Hillary-Trump, scintille e menzogne

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Hillary-Trump, scintille e menzogne
Hillary-Trump, scintille e menzogne
Martedì 27 Settembre 2016 23:00
di Michele Paris
Il primo dei tre dibattiti previsti negli Stati Uniti tra Hillary Clinton e Donald Trump in vista del
voto per le presidenziali dell’8 novembre prossimo è fortunatamente già andato in archivio e,
come previsto, non dovrebbe avere particolari ripercussioni sulle decisioni dei potenziali elettori.
Il pubblico che ha seguito la serata in diretta televisiva è stato uno dei più numerosi della storia
di questi eventi, ma lo scontro tra due delle figure pubbliche più odiate d’America si è
sostanzialmente risolto in una serie di accuse e attacchi reciproci che hanno confermato il livello
di degrado forse senza precedenti raggiunto dal sistema politico d’oltreoceano.
Le premesse e i “contenuti” del dibattito di lunedì sera, andato in scena alla Hofstra University di
Long Island, rendono di fatto inutile una qualche seria analisi dei temi affrontati. Gli stessi
giornali americani che, come di consueto, si sono dedicati al “fact-checking”, ovvero alla verifica
della veridicità delle affermazioni dei candidati, o hanno proclamato il “vincitore” della serata,
contribuiscono in realtà ad alimentare l’illusione di una normale competizione elettorale, fondata
sullo scambio di vedute e sulla discussione aperta di programmi e proposte politiche concrete.
Il primo dibattito presidenziale è stato piuttosto uno spettacolo mortificante fatto di slogan,
insulti, ripetizione meccanica di affermazioni studiate a tavolino e, soprattutto, menzogne. Se
nascondere la verità è uno degli esercizi più comuni della politica negli USA (e non solo) le
circostanze domestiche e internazionali di questa tornata elettorale rendono ancora più grave il
sostanziale silenzio su ciò che potrebbe accadere nei prossimi mesi.
In particolare, se alcune questioni di politica internazionale e legate alla “guerra al terrore” sono
state toccate nel corso della discussione, nemmeno lontanamente Hillary o Trump hanno
parlato alla popolazione americana della più che probabile escalation militare che Washington
sta preparando attivamente, sia in Siria sia contro altri paesi rivali, come Cina, Russia o Corea
del Nord.
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Ad ogni modo, i giornali americani hanno più o meno concordato nel riconoscere a Trump un
avvio di dibattito efficace, salvo poi finire sotto i colpi dell’ex segretario di Stato, in grado di
mettere pressione a un rivale che, probabilmente, era stato consigliato dal suo staff di non
eccedere nelle reazioni verbali per evitare conseguenze mediatiche negative.
Trump ha così ripetuto alcuni degli attacchi rivolti contro Hillary nei mesi scorsi, tornando ad
esempio a sollevare le controversie scaturite attorno al suo stato di salute e alle e-mail
personali utilizzate durante l’incarico al dipartimento di Stato. L’affondo che qualcuno si
attendeva non è però arrivato e, anzi, in uno dei non pochi momenti al limite dell’assurdo della
serata, Trump ha promesso una rivelazione “estremamente grave” sui coniugi Clinton per poi
smentire se stesso e affermare di non poterlo fare, ufficialmente a causa della presenza nel
pubblico della loro figlia, Chelsea.
Da parte di Hillary è stato invece fin troppo evidente il tentativo di utilizzare la carta del razzismo
e delle discriminazioni di genere che hanno caratterizzato finora buona parte della campagna di
Trump. L’appello basato sulle politiche identitarie è d’altra parte l’unica arma rimasta al Partito
Democratico per dare un’immagine vagamente progressista alle politiche che lo caratterizzano,
improntate all’ultra-liberismo e all’imposizione degli interessi della classe dirigente americana
all’estero.
In uno dei rarissimi momenti della serata in cui si è almeno sfiorata la realtà della situazione
americana, Trump ha parlato della “bolla” speculativa che rischia di far crollare nuovamente
l’economia non appena “la Fed[eral Reserve] alzerà i tassi di interesse”. Ugualmente, è stato il
miliardario di New York a cercare di smontare la fissazione di Hillary e dei Democratici per il
coinvolgimento del governo russo nelle recenti violazioni dei sistemi informatici del partito.
La questione era stata toccata dalla Clinton per condannare le presunte simpatie di Trump per
Putin. Il candidato Repubblicano si è tuttavia ben guardato dall’allargare la discussione ai piani
di guerra contro Mosca, allo studio di quello stesso apparato militare americano che Trump
corteggia da tempo.
La totale assenza di sostanza nel dibattito presidenziale di lunedì è da riferire in larga misura
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alla natura stessa dei due candidati e alle dinamiche che li hanno portati a un passo dalla Casa
Bianca. Hillary Clinton e Donald Trump sono cioè l’espressione rispettivamente di un ambiente
politico e un’élite economico-finanziaria con caratteri ben precisi, che sono il risultato di decenni
di promozione di forze ultra-reazionarie.
Se Trump rappresenta una classe di multi-miliardari arricchitisi grazie a inganni, evasione
fiscale, agganci politici e sfruttamento di lavoratori sottopagati, la Clinton è invece l’espressione
di una classe politica non meno criminale, che ha costruito la propria carriera appoggiando
guerre rovinose all’estero e lo smantellamento delle protezioni sociali garantite alle classi più
deboli.
Da un’offerta di questo genere, è evidente che nulla potrà uscire di positivo dal voto di
novembre e iniziative come il dibattito di questa settimana non sono che esercizi di poca o
nessuna utilità per rassicurare gli elettori circa la salute di un sistema democratico che è in
realtà al collasso.
Una vittoria di Hillary Clinton avvicinerebbe con ogni probabilità gli USA a un conflitto dalle
conseguenze incalcolabili con una potenza nucleare. Trump, la cui clamorosa ascesa politica è
dovuta quasi del tutto alla capacità di cavalcare le frustrazioni degli americani più colpiti dalla
devastazione economica di questi anni, se pure promette una politica estera meno aggressiva e
la salvaguardia di alcuni programmi sociali, non offre ricette alternative alla rimozione di
qualsiasi ostacolo alle operazioni del business americano.
Chiunque sia a trarre eventualmente vantaggio dai tre dibattiti in programma fino al voto di
novembre e a entrare alla Casa Bianca a gennaio, la prossima amministrazione promette
dunque fin da ora di diventare precocemente la più reazionaria della già non edificante storia
recente degli Stati Uniti d’America.
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