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SECONDA PARTE
TESTI A CONFRONTO
cap. IV
L’orgoglio ridicolo nel Borghese gentiluomo di Molière
Il padre di Lodovico
Il padre di Lodovico, il futuro fra Cristoforo, è protagonista di un passo importante del capitolo IV dei
Promessi sposi. Manzoni lo definisce un mercante “che, ne' suoi ultim'anni, trovandosi assai fornito di
beni, e con quell'unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s'era dato a viver da signore”, cioè come
un nobile gentiluomo.
Il dramma del padre di Lodovico è legato al conflitto fra il suo passato di mercante e le sue aspirazioni
signorili. Ecco la pagina in cui tale dramma emerge chiaramente:
Nel suo nuovo ozio, cominciò a entrargli in corpo una gran vergogna di tutto quel tempo che aveva speso
a far qualcosa in questo mondo. Predominato da una tal fantasia, studiava tutte le maniere di far
dimenticare ch'era stato mercante: avrebbe voluto poterlo dimenticare anche lui. Ma il fondaco, le balle,
il libro, il braccio, gli comparivan sempre nella memoria, come l'ombra di Banco a Macbeth, anche tra la
pompa delle mense, e il sorriso de' parassiti. E non si potrebbe dire la cura che dovevano aver que'
poveretti, per schivare ogni parola che potesse parere allusiva all'antica condizione del convitante. Un
giorno, per raccontarne una, un giorno, sul finir della tavola, ne' momenti della più viva e schietta
allegria, che non si sarebbe potuto dire chi più godesse, o la brigata di sparecchiare, o il padrone d'aver
apparecchiato, andava stuzzicando, con superiorità amichevole, uno di que' commensali, il più onesto
mangiatore del mondo. Questo, per corrispondere alla celia, senza la minima ombra di malizia, proprio
col candore d'un bambino, rispose: - eh! io fo l'orecchio del mercante -. Egli stesso fu subito colpito dal
suono della parola che gli era uscita di bocca: guardò, con faccia incerta, alla faccia del padrone, che
s'era rannuvolata: l'uno e l'altro avrebber voluto riprender quella di prima; ma non era possibile. Gli
altri convitati pensavano, ognun da sé, al modo di sopire il piccolo scandolo, e di fare una diversione;
ma, pensando, tacevano, e, in quel silenzio, lo scandolo era più manifesto. Ognuno scansava d'incontrar
gli occhi degli altri; ognuno sentiva che tutti eran occupati del pensiero che tutti volevan dissimulare. La
gioia, per quel giorno, se n'andò; e l'imprudente o, per parlar con più giustizia, lo sfortunato, non
ricevette più invito. Così il padre di Lodovico passò gli ultimi suoi anni in angustie continue, temendo
sempre d'essere schernito, e non riflettendo mai che il vendere non è cosa più ridicola che il comprare, e
che quella professione di cui allora si vergognava, l'aveva pure esercitata per tant'anni, in presenza del
pubblico, e senza rimorso. (capitolo IV, pag. 83-84)
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L’ambizione sociale di Monsieur Jourdain
La figura del borghese che aspira a diventare nobile e si comporta come tale è al centro di una delle
commedia di Molière, Il borghese gentiluomo, del 1670. Il protagonista della commedia è Monsieur
Jourdain, un borghese benestante, che pretende di vivere come i nobili.
È evidente la somiglianza fra questo personaggio e quello di Manzoni. Tale somiglianza è accentuata dal
fatto che entrambi appartengono al XVII secolo e sono vittime della sua mentalità. Accanto alle
somiglianze, esistono però interessanti differenze fra i due personaggi.
Le figure dei parassiti
Il primo elemento che rende simili fra loro Monsieur Jourdain e il padre di Lodovico è il fatto che
entrambi si circondano di parassiti e di adulatori.
•
Manzoni rappresenta questi personaggi a tavola con il padre di Lodovico, nella scena che abbiamo
già citato.
•
Molière mette il suo Monsieur Jourdain a confronto con diversi “maestri” (di scherma, di musica,
di ballo, di equitazione ecc.) che dovrebbero insegnargli lo stile di vita dei nobili, ma che di fatto
lo sfruttano indecorosamente (la traduzione dal francese è nostra).
M. Jourdain: (che ha appena finito di cantare un’aria) Non è bella?
M.o di musica: La più bella del mondo.
M.o di ballo: E voi la cantate bene.
M. Jourdain: Senza nemmeno aver studiato la musica.
M.o di musica: Dovreste studiarla, signore, come fate con il ballo. Sono due arti strettamente legate fra
loro.
M.o di ballo: E che aprono lo spirito di un uomo alla bellezza.
M. Jourdain: Le persone di qualità studiano anche la musica?
M.o di musica: Sì, signore.
M. Jourdain: Dunque la studierò. Ma non so davvero quando, perché, oltre al maestro d’armi, ho preso
appuntamento anche con un maestro di filosofia. Dobbiamo incominciare stamattina.
M.o di musica: La filosofia è qualche cosa; ma la musica, signore, la musica...
