L`ENERGIA NUCLEARE AD USO CIVILE IN ITALIA di Alessandro

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L`ENERGIA NUCLEARE AD USO CIVILE IN ITALIA di Alessandro
L’ENERGIA NUCLEARE AD USO CIVILE IN ITALIA
di Alessandro Iacuelli
1. La storia del nucleare italiano
L'era nucleare in Italia inizia
abbastanza presto, precisamente
alla fine degli anni '50 del XX
secolo, con il progetto, fortemente
innovativo,
per
una
"nave
mercantile a propulsione nucleare".
Il progetto, finanziato e guidato
dalla Fiat e dall'Ansaldo, venne poi
modificato in quello di una nave
appoggio per la Marina Militare da
18000
tonnellate,
sotto
la
supervisione scientifica del Cnen
(Comitato Nazionale per l'Energia
Nucleare), massimo istituto italiano
di ricerca nel settore.
Benché fosse ormai in avanzato
stato di completamento, il progetto
venne abbandonato alla fine degli anni 60 ed i gruppi di ricerca e sviluppo sciolti. Il perché di
questa scelta di abbandono non è mai stato diffuso pubblicamente. Quel che è certo è che il progetto
aveva degli avversari, che non vedevano di buon occhio una nave che non usasse per la propulsione
un derivato del petrolio.
Nello stesso periodo, le compagnie elettriche private, prima tra tutte la Edison, avviano un
programma di produzione di energia elettrica per via nucleare, con centrali costruite
congiuntamente a compagnie inglesi ed americane, sempre sotto la supervisione del Cnen. Tale
programma conduce in breve tempo l'Italia all'acquisizione delle competenze necessarie per la
costruzione di reattori senza alcun sostegno dall'estero e, nel 1964, ad avere ben tre centrali
nucleari, con tre tecnologie diverse, le stesse che poi si sono affermate in tutto il mondo come le
migliori: la centrale ad acqua in pressione di Trino Vercellese, quella ad acqua bollente del
Garigliano e quella a gas/grafite di Latina.
In quel momento, a metà anni '60, l'Italia é il quarto Paese al mondo, dopo USA, URSS e Gran
Bretagna, a disporre non solo di centrali funzionanti, ma di competenze e tecnologie in grado di
consentire la progettazione e la costruzione in modo autonomo di centrali e di aprire quindi
prospettive in un mercato mondiale in rapida espansione.
Ma proprio alla metà degli anni '60 cambia profondamente, ed in senso positivo, lo scenario politico
italiano: la produzione di energia elettrica viene "nazionalizzata" con la creazione dell'ENEL, che
assorbe gli impianti delle compagnie private. E' il momento in cui l'Italia giunge finalmente ad
avere un sistema elettrico nazionale integrato e non più frammentato, con tutto il territorio
alimentato alla stessa tensione ed alla stessa frequenza (220 V - 50 Hz).
L'unificazione della rete elettrica nazionale è il passo necessario che preclude alla modernizzazione
del sistema energetico e, negli auspici, allo svincolo nei confronti della dipendenza dall'estero.
Nell'estate 1963 un "avviso di garanzia" al Presidente del Cnen per presunte irregolarità
amministrative e l'esemplare condanna a sette anni di carcere (il famoso "caso Ippolito") decapitano
l'unico Ente di ricerca nel campo nucleare italiano, nonché uno dei più avanzati d'Europa,
paralizzandone le attività per lungo tempo. Termina la fase di acquisizione di nuove competenze.
Evidentemente il nucleare italiano si era già fatto dei nemici. Quali?
L'apertura delle tre centrali aveva prodotto la diminuzione delle importazioni di petrolio. Di colpo,
dopo il caso Ippolito, il nucleare si ferma per anni.
Stranamente, negli anni '60 l'Italia diventa la "raffineria d'Europa", con due governi (Moro e
Fanfani) che danno autorizzazioni per la costruzione di imponenti raffinerie di petrolio (proveniente
dal Medio Oriente) a quasi tutte le grandi compagnie petrolifere mondiali. Chi spingeva verso la
metanizzazione e cercava di far rimanere il mercato energetico in Italia, rafforzando la posizione del
Paese in campo internazionale (Enrico Mattei) scompare all'improvviso. L'Italia viene sommersa in
pochi anni da raffinerie che esportano all'estero i derivati del petrolio prodotti, lasciando sul
territorio nazionale solo i problemi di impatto ambientale e di inquinamento.
