Pdf Opera - Penne Matte
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Pdf Opera - Penne Matte
Vedevo le one dalla spiaggia, le osservavo nascere e morire a riva, imprimendo una specie di ombra nel momento in cui la schiuma si ritirava. Osservavo il mondo che mi circondava nei minimi dettagli. Della donna che sedeva accanto a me, avevo studiato le spalle. Erano rotonde, ben modellate, per quanto piccole, e cosparse di lentiggini. Le avevo osservate fino a quando la donna non si era girata di 180 gradi sullo sdraio, rivelandomi il volto, allora avevo spostato lo sguardo sul mare. Ad un certo punto, la mia attenzione fu catturata da un bambino che camminava lungo la serpentina di tegole che dalla riva risaliva fino alla fila di cabine. Il bambino aveva 8 al massimo 10 anni. Era pallido e chiazzato qua e là di rosso e da ciò si capiva che era il suo primo giorno di spiaggia; aveva i capelli castani e un naso rotondo, che non sarebbe improprio definire “a patata”. Camminava stando attento a posare il piede sulle tegole della serpentina anziché sulla sabbia rovente. Nel passarmi accanto, si fermò e mi fissò, poi fissò la donna che gli dava le spalle, la stessa che poco prima le aveva date a me. Parlando a voce bassa e muovendo bene le labbra per farmi intendere cosa stava dicendo, chiese: «Sta dormendo?» Spostai lo sguardo sulla donna: aveva una ciocca di capelli che le ricadeva sugli occhi però era indubbio che stesse dormendo. Annuii col capo. Il bambino disse: «Gra-zie!» Poi continuò a camminare lungo la serpentina per sparire dietro le cabine. Mi voltai e lo guardai. Era magrissimo. Aveva le scapole che spuntavano come pinne di pesce mentre muoveva le braccia, e una spina dorsale bene in evidenza. Quando sparì, tornai a guardare il mare. Avevo voglia di fare un bagno. Il sole picchiava, ero sudato, mi ci voleva un bel tuffo. Stavo per alzarmi, quando la donna si mosse ancora; sbadigliò, distese le braccia e mi guardò per alcuni istanti, poi si alzò sul busto e mosse lo sguardo a destra e a sinistra. Infine, tornò a me e chiese: «Per caso è passato di qui un bambino con i capelli castano chiari e molto magro?» Annuii. «Sì, appena adesso.» «E dov'è andato?» Indicai la fila di cabine. «Laggiù, mi sembra.» La donna voltò lo sguardo brevemente, poi sospirò. «Qualche problema?» «Quel bambino è mio figlio e non sta fermo un istante.» Sorrisi. «Beh, è normale, è un bambino…» La donna frugò nervosamente nella borsetta alla ricerca di un pacchetto di sigarette e di un accendino. «Lo sarebbe, normale, se non fosse malato.» «Suo figlio è malato?» domandai stupito, quel bambino mi era sembrato tutto fuorché malato. La donna si concesse il tempo di accendere una sigaretta e aspirare una boccata, prima di rispondere. «Sì, ma non fisicamente»; soffiò il fumo. «Sindrome da deficit di attenzione e iperattività.» «Cioè…» «Cioè, riassumendo in poche parole diverse ore e svariate migliaia di euro di psicoterapia cognitiva, mio figlio non sta mai fermo e non sta mai zitto. Il problema è che spesso dice o fa cose che non dovrebbe dire né fare.» «Tipo cosa?» domandai, temendo di risultare indiscreto. La donna fu quasi felice che lo avessi domandato; forse aveva bisogno di sfogarsi. «Ieri, in albergo, nella sala ristorante, ha cominciato a cantare Jingle Bell ad alta voce»; per una frazione di secondo sorrise, ma tornò subito seria. «Urlava, attirando l'attenzione di tutti. Per circa un minuto la gente si è messa a ridere, trovando la cosa divertente, poi, visto che mio figlio non la smetteva, alcuni si sono stufati. Ho dovuto portarlo via.» «Poi ha smesso di cantare?» «Certo, non appena siamo usciti dalla sala ristorante ed è venuto meno il suo pubblico, si è calmato, ma dopo nemmeno mezz'ora ha cominciato a correre di qua e di là. Voleva che lo inseguissi. Diceva che se non l'avessi preso, non sarebbe andato a dormire.» «Un bell'impegno, un bambino del genere.» La donna annuì, aspirando una boccata. Aspirava voracemente come se nelle sigarette trovasse quell'ossigeno che la vita insieme al figlio le negava. «Vede, se fossi sicura che si tratta di una fase passeggera, che mio figlio, crescendo, si lascerà tutto alle spalle, allora sarei tranquilla. Ma ogni tanto mi chiedo cosa gli capiterà. Non potrò stargli sempre dietro. Ora, ad esempio, mi sono addormentata perché non ce la facevo più; in questi giorni ho dormito pochissimo. Sarò rimasta appisolata mezz’ora ed è stato sufficiente perché mio figlio sparisse dalla circolazione.» Avrei voluto chiedere alla donna informazioni sul padre, non poteva pensarci lui al bambino? Ma mi dissi che non era il caso. Come se mi avesse letto nel pensiero, in tono epigrafico, disse: «Non so chi sia il padre.» «No?» domandai. La donna fece di no con la testa. «Cioè, penso di saperlo, ma non ne sono sicura. Diciamo che da ragazza mi sono divertita parecchio, spesso