M.o di ballo: La musica e il ballo... La musica e il ballo, non serve altro.
M.o di musica: Non c’è niente di più utile della musica, per uno Stato.
M.o di ballo: Non c’è niente di più necessario del ballo, per un uomo.
M.o di musica: Tutti i disordini, tutte le guerre del mondo, hanno una sola causa: l’ignoranza della
musica.
M.o di ballo: Tutti i mali dell’uomo, tutte le tragedie di cui sono piene le storie, gli errori dei politici e
quelli dei grandi condottieri, hanno una sola causa: l’incapacità di ballare.
M. Jourdain: Com’è possibile?
M.o di musica: La guerra non deriva forse dalla mancanza di unità fra gli uomini?
M. Jourdain: È vero.
M.o di musica: E se tutti gli uomini studiassero la musica, non sarebbe questo il mezzo per accordarsi e
per veder nascere nel mondo la pace universale?
M. Jourdain: Avete ragione.
M.o di ballo: Quando un uomo commette un errore, nella conduzione della famiglia o negli affari di
Stato o alla guida di un esercito, non si dice sempre: Ha fatto un passo falso?
M. Jourdain: Sì, proprio così.
M.o di ballo: E da cosa può derivare un passo falso, se non dal fatto di non saper ballare?
M. Jourdain: È proprio vero, avete ragione tutti e due. (atto I, scena II)
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Il rapporto con i figli
Il secondo elemento di somiglianza importante fra Monsieur Jourdain e il padre di Lodovico è legato al
fatto che entrambi proiettano la loro ambizione sui figli.
•
Il mercante di Manzoni fa educare il figlio come un nobile e gli instilla sentimenti di superbia e di
rancore nei confronti degli aristocratici.
•
Monsieur Jourdain pretende che la figlia Lucile sposi un aristocratico, senza tener conto dei
sentimenti della ragazza (che è innamorata di un altro) e senza sapere che l’aristocratico in
questione è uno spiantato che accetta le nozze solo per impadronirsi della ricca dote della ragazza.
Dalla commedia al dramma
La principale differenza fra i due personaggi è invece nel tono generale della loro vicenda.
•
Il padre di Lodovico è un personaggio patetico, che vive molto drammaticamente la sua
condizione e che pone le premesse per il più grave dramma del figlio, che proprio in conseguenza
del suo essere un borghese con aspirazioni nobiliari diventerà omicida.
•
Monsieur Jourdain è invece un personaggio comico e la sua storia si conclude con il classico lieto
fine (i parassiti vengono smascherati e la figlia sposa il giovane che ama e che la ricambia
sinceramente).
Questa conclusione è legata all’intervento di due figure femminili: Madame Jourdain, moglie del
protagonista, e l’arguta domestica della famiglia, Nicole.
M.me Jourdain: Ah, ah! Ecco un’altra novità. Cos’è dunque, marito mio, quell’abbigliamento? Volete
provocare il mondo, che vi siete bardato così? Volete che si rida di voi?
M. Jourdain: Solo gli sciocchi e le sciocche rideranno di me.
M.me Jourdain: Veramente è da tempo che tutti ridono di voi, non hanno aspettato adesso.
M. Jourdain: E chi sarebbero questi tutti, di grazia?
M.me Jourdain: Tutti quelli che usano la ragione e che sono più saggi di voi. Per conto mio, sono
scandalizzata dalla vita che menate. Non so più cos’è diventata la nostra casa: sembra carnevale tutti i
giorni; e ogni mattina che Dio manda in terra si sente un fracasso di violini e di cantanti che mette in
subbuglio tutto il vicinato.
Nicole: La signora dice bene. Non riesco più a lavorare come si deve, con tutta questa gente che vi
portate in casa. Sembra che vadano a cercare le porcherie per tutti gli angoli della città, con quei loro
piedi, e se le portino dietro fin qui; e la povera Françoise (la sguattera) è quasi senza fiato a forza di
strofinare i pavimenti incrostati dai vostri cari maestri. (atto III, scena III)
L’equilibrio, la razionalità e il buon senso sono dunque i valori che Molière, come Manzoni, contrappone
alla sciocca e ridicola ambizione dei borghesi che aspirano a farsi gentiluomini.
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SECONDA PARTE
TESTI A CONFRONTO
cap. X
Il delitto di Gertrude in Fermo e Lucia
L’uccisione della conversa
Nel capitolo X dei Promessi sposi, Manzoni narra brevemente il delitto commesso da Gertrude ed Egidio,
che uccidono una conversa per timore che questa abbia intuito qualcosa e possa denunciare la monaca e il
suo amante.
Il racconto dell’episodio si limita a poche righe, perché Manzoni non entra nei dettagli e concentra trutta
l’attenzione sulle conseguenze psicologiche che il delitto ha per Gertrude.
