Pdf Opera - Penne Matte

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Pdf Opera - Penne Matte
Vedevo le one dalla spiaggia, le osservavo nascere e
morire a riva, imprimendo una specie di ombra nel
momento in cui la schiuma si ritirava. Osservavo il
mondo che mi circondava nei minimi dettagli.
Della donna che sedeva accanto a me, avevo
studiato le spalle. Erano rotonde, ben modellate, per
quanto piccole, e cosparse di lentiggini.
Le avevo osservate fino a quando la donna non si
era girata di 180 gradi sullo sdraio, rivelandomi il volto,
allora avevo spostato lo sguardo sul mare.
Ad un certo punto, la mia attenzione fu catturata da
un bambino che camminava lungo la serpentina di
tegole che dalla riva risaliva fino alla fila di cabine.
Il bambino aveva 8 al massimo 10 anni. Era pallido e
chiazzato qua e là di rosso e da ciò si capiva che era il
suo primo giorno di spiaggia; aveva i capelli castani e un
naso rotondo, che non sarebbe improprio definire “a
patata”. Camminava stando attento a posare il piede
sulle tegole della serpentina anziché sulla sabbia
rovente.
Nel passarmi accanto, si fermò e mi fissò, poi fissò la
donna che gli dava le spalle, la stessa che poco prima le
aveva date a me.
Parlando a voce bassa e muovendo bene le labbra
per farmi intendere cosa stava dicendo, chiese: «Sta
dormendo?»
Spostai lo sguardo sulla donna: aveva una ciocca di
capelli che le ricadeva sugli occhi però era indubbio che
stesse dormendo.
Annuii col capo.
Il bambino disse: «Gra-zie!»
Poi continuò a camminare lungo la serpentina per
sparire dietro le cabine.
Mi voltai e lo guardai. Era magrissimo. Aveva le
scapole che spuntavano come pinne di pesce mentre
muoveva le braccia, e una spina dorsale bene in
evidenza. Quando sparì, tornai a guardare il mare.
Avevo voglia di fare un bagno. Il sole picchiava, ero
sudato, mi ci voleva un bel tuffo. Stavo per alzarmi,
quando la donna si mosse ancora; sbadigliò, distese le
braccia e mi guardò per alcuni istanti, poi si alzò sul
busto e mosse lo sguardo a destra e a sinistra. Infine,
tornò a me e chiese: «Per caso è passato di qui un
bambino con i capelli castano chiari e molto magro?»
Annuii. «Sì, appena adesso.»
«E dov'è andato?»
Indicai la fila di cabine. «Laggiù, mi sembra.»
La donna voltò lo sguardo brevemente, poi sospirò.
«Qualche problema?»
«Quel bambino è mio figlio e non sta fermo un
istante.»
Sorrisi. «Beh, è normale, è un bambino…»
La donna frugò nervosamente nella borsetta alla
ricerca di un pacchetto di sigarette e di un accendino.
«Lo sarebbe, normale, se non fosse malato.»
«Suo figlio è malato?» domandai stupito, quel
bambino mi era sembrato tutto fuorché malato.
La donna si concesse il tempo di accendere una
sigaretta e aspirare una boccata, prima di rispondere.
«Sì, ma non fisicamente»; soffiò il fumo. «Sindrome da
deficit di attenzione e iperattività.»
«Cioè…»
«Cioè, riassumendo in poche parole diverse ore e
svariate migliaia di euro di psicoterapia cognitiva, mio
figlio non sta mai fermo e non sta mai zitto. Il problema
è che spesso dice o fa cose che non dovrebbe dire né
fare.»
«Tipo cosa?» domandai, temendo di risultare
indiscreto.
La donna fu quasi felice che lo avessi domandato;
forse aveva bisogno di sfogarsi.
«Ieri, in albergo, nella sala ristorante, ha cominciato a
cantare Jingle Bell ad alta voce»; per una frazione di
secondo sorrise, ma tornò subito seria. «Urlava,
attirando l'attenzione di tutti. Per circa un minuto la
gente si è messa a ridere, trovando la cosa divertente,
poi, visto che mio figlio non la smetteva, alcuni si sono
stufati. Ho dovuto portarlo via.»
«Poi ha smesso di cantare?»
«Certo, non appena siamo usciti dalla sala ristorante
ed è venuto meno il suo pubblico, si è calmato, ma dopo
nemmeno mezz'ora ha cominciato a correre di qua e di
là. Voleva che lo inseguissi. Diceva che se non l'avessi
preso, non sarebbe andato a dormire.»
«Un bell'impegno, un bambino del genere.»
La donna annuì, aspirando una boccata. Aspirava
voracemente come se nelle sigarette trovasse
quell'ossigeno che la vita insieme al figlio le negava.
«Vede, se fossi sicura che si tratta di una fase
passeggera, che mio figlio, crescendo, si lascerà tutto
alle spalle, allora sarei tranquilla. Ma ogni tanto mi
chiedo cosa gli capiterà. Non potrò stargli sempre dietro.
Ora, ad esempio, mi sono addormentata perché non ce
la facevo più; in questi giorni ho dormito pochissimo.
Sarò rimasta appisolata mezz’ora ed è stato sufficiente
perché mio figlio sparisse dalla circolazione.»
Avrei voluto chiedere alla donna informazioni sul
padre, non poteva pensarci lui al bambino? Ma mi dissi
che non era il caso.
Come se mi avesse letto nel pensiero, in tono
epigrafico, disse: «Non so chi sia il padre.»
«No?» domandai.