in modo sconsiderato, e che mio figlio è frutto della mia sconsideratezza. Ho in mente un uomo con cui ero stata tanti anni fa, ma non sono sicura che sia lui e se lo fosse, ora non saprei dove trovarlo.» Silenzio alcuni istanti. «Forse mio figlio è una punizione» disse la donna. «Perché? Non ha fatto niente di male» dissi. «Sono stata superficiale. E avrei dovuto continuare a esserlo.» «Non... non capisco…» La donna sospirò e affondò la sigaretta nella sabbia. «Avrei dovuto abortire. Ma tutto d'un tratto, la maternità mi sembrò il modo migliore per dare ordine alla mia vita, diventare adulta, smetterla con certe idiozie.» Ancora silenzio. Non sapevo come commentare le parole che avevo appena ascoltato. Poi, le mie labbra parlarono da sole: «È troppo severa con se stessa.» La donna mi guardò con aria assorta. «Lei dice?»; tornò a guardare la fila di cabine. «Sarà meglio che vada a cercare Enrico. Così si chiama mio figlio. Se lo vede gli può dire di mettersi calmo e aspettarmi qui?» «Va bene» dissi. «Glielo dirò.» La donna sorrise. «Grazie.» E se ne andò. Rimasi alcuni minuti immobile a fissare il mare, ma ora non avevo voglia di tuffarmi. Mi limitai a osservare le singole onde che quel giorno, a causa della totale assenza di vento, sembravano agonizzare, trascinarsi sulla spiaggia come naufraghi sui gomiti. Pensai al fatto che non avevo figli. Avevo 37 anni e non li avrei mai avuti. Come mai? Forse non avevo incontrato la donna giusta con cui farne, anche se, stando ai miei genitori, c’erano state un paio di ragazze idonee ad aspirare ai ruoli di moglie e madre. Forse ero io a non essere adatto a ricoprire quelli di marito e padre. Non mi piacevano i bambini? Non è che non mi piacessero. A dire il vero, non sapevo come fossero i bambini. Ero cresciuto, mi ero definito. Ero diventato un uomo adulto e nel diventarlo avevo perso ogni connessione con la mia infanzia. Non ricordavo niente di come ci si sente da bambini. Che tipo ero quando avevo 8 o 9 anni? Mi sforzai di ricordare. Vidi un bambino con i capelli neri, molto magro, forse persino più magro di Enrico, e seduto. Sì, ero silenzioso da piccolo, e stavo spesso seduto: in salone, a scuola, a pranzo e a cena eccetera. Non mi muovevo, non parlavo. Mia madre si era preoccupata. Un giorno mi aveva portato dal pediatra chiedendogli se fossi malato. Era venuto fuori che ero sano, solo un bambino precocemente introspettivo e poco portato alla parola; caratteristica, questa, con cui mia madre, che aveva sempre sognato un primogenito rumoroso e vivace, era dovuta scendere a patti. I miei ricordi furono interrotti da una voce. «Ciao!» Mi voltai e vidi Enrico sedersi sullo sdraio su cui, prima, era seduta sua madre. Ora che lo guardavo bene in faccia, non potei fare a meno di rilevare la somiglianza tra i due. «Ciao» dissi. «Tua madre ti sta cercando.» «Lo so, quella mi cerca sempre» disse Enrico, e si chinò, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia, per tracciare dei cerchi nella sabbia con la punta dei due indici. «Era preoccupata. Si è svegliata e non ti ha trovato» lo informai. «Quella donna si preoccupa troppo» disse Enrico. «Quella donna è tua madre, è naturale che si preoccupi.» Enrico smise di tracciare cerchi sulla sabbia, si sollevò sul busto e mi fissò. Aveva gli stessi occhi verdi della madre, ma più vividi. «Lo sai che vogliono farmi il lavaggio del cervello?» disse. «Che cosa? Stai scherzando?» dissi. Lui, serissimo, scosse la testa. «Dato che sono troppo vivace, mi hanno costretto a frequentare una psicologa. A parlare con lei due volte alla settimana. Una donna bruttissima, tra l’altro. Con un neo proprio qui, sulla punta del naso, un neo pieno di peli»; per rendere meglio l’idea si sfiorò con il dito la punta arrotondata del suo, di naso. «Solo che sono più di sei mesi che parlo con questa donna, e dato che non si sono visti ancora risultati, non mi sono calmato, cioè, lei e mia madre stanno decidendo se farmi o meno il lavaggio del cervello.» «Nessuno fa il lavaggio del cervello a nessuno» dissi. «Ti stai inventando tutto.» Enrico si animò. «Non mi sto inventando niente. Liberissimo di non credermi, se vuoi, ma non mi sto inventando niente, te l’assicuro. E poi le ho sentito con le mie orecchie, mia madre e la dottoressa parlare di farmi il lavaggio del cervello.» «Tu le avresti sentite parlare così? E quando?» «Un giorno. Un giorno che ero stato nello studio della dottoressa. Vuoi sapere com’è andata?»; senza darmi il tempo di rispondere, Enrico continuò: «Ero appena uscito dallo studio. La dottoressa mi aveva detto di accomodarmi nella sala d’attesa e di aspettare lì, che doveva scambiare due parole con mia madre. Sicché mia madre si era alzata e io mi ero seduto. Poi, mia madre era entrata nello studio della dottoressa che aveva chiuso la porta. Dopo due secondi, vado in bagno e non