Un giorno che la signora, venuta a parole con una conversa, per non so che pettegolezzo, si lasciò
andare a maltrattarla fuor di modo, e non la finiva più, la conversa, dopo aver sofferto, ed essersi morse
le labbra un pezzo, scappatale finalmente la pazienza, buttò là una parola, che lei sapeva qualche cosa,
e, che, a tempo e luogo, avrebbe parlato. Da quel momento in poi, la signora non ebbe più pace. Non
passò però molto tempo, che la conversa fu aspettata in vano, una mattina, a' suoi ufizi consueti: si va a
veder nella sua cella, e non si trova: è chiamata ad alta voce; non risponde: cerca di qua, cerca di là,
gira e rigira, dalla cima al fondo; non c'è in nessun luogo. E chi sa quali congetture si sarebber fatte, se,
appunto nel cercare, non si fosse scoperto una buca nel muro dell'orto; la qual cosa fece pensare a tutte,
che fosse sfrattata di là. Si fecero gran ricerche in Monza e ne' contorni, e principalmente a Meda, di
dov'era quella conversa; si scrisse in varie parti: non se n'ebbe mai la più piccola notizia. Forse se ne
sarebbe potuto saper di più, se, in vece di cercar lontano, si fosse scavato vicino. Dopo molte maraviglie,
perché nessuno l'avrebbe creduta capace di ciò, e dopo molti discorsi, si concluse che doveva essere
andata lontano, lontano. E perché scappò detto a una suora: - s'è rifugiata in Olanda di sicuro, - si disse
subito, e si ritenne per un pezzo, nel monastero e fuori, che si fosse rifugiata in Olanda. Non pare però
che la signora fosse di questo parere. Non già che mostrasse di non credere, o combattesse l'opinion
comune, con sue ragioni particolari: se ne aveva, certo, ragioni non furono mai così ben dissimulate; né
c'era cosa da cui s'astenesse più volentieri che da rimestar quella storia, cosa di cui si curasse meno che
di toccare il fondo di quel mistero. Ma quanto meno ne parlava, tanto più ci pensava. Quante volte al
giorno l'immagine di quella donna veniva a cacciarsi d'improvviso nella sua mente, e si piantava lì, e non
voleva moversi! Quante volte avrebbe desiderato di vedersela dinanzi viva e reale, piuttosto che averla
sempre fissa nel pensiero, piuttosto che dover trovarsi, giorno e notte, in compagnia di quella forma
vana, terribile, impassibile! Quante volte avrebbe voluto sentir davvero la voce di colei, qualunque cosa
avesse potuto minacciare, piuttosto che aver sempre nell'intimo dell'orecchio mentale il susurro
fantastico di quella stessa voce, e sentirne parole ripetute con una pertinacia, con un'insistenza
infaticabile, che nessuna persona vivente non ebbe mai! (cap. X, pag. 211)
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La realtà del delitto
In Fermo e Lucia, il racconto del delitto occupa molte pagine, rievocando con precisione i fatti, così come
erano emersi durante il processo alla monaca e ai suoi complici.
Geltrude (così si chiama la monaca in Fermo e Lucia) ha coinvolto nella sua depravazione altre due
monache, sue serventi, rendendole sue complici. Purtroppo, una di loro ha già comunicato i suoi sospetti a
un’altra suora. L’avvenimento che nei Promessi sposi è ridotto a poche righe viene qui narrato con
abbondanza di dettagli.
Accadde un giorno che la Signora venuta a parole con costei la aspreggiò, e la trattò con tali termini di
villania, che la suora dimenticata ogni cautela, si lasciò sfuggire dalla chiostra dei denti: ch'ella sapeva
qualche cosa, e che a tempo e luogo l'avrebbe detto a cui si doveva. La Signora non ebbe più pace.
Che orrenda consulta! le tre sciagurate, e il loro infernale consigliero deliberarono sul modo di imporre
silenzio alla suora. Il modo fu pensato e proposto da lui con indifferenza, e acconsentito dalle altre con
difficoltà, con resistenza, ma alla fine acconsentito. Geltrude fece più resistenza delle altre, protestò più
volte che era pronta a tutto soffrire piuttosto che dar mano ad una tanta scelleratezza, ma finalmente
vinta dalle istanze di Egidio e delle due, e nello stesso tempo dal suo terrore, venne ad una transazione
con la quale ella si sforzò di fingere a se stessa che sarebbe men rea: pattuì ella dunque che non si
sarebbe impacciata di nulla, ed avrebbe lasciato fare.