La donna fece di no con la testa. «Cioè, penso di
saperlo, ma non ne sono sicura. Diciamo che da
ragazza mi sono divertita parecchio, spesso in modo
sconsiderato, e che mio figlio è frutto della mia
sconsideratezza. Ho in mente un uomo con cui ero stata
tanti anni fa, ma non sono sicura che sia lui e se lo
fosse, ora non saprei dove trovarlo.»
Silenzio alcuni istanti.
«Forse mio figlio è una punizione» disse la donna.
«Perché? Non ha fatto niente di male» dissi.
«Sono stata superficiale. E avrei dovuto continuare a
esserlo.»
«Non... non capisco…»
La donna sospirò e affondò la sigaretta nella sabbia.
«Avrei dovuto abortire. Ma tutto d'un tratto, la maternità
mi sembrò il modo migliore per dare ordine alla mia vita,
diventare adulta, smetterla con certe idiozie.»
Ancora silenzio. Non sapevo come commentare le
parole che avevo appena ascoltato. Poi, le mie labbra
parlarono da sole: «È troppo severa con se stessa.»
La donna mi guardò con aria assorta. «Lei dice?»;
tornò a guardare la fila di cabine. «Sarà meglio che
vada a cercare Enrico. Così si chiama mio figlio. Se lo
vede gli può dire di mettersi calmo e aspettarmi qui?»
«Va bene» dissi. «Glielo dirò.»
La donna sorrise.
«Grazie.»
E se ne andò.
Rimasi alcuni minuti immobile a fissare il mare, ma ora
non avevo voglia di tuffarmi. Mi limitai a osservare le
singole onde che quel giorno, a causa della totale
assenza di vento, sembravano agonizzare, trascinarsi
sulla spiaggia come naufraghi sui gomiti.
Pensai al fatto che non avevo figli. Avevo 37 anni e
non li avrei mai avuti. Come mai? Forse non avevo
incontrato la donna giusta con cui farne, anche se,
stando ai miei genitori, c’erano state un paio di ragazze
idonee ad aspirare ai ruoli di moglie e madre. Forse ero
io a non essere adatto a ricoprire quelli di marito e
padre.
Non mi piacevano i bambini?
Non è che non mi piacessero. A dire il vero, non
sapevo come fossero i bambini. Ero cresciuto, mi ero
definito. Ero diventato un uomo adulto e nel diventarlo
avevo perso ogni connessione con la mia infanzia. Non
ricordavo niente di come ci si sente da bambini.
Che tipo ero quando avevo 8 o 9 anni?
Mi sforzai di ricordare. Vidi un bambino con i capelli
neri, molto magro, forse persino più magro di Enrico, e
seduto. Sì, ero silenzioso da piccolo, e stavo spesso
seduto: in salone, a scuola, a pranzo e a cena eccetera.
Non mi muovevo, non parlavo. Mia madre si era
preoccupata. Un giorno mi aveva portato dal pediatra
chiedendogli se fossi malato. Era venuto fuori che ero
sano, solo un bambino precocemente introspettivo e
poco portato alla parola; caratteristica, questa, con cui
mia madre, che aveva sempre sognato un primogenito
rumoroso e vivace, era dovuta scendere a patti.
I miei ricordi furono interrotti da una voce.
«Ciao!»
Mi voltai e vidi Enrico sedersi sullo sdraio su cui,
prima, era seduta sua madre. Ora che lo guardavo bene
in faccia, non potei fare a meno di rilevare la
somiglianza tra i due.
«Ciao» dissi. «Tua madre ti sta cercando.»
«Lo so, quella mi cerca sempre» disse Enrico, e si
chinò, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia, per
tracciare dei cerchi nella sabbia con la punta dei due
indici.
«Era preoccupata. Si è svegliata e non ti ha trovato»
lo informai.
«Quella donna si preoccupa troppo» disse Enrico.
«Quella donna è tua madre, è naturale che si
preoccupi.»
Enrico smise di tracciare cerchi sulla sabbia, si
sollevò sul busto e mi fissò. Aveva gli stessi occhi verdi
della madre, ma più vividi.
«Lo sai che vogliono farmi il lavaggio del cervello?»
disse.
«Che cosa? Stai scherzando?» dissi.
Lui, serissimo, scosse la testa. «Dato che sono
troppo vivace, mi hanno costretto a frequentare una
psicologa. A parlare con lei due volte alla settimana.
Una donna bruttissima, tra l’altro. Con un neo proprio
qui, sulla punta del naso, un neo pieno di peli»; per
rendere meglio l’idea si sfiorò con il dito la punta
arrotondata del suo, di naso. «Solo che sono più di sei
mesi che parlo con questa donna, e dato che non si
sono visti ancora risultati, non mi sono calmato, cioè, lei
e mia madre stanno decidendo se farmi o meno il
lavaggio del cervello.»
«Nessuno fa il lavaggio del cervello a nessuno» dissi.
«Ti stai inventando tutto.»
Enrico si animò. «Non mi sto inventando niente.
Liberissimo di non credermi, se vuoi, ma non mi sto
inventando niente, te l’assicuro. E poi le ho sentito con
le mie orecchie, mia madre e la dottoressa parlare di
farmi il lavaggio del cervello.»
«Tu le avresti sentite parlare così? E quando?»
«Un giorno. Un giorno che ero stato nello studio della
dottoressa. Vuoi sapere com’è andata?»; senza darmi il
tempo di rispondere, Enrico continuò: «Ero appena
uscito dallo studio. La dottoressa mi aveva detto di
accomodarmi nella sala d’attesa e di aspettare lì, che
doveva scambiare due parole con mia madre. Sicché
mia madre si era alzata e io mi ero seduto. Poi, mia
madre era entrata nello studio della dottoressa che
aveva chiuso la porta. Dopo due secondi, vado in bagno
e non perché mi scappa, ma perché nel bagno c’è una
finestra che si apre su un cortile interno e, poco
distante, un’altra finestra, quella dello studio della
dottoressa. Dato che la dottoressa ha la bella abitudine
di tenerla aperta, a me era bastato aprire quella del
bagno e sporgermi un po’ sul davanzale per sentire
quello che lei e mia madre si stavano dicendo.»
