Capitolo 2

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Capitolo 2
Edizioni Simone - Vol. 46 Diritto Internazionale Pubblico
Capitolo 2
Le controversie internazionali e la loro risoluzione
Sommario
1. L’obbligo generale di risolvere pacificamente le controversie internazionali. - 2. Le controversie
internazionali. - 3. I procedimenti di soluzione pacifica delle controversie. - 4. I procedimenti diplomatici. - 5. I procedimenti
arbitrali e giudiziali. - 6. L’arbitrato. - 7. Il procedimento giudiziale.
8. Segue: La Corte Internazionale di Giustizia. - 9. La soluzione pacifica delle controversie
nel quadro delle organizzazioni internazionali. - 10. La funzione conciliativa dell’ONU.
1.L’obbligo generale di risolvere pacificamente le controversie internazionali
Il divieto di uso della forza nelle relazioni internazionali costituisce oggi una norma consuetudinaria cogente; esso impone a tutti gli Stati l’obbligo, parimenti riconducibile al
diritto consuetudinario secondo le più recenti affermazioni della giurisprudenza internazionale e della dottrina (CASSESE, CONFORTI, MUNARI), di risolvere le controversie tra
loro insorte «con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la
giustizia, non siano messe in pericolo» (art. 2, par. 3 Statuto ONU).
Secondo MUNARI, in particolare, deve porsi l’accento sul fatto che si stia progressivamente ridimensionando il volontarismo tipico del tradizionale sistema di risoluzione delle controversie, per effetto dei crescenti condizionamenti che gli Stati sentono derivare dalla
Comunità internazionale anche attraverso la diffusione di nuovi strumenti di pressione.
Ciononostante, allo stadio attuale del suo sviluppo, la Comunità internazionale non è in
grado di costringere le parti di una controversia ad un regolamento pacifico della stessa
mediante il ricorso a procedure diplomatiche. Quello di risolvere pacificamente le liti, dunque, risulta ancora un obbligo in linea di principio, che necessita di essere integrato da ulteriori strumenti in grado di consentirne la concreta applicazione.
Lo sforzo di imporre agli Stati strumenti pacifici di composizione di una lite internazionale si è sovente tradotto nella stipula di convenzioni multilaterali, come la Convenzione de L’Aja del 1907 e l’Atto Generale di Arbitrato del 1928, entrambi aventi carattere universale.
I progressi più sensibili si registrano, tuttavia, a livello regionale, soprattutto in America Latina e in Europa: si
ricordano, ad esempio, il Patto di Bogotà del 1948, la Convenzione di Strasburgo del 1951 nel quadro del Consiglio d’Europa e la Convenzione sulla conciliazione e l’arbitrato nell’ambito della Conferenza sulla Sicurezza
e la Cooperazione in Europa (CSCE) del 1992.
2.Le controversie internazionali
A) Nozione
Nel 1924, nella sentenza sulle concessioni Mavrommatis in Palestina, la Corte Permanente di Giustizia Internazionale definiva una controversia internazionale come il disaccordo
su un punto di diritto o di fatto, una contraddizione, un’opposizione di tesi giuridiche
o interessi.
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Ciò che dunque contraddistingue una controversia internazionale è l’esistenza di:
—un contrasto di atteggiamenti;
—una manifesta opposizione di pretese, anche se meramente comportamentale, relativa ad
un conflitto di interessi. L’importanza di tale requisito è stata sostenuta dalla Corte Internazionale di Giustizia con sent. 30 giugno 1995 sul caso di Timor Est (che vedeva
coinvolti Austria e Portogallo).
Malgrado tali definizioni, nella prassi la qualificazione di una situazione conflittuale come
controversia internazionale risulta tutt’altro che semplice. In passato, inoltre (soprattutto nel
periodo fra le due guerre mondiali), parte della dottrina era solita distinguere tra controversia giuridica, sottoponibile a mezzi di risoluzione giurisdizionali e arbitrali, e controversia
politica, implicante l’impossibilità di invocare il diritto internazionale. Invero, la contrapposizione non è mai stata accettata dalla Corte Internazionale di Giustizia e oggi la dottrina
è pressoché concorde nel ritenere che, nella realtà, ogni controversia presenti caratteri insieme politici e giuridici, essendo «giuridica» ogni controversia che richiede l’applicazione
di norme internazionali (QUADRI, CONFORTI, GIOIA).
Pur concordando circa lo scarso rilievo, nella pratica, di tale distinzione, LEANZA e CARACCIOLO specificano
che quest’ultima attiene all’oggetto della controversia: giuridica è la controversia riguardante la sussistenza o meno
di un diritto, politica la controversia relativa allo status quo, ossia alla revisione o modificazione di quel diritto.
B) Mezzi di prevenzione e composizione di una controversia internazionale
Di fronte ad un conflitto di interessi, suscettibile di sfociare in una vera e propria controversia internazionale, è possibile in primo luogo adottare specifiche misure di prevenzione.
Tale prospettiva era scarsamente considerata dalla dottrina meno recente; viceversa oggi
sono sempre più frequenti gli interventi in materia, anche a livello istituzionale:
—nel 1988 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una Dichiarazione sulla
prevenzione di controversie e situazioni la cui continuazione può mettere in pericolo la
pace e la sicurezza internazionale (ris. 43/51);
—nel 1991 l’OCSE ha predisposto una serie di meccanismi, consultazioni e notificazioni,
finalizzati alla prevenzione e alla gestione delle controversie;
—numerosi trattati in materia di inquinamento transfrontaliero e di attività pericolose predispongono meccanismi di consultazione e notificazione preventiva, istituendo in molti
casi Commissioni bilaterali tra Stati vicini per controllare situazioni suscettibili di dar
luogo a controversie e contribuire, in tal modo, alla loro prevenzione.
Qualora le misure di prevenzione falliscano, l’insorgere di una controversia richiede necessariamente che vengano individuati degli strumenti per risolverla.
In proposito è opportuno distinguere tra:
—l’estinzione della controversia. Trattasi di un dato storico che segna il venir meno della contrapposizione di atteggiamenti in ordine ad un conflitto di interessi, e che si traduce nella desistenza unilaterale di uno degli Stati dal proprio atteggiamento. Possono
verificarsi le seguenti ipotesi:
a) lo Stato che aveva inizialmente avanzato una pretesa vi rinuncia;
b) di fronte a tale pretesa, l’altro Stato può riconoscerne la fondatezza e tenere il comportamento richiestogli;
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c) lo Stato che si ritiene leso dall’altrui comportamento può rinunLa composizione paciciare a protestare, manifestando così la sua acquiescenza;
fica delle controversie
—la composizione della controversia, che si rende necessaria qualora le parti non desistano dai rispettivi comportamenti. Essa consiste
nella formulazione di una soluzione degli interessi giuridici in conflitto, e richiede che
vengano preliminarmente scelti:
a) il procedimento di soluzione della controversia, ovvero il meccanismo prescelto
dalle parti per la composizione della lite;
b) il mezzo di soluzione, ovvero l’atto che, a conclusione di uno o più procedimenti
prescelti, realizza la convergenza degli atteggiamenti opposti delle parti. I mezzi di
soluzione pacifica delle controversie internazionali sono due: l’accordo e la sentenza.