In questo quadro storico (l'epoca del petrolio), l'Italia si distingue per l'abbandono progressivo della
ricerca in tutti i settori alternativi, dal nucleare all'energia solare.
Solo alla fine degli anni 60, dopo oltre un
lustro di stasi, il Cnen lancia, in stretta
collaborazione con l'industria nazionale, sia
statale sia privata, due programmi di
reattori di ricerca, PEC (immagine a lato) e
CIRENE per la produzione di energia per
via elettronucleare.
Tali reattori, se realizzati in tempi
ragionevoli, avrebbero rilanciato in
maniera determinante il ruolo dell'Italia nel
campo energetico, sia dal punto di vista
dell'efficienza nella produzione, sia da
quello della sicurezza. Invece i due
impianti,
secondo
una
logica
di
immobilismo in campo energetico, hanno
incontrato talmente tanti ostacoli da essere
ancora non ultimati nel 1987, anno
dell'uscita dell'Italia dal nucleare. Oggi
sono entrambi ultimati all'80% e posti in
stato di "conservazione": lavori di
ultimazione fermi, lavori di smantellamento altrettanto fermi. Il reattore PEC, situato sul lago
Brasimone, è un reattore di tipo “Fast Breeder”, tra i più avanzati al mondo, per l’epoca, e destinato
alla sperimentazione nel campo dei combustibili nucleari.
Alla fine degli anni '70 l'Enel completa e mette in esercizio la centrale ad acqua bollente di Caorso
(PC), da 830 MW, che rapidamente s’impone all'attenzione perché registra uno dei più alti fattori di
utilizzo al mondo. Da notare che tale centrale ha avuto un funzionamento a piena potenza
ininterrotto, senza cioè mai alcun intoppo o alcun incidente, a conferma dell'estrema affidabilità
delle centrali ad acqua bollente.
Sempre nello stesso periodo, è l'industria italiana (Ansaldo, Fiat, Breda e molte altre) a portare a
termine il progetto della più grande centrale nucleare europea: la Superphénix tra Lione e Grenoble
(progetto d'insieme e ricerca di base francesi, partecipazione di Germania, Olanda e Belgio).
Purtroppo, dopo il successo iniziale, la Superphénix ha registrato, nei 20 anni successivi, almeno 40
incidenti, ai quali è stato dato meno spazio mediatico rispetto ai (pochi) incidenti delle centrali
russe.
Contemporaneamente al varo della Superphénix, in Italia l'Enel avvia i lavori di costruzione dei
primi due reattori da 1000 MW ciascuno della centrale di Montalto di Castro, che dovrà permettere
una sensibile riduzione degli approvvigionamenti di petrolio, gas ed energia elettrica dall'estero.
Contemporaneamente, l'industria del settore avvia importanti collaborazioni con giganti esteri del
calibro di Westinghouse, per l'offerta comune di centrali sui mercati mondiali e lo sviluppo di
nuove tecnologie. E' la seconda "epoca d'oro" della tecnologia nucleare italiana. E' il momento in
cui le competenze italiane nel settore nucleare sono tra le prime al mondo. Tutto questo è però
durato poco.
Mentre il Cnen cambia nome, diventando Enea ed acquisendo la ricerca nel settore di tutte le
energie alternative, i Governi in carica a cavallo tra gli anni '70 e i primi anni '80, stranamente (e
con 20 anni di ritardo rispetto ad Enrico Mattei) scoprono il metano, che pur garantendo livelli di
inquinamento inferiori al petrolio, in Italia non c’è. L'Eni deve importarlo da URSS e Algeria
mediante la costruzione di colossali metanodotti con relative costose intermediazioni nei Paesi
attraversati.
Perché si metanizza solo negli anni '80? Le competenze da parte dell'Eni, ed anche la spinta da parte
di Mattei per passare al metano c'erano già 20 anni prima. Ma non solo: se lo Stato, ma anche certa
industria privata, sta investendo fondi pubblici per la ricerca e la costruzione di centrali nel settore
nucleare ed in quello delle energie alternative attraverso l'ENEA, perché all'improvviso si "corre" al
metano? E' lo stesso Stato italiano che lancia di colpo una imponente campagna pubblicitaria in
tutto il Paese, con pagine intere sui quotidiani, manifesti nelle strade, spot radiotelevisivi, per
convincere gli ignari cittadini che "il metano ti dà una mano" e lascia "un cielo pulito sopra di te".