«E cosa si sono dette?» domandai, guardandomi
intorno; volevo evitare che la madre di Enrico mi
sorprendesse a parlare con suo figlio di argomenti così
privati.
«La dottoressa ha detto che la terapia non stava
ottenendo i risultati sperati e che forse era il caso di
passare ai farmaci, dopo l’estate» rispose Enrico. «Cioè
pillole. Pillole da ingoiare per farmi stare buono. Pillole
per il lavaggio del cervello.»
Riflettei alcuni istanti, poi spiegai: «Le pillole e il
lavaggio del cervello sono due cose diverse.»
«Tu dici? Io invece penso che siano la stessa cosa»
disse Enrico. «Ho uno zio che prende le pillole perché è
depresso ed è ridotto praticamente uno zombie. Sta
tutto il giorno sul divano. Non guarda nemmeno la tv.»
«Le pillole che daranno a te non sono le stesse che
prende tuo zio, te l’assicuro.»
Enrico mi scrutò con l’aria di valutarmi, portandosi
l’indice e il pollice della mano destra sotto il mento,
come farebbe il commissario di una serie tv. «Tu che ne
sai di pillole? Sei uno che le prende? Anche tu sei
depresso?»
Scossi la testa. «Non sono depresso…»
«Allora sei iperattivo. Come me. Hai il…
comesichiama, il Deficit da attenzione e qualcos’altro.»
«Non ho nessun deficit, solo so che le pillole che
danno a un adulto depresso non sono le stesse che
darebbero a un bambino.»
Enrico continuò a fissarmi con aria diffidente, poi,
d’improvviso, si alzò di scatto e io ebbi modo di
ammirarlo nuovamente in tutta la sua magrezza.
Sembrava davvero un burattino, per come era magro.
«Ora basta parlare, vado a fare il bagno! Vuoi venire a
fare il bagno?»
«No» dissi, e mi guardai nuovamente alle spalle, la
fila di cabina, chiedendomi dove cavolo fosse finita
quella donna. «Senti, tua madre mi ha detto di dirti che ti
sta cercando e di aspettarla qui.»
«Ah ti ha detto così» disse Enrico. «Bene. Grazie di
avermi detto che te lo ha detto. Io ora vado a farmi il
bagno. Ripeto la domanda: ti va di venire?»
«Tua madre ti sta cercando» ripetei. «Perché non ti
siedi e l’aspetti qui, prima di fare il bagno?»
«Perché non mi va, e ho voglia di fare il bagno!
Adesso. Per la terza volta: ti va di accompagnarmi?»
Mi guardai alle spalle un’altra volta. Nessuna traccia
della madre del bambino. Che dovevo fare? Lasciarlo
perdere oppure stargli dietro fino a quando non si fosse
finalmente riunito alla donna che aveva avuto la
disgrazia di metterlo al mondo?
«Allora?»
Ripensai alle parole della madre: “Forse mio figlio è
una punizione.”
Mi sollevai dallo sdraio e con aria esasperata, risposi:
«Ok, andiamo a fare questo bagno.»
Camminammo lungo la serpentina di tegole, poi sulla
spiaggia, resa umida dallo spianarsi delle onde.
D’un tratto percepii la mia mano sfiorata da delle dita
che poi si chiusero su di essa. Abbassai lo sguardo e
vidi Enrico che me la stringeva. Dopo alcuni secondi, la
mollò.
«Volevo provare com’è con un uomo» disse.
«Provare cosa?» domandai.
«Stringere la mano. Stringo sempre quella di mia
madre. Volevo provare com’è stringere quella di un
uomo che potrebbe essere mio padre» rispose Enrico.
«Quanti anni ha, tu?»
«Trentasette» risposi.
«Quindi potresti benissimo essere mio padre» disse
Enrico.
“Sì” pensai. “Potrei benissimo essere tuo padre.”
«Camminiamo un po’ prima di tuffarci» disse lui, e
così prendemmo a camminare lungo la riva, dove la
sabbia era resa dura e piatta dallo spianarsi delle onde.
La spiaggia era piena di corpi diversi tra loro. Volete
avere un’idea della diversità del genere umano?
Camminate lungo una spiaggia in piena estate, sotto il
sole delle tre del pomeriggio. Ne vedrete di tutti i tipi,
garantito.
Uomini, donne. Donne bellissime, che hanno pieno
diritto di indossare un due pezzi striminzito e magari
togliersi il pezzo di sopra; donne che sono un esempio
di menefreghismo e indossano un due pezzi striminzito,
magari senza il pezzo di sopra, contro tutte le regole
estetiche; uomini alti; uomini bassi; uomini pelosi;
uomini pelosissimi; uomini zerbino; uomini così lisci e
glabri da mettere i brividi; giovani uomini; uomini
anziani; uomini vecchi; uomini vecchissimi di cui viene
da pensare che questa sarà la loro ultima estate.
Stavo contemplando il genere umano in tutte le sue
straordinarie varianti di età, sesso e razza, quando di
nuovo sentii la mia mano stretta da quella di Enrico.
«Che c’è?» domandai.
Lui indicò davanti a sé con la bocca spalancata. «Un
gigante!»