3.I procedimenti di soluzione pacifica delle controversie
Tra i procedimenti di soluzione pacifica delle controversie la dottrina distingue tra:
—procedimenti diplomatici (negoziato, inchiesta, buoni uffici, mediazione e conciliazione), che sfociano nell’adozione di un atto non vincolante tra le parti. In questo caso il
procedimento prescelto mira solo a facilitare l’adozione di un accordo, quale mezzo di
soluzione facoltativo della controversia che richiede un ulteriore, e solo eventuale, consenso delle parti;
—procedimenti arbitrali e giudiziali, che si concludono in una soluzione vincolante. In
essi si ritrovano alcuni degli elementi tipici della funzione giurisdizionale interna (v.
infra par. 5).
L’art. 33 dello Statuto ONU contiene un elenco, sebbene non esaustivo, dei procedimenti di soluzione pacifica
delle controversie internazionali. Esso dispone che «le parti di una controversia la cui continuazione sia suscettibile di minacciare la pace e la sicurezza internazionale, devono anzitutto perseguirne una soluzione attraverso negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni
o accordi regionali o altri mezzi pacifici di loro scelta».
La dottrina è concorde nel ritenere che il suddetto articolo attribuisca alle parti una libertà di scelta dei procedimenti cui ricorrere per comporre pacificamente una lite, come ribadito altresì dalla Dichiarazione approvata
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1992 a Manila.
4.I procedimenti diplomatici
Tra i metodi a cui tradizionalmente si ricorre per la soluzione pacifica delle controversie,
quelli di carattere diplomatico sono tra i più antichi e restano, tuttora, i più largamente utilizzati, spesso in parallelo ad altri.
All’interno di questa categoria è possibile distinguere tra:
—procedimenti che si svolgono direttamente ed esclusivamente tra le parti in lite
(negoziato);
—procedimenti che coinvolgono un terzo soggetto (buoni uffici, mediazione, conciliazione, inchiesta).
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A) Procedimento tra le parti
Il negoziato costituisce il più tradizionale dei procedimenti, che mette in contatto diretto le
parti controvertenti al fine di concludere un accordo risolutivo.
Non sono previste particolari condizioni di forma, sebbene oggi alla trattativa bilaterale si vada
sostituendo il sistema della conferenza internazionale (QUADRI).
Il negoziato rappresenta il modo di soluzione preferito dagli Stati per un triplice ordine di
ragioni:
—la segretezza che lo accompagna;
—l’assenza di un’autorità terza, che consente alle parti di esercitare un pieno controllo
nella ricerca di un componimento amichevole;
—l’assoluta parità che, a soluzione raggiunta, gli Stati conservano (l’accordo eventualmente concluso non fa riferimento né a «vinti», né a «vincitori»).
L’utilità dei negoziati è indubbia anche in chiave di prevenzione delle controversie. Ciò spiega il motivo per cui,
con l’intensificarsi dei rapporti internazionali, si sia sviluppata la prassi di incontri frequenti tra rappresentanti
degli Stati, i cd. vertici internazionali, sia nell’ambito di organizzazioni internazionali sia al di fuori di esse.
Dottrina
Si discute se esista un obbligo, da parte degli Stati, di ricorrere al negoziato prima di tentare altre vie
di soluzione di una controversia; ciò soprattutto in seguito alla sentenza sulla Piattaforma continentale del Mare del Nord, in cui la Corte Internazionale di Giustizia ha precisato che «le parti sono obbligate ad intraprendere negoziati al fine di arrivare ad un accordo» (sent. 20 febbraio 1969).
In effetti, talvolta il negoziato è imposto agli Stati quale mezzo preliminare e necessario: così si esprim
me, ad esempio, l’art. 283 della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare, ai sensi del quale
«quando tra gli Stati contraenti sorge una controversia relativa all’interpretazione o all’applicazione
della presente Convenzione, le parti della controversia procedono senza indugio ad una consultazione reciproca sulla soluzione della controversia attraverso negoziati o altri mezzi pacifici».
A riguardo si riporta l’orientamento di Munari, secondo cui il ricorso al negoziato è obbligatorio solo
quando sia previsto come fase preliminare rispetto all’inizio di un contenzioso arbitrale o giudiziale;
sarebbe difficilmente condivisibile, d’altronde, qualificare come illecito internazionale l’uso di altri
mezzi di risoluzione nei casi in cui non si è preliminarmente tentata la via del negoziato.
B) Procedimenti che coinvolgono un terzo
I procedimenti che prevedono la partecipazione di un terzo sono classificabili in:
—buoni uffici. Consistono nell’intervento di un terzo (Stato, individuo, organizzazione
internazionale) al solo scopo di favorire l’avvio o la ripresa dei negoziati. Il soggetto
terzo non può entrare nel merito della controversia, né sottoporre soluzioni alle parti.
Non è prevista alcuna formalità oltre all’accettazione degli Stati in lite di sottoporsi a
tale procedimento;
—mediazione. Al soggetto terzo è data facoltà di avanzare vere e proprie proposte di soluzione della controversia che, seppur non vincolanti, hanno comunque una certa forza
persuasiva derivante dall’autorità politica che il mediatore (generalmente uno Stato o
l’agente di un’organizzazione internazionale) esercita nella Comunità internazionale;
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—conciliazione. Può essere svolta da un singolo individuo o da una com- La conciliazione e l’istimissione di conciliazione, talvolta permanente, cui le parti fanno ricor- tuzione di una commissione d’inchiesta
so sulla base di un accordo. Le funzioni del conciliatore consistono:
a) nel procedere ad un’analisi più o meno dettagliata della controversia, nei limiti tracciati dall’accordo;
b) nell’emettere un rapporto contenente una o più proposte di risoluzione. Stante il carattere non vincolante delle proposte, la loro autorità risiede nella ragionevolezza
delle soluzioni suggerite e nel prestigio personale del conciliatore (GIULIANOSCOVAZZI-TREVES). Come in tutti gli altri casi di ricorso a mezzi diplomatici, le
parti in lite sono tenute ad agire in buona fede (CASSESE).
L’accordo tra le parti per addivenire alla conciliazione, inoltre, può essere simultaneo
alla nascita della lite o preventivo all’insorgere della stessa. Nel secondo caso, viene
rimandata ad un momento successivo la sola composizione dell’organo di conciliazione.
Alcune convenzioni multilaterali (CASSESE parla di trattati multilaterali di gran momento) hanno istituito dei
procedimenti di conciliazione obbligatoria che prevedono la stipula di un accordo preventivo per la costituzione di commissioni deputate alla risoluzione delle liti: così, ad esempio, la Convenzione di Vienna sul diritto
dei trattati e la Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare.