Presi gli orribili concerti, determinato dalle esortazioni di Egidio al sangue l'animo di quella che fu
scelta a versarlo; costei si ravvicinò alla suora condannata e le parlò di nuovo di quegli antichi sospetti,
in modo da crescerle la curiosità. E (...) le propose di venire la notte al quartiere, dove l'avrebbe potuta
nascondere nella sua cella, e dirle il di più, e forse renderla testimonio di qualche cosa. La meschina
cadde nel laccio. Venuta la notte ella si trovò nel corridojo, dove la suora omicida le venne incontro
chetamente, e la condusse nella sua cella: quivi, preso il pretesto dei servigj della Signora per partirsi,
promettendo che tornerebbe tosto; la fece nascondersi tra il letticciuolo e la mura, raccomandandole di
non muoversi finch'ella non la chiamasse. Uscì quindi a render conto del fatto all'altra suora e allo
scellerato che aspettavano in un'altra stanza, e pigliato da Egidio l'orribile coraggio che le abbisognava,
entrò nella cella armata d'uno sgabello con la sua compagna. Nella cella non v'era lume, ma quello che
ardeva nella stanza vicina vi mandava per la porta aperta una dubbia luce. La scellerata parlando con la
compagna, perché la nascosta non si muovesse, e parlando in modo da farle credere ch'ella cercava di
rimandare la sua compagna come importuna, andò prima pianamente verso il luogo dove la infelice
stavasi rannicchiata, quindi giuntale presso le si avventò, e prima che quella potesse né difendersi né
gettare un grido né quasi avvedersi, con un colpo la lasciò senza vita. (tomo II, cap. V)
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Dopo il delitto
Manzoni si sofferma anche sulle operazioni compiute da Egidio e dalle tre suore per nascondere il delitto:
l’uomo occulta il cadavere della suora uccisa e apre un buco nel muro del convento, per far pensare che
sia fuggita. Geltrude la mattina dopo si finge malata e incarica una delle due serventi di avvertire la
badessa.
Accorse al romore Egidio che stava alla bada nella stanza vicina, ed incontrò le colpevoli che fuggivano
spaventate, come avrebbero fatto se per caso e a mal loro grado si fossero trovate presenti ad un
misfatto. Egidio le fermò, e chiese premurosamente se la cosa era fatta. «Vedete», rispose tremando
l'omicida. «Ebbene! coraggio», replicò lo scellerato, «ora bisogna fare il resto»; e dava tranquillamente
gli ordini all'una e all'altra su le cose da farsi per togliere ogni vestigio del delitto. Avvezze, come elle
erano, ad ubbidire a colui che aveva acquistata una orribile autorità su gli animi loro, a colui che faceva
loro sempre paura, e dava loro sempre coraggio; e rianimate, e come illuse dall'aria naturale con la
quale egli dava quegli ordini, come se si trattasse di una faccenda ordinaria; raccomandando ora la
prestezza, ora il silenzio, elle fecero ciò che era loro comandato. «E la Signora, perché non viene ad
ajutarci?» disse l'omicida: «tocca a lei quanto a noi, e più». «Andate a chiamarla», rispose Egidio:
l'omicida che cercava anche un pretesto per allontanarsi, almeno per qualche momento, da quel luogo e
da quell'oggetto che le era insopportabile, si avviò alla stanza di Geltrude. Questa si stava nelle angosce
di chi sente l'orrore del delitto, e lo vuole. Sedeva, si alzava, andava ad origliare alla porta: intese il
colpo, e fuggì ella pure a rannicchiarsi nell'angolo il più lontano della sua stanza, orribilmente agitata
tra il terrore del misfatto, e il terrore che non fosse ben consumato. L'omicida entrò, e disse: «abbiamo
fatto ciò ch'era inteso: non resta più che di riporre le cose in ordine: venite ad ajutarci». «No no, per
amor del cielo», rispose Geltrude. «Che c'entra il cielo?» disse l'omicida. «Lasciami, lasciami» continuò
Geltrude. «Come!» replicò l'omicida «chi è stata quella...?» «Sì è vero» rispose Geltrude; «ma tu sai
ch'io sono una povera sciocca nelle faccende; non son buona da nulla; lasciami stare per amor...» Gli
atti e il volto di Geltrude riflettevano in un modo così orribile l'orrore del fatto, che l'omicida non potè
sopportare la sua presenza, e tornò in fretta presso a colui, l'aspetto del quale pareva dire: — non è nulla
—. «Non vuol venire», diss'ella, con un moto convulso delle labbra, che avrebbe voluto essere un sorriso
di scherno: «non vuol venire: è una dappoca». «Non importa», rispose Egidio; «non farebbe altro che
impacciare; ecco tutto è finito senza di lei». «Resta ancora...» volle cominciare l'omicida, ma non potè
continuare. «Ebbene» disse Egidio, «questa è mia cura; datemi tosto mano, e poi lasciate fare a me».
(tomo II, cap. VI)
Le scelte dell’autore
Manzoni attenua sempre, nel passaggio da Fermo e Lucia ai Promessi sposi, gli elementi romanzeschi, le
scene violente, i passi ricchi di suspense. Modifica insomma il testo coerentemente al “rifiuto del
romanzesco” che è alla base della sua poetica.
Anche in Fermo e Lucia, del resto, l’attenzione tende a concentrarsi sulla psicologia di Geltrude: sul suo
rifiuto a partecipare attivamente al delitto, nel primo brano riportato; sulla tensione che emerge dopo il
delitto fra la monaca omicida e la povera Geltrude, nel secondo.
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SECONDA PARTE
TESTI A CONFRONTO
cap. XIX
Il Conte del Sagrato in Fermo e Lucia
L’innominato e il Conte del Sagrato
Nel capitolo XIX dei Promessi sposi, Manzoni presenta l’innominato come “un terribile uomo” e
racconta la sua vita. Delle sue imprese criminali il lettore viene a sapere piuttosto in generale, perché
l’autore non racconta alcun episodio preciso:
Fare ciò ch'era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari
altrui, senz'altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro
ch'eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui...