Guardai nella direzione indicata e vidi un uomo alto,
altissimo, camminare verso di noi. Doveva misurare due
metri o più. Era magro, sui vent’anni, capelli riccioli, un
po’ lunghi, e indossava un costume rosso.
Ci affiancò e, nel seguirlo passare oltre con lo
sguardo, Enrico disse, a voce abbastanza alta da
essere sentito: «Buongiorno, signor gigante!»
Il tizio si voltò, sorrise e continuò a camminare.
Pochi minuti dopo, vedendo un signore con i capelli
rossi come il fuoco, Enrico urlò: «Buongiorno, signor
rosso!»
Anche in questo caso, il soggetto in questione,
rispose con un sorriso distratto.
Con mio grande e crescente imbarazzo, nei minuti
seguenti, fui testimone di un radioso saluto rivolto,
nell’ordine: al signor Pelatone, al signor Orecchie a
Pinna di Pesce, ai signori Gemello 1 e Gemello 2, alla
signora Capelli Corti, al signor Tatuaggio a Forma di
Drago e infine, disgraziatamente, alla signora Tette
Mozzarelle.
La signora Tette Mozzarelle era, nello specifico, una
donna sui 40 anni, abbastanza robusta, pallida, i capelli
castano chiari sciolti sulla schiena, le spalle ben
delineate e un seno di dimensioni che non è improprio
definire giunoniche, libero dal pezzo di sopra del
costume a fiori.
Sentendosi salutare a quel modo, la donna si fermò.
Era a circa due metri da noi e anche a me venne
istintivo fermarmi e dato che Enrico mi stringeva la
mano, di riflesso si fermò anche lui. Per alcuni secondi,
rimanemmo tutti e tre immobili: io, in evidente difficoltà;
la signora, con un’espressione incredula; Enrico,
sorridente, senza avvertire il minimo imbarazzo. Stavo
per passare oltre, allontanarmi prima che la signora
potesse convincersi di aver sentito bene, quando Enrico
se ne uscì con un educato: «Come sta, oggi, signora
Tette Mozzarelle?»
A questo punto, la signora esplose.
«Come ti permetti, piccolo maleducato!» urlò, rivolta
a Enrico, per poi dirigere tutta la sua furia si di me. «Lei,
che razza di padre è che lascia suo figlio parlare a
questo modo? Ma non si vergogna?»
Provai a spiegare che non ero il padre, ma non fu
possibile. La signora era partita in quarta. Mi scaricò
addosso una sequela d’insulti. La cosa divertente fu che
più si arrabbiava, più si agitava e più si agitava, più il
seno giunonico vibrava come un budino. Cosa che non
sfuggì, ovviamente, allo spirito osservatore di Enrico che
scoppiò a ridere.
A forza lo trascinai via di lì; quando fummo
abbastanza distanti dalla signora Tette Mozzarelle e
dalla sua furia, dissi: «Ora facciamoci questo maledetto
bagno!»
Quando i nostri piedi s’immersero nella schiuma delle
onde, Enrico mi lasciò la mano, partì a razzo e si tuffò.
«Aspetta!» dissi. «Dove vai, sai nuotare?»
Lui riemerse in superficie appena il tempo per dirmi:
«Secondo te?» poi s’immerse di nuovo.
Sì, Enrico, il bambino affetto da Deficit
dell’attenzione, tra una seduta dalla psicologa e l’altra,
aveva trovato il modo di seguire un corso di nuoto,
evidentemente, visto che sapeva nuotare benissimo.
Nuotò a dorso, come posseduto, finché, finalmente,
si fermò e si voltò a guardarmi. «Ancora lì, sei?» chiese.
Col fiatone, risposi: «Torniamo indietro. Qui non si
tocca.»
«E allora?»
Enrico continuò a immergersi e riemergere. Ad un
certo punto, rimase sott’acqua abbastanza a lungo
perché io mi preoccupassi, ma poi sentii un paio di mani
tentare di sfilarmi il costume. Scalciai e mi allontanai. Il
dubbio di avergli accidentalmente - e forse nemmeno
così accidentalmente - tirato una tallonata in testa, non
mi fece sentire troppo in colpa.
Enrico riemerse. «Ahi, mi hai fatto male!» disse,
toccandosi la fronte.
«Avviciniamoci di più alla riva, qui siamo troppo
lontano» dissi.
Enrico si guardò intorno, poi, sollevando un braccio,
disse: «Nuotiamo fino a quello yacht!»
«Fin laggiù? Ma sei matto!»
La barca indicata distava almeno trenta metri da
dove ci trovavamo. Naturalmente, Enrico non mi ascoltò
e cominciò a nuotare.
Gli stetti dietro, che altro potevo fare?
Nuotai, senza perderlo d’occhio, ma nemmeno
ammazzandomi dalla fatica. Mi era chiaro che sapeva
tenersi a galla, il bamboccio.
Quando lo raggiunsi, a circa dieci metri dallo scafo,
vidi che si era aggrappato a una boa. Anche io feci lo
stesso, mettendomi accanto a lui.
Enrico mi guardò e sorrise. Aveva gli occhi più verdi
e luminosi che mai e denti bianchi e quadrati, denti che
sembravano affamati di vita. Forse suonerò un po’
patetico, ma in quel momento, pensai che se un giorno
sua madre avesse somministrato delle pillole a quel
bambino, allora sarebbe stata una disfatta per l’umanità.
«Non fai proprio schifo a nuotare, coso» disse lui.
«Mi chiamo Arturo» dissi.
«Non fai schifo a nuotare, Arturo. Certo, io sono
molto meglio, e di sicuro, alla tua età, avrò già stabilito
dieci volte il record mondiale sia di apnea che dei 100 in
stile libero, ma non fai schifo.»