Una campagna che ha deviato l'opinione pubblica, forzando la scelta di passare al metano come
fonte energetica, scelta che non è stata certamente presa dai cittadini. Solo nel 1992, Tangentopoli
avrebbe aperto il sipario sul mistero della metanizzazione dell’Italia: una scelta che è servita a "far
girare soldi", con cantieri in tutte le strade di tutta l'Italia per l'impianto delle nuove condutture per il
metano e appalti miliardari di gran lunga superiori a quelli che avrebbero permesso la costruzione di
sei o sette centrali elettronucleari, ma anche di quelli che avrebbero permesso la ricerca nei settori
delle energie rinnovabili.
Ancora su questa inversione di tendenza italiana, in quello stesso periodo l'Enel lancia un piano, poi
interrotto sul nascere, per la trasformazione di alcune centrali ad olio combustibile in centrali a
carbone, che avrebbe comportato un giro colossale di denaro per la costruzione di porti carboniferi
(vedi Gioia Tauro) e lo smistamento del carbone verso le centrali. Visto lo stato della ricerca, ci si
sarebbe aspettati un piano di conversione verso il nucleare...
Nel 1987 il referendum popolare determina la fine della tecnologia nucleare in Italia. Oggi, 20 anni
dopo, le competenze delle circa 1200 persone che lavoravano direttamente a progetti nucleari (senza
contare quindi l'industria manifatturiera) sono oramai completamente disperse: nel settore oggi
lavorano meno di un centinaio di persone, impegnate nella costruzione di centrali nucleari all'estero
per conto dell'Enel, come la centrale di Cernavoda, in Romania, recentemente completata; le
competenze dei tecnici dell'Enea e dell'industria sono state perdute per sempre con la riconversione
ad altre attività non nucleari.
Con il referendum abrogativo fu "di fatto" sancito l'abbandono da parte dell' Italia del nucleare
come forma di produzione energetica ed infatti le quattro centrali nucleari in Italia furono chiuse. La
chiusura ha però determinato un nuovo tipo di problemi: ancora oggi i rifiuti radioattivi sono
custoditi non in condizione di massima sicurezza e in più località (generalmente nei pressi delle
vecchie centrali nucleari).
Inoltre resta ancora da effettuare il totale smantellamento, la rimozione e la decontaminazione
(operazioni di "decommissioning") degli impianti nucleari in Italia. Sia delle centrali ex-Enel: Trino
Vercellese, Caorso, Latina, Garigliano (Caserta), sia degli impianti di ricerca sul ciclo del
combustibile ex-Enea: EUREX di Saluggia (Vercelli), FN-Fabbricazioni Nucleari di Bosco
Marengo (Alessandria), OPEC in Casaccia (Roma), Plutonio in Casaccia (Roma), ITREC in Trisaia
- Rotondella (Matera).
2. Si parla ancora di nucleare in Italia
Resta il silenzio sul nucleare per molto tempo, precisamente per 18 anni. Fino al 21 gennaio 2005,
quando nel diffuso silenzio mediatico e politico, l’Italia rientra ufficialmente nel nucleare, e non
dalla porta di servizio.
In tale data l’Enel, oramai in fase avanzata di privatizzazione e con cessioni di vari rami d'azienda,
ma ancora controllata dal ministero del Tesoro, conclude per 840 milioni di Euro l’acquisto di due
terzi della Slovenske Elektrarne, la società di Stato della Slovacchia che tra i suoi impianti ha due
centrali nucleari di tecnologia ex sovietica. Per fare questo, viene varata una legge apposita sul
riordino del settore energetico, meglio conosciuta come "Legge Marzano". Legge con un unico
articolo, nel quale al comma 42 si legge: "I produttori nazionali di energia elettrica possono,
eventualmente in compartecipazione con imprese di altri Paesi, svolgere attività di realizzazione e
di esercizio di impianti localizzati all’estero, anche al fine di importarne l’energia prodotta".