Tante ne fece che, non bastando né il nome, né il parentado, né gli amici, né la sua audacia a sostenerlo
contro i bandi pubblici, e contro tante animosità potenti, dovette dar luogo, e uscir dallo stato...
Pare che allora contraesse con più alte persone, certe nuove terribili pratiche, delle quali lo storico
summentovato parla con una brevità misteriosa... (cap. XIX, pag. 363).
Nella prima versione del romanzo, Fermo e Lucia, il personaggio aveva un soprannome, Conte del
Sagrato, e l’autore raccontava l’avvenimento da cui tale soprannome aveva avuto origine.
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Il delitto del Conte
Ecco la pagina del Fermo e Lucia con cui Manzoni presenta il personaggio ai suoi lettori:
Avvenne un giorno che a costui come a protettore noto di tutte le cause spallate si presentò un debitore
svogliato di pagare, e si richiamò a lui della molestia che gli era recata dal suo creditore, raccontando il
negozio a modo suo, e protestando ch'egli non doveva nulla, e che non aveva al mondo altra speranza
che nella protezione onnipotente del signor Conte. Il creditore, un benestante d'un paese vicino, non era
sul calendario del Conte, perché senza provocarlo giammai, né usargli il menomo atto di disprezzo, pure
mostrava di non volere stare come gli altri alla suggezione di lui, come chi vive pei fatti suoi e non ha
bisogno né timore di prepotenti. Al Conte fu molto gradita l'opportunità di dare una scuola a questo
signore: trovò irrepugnabili le ragioni del debitore, lo prese nella sua protezione, chiamò un servo, e gli
disse: «Accompagnerai questo pover uomo dal signor tale, a cui dirai in mio nome che non gli rechi più
molestia alcuna per quel debito preteso, perché io ho riconosciuto che costui non gli deve nulla:
ascolterai la sua risposta: non replicherai nulla quale ch'ella sia, e quale ch'ella sia, tornerai tosto a
riferirmela». Il lupo e la volpe s'avviarono tosto dal creditore, al quale il lupo espose l'imbasciata,
mentre la volpe stava tutta modesta a sentire. Il creditore avrebbe volentieri fatto senza un tale
intromettitore; ma punto dalla insolenza di quel procedere, animato dal sentimento della sua buona
ragione, e atterrito dalla idea di comparire allora allora un vigliacco, e di perdere per sempre ogni
credito; rispose ch'egli non riconosceva il signor Conte per suo giudice. Il lupo e la volpe partirono
senza nulla replicare, e la risposta fu tosto riferita al Conte, il quale udendola disse: «benissimo». Il
primo giorno di festa la chiesa del paese dove abitava il creditore era ancora tutta piena di popolo che
assisteva agli uficj divini, che il Conte si trovava sul sagrato alla testa di una troppa di bravi. Terminati
gli uficj, i più vicini alla porta uscendo i primi e guardando macchinalmente sul sagrato videro
quell'esercito e quel generale, e ognun d'essi spaventato, senza ben sapere che cagione di timore potesse
avere si rivolsero tutti dalla parte opposta, studiando il passo quanto si poteva senza darla a gambe. Il
Conte, al primo apparire di persone sulla porta si era tolto dalla spalla l'archibugio, e lo teneva con le
due mani in apparecchio di spianarlo. Al muro esteriore della chiesa stavano appoggiati in fila molti
archibugj secondo l'uso di quei tempi nei quali gli uomini camminavano per lo più armati, ma non
osavano entrar con armi nella chiesa, e le deponevano al di fuori senza custodia per ripigliarle all'uscita.
Tanta era la fede publica in quella antica semplicità! Ma i primi che uscirono non si curarono di pigliare
le armi loro in presenza di quel drappello: anche i più risoluti svignavano dritto dritto dinanzi a un
pericolo oscuro, impreveduto, e che non avrebbe dato tempo a ripararsi e a porsi in difesa. I
sopravvegnenti giungevano sbadatamente sulla soglia, e si rivolgevano ciascuno al lato che gli era più
comodo per uscire, ma alla vista di quell'apparato tutti si volgevano dalla parte opposta e la folla usciva
come acqua da un vaso che altri tenga inclinato a sbieco, che manda un filo solo da un canto
dell'apertura. Si affacciò finalmente alla porta con gli altri il creditore aspettato, e il Conte al vederlo gli
spianò lo schioppo addosso, accennando nello stesso punto col movimento del capo agli altri di far largo.