Inoltre, nei casi in cui la commissione non sia precostituita, sono previste norme dettagliate al fine di comporre l’organo di conciliazione anche in assenza di accordo tra le parti (ad esempio deferendo la scelta al
Segretario Generale delle Nazioni Unite). In queste ipotesi, il meccanismo si avvicina sempre più a quello
di un organo arbitrale, ma ne differisce in quanto non comporta mai l’adozione di una sentenza vincolante
(GIULIANO-SCOVAZZI-TREVES);
—inchiesta. Qualora la controversia verta essenzialmente su un diverso apprezzamento
dei fatti, può risultare utile ricorrere ad una commissione di inchiesta o di accertamento
dei fatti (fact-finding commission) per indagare sulla situazione controversa, secondo
precise modalità di procedura. Talvolta essa costituisce uno degli elementi di un più
articolato procedimento di soluzione delle controversie, ma in ogni caso si conclude con
la stesura di un rapporto non vincolante, salvo i casi in cui si accetti preventivamente il
suo carattere definitivo.
Solitamente le commissioni di inchiesta vengono istituite a seguito di incidenti (aerei, navali etc.) o disastri
ambientali che coinvolgono uno o più Stati; una commissione «atipica» è stata quella incaricata di accertare gli eventi legati all’uccisione dell’agente italiano Nicola Calipari in Iraq nel 2005, nominata ufficialmente dal Governo statunitense prevedendo la partecipazione di meri «osservatori» italiani (la quale, peraltro,
non è mai giunta alla stesura di una relazione condivisa).
Prassi internazionale
Un esempio di mediazione è quella svolta dal Presidente degli Stati Uniti Carter tra Egitto e Israele,
che si concluse con la stipulazione degli Accordi di Camp David del 1978.
Ancora, nel biennio 1994-1995 fu istituito un cd. Gruppo di contatto (composto dai rappresentanti
di alcuni Stati, tra cui Stati Uniti, Russia e Regno Unito) al fine di mediare tra le parti in conflitto nella
ex Jugoslavia. La sua attività sfociò nella stipulazione degli Accordi di Dayton (dicembre 1995).
Un caso più recente è quello relativo alla crisi del Kosovo. Nel 1999, su richiesta dei Ministri degli
Esteri dei sette Paesi più industrializzati e della Federazione Russa, il Presidente finlandese Ahtisam
ari e l’ex Capo del Governo russo proposero un regolamento per la soluzione pacifica della crisi, poi
accettato dalla Repubblica Federale di Jugoslavia (Serbia-Montenegro) e approvato dal Consiglio di
Sicurezza con ris. 1244 del 1999.
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5.I procedimenti arbitrali e giudiziali
I procedimenti arbitrali e quelli giudiziali si distinguono dai procedimenti diplomatici in
quanto prospettano per gli Stati in lite una soluzione vincolante.
In essi si ritrovano alcuni degli elementi propri della funzione giurisdizionale interna:
—una decisione, come detto, vincolante e fondata su considerazioni giuridiche;
—un giudizio affidato ad un organo indipendente;
—la presenza di un contraddittorio;
—un procedimento che garantisce il diritto di difesa e l’uguaglianza fra le parti.
Il «processo internazionale», tuttavia, svolgendosi tra Stati, ossia tra soggetti ugualmente
sovrani e indipendenti, superiorem non recognoscentes, continua a conservare un carattere
sostanzialmente consensuale: il ricorso ad un giudice internazionale è, dunque, subordinato al consenso delle parti (espresso in un accordo specifico o generale, posteriore o anteriore alla nascita della controversia).
Detto processo potrà assumere — in base alla scelta discrezionale degli Stati in lite — sia la
forma di un procedimento arbitrale non istituzionalizzato, sia la forma di un procedimento
giurisdizionale istituzionalizzato (assicurato da organi precostituiti, permanenti e che seguono procedure predeterminate).
Negli ultimi decenni, in realtà, anche i procedimenti arbitrali sono stati oggetto di una lenta istituzionalizzazione, come dimostra il caso dell’ICSID (Centro Internazionale per la Soluzione di Controversie in materia di Investimenti). Istituito con la Convenzione di Washington del marzo 1965, esso costituisce, in presenza di consensuale accettazione della sua giurisdizione, una sede permanente per la risoluzione arbitrale di controversie
insorte tra uno degli Stati membri della Convenzione ed un soggetto, persona fisica o giuridica, cittadino di un
altro Stato membro, in materia di investimenti esteri.
Tale soluzione appare meritevole di considerazione perché pone gli Stati contraenti nel più vasto quadro della
cooperazione internazionale anche nella fase patologica dei loro rapporti.
6.L’arbitrato
A) Nozione
L’arbitrato costituisce un procedimento di soluzione delle controversie caratterizzato dall’intervento di un terzo, singolo individuo o collegio giudicante, scelto dalle parti e chiamato
ad emettere una sentenza, o lodo arbitrale, ad effetto vincolante, che deve essere motivata e resa per iscritto. Elementi tipici sono, dunque:
—l’obbligatorietà della sentenza o altro mezzo di soluzione;
—la libertà di scelta lasciata alle parti in ordine alla composizione dell’organo decisionale (criterio, quest’ultimo, di distinzione rispetto al procedimento giudiziale).
Panorama storico
La nascita dell’arbitrato è da ricollegarsi alla Respublica Christiana, caratterizzata da una comunità
di popoli non paritaria in cui la supremazia incondizionata del Papa e dell’Imperatore facevano di
quest’ultimi i giudici naturali di ogni controversia tra i signori feudali (QUADRI).
Il periodo successivo alla pace di Westphalia (1648), che frammentò il Sacro Romano Impero, vide il
declino dell’arbitro super partes, perché collegato alla supremazia papale o imperiale ormai scomparsa.
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L’arbitrato ritornò in auge alla fine dell’Ottocento, per poi trovare il suo periodo di massimo sviluppo
dopo la prima guerra mondiale grazie all’affermarsi del concetto wilsoniano secondo il quale il predom
minio del diritto e la sottoposizione volontaria a un giudice avrebbero garantito la pace e la sicurezza
internazionali (CASSESE).
Nella Comunità internazionale contemporanea, caratterizzata da un numero crescente di tribunali
precostituiti, l’arbitrato ha comunque conservato una funzione di rilievo soprattutto nell’ambito delle
controversie in materia di diritto aereo e di delimitazione di confini terrestri e marittimi, in virtù della
maggiore competenza tecnica che la scelta del giudice-arbitro è in grado di garantire alle parti rispetm
to a un organo giudiziario (GIULIANO-SCOVAZZI-TREVES).
La prima espressione dell’istituzionalizzazione dei tribunali arbitrali si è avuta con la costituzione
della Corte Permanente di Arbitrato (CONFORTI).
Tale Corte, che è un’organizzazione internazionale indipendente, è stata istituita durante le Conferenm
ze per la risoluzione pacifica delle controversie internazionali tenutesi a L’Aia il 29 luglio 1899 e il 18
ottobre 1907. Essa si compone di giudici periodicamente designati, i Membri della Corte, e di un
Consiglio Amministrativo formato dai rappresentanti diplomatici degli Stati parte.
La sua attività principale consiste nell’offrire una serie di servizi (arbitrato, conciliazione, mediazione,
buoni uffici, commissione d’inchiesta) volti alla risoluzione delle controversie internazionali in cui alm
meno una delle parti sia uno Stato o un’organizzazione di Stati: è indispensabile, però, che le parti
abbiano accettato espressamente l’intervento della Corte.
