dalla notte: / tardi e insieme solo, sopra gli accordi dei grilli, / balbettante ciascuno l’unicità del suo suono». Anche qui, che si
tratti di «principii» e non di «prìncipi» lo chiarisce l’inglese «notions». Un concetto chiaramente e indubitabilmente filosofico
arriva con Final soliloquy of the interior paramour: «God and the imagination are one». La successiva è The rock, in tre parti
per quattro pagine. «Seventy years later: I suoni della chitarra non sono più». E tre volte sun e tre volte sole.
In Saint Armorer’s church from the outside (questo titolo sembra la didascalia d’una fotografia su cartolina) trovo un’altra
parola che mi è incognita, «sommacco», che lo Zingarelli m’informa essere un arbusto che contiene tannino, «Matisse a
Vence» (che visitai con Claudio Ferrara nel nostro viaggio in Côte d’azur cui già accennai in un altro articolo), e… sun e sole.
Di luna (moonlight) è, quattro volte in inglese e altrettante in italiano, il chiaro in Note on Moonlight (la maiuscola è mia);
Saturno (Saturn) ha la maiuscola che gli spetta ma è spacciato per stella mentre è un pianeta. Per un pianeta invece vien
spaccciato il Sole (anzi: sole, tre volte, e sun, tre volte) in The planet on the table, dove a sentir le Annotazioni, pubblicate in
fondo al volume sì che se vuoi consultarle devi continuamente andar con le pagine avanti e indietro, Ariel, lo spiritello
impalpabile della shakespeariana “La tempesta”, è nome assonante con quello del poeta (?), e «le poesie non sono che
altrettanti frutti del sole» (sic). «Stella della sera a ponente» (in Reality is an activity of the most august imagination) è
evidentemente Venere: … che però non è una stella, bensì un pianeta.
Ancora sole, e sun - una sola volta per ogni lingua - , in The river of rivers in Connecticut. Tre volte per lingua invece in Not
ideas about the thing, but the thing itself, dove «Quello stento grido era / un corista il cui SOL precede il coro», dove Sol è la
nota musicale, non il Sole: e qui il cronista si chiede se il curatore sia digiuno di musica o abbia voglia di scherzare oppure
qualche ragione che sfugge vi sia per tradurre «c» che nei paesi britannici è DO, anzi DO minore, con Sol, che in inglese
invece è G. Questa è l’ultima poesia del gruppo “The rock”, dopo di che si passa ad “Opus postumum” costituito da trentuno
poesie, la prima delle quali, The sick man, cinque strofe di tre versi ciascuna, è tutta musica, ragion per cui la riporto
integralmente.
L’uomo malato. «Bande di negri paiono vagare nell’aria, / nel sud, bande di migliaia di uomini neri, / suonando armoniche
nella notte, o adesso chitarre. / Qui nel nord, tardi, tardi ci sono voci di uomini, / voci in coro, che cantano remote e profonde,
senza parole, / cori vaganti, movimenti lunghi e giri di suoni. / E in un letto in una stanza, solo, un ascoltatore / attende
l’unisono della musica delle bande vaganti / e i cori lontananti, lo aspetta e immagina / le parole d’inverno in cui le due cose
s’incontreranno, / nel soffitto della stanza distante in cui lui è steso, / l’ascoltatore, ascoltando le ombre, vedendole, /
scegliendo da dentro di sé, da tutto ciò che ha in sé, / una lingua per un tranquillo addio a se stesso, addio, addio, / le pacate,
beate parole, ben intonate, ben cantate, ben dette».