Si potrebbe obiettare che uno dei vincoli fissati dal referendum del 1987 impediva all’Enel di
svolgere all'estero progetti nucleari e in particolare per la Superphénix francese. Ma nessuno ha
aperto bocca, per difendere quanto sancito da quel voto popolare. Il Ministero delle Attività
Produttiva, a proposito della "Legge Marzano", fa notare che "in teoria nulla osta perché in Italia si
torni all’energia di origine nucleare, visto che le altre parti del referendum riguardavano
l’eliminazione dei contributi in denaro alle comunità locali che avessero ospitato le centrali e le
prerogative del governo".
Silenzio assoluto sulla questione sia da parte della stampa sia da parte del mondo della politica.
In realtà, andando a scavare, si scopre che l’Enel non ha mai abbandonato completamente il
nucleare. Tra ingegneri e tecnici conta tra i suoi ranghi ancora un’ottantina di eccellenti esperti.
Negli ultimi anni, l'ente ha allacciato stretti contatti con l’Electricité de France (Edf), il colosso
elettrico d’Oltralpe che dal 2001 ha in corso un duro confronto politico-finanziario proprio in Italia
per il controllo della Edison, il secondo gruppo nazionale nell’elettricità (con centrali a metano) e
nel settore del gas. Con i francesi, che producono quasi il 78% dell’energia per via nucleare e hanno
in attività 59 impianti, due anni fa l’Enel stava per concludere un accordo che prevedeva la
possibilità di riacquisire competenze d’avanguardia e, in prospettiva, la partecipazione al progetto
Epr, l’"European pressurized reactor", il reattore di terza generazione che sostituirà dal 2015 gli
attuali reattori francesi.
In Italia oggi c'è chi spinge verso il nucleare. Spinta che poteva avere un senso alla fine degli anni
'80, avendo ancora l'Italia un mercato dell'energia pubblico e sotto controllo statale, impianti pronti
a ripartire e staff tecnico-scientifico tra i migliori al mondo. Ma a fine anni '80, sull'onda del
referendum e soprattutto sull'onda del disastro di Chernobyl, tale spinta non ci fu. Si preferì invece,
anche a livello governativo, approfittare della sconfitta del nucleare per fare un altro giro di vite con
la metanizzazione, convertendo (in modo peraltro costosissimo) a metano molte centrali elettriche
funzionanti con altri combustibili.
Oggi le competenze per riportare il nucleare in Italia non ci sono più. Moltissimi dei progettisti e
tecnici dell'epoca d'oro del nucleare italiano sono andati in pensione, senza trasmettere alle nuove
generazioni di tecnici quelle competenze acquisite; quelli che all'epoca erano i più giovani sono
espatriati o si sono convertiti ad altri settori. Pertanto il nucleare in Italia non sarebbe certamente un
"nucleare italiano", ma sarebbe realizzato con tecnologie, personale e aziende estere.
Non sarebbe neanche un "nucleare pubblico", in un mercato privatizzato, dove l'unica spinta è il
profitto a fine anno. Spinta al profitto che, in nome della sicurezza nucleare, dovrebbe passare
assolutamente in secondo piano.
Nonostante questo, è da prima dell'approvazione della "Legge Marzano" che è iniziata la pressione
sull'opinione pubblica per un ritorno al nucleare.
All'indomani del grande black-out nazionale del 28 settembre 2003, causato unicamente da una
cattiva gestione dell'emergenza e dalla frammentazione del sistema energetico italiano dovuto alla
privatizzazione selvaggia, si è assistito ad un coro di voci (compresa quella del Presidente della
Repubblica) che senza alcuna nozione tecnico-scientifica e senza alcuna cognizione di causa hanno
indicato la necessità della costruzione di nuove centrali e del ritorno al nucleare.
L'Italia di centrali ne ha abbastanza, ne ha anche troppe. Se avviene un black-out notturno è perché,
essendo molte centrali ormai private e quindi in gestione a chi deve far profitto monetario, per
diminuire i costi si preferisce tenerle spente di notte e si preferisce acquistare dall'estero la poca
quantità di energia che serve.
Già, perché acquistare in fascia notturna energia elettrica da Francia o Svizzera costa molto di meno
che produrla qui in Italia. Per tre motivi:
1) abbiamo tutte e sole centrali a combustibile non rinnovabile (petrolio e carbone), quindi
alimentabili con materie prime costosissime.