B) L’accordo di arbitrato
Essenziale all’istituzione di un arbitrato è la conclusione di un accordo tra le parti, sotto
forma di:
—compromesso arbitrale (o arbitrato isolato). Successivamente all’insorgere di una
controversia le parti designano la persona, o il collegio, a cui demandare la funzione
arbitrale. A tale strumento si ricorreva prevalentemente nel corso dell’Ottocento;
—clausola compromissoria, che viene inserita in un trattato per dirimere tutte le controversie relative all’interpretazione e applicazione di quest’ultimo. Si differenzia dal
compromesso in quanto «non riguarda un contrasto attuale bensì quelli futuri ed eventuali» (LEANZA-CARACCIOLO) e si definisce «incompleta», se impone agli Stati un
obbligo di stipulare un compromesso arbitrale (cd. obbligo de contrahendo), o «completa», se prevede l’obbligo di sottoporsi a un arbitrato già operante;
—trattato generale di arbitrato. In questo caso il ricorso ad un arbitrato per ogni controversia futura viene disposto dagli Stati interessati mediante la conclusione, appunto, di
un vero e proprio accordo, il quale, analogamente alla clausola compromissoria, può
essere «incompleto» o «completo» a seconda che imponga di stipulare ex novo un
compromesso arbitrale o di deferire la lite ad un organismo già esistente. Mentre in
passato erano escluse solo talune controversie relative all’onore e all’indipendenza (cd.
clausola di onore) (CASSESE), attualmente è frequente il ricorso alla cd. riserva della
giurisdizione domestica, in virtù della quale non è ammessa l’applicabilità del trattato di
arbitrato nelle questioni ritenute di competenza interna.
Negli strumenti sopra descritti è contenuta l’indicazione:
—dell’oggetto della controversia;
—del diritto applicabile (nell’ipotesi in cui l’arbitro decida secundum jus) o, in alternativa,
del consenso delle parti ad un giudizio emesso ex aequo et bono;
—della procedura da seguire;
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—dei soggetti prescelti in qualità di arbitri. La designazione di questi ultimi è assente
nella clausola compromissoria e nel trattato generale di arbitrato incompleti.
C) La procedura arbitrale
La funzione arbitrale è generalmente assolta da un collegio di tre o cinque membri, e solo
raramente da un unico individuo. Gli Stati designano almeno un arbitro della propria nazionalità, i rimanenti sono nominati di comune accordo.
Non è concordemente accettato dalla dottrina che spetti allo stesso collegio il potere di statuire sulla propria
competenza, cosa che costituisce una questione pregiudiziale allo svolgimento dell’incarico arbitrale (BERNARDINI). Si registrano, in proposito, tendenze opposte nei Paesi di civil law e in quelli di common law: nei
primi si tende a riconoscere agli arbitri tale potere (Francia e Svizzera), mentre nei secondi (Inghilterra) sembra
prevalere il potere del giudice ordinario in materia, salvo però l’accordo delle parti per attribuire all’arbitro tale
specifico potere (GIULIANO-SCOVAZZI-TREVES).
Sovente la procedura stabilita nell’accordo di arbitrato ha elementi comuni con il procedimento giudiziale, in quanto:
—le parti sono rappresentate da agenti e assistite da avvocati e consulenti;
—il processo è articolato in una fase scritta e una orale;
—è prevista la possibilità per il collegio giudicante di indicare o prescrivere obbligatoriamente delle misure cautelari.
Dinanzi agli arbitri è ammesso il giudizio contumaciale (cioè in assenza di una parte), in
quanto si ritiene che il contraddittorio tra le parti sia fatto salvo da una rituale rinnovazione
della citazione delle parti stesse (BERNARDINI).
La procedura si conclude con l’adozione di un lodo, o sentenza arbitrale, che ha efficacia di
cosa giudicata sia in senso sostanziale (risolve la controversia in modo vincolante) che formale (le parti si obbligano a considerarlo immutabile).
Il lodo deve essere reso per iscritto in quanto, per il riconoscimento e l’esecuzione della
decisione arbitrale, le Convenzioni internazionali richiedono la produzione all’autorità
giudiziaria dell’originale della pronuncia o, alternativamente, copia autentica della stessa.
In ogni caso deve contenere la motivazione, intesa ad esternare le ragioni di fatto e di diritto che hanno condotto i giudici ad adottare una decisione piuttosto che un’altra.
È riconosciuta anche la possibilità di modificare la sentenza così emessa attraverso la revisione. A tal fine si rendono necessarie:
—la scoperta di un fatto nuovo precedentemente sconosciuto alla parte che lo invoca;
—la dimostrazione che la conoscenza di tale fatto avrebbe potuto esercitare un’influenza
decisiva sul processo.
7.Il procedimento giudiziale
A) Nozione
Il procedimento giudiziale si caratterizza per il fatto che il soggetto terzo, cui le parti sottopongono la controversia tra loro insorta, è un tribunale precostituito, permanente e
tenuto al rispetto di una procedura istituzionalizzata.
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A differenza di quanto avviene per l’arbitrato, tribunali di questo tipo
La CIG e gli altri tribunapossono essere aditi unilateralmente e, in taluni casi, non solo da Stati li internazionalli
ma anche da individui (CONFORTI).
Storicamente, il fenomeno della giurisdizione internazionale è legato a
quello delle organizzazioni internazionali. Solo sotto l’auspicio della Società delle Nazioni,
infatti, fu possibile dar vita al primo organo giurisdizionale permanente, ossia la Corte
Permanente di Giustizia Internazionale.
Pur avendo un proprio Statuto, la Corte era strettamente collegata alla SdN e scomparve con
l’estinzione di quest’ultima.
Il principale Tribunale internazionale permanente che, pur essendo stato istituito in seno ad
un’organizzazione internazionale, è dotato di una competenza generale (perché non limitata alle sole finalità dell’organizzazione stessa) è la Corte Internazionale di Giustizia.
B) I tribunali internazionali
Il legame fra organizzazioni internazionali e organi giurisdizionali permanenti è ancora oggi
esistente; questi ultimi, pertanto, vedono la loro competenza definita in relazione alle funzioni dell’organizzazione da cui dipendono.
Solo la Corte Internazionale di Giustizia ha una competenza generale, trattandosi di una
giurisdizione legata all’ONU, ossia all’unica organizzazione politica universale. Di contro,
le altre giurisdizioni non hanno che una competenza ristretta, settoriale, che non si estende
al di là delle finalità dell’organizzazione.
Negli ultimi anni sono sorti numerosi tribunali internazionali, in particolare in tema di tutela dei diritti dell’uomo; tra questi vanno annoverati:
—la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, istituita dalla Convenzione Europea sui Diritti
dell’Uomo del 1950, che ha sede a Strasburgo;
—la Corte Interamericana dei Diritti dell’Uomo, prevista dalla Convenzione Interamericana dei Diritti dell’Uomo del 1969;
—la Corte Africana dei Diritti dell’Uomo.
Ad essi dagli anni Novanta in poi si sono aggiunti i tribunali penali internazionali, tra cui:
—il Tribunale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia, istituito con ris. ONU n. 827 del
1993;
—il Tribunale per i crimini commessi in Ruanda (ris. ONU n. 955 del 1994);
—la Corte Penale Internazionale, il cui Statuto è in vigore dal 1° luglio 2002.