Lo sventurato colpito dallo spavento, si pose a fuggire dall'altro lato, e la folla non meno, ma
l'archibugio del Conte lo seguiva, cercando di coglierlo separato. Quegli che gli erano più lontani
s'avvidero che quell'infelice era il segno, e il suo nome fu proferito in un punto da cento bocche. Allora
nacque al momento una gara fra quel misero, e la turba tutta compresa da quell'amore della vita, da
quell'orrore di un pericolo impensato che occupando alla sprovveduta gli animi non lascia luogo ad
alcun altro più degno pensiero. Cercava egli di ficcarsi e di perdersi nella folla, e la folla lo sfuggiva pur
troppo s'allontanava da lui per ogni parte, tanto ch'egli scorrazzava solo di qua di là, in un picciolo
spazio vuoto, cercando il nascondiglio il più vicino. Il Conte lo prese di mira in questo spazio, lo colse, e
lo stese a terra. Tutto questo fu l'affare di un momento. La folla continuò a sbandarsi, nessuno si fermò, e
il Conte senza scomporsi, ritornò per la sua via, col suo accompagnamento (tomo II, cap. VII).
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Le ragioni di un cambiamento
Perché Manzoni, nella versione definitiva del suo romanzo, eliminò completamente questa pagina?
Possiamo ipotizzare due motivi:
- l’episodio ha un carattere troppo “romanzesco” e Manzoni come sappiamo guardava con sospetto a
questo elemento; il “romanzesco” infatti fa appello alle emozioni del lettore, solletica i suoi sentimenti e
le sue passioni, e Manzoni intende invece rivolgersi soprattutto alla sua razionalità;
- lasciare nel vago le gesta criminali dell’innominato conferisce al personaggio un carattere ancora più
inquietante: il lettore non è in grado di misurare esattamente la sua malvagità e questa ne esce ingigantita
dalla fantasia e dall’immaginazione del lettore stesso.
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SECONDA PARTE
TESTI A CONFRONTO
cap. XXII
Il vescovo santo nei Miserabili di V. Hugo
Federigo, santo intellettuale
Il cardinal Federigo Borromeo è presentato da Manzoni come un personaggio estremamente positivo, in
cui si incarnano tutti i valori e le virtù. Il cardinale è insomma, ancor più di fra Cristoforo, il modello
positivo che l’autore propone ai suoi lettori.
Quella incarnata da Federigo è però una santità tutta intellettuale: non a caso, il capolavoro del cardinale
è, secondo Manzoni, la fondazione della Biblioteca Ambrosiana, che lo scrittore esalta come centro di
ricerca intellettuale e come polo di diffusione democratica del sapere.
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La santità evangelica di monsignor Myriel
Nella seconda metà dell’Ottocento, il principale esponente del romanticismo francese, Victor Hugo, nel
suo capolavoro I miserabili propone un modello di santità che è utile confrontare con quello manzoniano.
Il personaggio che la incarna è un vescovo di provincia, monsignor Myriel.
Apparentemente, egli ha le stesse virtù del cardinal Federigo: è animato da un grande spirito di carità e
mette in atto concretamente i principi del Vangelo, conducendo una vita povera e aiutando come può i
poveri e gli infelici.
In realtà, i due personaggi presentano numerose e importanti differenze.
Realtà storica e finzione letteraria
La prima differenza è che Federigo è un personaggio storico reale, che Manzoni inserisce nel suo
romanzo, conservando però tutti gli elementi della realtà storica.
Monsignor Myriel è invece un personaggio d’invenzione, che Hugo crea rispettando le regole della
verosimiglianza, ma con la massima libertà.
Il rapporto con i libri
La seconda differenza fra Federigo e Myrial è legata al loro rapporto con la cultura scritta.
Federigo è un intellettuale, uno scrittore, un fondatore di biblioteche.
Myriel, al contrario, non viene mai descritto immerso nello studio, nella lettura, ma sempre impegnato in
azioni concrete, in visite, in colloqui.
Hugo conclude il ritratto del personaggio sottolineando la sua natura non intellettuale (citiamo dalla
traduzione di M. Picchi, ed. Einaudi):
Monsignor Bienvenu era semplicemente un uomo che accettava dal di fuori i misteriosi quesiti senza
scrutarli, senza agitarli e senza turbare con essi la sua mente, e che aveva nell’anima il grave rispetto
dell’ombra. (tomo I, parte I, libro I, cap. 14)
Centro e provincia
La terza differenza tra Federigo e Myriel è legata al luogo in cui vivono e operano.
Federigo è arcivescovo di Milano, una grande città, e governa una diocesi molto vasta. Ha a disposizione
molte persone e dispone di grandi mezzi.
Myriel vive in una cittadina di provincia, di scarsa importanza, in compagnia della sorella nubile e di una
burbera cuoca. I suoi mezzi sono limitatissimi.
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La conversione
Sia il cardinal Federigo, sia monsignor Myriel devono la loro importanza all’interno dei rispettivi romanzi
a una conversione.
Nel Promessi sposi, l’episodio fondamentale di cui Federigo è protagonista è il colloquio con
l’innominato.
La conversione interiore dell’innominato è già avvenuta, in parte per le sue riflessioni sulla morte, in
parte per l’incontro con Lucia. Il colloquio con Federigo “formalizza” questa conversione e riporta
definitivamente l’innominato nell’ambito della Chiesa.
Nei Miserabili, l’episodio fondamentale di cui è protagonista monsignor Myriel è l’incontro con Jean
Valjean, un povero ex-carcerato ingiustamente condannato e ora rifiutato da tutti, a cui il vescovo offre
ospitalità per la notte.