perché mi scappa, ma perché nel bagno c’è una finestra che si apre su un cortile interno e, poco distante, un’altra finestra, quella dello studio della dottoressa. Dato che la dottoressa ha la bella abitudine di tenerla aperta, a me era bastato aprire quella del bagno e sporgermi un po’ sul davanzale per sentire quello che lei e mia madre si stavano dicendo.» «E cosa si sono dette?» domandai, guardandomi intorno; volevo evitare che la madre di Enrico mi sorprendesse a parlare con suo figlio di argomenti così privati. «La dottoressa ha detto che la terapia non stava ottenendo i risultati sperati e che forse era il caso di passare ai farmaci, dopo l’estate» rispose Enrico. «Cioè pillole. Pillole da ingoiare per farmi stare buono. Pillole per il lavaggio del cervello.» Riflettei alcuni istanti, poi spiegai: «Le pillole e il lavaggio del cervello sono due cose diverse.» «Tu dici? Io invece penso che siano la stessa cosa» disse Enrico. «Ho uno zio che prende le pillole perché è depresso ed è ridotto praticamente uno zombie. Sta tutto il giorno sul divano. Non guarda nemmeno la tv.» «Le pillole che daranno a te non sono le stesse che prende tuo zio, te l’assicuro.» Enrico mi scrutò con l’aria di valutarmi, portandosi l’indice e il pollice della mano destra sotto il mento, come farebbe il commissario di una serie tv. «Tu che ne sai di pillole? Sei uno che le prende? Anche tu sei depresso?» Scossi la testa. «Non sono depresso…» «Allora sei iperattivo. Come me. Hai il… comesichiama, il Deficit da attenzione e qualcos’altro.» «Non ho nessun deficit, solo so che le pillole che danno a un adulto depresso non sono le stesse che darebbero a un bambino.» Enrico continuò a fissarmi con aria diffidente, poi, d’improvviso, si alzò di scatto e io ebbi modo di ammirarlo nuovamente in tutta la sua magrezza. Sembrava davvero un burattino, per come era magro. «Ora basta parlare, vado a fare il bagno! Vuoi venire a fare il bagno?» «No» dissi, e mi guardai nuovamente alle spalle, la fila di cabina, chiedendomi dove cavolo fosse finita quella donna. «Senti, tua madre mi ha detto di dirti che ti sta cercando e di aspettarla qui.» «Ah ti ha detto così» disse Enrico. «Bene. Grazie di avermi detto che te lo ha detto. Io ora vado a farmi il bagno. Ripeto la domanda: ti va di venire?» «Tua madre ti sta cercando» ripetei. «Perché non ti siedi e l’aspetti qui, prima di fare il bagno?» «Perché non mi va, e ho voglia di fare il bagno! Adesso. Per la terza volta: ti va di accompagnarmi?» Mi guardai alle spalle un’altra volta. Nessuna traccia della madre del bambino. Che dovevo fare? Lasciarlo perdere oppure stargli dietro fino a quando non si fosse finalmente riunito alla donna che aveva avuto la disgrazia di metterlo al mondo? «Allora?» Ripensai alle parole della madre: “Forse mio figlio è una punizione.” Mi sollevai dallo sdraio e con aria esasperata, risposi: «Ok, andiamo a fare questo bagno.» Camminammo lungo la serpentina di tegole, poi sulla spiaggia, resa umida dallo spianarsi delle onde. D’un tratto percepii la mia mano sfiorata da delle dita che poi si chiusero su di essa. Abbassai lo sguardo e vidi Enrico che me la stringeva. Dopo alcuni secondi, la mollò. «Volevo provare com’è con un uomo» disse. «Provare cosa?» domandai. «Stringere la mano. Stringo sempre quella di mia madre. Volevo provare com’è stringere quella di un uomo che potrebbe essere mio padre» rispose Enrico. «Quanti anni ha, tu?» «Trentasette» risposi. «Quindi potresti benissimo essere mio padre» disse Enrico. “Sì” pensai. “Potrei benissimo essere tuo padre.” «Camminiamo un po’ prima di tuffarci» disse lui, e così prendemmo a camminare lungo la riva, dove la sabbia era resa dura e piatta dallo spianarsi delle onde. La spiaggia era piena di corpi diversi tra loro. Volete avere un’idea della diversità del genere umano? Camminate lungo una spiaggia in piena estate, sotto il sole delle tre del pomeriggio. Ne vedrete di tutti i tipi, garantito. Uomini, donne. Donne bellissime, che hanno pieno diritto di indossare un due pezzi striminzito e magari togliersi il pezzo di sopra; donne che sono un esempio di menefreghismo e indossano un due pezzi striminzito, magari senza il pezzo di sopra, contro tutte le regole estetiche; uomini alti; uomini bassi; uomini pelosi; uomini pelosissimi; uomini zerbino; uomini così lisci e glabri da mettere i brividi; giovani uomini; uomini anziani; uomini vecchi; uomini vecchissimi di cui viene da pensare che questa sarà la loro ultima estate. Stavo contemplando il genere umano in tutte le sue straordinarie varianti di età, sesso e razza, quando di nuovo sentii la mia mano stretta da quella di Enrico. «Che c’è?» domandai. Lui indicò davanti a sé con la bocca spalancata. «Un gigante!» Guardai nella direzione indicata e vidi un uomo alto, altissimo, camminare verso di noi. Doveva misurare due metri o più. Era magro, sui