Di rilievo è anche il Tribunale Internazionale del Diritto del Mare, con sede ad Amburgo,
istituito con l’obiettivo di dirimere le controversie relative all’applicazione e all’interpretazione della Convenzione di Montego Bay sul diritto internazionale marittimo.
A livello regionale, è possibile citare la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con sede
a Lussemburgo, il cui compito consiste nel giudicare tutte le controversie insorte tra gli
Stati membri in ordine all’applicazione e all’interpretazione del diritto dell’Unione.
In questa sede ci si occuperà della Corte Internazionale di Giustizia, rimandando ad altri
capitoli la trattazione dei tribunali sopra citati.
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8.Segue: La Corte Internazionale di Giustizia (CIG)
A) Generalità
La Corte Internazionale di Giustizia, con sede a L’Aja, costituisce «il principale organo
giurisdizionale delle Nazioni Unite» (art. 92 della Carta ONU), e dal secondo dopoguerra
ha sostituito la Corte Permanente di Giustizia Internazionale istituita nell’ambito della Società delle Nazioni.
Oltre che dagli artt. 92-96 della Carta ONU, il funzionamento della Corte è disciplinato da
un apposito Statuto, approvato a San Francisco nel luglio 1945 (e allegato alla Carta).
L’art. 93 stabilisce che «tutti i membri delle Nazioni Unite sono ipso facto aderenti allo
Statuto della Corte Internazionale di Giustizia», ma ciò non implica che lo Stato debba
necessariamente accettare la giurisdizione della Corte, avendo questa natura consensuale.
B) Composizione
La CIG è composta da 15 giudici di diversa nazionalità, eletti a maggioranza assoluta dai
componenti dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Il loro mandato è di nove anni, ma l’elezione si tiene ogni tre anni al fine di rinnovare un
terzo dei componenti.
Viene loro richiesto di possedere una competenza giudiziaria riconosciuta nel campo del
diritto internazionale ed essere personalità indipendenti da qualsiasi interferenza dei singoli governi e moralmente integre.
Nel suo insieme, la Corte deve essere formata in modo da rappresentare le principali forme
di civiltà e i principali sistemi giuridici del mondo. In realtà, la pratica testimonia un ruolo
privilegiato in favore dei membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
L’imparzialità dei giudici è garantita dalla previsione di alcune incompatibilità e dal riconoscimento, in loro favore, delle immunità e delle prerogative diplomatiche. Il collegio
giudicante, solitamente, si compone della totalità dei giudici, ad eccezione di alcuni casi
tassativamente previsti dallo Statuto (artt. 25-29) in cui la Corte è autorizzata a pronunciarsi in camera ristretta.
La previsione di una composizione ristretta della Corte, di cui si avverte il carattere eccezionale e derogatorio
a norma dello stesso Statuto (art. 25), ha posto interrogativi delicati sulla necessità di contemperare le opposte,
ma entrambe meritevoli di tutela, esigenze di celerità del procedimento, da un lato, e di rappresentatività del
collegio giudicante, dall’altro.
C) Competenze
La Corte ha una triplice competenza:
—consultiva, quando è chiamata ad emettere un parere su qualsiasi questione giuridica le
sia sottoposta dal Consiglio di Sicurezza o dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ovvero su questioni giuridiche relative all’attività degli organi e delle Agenzie specializzate autorizzate dall’Assemblea Generale ad adire la Corte (art. 96 della Carta).
In questo caso la Corte assolve una funzione di «guida autorevole» al fine di indirizzare lungo il sentiero
delimitato dal diritto internazionale l’attività dei vari organi politici che l’adiscono (BROWNLIE).
Capitolo 2: Le controversie internazionali e la loro risoluzione
209
Tra gli organi delle Nazioni Unite, solo il Segretario Generale non
è stato autorizzato a richiedere pareri alla Corte, benché una deci- Le competenze della CIG
sione in tal senso sia stata auspicata in dottrina e raccomandata
nell’Agenda per la pace di Boutros Ghali. L’organo più attivo nella
richiesta di pareri è l’Assemblea Generale, mentre solo un parere (quello sulla Namibia
del 1971) è stato adottato dalla Corte su domanda del Consiglio di Sicurezza.
I pareri consultivi adottati dalla Corte non hanno efficacia vincolante, e talvolta non
vengono neanche seguiti, ma va comunque riconosciuto il loro contributo alla ricostruzione del diritto consuetudinario e all’interpretazione dello Statuto ONU (si pensi all’importanza dei pareri sulla Namibia e sul Sahara occidentale per l’affermazione del principio di autodeterminazione dei popoli).
I pareri, inoltre, possono diventare vincolanti con la conclusione di un accordo, o altro
atto vincolante, che così disponga (CONFORTI).
La richiesta di pareri rappresenta un espediente cui possono ricorrere le organizzazioni internazionali per
aggirare il divieto posto loro di divenire parti di un processo dinanzi alla Corte; l’art. 66, par. 2, lett. e)
della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati fra Stati e organizzazioni internazionali e tra organizzazioni internazionali dispone, infatti, che nell’ipotesi di controversie concernenti l’applicazione o l’interpretazione di norme relative allo jus cogens di cui sia parte un’organizzazione internazionale, quest’ultima può
richiedere un parere della Corte, che verrà accettato come vincolante da tutte le parti della controversia;
—contenziosa. La Corte è chiamata in questo caso a dirimere le controversie tra Stati
mediante decisioni vincolanti. I soli soggetti ammessi a ricorrere a tale funzione, ex art.
34 dello Statuto della Corte, sono gli Stati stessi. Due, inoltre, sono i presupposti per
l’esercizio di questa competenza:
a) l’esistenza di una controversia, ovvero di un «disaccordo su un punto di diritto o di
fatto, una contraddizione, un’opposizione di tesi giuridiche»;
b) l’esistenza di un titolo di giurisdizione. Tale è la manifestazione della volontà delle
parti in lite di investire la Corte della controversia (stante la natura consensuale del
processo internazionale).
L’accertamento di tali requisiti spetta alla Corte stessa ex art. 36, par. 6 del suo Statuto, che lo effettua
qualora così richiedano le parti attraverso lo strumento delle eccezioni preliminari.
Conformemente allo Statuto (art. 36), tre sono gli elementi validi affinché uno Stato
possa ricorrere alla giurisdizione della Corte:
i) la sottoscrizione di un accordo speciale, o compromesso, col quale le parti si impegnano a sottoporre la controversia alla Corte (art. 36, par. 1). L’accordo può
essere concluso con specifico riguardo ad una controversia insorta tra Stati (giurisdizione speciale), o risultare da una disposizione espressa aggiunta ad un trattato, che devolva alla cognizione della Corte ogni controversia relativa all’interpretazione e all’applicazione del trattato stesso (giurisdizione obbligatoria);
ii) la sottoscrizione da parte degli Stati in lite della clausola facoltativa di giurisdizione obbligatoria (art. 36, par. 2). È, infatti, prevista la facoltà per gli Stati firmatari dello Statuto della Corte «di dichiarare che essi riconoscono come obbligatoria ipso facto e senza accordo speciale, rispetto ad ogni Stato che accetti lo
stesso obbligo, la giurisdizione della Corte».