«Ti ringrazio. Senti, tua madre sarà in pena, perché
non ritorniamo, con calma, a riva?»
«Ti spiego una cosa, riguardo a mia madre, Arturo.
Era in pena, quando si è svegliata sullo sdraio, è in
pena ora che mi sta cercando, e sarà in pena stasera
per qualche altro motivo. Mia madre è sempre in pena.
Quindi, che torniamo ora alla spiaggia o tra trenta
minuti, non cambia nulla.»
Stavo per ribattere qualcosa, quando Enrico staccò
le mani dalla boa e, agitandole in aria, urlò: «Signore!
Signore! Ehi, dico a lei, signore!»
Sollevai lo sguardo lungo lo scafo e, sulla cima, le
mani appoggiate alla ringhiera, vidi un uomo. Doveva
avere 50 anni, come minimo; indossava un costume a
cachi e una camicia di lino bianco aperta su un ventre
enorme che sporgeva oltre la ringhiera. Il volto era ben
pasciuto e, dal collo alle guance, adombrato da quel tipo
di barba che uno dovrebbe farsi come minimo due volte
al giorno per avere un aspetto decente. Gli occhi erano
vicini, la fronte stretta e parzialmente coperta da un
panama. La cosa che mi saltò subito all’occhio fu un
anello pesante infilato in una delle dita della mano
destra - l’anulare, presumo -, così grosso e lucido da
risaltare fin dove mi trovavo.
«Signore!» riprese a urlare Enrico. «La sua è una
barca bellissima, la farebbe visitare a me e a mio
padre? La prego, è uno yacht stupendo! Una figata!»
L’uomo, dopo i primi secondi passati a scrutare le
onde e la boa per identificare la sorgente di quegli
strepiti, stava forse per dire che potevamo scordaci di
visitare il suo yacht, quando fu raggiunto da una signora
molto elegante. Una donna anche lei sulla cinquantina
abbondante, ma decisamente più in forma, vestita con
un pareo oltre il quale si notavano un due pezzi e un
corpo slanciato, e i capelli biondi raccolti a coda di
cavallo.
«Che succede, caro? Chi è che urla?» domandò,
appoggiando una mano sulla spalla dell’uomo col
panama (e l’anello da boss mafioso).
Lui stava per aprire bocca, quando Enrico urlò:
«Signora! Ha una barca bellissima, davvero! Io e mio
padre vorremmo tanto vederla, ci fa salire? La prego! La
prego! La prego!»
La donna sorvolò le onde fino a incontrare la figura di
Enrico, accanto alla mia, poi, sorridendo, alzò un
braccio e urlò: «Ehilà! Come state?»
Ovviamente, Enrico rispose con grande entusiasmo
a quel saluto, tentando perfino di arrampicarsi sulla boa.
«Signora, bene! Stiamo bene!» gridò. «Per cortesia,
potremmo salire sul suo yacht, io e mio padre? È una
barca bellissima e lui s’intende di barche! Potremmo
salire giusto un minuto?»
«Lasci stare, signora» dissi, a voce abbastanza alta
da essere udito. «Ora ce ne torniamo alla spiaggia!»
«Ma no, perché invece lei e suo figlio non salite un
minuto?» gridò la donna. «Sarei felice di mostrarvi la
barca!»
Prima che potessi ribattere qualcosa, Enrico si
staccò dalla boa e prese a nuotare in direzione dello
yacht.
Sospirai e presi a nuotare anche io. Tra una
bracciata e l’altra, vidi il tizio con l’anello che si rivolgeva
alla donna con un’espressione che di certo non si
poteva dire entusiasta.
Prima Enrico, poi io, ci aggrappammo a una scaletta e
raggiungemmo il ponte dello yacht.
Ora, io non m’intendo di yacht, ma posso
tranquillamente affermare che quello su cui salii a bordo
quel giorno era notevole. Doveva misurare come
minimo trenta metri e aveva una forma molto slanciata,
protesa in avanti.
Come vi ho appena detto, non m’intendo di yacht e
nautica in generale, sicché nel descrivere gli ambienti
che visitammo, sicuramente il lettore esperto,
deprecherà la povertà della mia terminologia. Voglia
scusarmi.
Il retro dell’imbarcazione (poppa?) era largo, con la
pavimentazione in legno ed era occupato da alcuni
divanetti e da un tavolino in vimini. Fu lì che,
inizialmente, venimmo fatti accomodare, io ed Enrico.
Non appena il bambino salì a bordo, fu subito
coperto dalle attenzioni della signora la quale,
evidentemente, nei suoi riguardi aveva sentito destarsi
un potente istinto materno. Sempre la signora, dopo
averci fatto accomodare, offrì a me un calice di
champagne dalla bottiglia già stappata e infilata in un
secchio, mentre a Enrico una spremuta d’arancia.
«Vado a preparartela in cucina» disse. «Anzi, perché
non mi accompagni, così intanto ti mostro gl’interni dello
yacht e tuo padre e mio marito chiacchierano un po’?»
Enrico che, al cospetto della signora, da bambino
pestifero nonché affetto da Deficit dell’attenzione e di
qualcos’altro, si era trasformato nel più ubbidiente e
accondiscendente dei pargoli, annuì e seguì la bianca
ed elegante figura lungo il ponte.
Rimasti soli, io e il signore, per i primi 20 secondi,
non scambiammo una parola. Io, per sentire meno il
peso dell’imbarazzo, osservai il suo potente anello
infilato nell’anulare destro della mano, che poggiava su
un bracciolo del divano. Era un oggetto non privo di
fascino persino uno come me che, nel campo
dell’oreficeria, vantava le stesse competenze che in
quello nautico.