vent’anni, capelli riccioli, un po’ lunghi, e indossava un costume rosso. Ci affiancò e, nel seguirlo passare oltre con lo sguardo, Enrico disse, a voce abbastanza alta da essere sentito: «Buongiorno, signor gigante!» Il tizio si voltò, sorrise e continuò a camminare. Pochi minuti dopo, vedendo un signore con i capelli rossi come il fuoco, Enrico urlò: «Buongiorno, signor rosso!» Anche in questo caso, il soggetto in questione, rispose con un sorriso distratto. Con mio grande e crescente imbarazzo, nei minuti seguenti, fui testimone di un radioso saluto rivolto, nell’ordine: al signor Pelatone, al signor Orecchie a Pinna di Pesce, ai signori Gemello 1 e Gemello 2, alla signora Capelli Corti, al signor Tatuaggio a Forma di Drago e infine, disgraziatamente, alla signora Tette Mozzarelle. La signora Tette Mozzarelle era, nello specifico, una donna sui 40 anni, abbastanza robusta, pallida, i capelli castano chiari sciolti sulla schiena, le spalle ben delineate e un seno di dimensioni che non è improprio definire giunoniche, libero dal pezzo di sopra del costume a fiori. Sentendosi salutare a quel modo, la donna si fermò. Era a circa due metri da noi e anche a me venne istintivo fermarmi e dato che Enrico mi stringeva la mano, di riflesso si fermò anche lui. Per alcuni secondi, rimanemmo tutti e tre immobili: io, in evidente difficoltà; la signora, con un’espressione incredula; Enrico, sorridente, senza avvertire il minimo imbarazzo. Stavo per passare oltre, allontanarmi prima che la signora potesse convincersi di aver sentito bene, quando Enrico se ne uscì con un educato: «Come sta, oggi, signora Tette Mozzarelle?» A questo punto, la signora esplose. «Come ti permetti, piccolo maleducato!» urlò, rivolta a Enrico, per poi dirigere tutta la sua furia si di me. «Lei, che razza di padre è che lascia suo figlio parlare a questo modo? Ma non si vergogna?» Provai a spiegare che non ero il padre, ma non fu possibile. La signora era partita in quarta. Mi scaricò addosso una sequela d’insulti. La cosa divertente fu che più si arrabbiava, più si agitava e più si agitava, più il seno giunonico vibrava come un budino. Cosa che non sfuggì, ovviamente, allo spirito osservatore di Enrico che scoppiò a ridere. A forza lo trascinai via di lì; quando fummo abbastanza distanti dalla signora Tette Mozzarelle e dalla sua furia, dissi: «Ora facciamoci questo maledetto bagno!» Quando i nostri piedi s’immersero nella schiuma delle onde, Enrico mi lasciò la mano, partì a razzo e si tuffò. «Aspetta!» dissi. «Dove vai, sai nuotare?» Lui riemerse in superficie appena il tempo per dirmi: «Secondo te?» poi s’immerse di nuovo. Sì, Enrico, il bambino affetto da Deficit dell’attenzione, tra una seduta dalla psicologa e l’altra, aveva trovato il modo di seguire un corso di nuoto, evidentemente, visto che sapeva nuotare benissimo. Nuotò a dorso, come posseduto, finché, finalmente, si fermò e si voltò a guardarmi. «Ancora lì, sei?» chiese. Col fiatone, risposi: «Torniamo indietro. Qui non si tocca.» «E allora?» Enrico continuò a immergersi e riemergere. Ad un certo punto, rimase sott’acqua abbastanza a lungo perché io mi preoccupassi, ma poi sentii un paio di mani tentare di sfilarmi il costume. Scalciai e mi allontanai. Il dubbio di avergli accidentalmente - e forse nemmeno così accidentalmente - tirato una tallonata in testa, non mi fece sentire troppo in colpa. Enrico riemerse. «Ahi, mi hai fatto male!» disse, toccandosi la fronte. «Avviciniamoci di più alla riva, qui siamo troppo lontano» dissi. Enrico si guardò intorno, poi, sollevando un braccio, disse: «Nuotiamo fino a quello yacht!» «Fin laggiù? Ma sei matto!» La barca indicata distava almeno trenta metri da dove ci trovavamo. Naturalmente, Enrico non mi ascoltò e cominciò a nuotare. Gli stetti dietro, che altro potevo fare? Nuotai, senza perderlo d’occhio, ma nemmeno ammazzandomi dalla fatica. Mi era chiaro che sapeva tenersi a galla, il bamboccio. Quando lo raggiunsi, a circa dieci metri dallo scafo, vidi che si era aggrappato a una boa. Anche io feci lo stesso, mettendomi accanto a lui. Enrico mi guardò e sorrise. Aveva gli occhi più verdi e luminosi che mai e denti bianchi e quadrati, denti che sembravano affamati di vita. Forse suonerò un po’ patetico, ma in quel momento, pensai che se un giorno sua madre avesse somministrato delle pillole a quel bambino, allora sarebbe stata una disfatta per l’umanità. «Non fai proprio schifo a nuotare, coso» disse lui. «Mi chiamo Arturo» dissi. «Non fai schifo a nuotare, Arturo. Certo, io sono molto meglio, e di sicuro, alla tua età, avrò già stabilito dieci volte il record mondiale sia di apnea che dei 100 in stile libero, ma non fai schifo.» «Ti ringrazio. Senti, tua madre sarà in pena, perché non ritorniamo, con calma, a riva?» «Ti spiego una cosa, riguardo a mia madre, Arturo. Era in pena, quando si è