Solo un «sole», sunlight nell’originale, da segnalare, da lamentare voglio dire, in As at a theatre; nulla di nulla in The desire to
make love in a pagoda, né in Nuns painting waterlilies, né in The course of a particular ; non “Earth” bensì «land», questa
volta è proprio “terra”, il campo da semina, in Americana; come pure in How now, o brightener, dove però barbaglia un «sole»
(sparkle of sun) ; e ancora un «sole» minuscolo, sun, in A discovery of thought, e in The dove in spring, e in Farewell without
a guitar, dove musica c’è soltanto nello strumento del titolo. Un «sole» (sun), varî «soli» (suns) e varie «lune» (moons), oltre
a un pianeta «terra» (earth), in The sail of Ulysses, la più lunga della raccolta - in dieci parti, quasi sette pagine - , dov’è citato
un «Eden a Morningside» che fuor dell’immaginario non so locare, e «astrazioni plantagenete» che fuor da le femmine della
dinastia angioina di ricordo liceale, che tenne il trono britannico da la metà del secolo XII sin verso la fine del XV, non so
interpretare. Un accenno musicale nella parte VI: «La mente rinnova il mondo in un verso, un brano di musica, un paragrafo»
(«a passage of music»: un frammento).
In Presence of an external master of knowledge ancòra la vela di Ulisse che riecheggia René Descartes: «Conosco, dunque
sono». Pallidi, incerti accenni di musica in The role of the idea in poetry («Il padre non viene a ornare il canto. I patriarchi della
verità sono padroni del canto… ») e in The souls of women at night («… cammino senza mantilla / nella notte dai molti
corni… »), dove m’imbatto, prima volta nella mia vita, in «catasorelle», non so se “sorelle dabbasso” o “sorelle pressoché”, e
dove «to know» per due volte è tradotto “sapere”, significato che gli appartiene, ma non in questi casi dove va inteso per
“conoscere”. Musica incerta in A child asleep in its own life: «… vicino abbastanza per destare / gli accordi (the chords)
stanotte sul tuo letto». «luna» (moon) anziché Luna (Moon) nella prima di Two letters, e in Reality is an activity of the
imagination già citata; «terra» (earth) in Conversation with three women; «sole» (sun) in A clear day and no memories. Ma
«affatto» usato correttamente (at all) in As you leave the room.
Né citazioni da riportare né rilievi da fare per Local objects (salvo la traduzione ampiamente da rivedere – a questo proposito,
devo avvertire che alcune delle versioni riportate sono del cronista), per Solitaire under the oaks, per On the way to the bus, e
per A mythology reflects its region.
Chiudiamo con le ultime musiche. Dinner bell in the woods: «Affrontava fantasmi quando suonò il gong. / Allora il picnic dei
bimbi arrivò di corsa. / … I più piccoli / vennero al tavolo tintinnando su l’erba / dove le donne scampanavano con i bicchieri».
Artificial populations: «Questa popolazione è… / come angeli posati su un campanile rustico…». July mountain: «Viviamo… /
in cose dette bene in musica, / al pianoforte e con parole / come in una pagina di poesia… ». Of mere being: «Un uccello
dalle piume d’oro / canta su la palma… / … un canto strano… / L’uccello canta. Le piume splendono». The region november:
«… le sommità degli alberi che ondeggiano / profondamente e sonoramente… ». Abbecedario di buonsoldato: «Nel tumulto
dei cimbali resto silenzioso» (non “fermo” come scrive il traduttore). E Banjo boomer, dove musica c’è soltanto nel titolo.
Diamo, quand’è il momento di congedarci, un’occhiata alle Annotazioni che, prima d’una Cronologia delle poesie, e
ovviamente dell’Indice, concludono il volume. Sono sedici pagine intense per cultura, competenza, chiarificazioni, e a volte
distrazioni e chiacchiere volte a giustificare e glorificare testi astrusi che non sono poesia bensì prosa dove ogni po’ si va a
capo e tranquillamente si potrebbe non farlo. Dopo una parte generica su la lingua inglese e le altre lingue - soprattutto il
francese - usate dal poeta («Già Whitman usava liberamente un suo francese. In Pound ed Eliot le parole straniere sono dei
prestiti che presumono la conoscenza della fonte. Stevens invece fa un uso figurativo e sonoro della parola, in uno spartito
musicale. Non mancano i giochi di parole: “c” nel senso di terza lettera dell’alfabeto e nel senso di nota musicale do» - che
però come abbiamo visto il Bacigalupo traduce distrattamente con sol - ), il curatore passa a occuparsi della sintassi («E’ di
solito lineare, ma nelle poesie di tono elevato l’orchestrazione di ripetizioni e parallelismi è assai complessa e sonora: «In
choruses and choirs of choruses» - To an old philosopher), del metro (dove fra l’altro per esemplificare l’esametro cita una
pentapodìa, e esemplifica sette piedi con un verso di sei), e dei pronomi (problema che per tutti coloro che scrivono investe la
prima persona singolare, sostituita - anche dal cronista - per lo più con la prima plurale).