2) Per questioni di geografia della penisola, solo la zona alpina e subalpina può essere
sufficientemente alimentata mediante bacini idroelettrici.
3) L'energia elettrica ha un terribile difetto (che è anche la causa di tutte le crisi energetiche): a
differenza di altri beni non è immagazzinabile, una volta prodotta va consumata, altrimenti si
perde; Paesi come Francia e Svizzera, che hanno centrali in funzione 24 ore su 24, preferiscono
quindi "svendere" sottocosto l'energia prodotta di notte piuttosto che perderla.
Ovvio che con una gestione centralizzata del sistema elettrico, che al momento il GRTN non è stato
in grado di garantire, non ci sarebbero black-out neanche in situazioni di emergenza.
Nonostante queste considerazioni, lo Stato ed i gestori di elettricità non hanno provveduto ad alcuna
forma organizzativa di gestione centralizzata, ma hanno iniziato invece a spingere verso il ritorno al
nucleare.
3. Il problema attuale del nucleare italiano
L’Italia è ferma da vent’anni nel nucleare. Non sono immaginabili, per chi non lavori nel settore (e
quindi fuori dall'Italia) la quantità di progressi che sono stati fatti dalla tecnologia nucleare in questi
20 anni, soprattutto nei settori di contorno come quello della sicurezza, quello dei materiali
ceramici, ma anche dell’elettronica e dell’automazione. Esistono infatti molti settori della moderna
tecnologia che hanno ricevuto un forte impulso allo sviluppo proprio da parte del nucleare, anche
quello dei Modelli Matematici di rischio e affidabilità, quelli tanto cari agli economisti, che però
spesso ignorano l'origine "nucleare" di questi strumenti di studio.
A questo si aggiunga una scarsa conoscenza dei problemi scientifici e tecnologici da parte della
classe dirigente italiana, composta per la maggior parte di persone priva di competenze, conoscenze
o esperienze scientifiche, soprattutto internazionali.
Aprire una centrale nucleare, o riattivarne una in disuso da anni, non è una cosa semplice: servono
miliardi di Euro, senza contare il costo del loro mantenimento (i sistemi di sicurezza e quelli per il
raffreddamento hanno un costo elevatissimo). Tutti questi soldi, se sottratti ai cittadini mediante
erogazione di fondi pubblici, difficilmente andranno per benessere del Paese, nonostante la
propaganda in corso: se i profitti del nucleare degli anni '60 e '70 andavano nelle casse dell'Enel
(pubblica), questa volta finiranno sempre e solo nelle casse delle multinazionali dell’energia
privatizzata.
Il nucleare, per certi versi, è forse peggio del petrolio e del carbone e non è affatto sostenibile e
“non inquinante”: produce scorie radioattive non smaltibili (se non in migliaia di anni) che saranno
sepolte nelle profondità dei mari oppure sotto milioni di metri cubi di cemento.
I dubbi non finiscono qui: quale comunità locale vorrebbe un sito nucleare?
Stesso discorso, ancora più delicato, per il sito nazionale che dovrebbe ospitare rifiuti radioattivi,
come insegna il caso di Scanzano Ionico.
Ammettiamo pure di avere a disposizione siti, favore della popolazione, competenze perdute e
tecnologie mai acquisite: passerebbero almeno 7-8 anni per la progettazione, la scelta dei fornitori,
la costruzione e l'avvio dell’impianto. E saremmo così al 2013-2014; troppo per qualsiasi governo.
I punti cardine sono quindi: finanziamenti ed entità degli investimenti necessari, contrarietà delle
popolazioni interessate, stato delle competenze, sicurezza, smaltimento dei rifiuti. Su ciascuno di
questi punti in Italia si soffre di decenni di arretratezza e di stasi.
A questi problemi, il Segretario Generale dell'AIEE (Associazione Italiana Economisti per
l'Energia) Ugo Farinelli aggiunge anche i seguenti: l'alta densità della popolazione, la sismicità, la
scomparsa delle strutture di appoggio, la scarsa capacità di formulare politiche di lungo periodo,
l'opposizione pubblica locale e la sfiducia verso la pubblica amministrazione.