Jean Valjean è colpito dall’atteggiamento caritatevole del vescovo, ma è pieno di rancore per l’umanità
intera: egli ruba dunque le posate e i piatti d’argento che, insieme a due preziosi candelabri, costituiscono
l’unica ricchezza del suo benefattore. La mattina dopo, quando Jean Valjean viene arrestato, monsignor
Myriel ha già capito ciò che è accaduto - e il suo atteggiamento provoca in Jean Valjean un profondo
cambiamento interiore.
Si aperse la porta. Apparve sulla soglia un gruppo strano e violento. Tre uomini ne reggevano un quarto
per il bavero. I tre uomini erano gendarmi; l’altro era Jean Valjean.
Un brigadiere dei gendarmi, che pareva il capo del gruppo, era vicino alla porta. Entrò e andò verso il
vescovo facendo il saluto militare. (...) Intanto monsignor Bienvenu si era avvicinato con quanta
prontezza gli consentiva la sua tarda età.
- Ah, eccovi! - esclamò guardando Jean Valjean. - Sono contento di vedervi. Come sarebbe? Vi avevo
dato anche i candelieri, che sono d’argento come il resto e dai quali potete ricavare duecento franchi!
Perché non li avete presi insieme con le posate?
Jean Valjean sgranò gli occhi e guardò il venerabile vescovo con un’espressione che nessuna lingua
umana potrebbe descrivere. (...)
- Dunque - riprese il brigadiere, - possiamo lasciarlo andare?
- Senza dubbio - rispose il vescovo.
I gendarmi lasciarono Jean Valjean, che indietreggiò.
- È vero che mi lasciano libero? - disse con voce quasi indistinta, come se parlasse nel sonno.
- Sì, sei libero, non capisci? - disse un gendarme.
- Amico mio - disse il vescovo, - prima di andarvene ecco qua i vostri candelieri. Prendeteli. (...) A
proposito, quando tornerete, amico mio, è inutile passare dal giardino. Potete sempre entrare e uscire
dalla porta di strada. È chiusa soltanto col saliscendi, giorno e notte. (...)
Jean Valjean era come uno che stia sul punto di svenire. (tomo I, parte I, libro II, cap. 12)
Due diverse concezioni del cristianesimo
Il confronto fra i due episodi rivela la diversa concezione del cristianesimo dei due autori.
La religiosità di Manzoni è una religiosità intellettuale, un’adesione filosofica, più che sentimentale, al
messaggio cristiano e soprattutto alla Chiesa. La riflessione notturna dell’innominato e l’incontro con
Lucia non sarebbe sufficiente, senza quello con Federigo, a convertire definitivamente il “selvaggio
signore”.
La religiosità di Hugo è più legata al sentimento che all’intelletto, più vicina alla sensibilità del popolo
che a quella delle persone colte e benestanti. E la conversione del “selvaggio” Jean Valjean non ha
bisogno di riti, discorsi, momenti teatrali - non avviene attraverso un lungo percorso intellettuale, ma
attraverso una illuminazione improvvisa, istantanea e misteriosa.
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SECONDA PARTE
TESTI A CONFRONTO
cap. XXXIV
La sofferenza dei bambini nei Fratelli Karamazov di F. Dostoevskij
Perché i bambini?
I fratelli Karamazov (1880) sono l’ultimo romanzo dello scrittore russo Fedor Dostoevskij e costituiscono
uno dei vertici della narrativa ottocentesca.
Quasi esattamente al centro del romanzo si colloca il lungo e drammatico colloquio fra i due fratelli Ivan
e Alëša Karamazov. Ivan è un razionalista, Alesa uno spirito religioso.
Rivolgendosi al fratello, Ivan spiega perché ha perduto la fede in Dio: dal suo punto di vista, è
impossibile che un essere onnipotente e buono permetta la sofferenza dei bambini, degli innocenti
(citiamo dalla traduzione di M.R. Fasanelli, ed. Garzanti).
Lo capisci questo, quando un piccolo esserino che non è ancora in grado di capire che cosa gli stanno
facendo si colpisce il petto straziato con il suo pugno piccino, al freddo e al gelo (...) e piange lacrimucce
insanguinate, dolci, prive di risentimento al “buon Dio” perché lo difenda? La capisci questa assurdità,
amico mio, fratello mio, pio e umile novizio di Dio, tu lo capisci a che scopo è stata creata questa
assurdità, a che cosa serve? Senza di essa, dicono, l’uomo non avrebbe potuto esistere sulla terra,
giacché non avrebbe conosciuto il bene e il male. Ma a che serve conoscere questo benedetto bene e
male, se il prezzo da pagare è così alto? Infatti, tutto un mondo di conoscenza non vale le lacrime di
quella bambina al suo “buon Dio”. (parte II, libro V, cap. IV)
Ivan non crede che le sofferenze possano essere in qualche modo riscattate, possano acquistare un senso
all’interno di un piano provvidenziale, “servire” (per così dire) al trionfo finale dell’amore, dell’armonia,
del bene.