210
Parte III: La responsabilità internazionale dello Stato e la soluzione delle controversie
Si tratta di un meccanismo particolare attraverso il quale le parti accettano in via generale la giurisdizione della Corte (in analogia con quanto avviene nei trattati generali di arbitrato «completi»), in
ordine ad ogni tipo di controversia giuridica (interpretazione dei trattati, questione di diritto internazionale, violazione di un obbligo internazionale e dell’eventuale riparazione dovuta) che non
formi oggetto di un’eccezione. Gli Stati, infatti, hanno la facoltà di condizionare entro limiti determinati di tempo, materia e persona la giurisdizione della Corte (ad es. escludendo con riserve le
controversie insorte prima dell’accettazione o rientranti nella cd. giurisdizione domestica). Quest’ultima risulta, inoltre, circoscritta automaticamente dall’applicazione del principio di reciprocità, in
virtù del quale la Corte, al fine di determinare la propria competenza, ricerca la volontà comune
delle parti così come risulta dal contenuto coincidente delle dichiarazioni di entrambe. Più precisamente, ogni Stato in lite può avvalersi delle riserve della controparte e limitare così la competenza
della Corte (cd. effetto boomerang) (SALMON);
iii)l’accettazione, in modo espresso o tacito, che una parte fa della competenza
della Corte investita unilateralmente della controversia dalla controparte senza
altro titolo di giurisdizione. Trattasi del cd. forum prorogatum, ovvero di una
giurisdizione speciale della Corte giustificata dall’esistenza di una reale volontà
coincidente delle parti;
—cautelare. A norma dell’art. 41, par. 1 del suo Statuto, la Corte può indicare «le misure
cautelari che debbano essere prese a salvaguardia dei diritti rispettivi di ciascuna parte». Tali misure hanno natura vincolante e, pertanto, dal loro mancato rispetto si fa discendere la responsabilità internazionale di uno Stato (sent. 27 giugno 2001, caso LaGrand, Germania c. Stati Uniti e sent. 19 dicembre 2005, Attività armate sul territorio
del Congo, Repubblica Democratica del Congo c. Uganda). Si tratta di uno strumento
cui la CIG ricorre di frequente, a patto che sussistano determinati presupposti (in primis
l’urgenza di provvedere), ed è importante notare che esso «può prescindere dalla preventiva definizione di questioni pregiudiziali quali la stessa accettazione della giurisdizione della Corte da parte di Stati» (Munari). Come affermato dalla CIG nel caso
delle Attività militari e paramilitari in e contro il Nicaragua, dunque, «dinanzi a una
richiesta di misure cautelari … la Corte non deve essere convinta di avere giurisdizione
nel merito».
Giurisprudenza
Si è talora posto il problema se gli Stati possano adire la Corte quando non riescono ad esercitare la
propria sovranità in modo effettivo.
Nel caso riguardante l’applicazione della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del
genocidio (misure provvisorie) (ordinanza 16 aprile 1993), la Corte ritenne che sia la Bosnia Erzem
govina, sia la Repubblica Jugoslava di Serbia e Montenegro fossero legittimate a stare in giudizio in
quanto, pur essendo contestata la loro membership in seno alle Nazioni Unite, entrambe erano parti
contraenti della Convenzione sul genocidio, che espressamente prevede il ricorso alla Corte Internam
zionale di Giustizia quale organo per la risoluzione delle controversie scaturenti dalla Convenzione
stessa.
Al fine di accertare la competenza della Corte, il momento determinante è quello in cui la controversia
ha inizio. In particolare, nel caso della Repubblica Democratica del Congo c. Belgio, «la Corte ricorda che, conformemente alla propria consolidata giurisprudenza, la sua giurisdizione va determinata al momento in cui è stato depositato l’atto introduttivo del giudizio. Se la Corte era competente
alla data del deposito, essa rimane competente a prescindere da circostanze sopravvenute» (sent.
14 febbraio 2002).
Capitolo 2: Le controversie internazionali e la loro risoluzione
211
L’accettazione da parte di uno Stato della competenza della Corte è richiesta anche qualora si tratti di
accertare nei suoi confronti la violazione di obblighi erga omnes. Nel caso delle Attività armate sul
territorio del Congo (nuovo ricorso 2002), Repubblica Democratica del Congo c. Ruanda (misure
cautelari), la Corte ha precisato che «la mera circostanza secondo cui siano invocati diritti e obblighi
erga omnes in una lite dinanzi alla Corte non determina di per sé la sussistenza della giurisdizione
della Corte, (la quale si ha) nei confronti degli Stati soltanto nella misura in cui essi vi abbiano consentito; nel caso di una clausola compromissoria a favore della Corte prevista da un trattato, la giurisdizione sussiste soltanto tra le parti del trattato che siano vincolati da tale clausola e nei limiti posti dalla
stessa» (ordinanza 10 luglio 2002).
D)Procedimento
Il procedimento è avviato mediante notifica alla Corte del compromesso con cui due Stati
decidono di sottoporsi alla sua giurisdizione o, alternativamente, su presentazione di istanza
scritta; in entrambi i casi vanno indicati l’oggetto della controversia e le parti in lite (art. 40).
Sono previste due fasi:
—una fase scritta, con presentazione di memoria, contromemoria e repliche di entrambe
le parti;
—una fase orale, in cui le parti, coadiuvate da testimoni ed esperti, espongono la propria
difesa.
Il processo, come dimostrato dalla pratica più recente, può altresì svolgersi in contumacia di una delle parti (si
pensi alla mancata comparizione degli Stati Uniti, durante la fase di merito, nel caso delle attività militari e
paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua, e alla mancata comparizione dell’Iran nel caso del personale
diplomatico e consolare degli Stati Uniti a Teheran). In tale ipotesi, la Corte è tenuta ad esaminare nel modo
più completo possibile i fatti oggetto del litigio, anche tenendo conto della posizione giuridica pubblicamente
esposta dalla parte contumace al di fuori del processo.
Accanto al procedimento principale è possibile l’instaurazione di procedimenti incidentali.
Ciò avviene nel caso di:
—intervento di uno Stato terzo, che vanti un interesse di natura giuridica suscettibile di
essere pregiudicato dalla decisione della Corte (art. 62 dello Statuto);
—invocazione di eccezioni preliminari relativamente alla competenza della Corte e/o alla
ricevibilità del ricorso che, secondo il giudizio dell’invocante, impediscono il passaggio del
processo alla fase di merito (art. 79);
—adozione di misure cautelari o conservative (provisional measures), giustificate dall’esistenza del pericolo di un pregiudizio irreparabile suscettibile di danneggiare, nelle more
del processo, il diritto oggetto della controversia (art. 41).
La Corte giudica la controversia alla luce del diritto internazionale (art. 38) quale risulta da:
—convenzioni internazionali;
—diritto consuetudinario;
—princìpi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili;
—decisioni giudiziarie e dottrina (in via sussidiaria).