svegliata sullo sdraio, è in pena ora che mi sta cercando, e sarà in pena stasera per qualche altro motivo. Mia madre è sempre in pena. Quindi, che torniamo ora alla spiaggia o tra trenta minuti, non cambia nulla.» Stavo per ribattere qualcosa, quando Enrico staccò le mani dalla boa e, agitandole in aria, urlò: «Signore! Signore! Ehi, dico a lei, signore!» Sollevai lo sguardo lungo lo scafo e, sulla cima, le mani appoggiate alla ringhiera, vidi un uomo. Doveva avere 50 anni, come minimo; indossava un costume a cachi e una camicia di lino bianco aperta su un ventre enorme che sporgeva oltre la ringhiera. Il volto era ben pasciuto e, dal collo alle guance, adombrato da quel tipo di barba che uno dovrebbe farsi come minimo due volte al giorno per avere un aspetto decente. Gli occhi erano vicini, la fronte stretta e parzialmente coperta da un panama. La cosa che mi saltò subito all’occhio fu un anello pesante infilato in una delle dita della mano destra - l’anulare, presumo -, così grosso e lucido da risaltare fin dove mi trovavo. «Signore!» riprese a urlare Enrico. «La sua è una barca bellissima, la farebbe visitare a me e a mio padre? La prego, è uno yacht stupendo! Una figata!» L’uomo, dopo i primi secondi passati a scrutare le onde e la boa per identificare la sorgente di quegli strepiti, stava forse per dire che potevamo scordaci di visitare il suo yacht, quando fu raggiunto da una signora molto elegante. Una donna anche lei sulla cinquantina abbondante, ma decisamente più in forma, vestita con un pareo oltre il quale si notavano un due pezzi e un corpo slanciato, e i capelli biondi raccolti a coda di cavallo. «Che succede, caro? Chi è che urla?» domandò, appoggiando una mano sulla spalla dell’uomo col panama (e l’anello da boss mafioso). Lui stava per aprire bocca, quando Enrico urlò: «Signora! Ha una barca bellissima, davvero! Io e mio padre vorremmo tanto vederla, ci fa salire? La prego! La prego! La prego!» La donna sorvolò le onde fino a incontrare la figura di Enrico, accanto alla mia, poi, sorridendo, alzò un braccio e urlò: «Ehilà! Come state?» Ovviamente, Enrico rispose con grande entusiasmo a quel saluto, tentando perfino di arrampicarsi sulla boa. «Signora, bene! Stiamo bene!» gridò. «Per cortesia, potremmo salire sul suo yacht, io e mio padre? È una barca bellissima e lui s’intende di barche! Potremmo salire giusto un minuto?» «Lasci stare, signora» dissi, a voce abbastanza alta da essere udito. «Ora ce ne torniamo alla spiaggia!» «Ma no, perché invece lei e suo figlio non salite un minuto?» gridò la donna. «Sarei felice di mostrarvi la barca!» Prima che potessi ribattere qualcosa, Enrico si staccò dalla boa e prese a nuotare in direzione dello yacht. Sospirai e presi a nuotare anche io. Tra una bracciata e l’altra, vidi il tizio con l’anello che si rivolgeva alla donna con un’espressione che di certo non si poteva dire entusiasta. Prima Enrico, poi io, ci aggrappammo a una scaletta e raggiungemmo il ponte dello yacht. Ora, io non m’intendo di yacht, ma posso tranquillamente affermare che quello su cui salii a bordo quel giorno era notevole. Doveva misurare come minimo trenta metri e aveva una forma molto slanciata, protesa in avanti. Come vi ho appena detto, non m’intendo di yacht e nautica in generale, sicché nel descrivere gli ambienti che visitammo, sicuramente il lettore esperto, deprecherà la povertà della mia terminologia. Voglia scusarmi. Il retro dell’imbarcazione (poppa?) era largo, con la pavimentazione in legno ed era occupato da alcuni divanetti e da un tavolino in vimini. Fu lì che, inizialmente, venimmo fatti accomodare, io ed Enrico. Non appena il bambino salì a bordo, fu subito coperto dalle attenzioni della signora la quale, evidentemente, nei suoi riguardi aveva sentito destarsi un potente istinto materno. Sempre la signora, dopo averci fatto accomodare, offrì a me un calice di champagne dalla bottiglia già stappata e infilata in un secchio, mentre a Enrico una spremuta d’arancia. «Vado a preparartela in cucina» disse. «Anzi, perché non mi accompagni, così intanto ti mostro gl’interni dello yacht e tuo padre e mio marito chiacchierano un po’?» Enrico che, al cospetto della signora, da bambino pestifero nonché affetto da Deficit dell’attenzione e di qualcos’altro, si era trasformato nel più ubbidiente e accondiscendente dei pargoli, annuì e seguì la bianca ed elegante figura lungo il ponte. Rimasti soli, io e il signore, per i primi 20 secondi, non scambiammo una parola. Io, per sentire meno il peso dell’imbarazzo, osservai il suo potente anello infilato nell’anulare destro della mano, che poggiava su un bracciolo del divano. Era un oggetto non privo di fascino persino uno come me che, nel campo dell’oreficeria, vantava le stesse competenze che in quello nautico. Come ho già detto, l’anello era in oro massiccio. Aveva una fascia spessa almeno un