Alla parte generica segue l’analisi delle singole poesie, riferir su la quale richiederebbe un altro libro. Non rinuncio però a
citare il tema dell’uomo ormai anziano che contempla la propria opera (Philosopher, Prologues, World) e la metafora
dell’amore come accordo col mondo (World). Nell’autoritratto del vecchio poeta (An old man asleep), «il fiume diventa “R” per
una sorta di nominalizzazione della realtà. Il vecchio pensa cose ma anche parole e suoni». Sfugge qui, al curatore – che per
due volte traduce un maestoso “river” con l’umile “rivo” (ruscello, per cui più appropriato sarebbe stato “brook”, o semmai
“stream”) – come del resto - e soprattutto - per The river of rivers in Connecticut (dove l’unica notazione del Bacigalupo è che,
«come lo Stevens avvertì in una lettera a un musicista, la “e” di Connecticut è muta») – , il richiamo, ovvio e banale quanto si
vuole ma inevitabile, con la canzone-spiritual di Oscar Hammerstein II musicata da Jerome Kern “Ol’ man river” dal musical –
opera lirica a mio giudizio – “Show boat” del 1927.
«Ritorna la presenza della città con le campane che danno voce alla pietà» in To an old philosopher, «Ogni distico propone
una metafora delle orme nella neve: chitarra, barca, sentimento» in Vacancy in the park, «La colomba canta come il sole»
(sic, ma sono ben dieci, qui, in tutto, i “soli”, cui vanno aggiunti una “luna” e una “terra”) e «… c’è un bisticcio su accordo
come conformità e come armonia musicale» in Song of fixed accord, «… la meditazione ininterrotta di cui dice l’epigrafe del
compositore rumeno Enesco, punto d’incontro dell’uomo col cosmo» in The world as meditation, «La forza del pensiero trova
riscontro nel canto dei grilli… » in A quiet normal life, «Una scena di risveglio parallela al risveglio della primavera (cfr.
Christian Sinding, ndc.) centrata non su la luce ma sul suono» e «… il grido dell’uccello è preludio, l’universo che parla alla
coscienza, sino all’epifania dei cori intorno al Sole (la maiuscola è del cronista). L’uccello è il corista che dà il LA (non il do,
né tanto meno il sol) ai compagni, l’annuncio di una musica: è come un ritrovare e riconoscere la realtà» in Not ideas about
the thing, «A l’uomo del titolo, che ricorda l’old man asleep, sembra di sentire e vedere delle bande di musicisti neri sudisti, e
di udire dei lenti cori di nordisti. Nell’attesa che le due musiche si incontrino (cfr. Debussy, “La matin d’un jour de fête”, in
“Images III”, ndc.) rende addio alla vita e alla propria esistenza» in The sick man, «Un congedo autunnale. L’uomo con la
chitarra blu invecchiato non è del tutto sconsolato» in Farewell without a guitar, «Apologo su la mente presa dai fantasmi, e
risvegliata dalla campana» in Dinner bell in the woods, «Il suonatore del titolo allitterante intona la sua canzone al gelso» e
«Il ritornello ripetuto in ogni strofa chiede di vivere ancora un po’. L’incertezza è fecondità e canto» in Banjo boomer, «Il mero
essere è perdersi completamente in una immagine, la palma con l’uccello d’oro (cfr. Luigi Capuana, ndc.), e in un canto.
Questo, non la ragione, basta per dare la felicità: intuizione, immaginazione» in Of mere being.
Crediti fotografici: Aldo Stancanelli
Nella miniatura in alto: la copertina del libro
Sotto: il Sommacco e la Forsythia, piante ornamentali sconosciute al recensore