Oltre che secondo diritto (secundum jus) le parti possono — mediante accordo — chiedere
alla Corte di dirimere la lite secondo equità (ex aequo et bono).
212
Parte III: La responsabilità internazionale dello Stato e la soluzione delle controversie
Giurisprudenza
L’ammissibilità di un intervento da parte di uno Stato terzo è rigorosamente collegata all’effettiva rilem
vanza della questione per lo Stato stesso.
Nel caso della controversia sui confini terrestri, insulari e marittimi tra El Salvador e Honduras,
in relazione alla domanda di intervento del Nicaragua la Corte affermò che: «se uno Stato riesce a
convincere la Corte del fatto che egli ha un interesse giuridico potenzialmente toccato dalla decisione,
egli può intervenire in relazione a tale interesse. Ciò non significa tuttavia che allo Stato interveniente sia consentito di discutere altri aspetti del caso» (CIG, 13 settembre 1990).
Nel caso riguardante la domanda di intervento della Repubblica Federale delle Filippine nell’affare
relativo alla sovranità sulle isole Pulau Ligitan e Pulau Sipadan (Indonesia c. Malesia), la Corte
ha altresì chiarito che «l’interesse giuridico (suscettibile di essere pregiudicato dalla sentenza della
Corte) che uno Stato deve dimostrare ai fini dell’ammissibilità del suo intervento ai sensi dell’art. 62
dello Statuto non è limitato soltanto ai contenuti del dispositivo della sentenza. Esso può, infatti, vertere anche sui contenuti della motivazione costitutivi il necessario supporto del dispositivo medesimo»
(CIG, 23 ottobre 2001).
E) Sentenza
La sentenza deve essere motivata e indicare sia i giudici che hanno formato la maggioranza, sia quelli dissenzienti. È definitiva, inappellabile e vincolante per le parti della controversia (art. 59 dello Statuto) e, in quanto tale, ha efficacia di giudicato in senso sostanziale
e formale.
Parte della dottrina (QUADRI) ha negato la natura di giudicato in senso formale della sentenza internazionale.
Nulla vieterebbe, infatti, alle parti non soddisfatte dalla sentenza di sottoporla al giudizio di un altro tribunale,
in assenza di un’effettiva applicazione del principio del ne bis in idem.
Dalle caratteristiche sopra descritte deriva che, qualora una delle parti non dia esecuzione
alla sentenza, è riconosciuto alla controparte il potere «di ricorrere al Consiglio di Sicurezza che può, se lo ritiene necessario, fare raccomandazioni o decidere misure da prendere
per dare effetto al giudizio» (art. 94 dello Statuto).
In linea generale, gli Stati giustificano l’inesecuzione della sentenza denunciandone la presunta invalidità. È
evidente che il mancato adempimento darà vita ad una nuova e distinta controversia.
A conclusione di questa analisi può aggiungersi che l’attività della Corte Internazionale di Giustizia trova ancora parecchi ostacoli e conosce spesso delle battute di arresto.
I Paesi cd. «del Terzo Mondo» mostrano una notevole diffidenza nei confronti della rappresentatività dei giudici e del carattere «internazionale» del diritto applicato, che li spinge a preferire di gran lunga il ricorso ai mezzi
diplomatici di risoluzione delle controversie (CONFORTI). Bisogna quindi guardare con favore alla predisposizione di un giudice ad hoc su richiesta delle parti controvertenti, che sembrerebbe garantire una migliore
rappresentatività della Corte. In questo stesso contesto va analizzata l’evoluzione recente in senso terzomondista che interessa il diritto internazionale.
La condanna degli Stati Uniti nella controversia che li vedeva opposti al Nicaragua (sulle attività militari e
paramilitari in Nicaragua e contro il Nicaragua, 1986) ad opera di una Corte «occidentale» dona chiaramente
fiducia anche a piccoli Stati che sempre più ricorrono all’attività cognitiva della Corte, soprattutto per le questioni relative a delimitazioni di confine.
Capitolo 2: Le controversie internazionali e la loro risoluzione
9.La soluzione pacifica delle controversie nel quadro delle organizzazioni internazionali
A) Generalità
213
Il controllo di un’OI sul
comportamento dei suoi
Stati membri
Fin dalla prima guerra mondiale, le organizzazioni internazionali hanno svolto un ruolo
determinante nella prevenzione e nella soluzione delle controversie internazionali attraverso procedimenti non giudiziali.
La neutralità che le caratterizza, infatti, consente loro di agevolare le negoziazioni tra le
parti e di arbitrare con la dovuta imparzialità.
B) La funzione di controllo internazionale
Le organizzazioni internazionali esercitano anzitutto una funzione di controllo sul comportamento degli Stati membri, che consiste:
—nel vigilare sulla corretta interpretazione e applicazione del trattato istitutivo;
—nel dirimere le controversie sorte in seguito ad eventuali inadempimenti degli obblighi
derivanti dal trattato stesso.
Generalmente, l’organo preposto all’attività di controllo è composto da individui che agiscono in qualità di rappresentanti del proprio Stato (e non, dunque, a titolo personale).
L’iniziativa della procedura, soprattutto nel caso in cui ad essere violate siano disposizioni
del trattato poste a tutela dei diritti umani, non spetta unicamente allo Stato leso, bensì a
tutti i membri dell’organizzazione o allo stesso organo di controllo.
L’esame della controversia insorta viene effettuato a «porte chiuse», talvolta con la compartecipazione di più organi di controllo, e si conclude con l’adozione di un atto di natura
non vincolante (rapporto, raccomandazione).
In alcuni casi, il controllo è svolto periodicamente, a prescindere dall’esistenza di una controversia.
La funzione di controllo è nata al fine di garantire il rispetto delle nuove norme poste a protezione dei diritti
umani o delle minoranze, con le quali si abbandonava per la prima volta il principio della reciprocità quale
elemento peculiare degli obblighi internazionali.
Una soluzione di compromesso tra diverse esigenze fu trovata nell’affidare ad organi internazionali — i quali
potevano agire motu proprio o dietro petizione degli individui — un potere di controllo mirante ad esigere la
realizzazione delle norme predisposte.
Quattro sono le tecniche di controllo che si riscontrano con maggiore frequenza nella pratica internazionale:
—l’esame di rapporti periodici forniti dagli stessi Stati (è quanto avviene, ad esempio,
nell’OIL — Organizzazione Internazionale del Lavoro);
—l’ispezione, strumento che riconosce una larga autonomia di intervento all’organo «ispettivo» (AIEA — Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica);
—l’apertura di un procedimento contenzioso nel quale le parti in lite analizzano il caso
sollevato sotto l’egida di un organo internazionale (Comitato dei Diritti Umani istituito
dal Patto sui diritti civili e politici del 1966);
—l’adozione di misure preventive al fine di eliminare il rischio di una violazione di norme
internazionali. Questo tipo di controllo eccezionalmente penetrante è realizzato esclusi-
214
Parte III: La responsabilità internazionale dello Stato e la soluzione delle controversie
vamente nel quadro di quelle attività (ad es. l’uso pacifico dell’energia atomica) che
presentano un alto grado di pericolosità.