centimetro che girava, anzi, si avvolgeva attorno alla base dell’anulare per reggere al centro una pietra quadrata, sfaccettata e di color rosso sangue. La pietra costituiva la parte principale dell’anello e sembrava esercitare un fascino sovrannaturale non solo ai miei occhi, ma anche a quelli del sole, che giocava con le sfaccettature rimbalzandovi sopra i suoi riflessi. «Sicché quel bambino è suo figlio, eh?» disse l’uomo. Annuii, non avendo il coraggio - forse, la voglia? - di spiegare come stavano le cose. «Già.» L’uomo sospirò, aumentando di molto l’ampiezza del suo già notevole ventre, per poi lasciarlo ricadere. «I figli…» disse e per alcuni secondi sembrò sul punto di enunciare una verità cosmica e incontrovertibile, una verità avvalorata dal potere dell’anello. «Sono un enigma» disse infine, e sorseggiò dal calice. «Lei ne ha?» domandai. L’uomo annuì con un’aria come a dire “purtroppo sì”. «Una femmina. Più grande del suo. Venti anni. Una ragazza che ha tutto: bellezza, intelligenza, amore. Perché è indubbio che io e sua madre l’amiamo. Mia moglie la ama più di quanto la ami io, ma per il semplice motivo che ha un cuore più grande. Io, comunque, la amo con tutta l’ampiezza di cui è capace il mio cuore, che è già tanto, gliel’assicuro. Ad ogni modo, ha tutto, quella ragazza, e si comporta come se non avesse nulla.» Ricordate quando, prima, parlando con la madre di Enrico, avevo detto qualcosa - per la precisione “è troppo severa con se stessa” - senza rendermene conto? La stessa cosa mi accadde in quel momento. Parlai e, un secondo dopo averlo fatto, mi chiesi da dove mi fossero uscite quelle parole. «È un diritto dei figli essere ingrati nei confronti dei genitori» dissi. L’uomo mi guardò, colpito. «Lei crede?» chiese. Annuii. «Sì.» L’uomo rivolse lo sguardo al proprio anello, o meglio, alla pietra incastonata, come se potesse avere l’ultima conferma, dai riflessi che si dipanavano sulle sfaccettature, circa la veridicità della mia asserzione. Tornò a guardarmi e domandò: «E quali sono i diritti dei genitori nei confronti dei figli?» Mi voltai per fissarlo negli occhi e, in quel momento, non solo parlai senza rendermene conto, come per tramite di qualcun altro, ma anche fisicamente, mi sentii come posseduto, come se in me fosse disceso lo spirito autorevole di qualche entità misteriosa, la cui parola non poteva essere messa in discussione. «Nessuno» dissi. L’uomo mi fissò alcuni istanti, sbatté le palpebre, poi chinò il capo, come sotto il peso della mia verità implacabile. «Già, noi padri non abbiamo diritti. Possiamo solo sopportare» disse. «Lo sa come mi ha definito, mia figlia, l’altra sera?» «No, come?» domandai. L’uomo, nel rispondere, riunì le mani sul ventre e con il pollice e l’indice sinistri carezzò la pietra dell’anello. «Ha detto che sono un mediocre. Un uomo senza sensibilità, il cui solo talento è quello di arricchirsi. Poi, ha detto che non è mai riuscita a capire come una donna così bella e piena di personalità come mia moglie abbia fatto a sposare un uomo come me. Infine, ha detto una cosa terribile, che però, non mi ha sorpreso. Una cosa che mi ero aspettato che prima o poi dicesse e, anzi, quando gliel’ho sentita dire, mi sono chiesto come mai avesse aspettato vent’anni per dirla.» «E cioè, cosa le ha detto?» domandai, ero curioso di saperlo. L’uomo smise di carezzare la pietra e riportò la mano destra sul bracciolo del divano. Immediatamente, il sole riprese a giocare con le sfaccettature. «Ha detto che non riesce a capire come uno come me possa essere suo padre perché non abbiamo niente in comune.» Non sapevo come commentare quelle parole, ma pur non essendo padre e non avendo quindi esperienza di figli, mi sembrarono parole inevitabili. Era normale che i figli odiassero i genitori e non si riconoscessero in loro. D’un tratto, una terza presenza spuntò sulla poppa: un uomo sui trent’anni, forse filippino, vestito con una polo e un paio di shorts bianchi. «Dottore» disse, dopo avermi lanciato una rapida occhiata. «La vogliono al telefono. Penso sia per lavoro…» L’uomo annuì. «Mi scusi, ci metterò un attimo» mi disse, e si alzò. «Si figuri» dissi e lo vidi sparire dietro il ponte insieme a quello che presumevo fosse il maggiordomo. Rimasi solo. Guardai il mare, oltre la ringhiera. Era calmo e ora meno azzurro di prima perché la sera, lentamente, aveva cominciato a calare. Spinsi l’occhio fino alla striscia gialla della spiaggia e alle decine di ombrelloni che la occupavano. Pensai alla signora Tette Mozzarelle e sperai che si fosse calmata. Pensai alla madre di Enrico ed ebbi la certezza che non si era calmata affatto. La immaginai che perlustrava la spiaggia chiedendo a chiunque se avesse visto un bambino molto magro e con i capelli castano chiari (omettendo il particolare del naso a patata, non so per riguardo a se stessa o al figlio) aggirarsi