Come ho già detto, l’anello era in oro massiccio.
Aveva una fascia spessa almeno un centimetro che
girava, anzi, si avvolgeva attorno alla base dell’anulare
per reggere al centro una pietra quadrata, sfaccettata e
di color rosso sangue. La pietra costituiva la parte
principale dell’anello e sembrava esercitare un fascino
sovrannaturale non solo ai miei occhi, ma anche a quelli
del sole, che giocava con le sfaccettature rimbalzandovi
sopra i suoi riflessi.
«Sicché quel bambino è suo figlio, eh?» disse
l’uomo.
Annuii, non avendo il coraggio - forse, la voglia? - di
spiegare come stavano le cose. «Già.»
L’uomo sospirò, aumentando di molto l’ampiezza del
suo già notevole ventre, per poi lasciarlo ricadere. «I
figli…» disse e per alcuni secondi sembrò sul punto di
enunciare una verità cosmica e incontrovertibile, una
verità avvalorata dal potere dell’anello. «Sono un
enigma» disse infine, e sorseggiò dal calice.
«Lei ne ha?» domandai.
L’uomo annuì con un’aria come a dire “purtroppo sì”.
«Una femmina. Più grande del suo. Venti anni. Una
ragazza che ha tutto: bellezza, intelligenza, amore.
Perché è indubbio che io e sua madre l’amiamo. Mia
moglie la ama più di quanto la ami io, ma per il semplice
motivo che ha un cuore più grande. Io, comunque, la
amo con tutta l’ampiezza di cui è capace il mio cuore,
che è già tanto, gliel’assicuro. Ad ogni modo, ha tutto,
quella ragazza, e si comporta come se non avesse
nulla.»
Ricordate quando, prima, parlando con la madre di
Enrico, avevo detto qualcosa - per la precisione “è
troppo severa con se stessa” - senza rendermene
conto? La stessa cosa mi accadde in quel momento.
Parlai e, un secondo dopo averlo fatto, mi chiesi da
dove mi fossero uscite quelle parole.
«È un diritto dei figli essere ingrati nei confronti dei
genitori» dissi.
L’uomo mi guardò, colpito. «Lei crede?» chiese.
Annuii. «Sì.»
L’uomo rivolse lo sguardo al proprio anello, o meglio,
alla pietra incastonata, come se potesse avere l’ultima
conferma, dai riflessi che si dipanavano sulle
sfaccettature, circa la veridicità della mia asserzione.
Tornò a guardarmi e domandò: «E quali sono i diritti
dei genitori nei confronti dei figli?»
Mi voltai per fissarlo negli occhi e, in quel momento,
non solo parlai senza rendermene conto, come per
tramite di qualcun altro, ma anche fisicamente, mi sentii
come posseduto, come se in me fosse disceso lo spirito
autorevole di qualche entità misteriosa, la cui parola non
poteva essere messa in discussione.
«Nessuno» dissi.
L’uomo mi fissò alcuni istanti, sbatté le palpebre, poi
chinò il capo, come sotto il peso della mia verità
implacabile.
«Già, noi padri non abbiamo diritti. Possiamo solo
sopportare» disse. «Lo sa come mi ha definito, mia
figlia, l’altra sera?»
«No, come?» domandai.
L’uomo, nel rispondere, riunì le mani sul ventre e con
il pollice e l’indice sinistri carezzò la pietra dell’anello.
«Ha detto che sono un mediocre. Un uomo senza
sensibilità, il cui solo talento è quello di arricchirsi. Poi,
ha detto che non è mai riuscita a capire come una
donna così bella e piena di personalità come mia moglie
abbia fatto a sposare un uomo come me. Infine, ha
detto una cosa terribile, che però, non mi ha sorpreso.
Una cosa che mi ero aspettato che prima o poi dicesse
e, anzi, quando gliel’ho sentita dire, mi sono chiesto
come mai avesse aspettato vent’anni per dirla.»
«E cioè, cosa le ha detto?» domandai, ero curioso di
saperlo.
L’uomo smise di carezzare la pietra e riportò la mano
destra sul bracciolo del divano. Immediatamente, il sole
riprese a giocare con le sfaccettature.
«Ha detto che non riesce a capire come uno come
me possa essere suo padre perché non abbiamo niente
in comune.»
Non sapevo come commentare quelle parole, ma pur
non essendo padre e non avendo quindi esperienza di
figli, mi sembrarono parole inevitabili. Era normale che i
figli odiassero i genitori e non si riconoscessero in loro.
D’un tratto, una terza presenza spuntò sulla poppa:
un uomo sui trent’anni, forse filippino, vestito con una
polo e un paio di shorts bianchi.
«Dottore» disse, dopo avermi lanciato una rapida
occhiata. «La vogliono al telefono. Penso sia per
lavoro…»
L’uomo annuì. «Mi scusi, ci metterò un attimo» mi
disse, e si alzò.
«Si figuri» dissi e lo vidi sparire dietro il ponte
insieme a quello che presumevo fosse il maggiordomo.
Rimasi solo.
Guardai il mare, oltre la ringhiera. Era calmo e ora
meno azzurro di prima perché la sera, lentamente,
aveva cominciato a calare. Spinsi l’occhio fino alla
striscia gialla della spiaggia e alle decine di ombrelloni
che la occupavano. Pensai alla signora Tette Mozzarelle
e sperai che si fosse calmata. Pensai alla madre di
Enrico ed ebbi la certezza che non si era calmata
affatto. La immaginai che perlustrava la spiaggia
chiedendo a chiunque se avesse visto un bambino
molto magro e con i capelli castano chiari (omettendo il
particolare del naso a patata, non so per riguardo a se
stessa o al figlio) aggirarsi da quelle parti.