Hanno fissato un prezzo troppo alto per l’armonia; non possiamo permetterci di pagare tanto per
accedervi. Pertanto mi affretto a restituire il biglietto d’entrata. E se sono un uomo onesto, sono tenuto a
farlo al più presto. E lo sto facendo. Non che non accetti Dio, Alëša, gli sto solo restituendo, con la
massima deferenza, il suo biglietto. (parte II, libro V, cap. IV)
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Renzo di fronte a Cecilia
Il problema che assilla Ivan Karamazov è lo stesso che Manzoni presenta indirettamente ai suoi lettori
nella famosa scena del capitolo XXXIV in cui Renzo assiste alle “indegne esequie” di Cecilia, la bambina
morta di peste che la madre affida ai monatti.
Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto
annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata,
ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale (...). Portava essa in collo una bambina di
forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito
bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per
premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come
se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa
inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno:
della madre, ché, se anche la somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente
quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con
un'esitazione involontaria (e) s'affaccendò a far un po' di posto sul carro per la morticina. La madre,
dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno
bianco, e disse l'ultime parole: - addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar
sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri -. Poi voltatasi di nuovo al
monatto, - voi, - disse, - passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola. (...)
- O Signore! - esclamò Renzo: - esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito
abbastanza! hanno patito abbastanza! (cap. XXXIV, pag. 634-635-636)
La reazione di Renzo e quella di Alëša
Di fronte al dubbio religioso, Renzo reagisce in maniera piuttosto superficiale, senza affrontare
seriamente il problema che pure Manzoni pone ai suoi lettori. Da un lato il protagonista dei Promessi
sposi non ha gli strumenti culturali (teologici e filosofici) per farlo, dall’altro Manzoni non si sofferma
mai esplicitamente sul problema religioso - la fede in Dio non viene problematizzata, ma solo proposta ai
lettori come una verità indiscutibile.
Le parole di Ivan, invece, turbano profondamente Alëša, che però al momento non sa cosa rispondere al
fratello. Nel corso del romanzo, però, il giovane continua a interrogarsi su questo problema e la sua
riflessione emerge più volte. Ci soffermiamo in particolare su due episodi significativi.
La risposta mistica
Quando muore il suo maestro spirituale (lo starec Zosima), Alëša si accinge a scrivere un libro su di lui,
raccontandone la vita e i pensieri. Alcuni di questi pensieri riguardano proprio gli innocenti - i bambini e
gli animali:
Amate gli animali: Dio ha donato loro i rudimenti del pensiero e una gioia imperturbata. Non siate voi a
turbarla, non li maltrattate, non privateli della loro gioia, non contrastate il pensiero divino. Uomo, non
ti vantare di superiorità nei confronti degli animali. essi sono senza peccato, mentre tu, con tutta la tua
grandezza, insozzi la terra con la tua comparsa su di essa (...). Amate in special modo i bambini, giacché
anch’essi sono senza peccati, come gli angeli; essi vivono per commuovere e purificare i nostri cuori e
rappresentano una sorta di indicazione per noi. (parte II, libro VI, cap. III)
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Secondo le parole dello starec Zosima, la sofferenza è quindi provocata dagli uomini, non voluta da Dio.
Sono gli uomini che causano le sofferenze degli innocenti e turbano l’armonia gioiosa della creazione.
Si tratta di una risposta religiosa, mistica, che presuppone la fede in Dio e nella bontà della sua creazione.
La risposta psicologica
La seconda occasione importante in cui Alëša torna sul problema posto da Ivan si trova alla fine del
romanzo, quando il giovane partecipa al funerale di un bambino suo allievo.
Rivolgendosi agli altri scolari, Alëša li invita a ricordare il ragazzo morto, a non dimenticare mai il suo
coraggio, la sua bontà, insomma le sue virtù. E sottolinea l’importanza di questo ricordo:
Sappiate che non c’è nulla di più sublime, di più forte, di più salutare e di più utile per tutta la vita, di un
buon ricordo e soprattutto di un ricordo dell’infanzia, della casa paterna. Vi parlano molto della vostra
educazione, ma qualche meraviglioso, sacro ricordo che avrete conservato della vostra infanzia, potrà
essere per voi la migliore delle educazioni. (...) Per quanto possiamo diventare cattivi - che Dio non
voglia - quando ricorderemo il giorno in cui abbiamo sepolto Iljuša, come lo abbiamo amato negli ultimi
giorni della sua vita e come, in questo momento, ci siamo parlati da amici (...), allora anche il più cattivo
fra di noi, anche il più cinico - ammesso che si sia diventati tali - non oserà, dentro di sé, ridere di quanto
è stato buono e nobile in questo momento! (parte IV, epilogo, cap. III)
La morte di un bambino, la sofferenza di un innocente, non è quindi assurda e inutile, come diceva Ivan.
Dipende da noi attribuirle un senso, darle importanza, renderla capace (attraverso il ricordo) di diffondere
bontà e armonia nella nostra vita e nel mondo intero.
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