C) La funzione conciliativa
In seno alle organizzazioni internazionali, la funzione conciliativa assume un rilievo particolare dovuto al quadro istituzionale in cui si svolge.
L’organo istituito in seno all’organizzazione, talvolta a carattere permanente (spesso si
tratta del Segretario Generale), agisce in qualità di soggetto terzo imparziale, che procede
ad un’analisi della controversia ed emette un rapporto (a carattere non vincolante) contenente una o più proposte di soluzione.
10. La funzione conciliativa dell’ONU
Nel sistema delle Nazioni Unite la funzione conciliativa è ripartita fra tre diversi organi:
—il Consiglio di Sicurezza;
—l’Assemblea Generale;
—il Segretario Generale.
A) Il Consiglio di Sicurezza
Il Capitolo VI della Carta delle Nazioni Unite (artt. 33-38) è dedicato alla soluzione pacifica delle controversie e disciplina i diversi poteri del Consiglio di Sicurezza in materia. Tale
organo può svolgere una funzione conciliativa solo nel caso in cui esista una controversia
suscettibile di minacciare il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale o una
situazione di tensione.
Per alcuni autori (in tal senso CONFORTI), la differenziazione tra controversia e situazione sarebbe priva di
significato e di risvolti pratici. Per altri (CARBONE-LUZZATTO-SANTA MARIA), dagli artt. 34 e 35 della
Carta ONU risulterebbe che essa ha valore nella misura in cui consente di distinguere tra Stati membri (che
possono deferire al Consiglio di Sicurezza sia controversie, sia situazioni) e Stati terzi (che devono limitarsi alle
controversie); data la partecipazione ormai universale all’ONU, però, l’importanza di tale distinzione potrà
emergere solo nell’ipotesi di costituzione di nuovi Stati, in attesa della loro adesione alle Nazioni Unite.
Più in dettaglio, è previsto che il Consiglio sia dotato di:
—un potere d’inchiesta (art. 34), al fine di venire a conoscenza dei fatti e di accertare se
il prolungamento della controversia in atto rischi di minacciare l’ordine internazionale.
Il Consiglio esercita la sua attività investigativa sia direttamente, sia istituendo una
Commissione ad hoc, o ancora incaricando dell’inchiesta il Segretario Generale (come
avvenne nel 1983 quando a quest’ultimo fu affidato il compito di svolgere un’inchiesta
sui casi di intossicazione nei territori arabi occupati da Israele);
—un potere di indicare procedimenti di regolamento (artt. 33 e 36). Il Consiglio può
invitare genericamente gli Stati, mediante raccomandazione, a ricorrere ad uno dei procedimenti previsti dall’art. 33 o, alternativamente, indicarne uno specifico (art. 36); può,
altresì, predisporre direttamente un procedimento, istituendo ad esempio una Commissione di conciliazione;
Capitolo 2: Le controversie internazionali e la loro risoluzione
215
—un potere di indicare termini di regolamento (artt. 37 e 38). In
La funzione conciliativa
questa ipotesi il Consiglio interviene nel merito stesso della contro- degli organi ONU
versia, suggerendo una soluzione tramite raccomandazione (nel 1970,
ad esempio, il Consiglio si espresse in favore dell’indipendenza
delle isole Bahrain, rigettando le pretese del Regno Unito, che fino ad allora vi aveva
esercitato il suo protettorato, e dell’Iran).
Dottrina
In ordine alla natura del potere d’inchiesta esistono contrasti in dottrina:
— alcuni (GIULIANO-SCOVAZZI-TREVES) sostengono si tratti di meri poteri raccomandatori, perm
tanto non vincolanti per le parti;
— CONFORTI ritiene che la predisposizione dell’inchiesta risponda ad una risoluzione «operativa»
con la quale il Consiglio agisce direttamente. È evidente quindi, secondo l’Autore, che la questiom
ne della natura dei poteri si pone sul piano dell’art. 2, par. 5, in virtù del quale gli Stati «membri
devono dare alle Nazioni Unite ogni assistenza in qualsiasi azione che queste intraprendano in
conformità alle disposizioni del presente Statuto».
È dubbio, peraltro, che questa assistenza debba spingersi fino a consentire agli organi inquirenti del
Consiglio di Sicurezza l’ingresso nel territorio di uno Stato: in assenza di un espresso obbligo per gli
Stati di consentire tale ingresso, permane la possibilità di un rifiuto adeguatamente motivato.
L’esercizio del potere di intervento «dovrebbe» essere subordinato ad alcuni presupposti:
—il Consiglio dovrebbe essere stato investito del caso da tutte o da almeno una delle parti in lite;
—dovrebbe risultare impossibile il ricorso ai mezzi previsti dall’art. 33 della Carta (procedimenti arbitrali e giudiziali).
Nella realtà, il Consiglio ha esteso le proprie competenze ben oltre questi confini, entrando liberamente nel
merito di questioni di cui non era stato investito e che si trovavano ancora in una fase iniziale (CONFORTI).
La possibilità di investire il Consiglio della soluzione di una controversia è riconosciuta:
—a tutti gli Stati membri, anche se non sono parti della controversia (art. 35, par. 1);
—ad uno Stato non membro dell’ONU che si obblighi preventivamente ad accettare le disposizioni della Carta in materia di risoluzione pacifica delle controversie (art. 36, par. 2);
—all’Assemblea Generale (art. 11, par. 3);
—al Segretario Generale (art. 99).
B) L’Assemblea Generale
Ai sensi dell’art. 14 della Carta, l’Assemblea Generale può «raccomandare misure per il
regolamento pacifico di qualsiasi situazione che ritenga suscettibile di pregiudicare il benessere generale o le relazioni amichevoli tra le Nazioni».
Si tratta di un potere molto ampio e sottoposto ad una sola limitazione di ordine procedurale: l’Assemblea «dovrebbe» astenersi dall’adottare una raccomandazione se della questione
è investito il Consiglio (art. 12).
Se si esclude tale condizione, la funzione conciliativa dell’Assemblea è del tutto assimilata
a quella del Consiglio del Sicurezza, e si traduce nell’indicare alle parti interessate il ricorso ad una delle procedure di cui all’art. 33 della Carta, nell’individuarne una specifica, nel
216
Parte III: La responsabilità internazionale dello Stato e la soluzione delle controversie
suggerire termini di regolamento (vale a dire soluzioni di merito), nell’istituire o determinare l’istituzione di organi di soluzione diplomatica di una controversia.
C) Il Segretario Generale
La funzione conciliativa del Segretario Generale si svolge in due direzioni:
—richiamare l’attenzione del Consiglio di Sicurezza su ogni situazione ritenuta suscettibile di minacciare la pace internazionale (art. 99);
—porre in essere specifiche attività diplomatiche tra le parti in lite, in linea col mandato
eventualmente conferitogli dall’Assemblea o dal Consiglio (art. 98).
Nella pratica più recente si assiste ad un’autonoma attività mediatrice svolta dal Segretario
Generale a beneficio degli Stati coinvolti in una crisi internazionale. Si tratta di un’azione
che esula dal quadro normativo della Carta e che riposa esclusivamente sull’autorità personale del Segretario (CONFORTI).