4. Nucleare in Italia e nucleare italiano
Quel che è certo è che in caso di ritorno al nucleare in Italia non si tratterebbe di un nucleare
italiano, ma di un insieme di politiche energetiche e tecnologie importate dall'estero. Le stesse
centrali verrebbero costruite da multinazionali energetiche estere e, data la natura assolutamente
anomala del mercato energetico italiano (totalmente privatizzato), l'Italia diverrebbe terra di
conquista da parte dei gestori stranieri proprietari delle centrali.
Non è questa la strategia pensata per il nucleare italiano dal Cnen degli anni '60, che pensava ad un
nucleare italiano, sotto lo stretto controllo pubblico, che svincolasse l'Italia dall'acquisto di petrolio,
carbone e metano dall'estero, che portasse magari sul lungo termine ad una riduzione delle bollette.
Era in pratica un progetto di nucleare per l'indipendenza energetica italiana. Progetto ora
impossibile a realizzarsi.
Possiamo tuttavia aspettarci altre pressioni sull'opinione pubblica per un ritorno al nucleare.
Pressioni che, con l'inganno di avere energia a volontà per tutti, se vincessero porterebbero ad
un'anomalia incompatibile con il bene della comunità: centrali elettronucleari, spesso straniere, in
ogni caso private.
Il nucleare richiede la necessità del controllo pubblico, soprattutto in materia di sicurezza. In ogni
momento una centrale deve essere aperta ad ispezioni pubbliche che ne verifichino gli standard. In
nessun caso può avvenire che un privato, anche dando tutte le garanzie possibili, tenga chiusa una
centrale agli sguardi esterni. Si tratta di un impianto delicato, che non dovrebbe mai essere gestito
privatamente.
Soprattutto, un reattore nucleare non può esistere per profitto: i costi maggiori di esercizio non sono
quelli delle materie prime (come avviene per le centrali a petrolio), ma quelli per la sicurezza. In
nessun caso quindi si può procedere a "tagli sui costi", per mantenere in positivo i bilanci. Ne va
della sicurezza di tutto il territorio nazionale e della popolazione tutta.
Per questo il Cnen prima e l'Enea poi, hanno sempre ipotizzato centrali nucleari di costruzione
italiana e sotto controllo statale.
"Un eventuale ritorno al nucleare non può essere deciso a colpi di maggioranza, serve un'adesione
sociale diffusa e condivisa", dice Giuseppe Onufrio, direttore delle campagne di Greenpeace Italia,
continuando poi con l'affermare che: "È una tecnologia che non ha chiuso il ciclo. Stiamo parlando
di una fonte sussidiata, che non chiude il ciclo e non è risolutiva. Il tipo di civiltà conosciuta è ad
altissima densità di energia. L'orizzonte è quello delle fonti rinnovabili".
Inoltre, non si deve dimenticare che il ruolo futuro dell'Italia è legato alla definizione di una
strategia energetica per l'Unione Europea. "Ritengo", ha dichiarato recentemente Sergio Garribba,
Direttore Generale del Ministero Attività Produttive, "che le prospettive dell'energia nucleare in
Italia dipendano da cosa accadrà nel mondo e in Europa".
Al momento, se si eccettua la Finlandia, nessuna altra nazione in Europa ha in programma di
costruire centrali nucleari. Gli unici progetti nucleari in corso a livello UE sono progetti di ricerca,
mirati alla realizzazione di centrali più efficienti e più sicure, i cosiddetti reattori di IV generazione,
che dovranno sostituire quelle attuali.
Il 23 febbraio 2006 era in programma in
Italia
la
Conferenza
Nazionale
sull'Energia, poi rinviata a data da
destinarsi. Il motivo ci pare possa
riscontrarsi nell’impossibilità del governo
a sfruttare elettoralmente il suo operato,
visto l’evidente fallimento proprio della
sua politica energetica. Politica che non
solo non ha affrontato il tema
dell’indipendenza italiana dalle forniture
estere, ma che ha semmai evidenziato
proprio l’assenza di strategia nel settore, si
veda come esempio più recente la cattiva
gestione della cosiddetta “emergenza gas”,
risolta solo in apparenza con l’ingresso di
Gazprom (russa, ma statale non certo
privata) sul mercato italiano.