da quelle parti. Provai pena per lei, ma non mi scomposi. Prima o poi io e suo figlio saremmo tornati e poi così com’era inevitabile che i figli non si riconoscessero nei genitori, lo era che i genitori stessero in ansia per i figli. Chiusi gli occhi, mi sentivo molto rilassato. Abbandonai il capo sullo schienale del divano, forse stavo per addormentarmi, quando una voce chiese: «E tu chi sei?» Sollevai le palpebre e incrociai la visione più piacevole di quell’estate, forse la più piacevole di tutte le estati della mia vita. A un paio di metri di distanza, accanto al divanetto dove prima era seduto l’uomo dall’anello magico, ora stava una ragazza sui vent’anni, sul metro e settanta centimetri di altezza per un peso tra i 55 e i 60 chili. Indossava un due pezzi bianco e avevo una pelle dorata da un’abbronzatura perfetta. Il corpo era snello e flessuoso, le gambe lunghe e lucide, il ventre teso come pelle di tamburo. Il viso era un ovale entro cui si spalancavano occhi azzurri ed enormi e sbocciavano labbra morbide e spesse. Una cascata di capelli rossi scendeva lungo le spalle e attorno alla fronte. La bellezza di quella ragazza mi fece subito pensare alla pietra dell’anello. Era come se le due entità fossero in un qualche modo correlate. La pietra costituiva l’essenza di quella ragazza, la sua bellezza catturata e racchiusa entro la cornice dell’anello, e la ragazza rappresentava la personificazione della pietra e della sua magia. Difatti, così come il sole aveva giocato con le sfaccettature della pietra, mi sembrò che ora giocasse con i contorni ramati di quel corpo, il bagliore di quegli occhi. «Salve» dissi. «Io… mi chiamo Arturo e… i suoi genitori sono stati così gentili da lasciare che io e mio figlio visitassimo questo yacht.» La ragazza sbatté le palpebre fissandomi alcuni secondi, col capo leggermente piegato, divertita, presumo, dal disagio che ispirava in me la sua bellezza, poi sedette sul divanetto dove prima era seduto suo padre. «Quella scimmietta che osserva mia madre armeggiare con lo spremiagrumi è tuo figlio?» domandò, allungandosi sul tavolo e prelevando un bicchiere di champagne quasi vuoto. «Sì» dissi. «Strano» disse lei, dopo essersi bagnata le labbra con ciò che era rimasto nel bicchiere. «Perché strano?» domandai. La ragazza tornò a fissarmi con i suoi occhi impossibili. «Perché a guardarti non sembri un padre, tu.» «Ah no? E cosa sembro?» domandai. La ragazza fece sbattere le palpebre altre due volte e rispose: «Un figlio.» «Un figlio?» Lei annuì. «Il mondo si divide in genitori e figli. Si capisce lontano un chilometro che mio padre è un padre e mia madre è una madre. Non parlo dell’età, ma di un modo che hanno di parlare, di muoversi. Tu, quel modo, non ce l’hai. Però, ora che ti guardo meglio, non sembri nemmeno un figlio.» «E allora, cosa sarei?» dissi, sorridendo. Lei, sempre seria, scrollò le spalle. «E che ne so» disse. «Un alieno? Un mostro degli abissi? Di sicuro non sei un angelo sceso dal cielo per prelevarmi e portarmi via da questa barba tremenda di vacanza.» «Non ti piace stare qui?» chiesi. «A quale ragazza di vent’anni piacerebbe passare l’estate insieme a suo padre e sua madre su uno yacht? Ah, aspetta: suo padre, sua madre e il maggiordomo ficcanaso. Non trovi che, all’alba del Ventunesimo secolo, sia una cosa terribilmente imbarazzante portarsi dietro un maggiordomo?» «Beh, dovranno pure farsi aiutare da qualcuno, i tuoi genitori, con una barca così grande» dissi. «E poi, passi mia madre» continuò nei suoi ragionamenti, la ragazza. «E passi anche il maggiordomo, ma mio padre, lo hai conosciuto?» «Prima stavamo parlando.» «Quindi avrai capito che uomo ottuso e greve è. Non pensi che sia un uomo ottuso, greve e volgare?» Stavo per dire alla ragazza che non lo pensavo affatto e che, meno di cinque minuti prima, suo padre mi aveva confessato quanto le volesse bene, quando Enrico e la signora bionda spuntarono alle mie spalle. «Dov’è tuo padre?» chiese la signora, rivolgendosi con una certa alterigia alla figlia; quel tipo di alterigia che denota una passata tensione in famiglia, non ancora del tutto appianata. «E che ne so?» rispose la ragazza. «Si è assentato per motivi di lavoro» dissi. «Qualcuno lo cercava al telefono.» «Sempre al telefono sta, quello» sbottò la ragazza, alzandosi dal divano. «Partiamo in vacanza, passiamo l’estate in mare e lui non fa altro che starsene chiuso in questo stupido yacht attaccato al telefono!» «Non usare questo tono quando parli di tuo padre» disse la donna, poi, vedendo che la figlia stava per andarsene, domandò: «dove vai?» «In spiaggia, prendo il tender e vado in spiaggia dai miei amici» disse la ragazza. «Tanto che resto a fare qui?» «Vorresti allora essere così gentile da accompagnare Enrico e suo padre al loro bagno?» disse la donna, appoggiando una mano sul capo di Enrico. «La mamma li