paolo introzzi - Ordine dei Medici di Pavia
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paolo introzzi - Ordine dei Medici di Pavia
sua carriera Introzzi boccia solo uno specializzando, cosa del tutto inusuale ed inconsueta. Lo boccia ed in malo modo, perchè sulla copertina della tesi il candidato sbaglia il nome del relatore. Introzzi Giorgio anziché Paolo. Si arrabbia per davvero Introzzi e scaraventa in corridoio la tesi e il candidato. Negli ultimi anni di vita, Introzzi va incontro ad un qualche acciacco; soffre per una progressiva cecità da glaucoma e per un papilloma sanguinante della vescica, ma soffre, soprattutto, la pensione. Gli allievi che lo vanno a trovare nella villa di Marchirolo nel varesotto, lo trovano depresso: “Vedi - ripete Introzzi - anche questa è un’altra giornata inutile”. Introzzi “scampa” a lungo, molto a lungo; muore a Pavia, all’età di 92 anni, per consunzione, il 29 ottobre 1990. Con Introzzi si chiude la stagione dei baroni. Quello dei baroni è un mondo surreale, fondato su un individualismo a volte senza ragione e senza logica. Il barone è una specie di satrapo, ma è un maestro, un precettore, una guida; è un “aio”, che trasmette ad altri come si possa divenire caposcuola. Tutti i baroni sono simili, eppure nessuno si assomiglia; sono uguali perchè detengono il potere, ma sono diversi per come lo usano, spesso in modo spregiudicato e devastante. Il barone è sinonimo di sopruso, di ingiustizia, di prepotenza, ma anche di cultura, di preparazione raffinata, di intelligenza clinica, di capacità decisionale. Il barone è un capo e un vero capo ha in testa il mandato, la causa, la “mission”. I baroni non ci sono più, sono tramontati, sono andati in pensione, definitivamente. Oggi ci sono baronini, baroncini, baronetti e baronotti; a fatica si distingue il diritto di censo dal diritto d’intelletto. Al posto dei baroni ci sono le cricche, i clan, le lobbyes, i partiti, le mafie; anzichè un sistema di pensiero forte, sono nate le congreghe, le consorterie, gli amici degli amici. Accade così che non si riesca più a capire chi siano e dove siano i veri maestri, cioè i modelli di riferimento; ciò che lega le persone non è più il cervello, ma il reciproco interesse e lo scambio di favori. L’accademia è uscita da un sistema baronale, ma non ha saputo costruirne uno migliore. Nel tentativo di rimediare ad un errore, siamo caduti nell’errore contrario; è la legge del pendolo, che, oscillando, continua la sua corsa verso l’estremo opposto. Addio vecchi baroni, guardiani di una strana ed antica saggezza, maestri di scuola, di studio e di vita. Nessuno, dopo di voi, ha più insegnato il senso clinico, il senso del dovere, il sesto senso, il senso di scuola, il senso del metodo, il senso globale del malato, il senso dell’essere medico. Ieri nessuno osava mettersi contro di voi, ˛ oggi vi caccerebbero in ´ galera; ma tant’è, panta rei˜ (panta rei) tutto scorre, ognuno è soltanto figlio del suo tempo. il colloquio in corridoio ha il suo “dunque”. Amaro e sarcastico il commento del bidello che assiste alla sceneggiata: “I dané ia mangia nanca i galin”. Poi, il bidello si allontana, brontolando: “Chi tuca l’miel, a s’leca semper i dit”. Per Introzzi il “giro pastorale” non esiste. Nei reparti della Clinica Medica non lo vedono mai; per vedere Introzzi bisogna chiedere una visita privata. Conosce bene solo i “suoi” reparti, l’11 e il 12, dove ricovera i “suoi” pazienti; prima di essere dimessi, passa l’Angelina per il “dunque” e per il “santino”, dopodiché si può andare da Introzzi per ritirare la lettera di dimissione. Introzzi, una sera, prima di uscire e già in borghese, scende al reparto 16 per salutare un malato; non è l’ora delle visite e l’infermiere, che non lo ha mai visto, lo allontana in malo modo. Introzzi, stupito, dice: “Ma dunque, io sono il direttore”. L’infermiere, di vecchio stampo, ribatte: “Lü al sarà anca l’diretur, ma mi so l' presidente t’la repubblica e chi cumandi mi. Fuori”. Curiosamente Introzzi, per evitare antipatiche discussioni, se ne va; non vuol cadere nella farsa, oppure vede nell’infermiere l’immagine riflessa della sua cattiva coscienza. Un aiuto di Introzzi, nel periodo estivo, assume le funzioni di direzione della clinica ed “incappa” in un grosso industriale. Già vanitoso di suo, l’aiuto si spaccia per il direttore e visita il malato nello studio del capo; chissà, non gli pare vero di assaporare il fascino del comando e l’ebrezza del potere. Finisce male, perchè Introzzi viene a saperlo e stronca, ancor prima di cominciare, la carriera accademica del suo aiuto. Introzzi è in commissione a cattedra, è in maggioranza e presenta al concorso due suoi allievi, ambedue degni e preparati. È logico che uno vinca e uno perda, ma la madre del perdente non si rassegna alla sconfitta del figlio e va a chiedere spiegazioni a Introzzi. La signora ribadisce che il figlio è molto più bravo e ben più meritevole del vincitore. Introzzi, persona paziente solo in apparenza, la lascia sfogare e poi pacatamente risponde: “Vede, signora, se lei avesse bisogno di una serva, sceglie quella più brava ma che fa i cavoli suoi, oppure quella un po’ meno brava ma che le ubbidisce?”