La tappa successiva sarà il 14 marzo,
quando si svolgerà un Consiglio
straordinario dei Ministri dell'Energia a Bruxelles focalizzato sulla strategia energetica per l'Unione
Europea. Chi in Europa spinge per il nucleare, in questo momento? Ebbene a spingere è proprio
l'Italia, ancora attraverso Sergio Garribba, che dichiara: "L'Italia intende affermare che l'energia
nucleare deve essere parte di questa strategia". Secondo Garibba, sono tre le condizioni: "Ci deve
essere sicurezza nucleare europea. Chiusura del ciclo combustibile. Deve esserci politica di ricerca
e sviluppo europea. E deve esserci una politica europea di non proliferazione nucleare".
"L'Italia”, ha aggiunto Garribba, “deve partecipare ai programmi nucleari europei. Dobbiamo
partecipare ai grandi progetti internazionali per i reattori di IV generazione".
5. Conclusioni
Che occorra una svolta nel settore energetico italiano è indubbio.
Sbaglia certo ambientalismo radicale italiano, che ripete ossessivamente che i problemi d'ordine
energetico derivano solo dalla necessità di far girare soldi. Il problema è reale: l'Italia ha un parco
centrali basato fortemente su petrolio e metano, due combustibili che vanno reperiti all'estero,
provocano dipendenza energetica, non sono rinnovabili e sono fortemente inquinanti. Non
dimentichiamo che l'Italia ha firmato il Protocollo di Kyoto, ben sapendo di non essere in grado di
mantenere l'impegno, ma in ogni caso ora dovrebbe in qualche modo cercare di contenere le
emissioni in atmosfera; e non saranno certo i blocchi del traffico nelle grandi città a risolvere il
problema.
Se da un lato è vero che occorrerebbe svincolarsi dal petrolio, vero è anche che occorrerebbe fissare
una politica energetica a lungo termine, cosa che sembra non interessare ai governi che si
susseguono, impegnati solo ad ottenere risultati in un singolo quinquennio. Questa politica
energetica, allo stadio attuale, per garantire risultati positivi deve avere quanto meno una visibilità
decennale. In 10 anni è possibile, mediante l'opportuno finanziamento della ricerca, ottenere
risultati in molteplici settori, da quello eolico (abbastanza promettente e dove l'Italia ha una buona
competenza) a quello solare, e così via, sviluppando una strategia energetica rinnovabile, sostenibile
e, soprattutto, autonoma. Si preferirà invece una tecnologia come quella nucleare, dove l'Italia non
ha più competenze, quelle poche che ha sono datate ed obsolete e dove occorrerebbero ben più di
dieci anni per recuperare il terreno perduto.
La cosa forse ancora più grave è che non si discute invece dell'assetto del mercato italiano
dell'Energia. Pertanto manca una gestione centralizzata, magari pubblica, di quello che è un servizio
pubblico; e non solo per i cittadini, ma anche per l'industria, per i trasporti. Un mercato liberalizzato
di colpo, senza una sufficiente regolamentazione, con centrali di proprietà di un'azienda, rete di
proprietà del GRTN e catena di distribuzione fatta da Enel, Acea, Edison, ecc. Spesso senza un
coordinamento sostanziale: il black-out del 28 settembre 2003 fu la massima espressione di questa
mancanza di coordinamento.
La rete elettrica di una nazione fa parte della geografia stessa della nazione, è intessuta sul territorio,
fa parte del territorio e senza di essa si ferma la nazione intera. Per questo motivo, una rete elettrica
non andrebbe mai privatizzata, mentre sempre più si avvicina la privatizzazione anche del GRTN.
Quando sarà di proprietà privata anche il traliccio in campagna ed il cavo aereo, non ci sarà centrale
nucleare che tenga quando il proprietario privato vorrà tagliare i costi ed aumentare i profitti.
E quando quel proprietario privato, magari estero, interessato solo alla salita del proprio titolo su
una borsa valori situata dall’altra parte del globo, sarà in possesso di un reattore nucleare situato sul
territorio italiano? Ci saranno tutte le garanzie e gli obblighi affinché quel reattore possa essere
ispezionato, per quanto riguarda la sicurezza, da parte dello Stato? E lo Stato da dove prenderà
personale qualificato per tali controlli? E se saranno privatizzati anche questi controlli?
Siamo sicuri di volerci fidare?