sta aspettando, vero?» Enrico annuì e con aria diligente, rivolgendosi a me: «Vero. Papà, quanto avevamo detto alla mamma, che saremmo stati in mare?» «Poco. Una mezz’ora» dissi, senza provare la minima difficoltà a reggergli il gioco. Enrico si voltò, alzando lo sguardo verso la signora. «Già, ora è meglio che torno dalla mamma. Mi piacerebbe che la conoscesse, signora Giulia, sa? Lei e la mamma andreste d’accordo.» «E a me piacerebbe tanto conoscerla» disse la donna, chinandosi e schioccando un bacio sulla fronte di Enrico. «Dev’essere felicissima, tua madre di avere un figlio come te, lo sai che sei proprio un tesoro?» Pochi minuti più tardi, io, Enrico e la ragazza dai capelli rossi, viaggiavamo su un tender che, per chi fosse a digiuno come il sottoscritto di questioni di nautica, è un gommone dotato di motore usato da chi possiede yacht di certe dimensioni per raggiungere la riva. La ragazza era seduta a poppa, vicino al timone, io ed Enrico più avanti. Enrico, ogni tanto, mi guardava e sorrideva, felice di come si fossero messe le cose, della nostra avventura, cioè, breve ma fitta di eventi: la signora Tette Mozzarelle, la nuotata fino alla boa, lo yacht e ora il ritorno in spiaggia a bordo del tender. Io, a dire il vero, non riuscivo a trovare grosse motivazioni per sorridere. Sì, a ripensarci era stato tutto buffo e, in un certo senso, rocambolesco, ma ora che, di secondo in secondo, la spiaggia si delineava sempre più al mio sguardo, non potevo fare a meno di pensare alla reazione della mamma di Enrico quando ci avesse visti. Eravamo stati via più di un’ora. Come si sarebbe comportata nei miei riguardi? Avrebbe compreso la mia situazione, ben consapevole che bambino difficile da gestire fosse il suo, o si sarebbe arrabbiata, stravolta dall’angoscia in cui era precipitata fino a quel momento? Per non pensarci, ogni tanto gettavo lo sguardo a poppa, alla ragazza. Era bellissima. Il vento che le scompigliava i capelli e gli schizzi di schiuma che le inargentavano le spalle non diminuivano affatto la sua bellezza. Era perfetta, sempre e in ogni situazione. Mi chiesi quanto lo sarebbe rimasta. Prima o poi, gli anni sarebbero passati anche per lei, delle rughe, per quanto minime, avrebbero intaccato l’ovale del viso, gli occhi azzurri sarebbero diventati un po’ meno azzurri e del grigio si sarebbe insinuato tra le ciocche rosse. Forse sarebbe diventata madre e avrebbe assunto, nei movimenti e nella voce, quel modo d’essere che, come aveva detto lei stessa, contraddistingue la condizione di genitori. O forse non sarebbe diventata madre e, invecchiando, si sarebbe trasformata in qualcosa di indefinibile come il sottoscritto, non un figlio, non un padre, una strana creatura irrisolta. Smisi di pensare quando il tender rallentò e la ragazza domandò: «È questo il bagno?» D’istinto guardai Enrico e allora vidi il suo sorriso morire, la luce dei suoi occhi fissarsi in un punto e la voce, improvvisamente seria, dire: «Oh, cavolo.» Seguii la direzione del suo sguardo e allora non ebbi più dubbi sulla reazione con cui la madre ci avrebbe accolto. La donna era in piedi, sulla riva, la schiuma delle onde che le lambiva le caviglie. Aveva i capelli scarmigliati sulle spalle e sulla fronte. Tutto il corpo denotava uno stato di tensione. Le braccia erano conserte sul petto sollevato da una respirazione breve e affannosa. La luce degli occhi era del tutto particolare. Era ferma e dilatata. Era la luce di uno spirito che si preparava da tempo a prendere la rincorsa e ora che vede il suo obiettivo giungere innanzi, è pronto a scagliarsi contro con tutta la sua forza. Il tender rallentò. Con movimenti rapidi, Enrico saltò giù, saltellò tra le onde e disse: «Mamma, mamma, scusa se siamo stati via ma…» La madre non gli permise di continuare; distese il braccio sinistro e, indicando gli ombrelloni alle spalle, disse: «Con te facciamo i conti poi, aspettami allo sdraio e preparati!»; poi si rivolse a me che, con lentezza studiata, ero sceso dal tender e mi stavo avvicinando alla riva. Credo che nemmeno se su di me fosse scesa per la terza volta una qualche autorità misteriosa e trascendente a comandare le mie parole, sarei stato in grado di arginare la furia che stava per travolgermi. La madre di Enrico mi disse che ero un irresponsabile, che andavo denunciato, anzi, peggio, chiuso in galera; senza darmi il modo di rispondere, mi chiese come mi fosse venuto in mente di allontanarmi per tutto quel tempo con suo figlio; continuò a scaricarmi addosso una serie di accuse e d’insulti mentre gli altri bagnanti osservavano la scena, dapprima perplessi, poi divertiti. Dopo un paio di tentativi, rinunciai di spiegare alla donna come fossero andate le cose e, più o meno con la stessa velocità di gambe dimostrata dal figlio, anche io mi diressi verso gli sdrai per raccogliere le mie cose e filarmela.