Provai pena per lei, ma non mi scomposi. Prima o poi
io e suo figlio saremmo tornati e poi così com’era
inevitabile che i figli non si riconoscessero nei genitori,
lo era che i genitori stessero in ansia per i figli.
Chiusi gli occhi, mi sentivo molto rilassato.
Abbandonai il capo sullo schienale del divano, forse
stavo per addormentarmi, quando una voce chiese: «E
tu chi sei?»
Sollevai le palpebre e incrociai la visione più piacevole
di quell’estate, forse la più piacevole di tutte le estati
della mia vita.
A un paio di metri di distanza, accanto al divanetto
dove prima era seduto l’uomo dall’anello magico, ora
stava una ragazza sui vent’anni, sul metro e settanta
centimetri di altezza per un peso tra i 55 e i 60 chili.
Indossava un due pezzi bianco e avevo una pelle dorata
da un’abbronzatura perfetta. Il corpo era snello e
flessuoso, le gambe lunghe e lucide, il ventre teso come
pelle di tamburo. Il viso era un ovale entro cui si
spalancavano occhi azzurri ed enormi e sbocciavano
labbra morbide e spesse. Una cascata di capelli rossi
scendeva lungo le spalle e attorno alla fronte.
La bellezza di quella ragazza mi fece subito pensare
alla pietra dell’anello. Era come se le due entità fossero
in un qualche modo correlate. La pietra costituiva
l’essenza di quella ragazza, la sua bellezza catturata e
racchiusa entro la cornice dell’anello, e la ragazza
rappresentava la personificazione della pietra e della
sua magia. Difatti, così come il sole aveva giocato con
le sfaccettature della pietra, mi sembrò che ora giocasse
con i contorni ramati di quel corpo, il bagliore di quegli
occhi.
«Salve» dissi. «Io… mi chiamo Arturo e… i suoi
genitori sono stati così gentili da lasciare che io e mio
figlio visitassimo questo yacht.»
La ragazza sbatté le palpebre fissandomi alcuni
secondi, col capo leggermente piegato, divertita,
presumo, dal disagio che ispirava in me la sua bellezza,
poi sedette sul divanetto dove prima era seduto suo
padre.
«Quella scimmietta che osserva mia madre
armeggiare con lo spremiagrumi è tuo figlio?» domandò,
allungandosi sul tavolo e prelevando un bicchiere di
champagne quasi vuoto.
«Sì» dissi.
«Strano» disse lei, dopo essersi bagnata le labbra
con ciò che era rimasto nel bicchiere.
«Perché strano?» domandai.
La ragazza tornò a fissarmi con i suoi occhi
impossibili. «Perché a guardarti non sembri un padre,
tu.»
«Ah no? E cosa sembro?» domandai.
La ragazza fece sbattere le palpebre altre due volte e
rispose: «Un figlio.»
«Un figlio?»
Lei annuì. «Il mondo si divide in genitori e figli. Si
capisce lontano un chilometro che mio padre è un padre
e mia madre è una madre. Non parlo dell’età, ma di un
modo che hanno di parlare, di muoversi. Tu, quel modo,
non ce l’hai. Però, ora che ti guardo meglio, non sembri
nemmeno un figlio.»
«E allora, cosa sarei?» dissi, sorridendo.
Lei, sempre seria, scrollò le spalle. «E che ne so»
disse. «Un alieno? Un mostro degli abissi? Di sicuro non
sei un angelo sceso dal cielo per prelevarmi e portarmi
via da questa barba tremenda di vacanza.»
«Non ti piace stare qui?» chiesi.
«A quale ragazza di vent’anni piacerebbe passare
l’estate insieme a suo padre e sua madre su uno yacht?
Ah, aspetta: suo padre, sua madre e il maggiordomo
ficcanaso. Non trovi che, all’alba del Ventunesimo
secolo, sia una cosa terribilmente imbarazzante portarsi
dietro un maggiordomo?»
«Beh, dovranno pure farsi aiutare da qualcuno, i tuoi
genitori, con una barca così grande» dissi.
«E poi, passi mia madre» continuò nei suoi
ragionamenti, la ragazza. «E passi anche il
maggiordomo, ma mio padre, lo hai conosciuto?»
«Prima stavamo parlando.»
«Quindi avrai capito che uomo ottuso e greve è. Non
pensi che sia un uomo ottuso, greve e volgare?»
Stavo per dire alla ragazza che non lo pensavo
affatto e che, meno di cinque minuti prima, suo padre mi
aveva confessato quanto le volesse bene, quando
Enrico e la signora bionda spuntarono alle mie spalle.
«Dov’è tuo padre?» chiese la signora, rivolgendosi
con una certa alterigia alla figlia; quel tipo di alterigia
che denota una passata tensione in famiglia, non
ancora del tutto appianata.
«E che ne so?» rispose la ragazza.
«Si è assentato per motivi di lavoro» dissi.
«Qualcuno lo cercava al telefono.»
«Sempre al telefono sta, quello» sbottò la ragazza,
alzandosi dal divano. «Partiamo in vacanza, passiamo
l’estate in mare e lui non fa altro che starsene chiuso in
questo stupido yacht attaccato al telefono!»
«Non usare questo tono quando parli di tuo padre»
disse la donna, poi, vedendo che la figlia stava per
andarsene, domandò: «dove vai?»
«In spiaggia, prendo il tender e vado in spiaggia dai
miei amici» disse la ragazza. «Tanto che resto a fare
qui?»
«Vorresti allora essere così gentile da accompagnare
Enrico e suo padre al loro bagno?» disse la donna,
appoggiando una mano sul capo di Enrico. «La mamma
li sta aspettando, vero?»
Enrico annuì e con aria diligente, rivolgendosi a me:
«Vero. Papà, quanto avevamo detto alla mamma, che
saremmo stati in mare?»
«Poco. Una mezz’ora» dissi, senza provare la
minima difficoltà a reggergli il gioco.
Enrico si voltò, alzando lo sguardo verso la signora.
«Già, ora è meglio che torno dalla mamma. Mi
piacerebbe che la conoscesse, signora Giulia, sa? Lei e
la mamma andreste d’accordo.»
«E a me piacerebbe tanto conoscerla» disse la
donna, chinandosi e schioccando un bacio sulla fronte
di Enrico. «Dev’essere felicissima, tua madre di avere
un figlio come te, lo sai che sei proprio un tesoro?»
Pochi minuti più tardi, io, Enrico e la ragazza dai capelli
rossi, viaggiavamo su un tender che, per chi fosse a
digiuno come il sottoscritto di questioni di nautica, è un
gommone dotato di motore usato da chi possiede yacht
di certe dimensioni per raggiungere la riva.
La ragazza era seduta a poppa, vicino al timone, io
ed Enrico più avanti.
Enrico, ogni tanto, mi guardava e sorrideva, felice di
come si fossero messe le cose, della nostra avventura,
cioè, breve ma fitta di eventi: la signora Tette
Mozzarelle, la nuotata fino alla boa, lo yacht e ora il
ritorno in spiaggia a bordo del tender. Io, a dire il vero,
non riuscivo a trovare grosse motivazioni per sorridere.
Sì, a ripensarci era stato tutto buffo e, in un certo senso,
rocambolesco, ma ora che, di secondo in secondo, la
spiaggia si delineava sempre più al mio sguardo, non
potevo fare a meno di pensare alla reazione della
mamma di Enrico quando ci avesse visti.
Eravamo stati via più di un’ora. Come si sarebbe
comportata nei miei riguardi? Avrebbe compreso la mia
situazione, ben consapevole che bambino difficile da
gestire fosse il suo, o si sarebbe arrabbiata, stravolta
dall’angoscia in cui era precipitata fino a quel momento?
Per non pensarci, ogni tanto gettavo lo sguardo a
poppa, alla ragazza.
Era bellissima. Il vento che le scompigliava i capelli e
gli schizzi di schiuma che le inargentavano le spalle non
diminuivano affatto la sua bellezza. Era perfetta, sempre
e in ogni situazione. Mi chiesi quanto lo sarebbe
rimasta. Prima o poi, gli anni sarebbero passati anche
per lei, delle rughe, per quanto minime, avrebbero
intaccato l’ovale del viso, gli occhi azzurri sarebbero
diventati un po’ meno azzurri e del grigio si sarebbe
insinuato tra le ciocche rosse. Forse sarebbe diventata
madre e avrebbe assunto, nei movimenti e nella voce,
quel modo d’essere che, come aveva detto lei stessa,
contraddistingue la condizione di genitori. O forse non
sarebbe diventata madre e, invecchiando, si sarebbe
trasformata in qualcosa di indefinibile come il
sottoscritto, non un figlio, non un padre, una strana
creatura irrisolta.
Smisi di pensare quando il tender rallentò e la
ragazza domandò: «È questo il bagno?»
D’istinto guardai Enrico e allora vidi il suo sorriso
morire, la luce dei suoi occhi fissarsi in un punto e la
voce, improvvisamente seria, dire: «Oh, cavolo.»
Seguii la direzione del suo sguardo e allora non ebbi
più dubbi sulla reazione con cui la madre ci avrebbe
accolto.
La donna era in piedi, sulla riva, la schiuma delle
onde che le lambiva le caviglie. Aveva i capelli
scarmigliati sulle spalle e sulla fronte. Tutto il corpo
denotava uno stato di tensione. Le braccia erano
conserte sul petto sollevato da una respirazione breve e
affannosa. La luce degli occhi era del tutto particolare.
Era ferma e dilatata. Era la luce di uno spirito che si
preparava da tempo a prendere la rincorsa e ora che
vede il suo obiettivo giungere innanzi, è pronto a
scagliarsi contro con tutta la sua forza.
Il tender rallentò.
Con movimenti rapidi, Enrico saltò giù, saltellò tra le
onde e disse: «Mamma, mamma, scusa se siamo stati
via ma…»
La madre non gli permise di continuare; distese il
braccio sinistro e, indicando gli ombrelloni alle spalle,
disse: «Con te facciamo i conti poi, aspettami allo sdraio
e preparati!»; poi si rivolse a me che, con lentezza
studiata, ero sceso dal tender e mi stavo avvicinando
alla riva.
Credo che nemmeno se su di me fosse scesa per la
terza volta una qualche autorità misteriosa e
trascendente a comandare le mie parole, sarei stato in
grado di arginare la furia che stava per travolgermi.
La madre di Enrico mi disse che ero un
irresponsabile, che andavo denunciato, anzi, peggio,
chiuso in galera; senza darmi il modo di rispondere, mi
chiese come mi fosse venuto in mente di allontanarmi
per tutto quel tempo con suo figlio; continuò a scaricarmi
addosso una serie di accuse e d’insulti mentre gli altri
bagnanti osservavano la scena, dapprima perplessi, poi
divertiti.
Dopo un paio di tentativi, rinunciai di spiegare alla
donna come fossero andate le cose e, più o meno con
la stessa velocità di gambe dimostrata dal figlio, anche
io mi diressi verso gli sdrai per raccogliere le mie cose e
filarmela.