. Introzzi, un giorno chiama a consulto Giuseppe S. Donati per una splenomegalia; naturalmente il paziente è un pagante in proprio. L’indicazione della splenectomia appare un poco controversa, come talvolta accade in queste patologie. La conclusione dei due clinici è invece lapidaria: “A noi le milze grosse non sono mai piaciute”. Introzzi non ama né le lezioni, né gli esami agli studenti e agli specializzandi; lui ama la discussione clinica, l’analisi critica, il metodo rigoroso. A lezione è semplice, ma monotono, quasi barboso. Gli esami sono per lui un impiccio e spesso li delega agli aiuti; non è affatto cattivo agli esami, tutt’altro, e fa domande grosse, spaziose, generali. In tutta la IV Appunti di Storia della Medicina Pavese: PAOLO INTROZZI di Luigi Bonandrini Paolo Introzzi nasce a Como il 20 luglio 1898, da buona famiglia borghese. Introzzi compie gli studi classici nella sua città e poi si iscrive alla facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Pavia. Giovanissimo, a 19 anni non ancora compiuti, viene chiamato alle armi e partecipa alla prima guerra mondiale. Combatte in prima linea come tenente degli alpini, meritandosi la Croce di Guerra. Finito il servizio militare, Introzzi vince un posto di alunno al Collegio Ghislieri. Frequenta come allievo interno l’Anatomia Patologica diretta da Achille Monti e si laurea con lode nel 1923 in Medicina e Chirurgia. Dopo la laurea frequenta come assistente volontario la Clinica Medica diretta prima da Luigi Zoja e poi, dal 1924, da Adolfo Ferrata. Vincitore di una borsa di studio del Ministero della Pubblica Istruzione, Introzzi trascorre un anno di perfezionamento all’Università di Berlino, dove apprende le nozioni più avanzate di immunologia, di anafilassi e di gastroenterologia. Al ritorno in Italia viene nominato assistente e poi aiuto universitario di Ferrata; nel 1930 ottiene la prima libera docenza. Nel 1935, all’età di 37 anni e con una guerra sulle spalle, Introzzi vince il concorso a Cattedra di Patologia Speciale Medica all’Università di Catania; vi rimane due anni perchè, nel 1937, ritorna a Pavia come direttore della Patologia Medica, succedendo a Luigi Villa chiamato a Milano. Alla improvvisa morte di Ferrata, nel 1946, Introzzi sale sulla cattedra di Clinica Medica, dove rimane per ventidue anni fino al 1968, quando viene collocato fuori ruolo per raggiunti limiti di età. Dal felice matrimonio di Introzzi, nascono due figlie. La prima, Fiammetta, sposa il barone Scappatura di Calabria, proprietario di piantagioni di bergamotto; la seconda, Maria Grazia, perisce, in tempi recenti, in un tragico safari africano. Introzzi vive male, molto male, la stagione dei sequestri di persona, sempre preoccupato per le figlie e per il prediletto nipote Paolo. Il curriculum vitae di Introzzi è straordinario; ricerca scientifica, didattica ed attività assistenziale, si armonizzano in una personalità capace di trattare e di prendere posizione su tutte le questioni mediche del tempo. Le mielodisplasie, Le anemie, La terapia epatica, Le emopatie, La trasfusione di sangue, Le leuce- Paolo Introzzi mie, Il fattore eritropoietico, La terapia trombolitica, I difetti della coagulazione, L’anafilassi, Appunti di Ematologia, La vaccinoterapia, sono soltanto alcuni dei libri che Introzzi scrive aiutato dai suoi allievi. Si tratta di testi importanti sul piano scientifico, con una impostazione di fondo che li accomuna: sono libri di vera pratica clinica, con funzioni di indirizzo procedurale e di linee guida tracciate sulla base delle evidenze scientifiche del momento. Altrettanto si può dire per le moltissime pubblicazioni scientifiche di Introzzi, caratterizzate da un equilibrio tra una raffinata capacità di ricerca ed una spiccata finalità clinica. Introzzi coordina la pubblicazione di un’opera davvero monumentale, il Trattato Italiano di Medicina Interna, in 30 volumi. Si fatica a credere che Introzzi l’abbia visto in ogni dettaglio. È così, perchè per tanti anni e per tutte le sere dell’anno, Introzzi, con i suoi allievi, legge, corregge e rilegge ciascun capitolo. Introzzi ha una testa poliedrica, pensa alla grande, lavora alla grande, ha grandi capacità di analisi ed altrettante capacità decisionali e gestionali. Introzzi è uno degli ultimi “internisti” della medicina ed è uno degli ultimi “baroni” dell’accademia. Dopo Introzzi tramonta la figura dell’internista, perchè si affermano le specialità; dopo Introzzi tramonta I anche la figura del barone, perchè altri poteri prendono il sopravvento. Introzzi è un barone. I baroni sono padroni assoluti della sanità e padroni assoluti dei collaboratori; nessuno osa interferire nelle loro decisioni, né l’INAM, né la politica, né l’amministrazione ospedaliera, né quella universitaria. Quello dei baroni è un mondo “metafisico”, al di fuori e al di sopra di ogni regola e di ogni logica sociale. Un fatto è però inoppugnabile: il più delle volte i baroni sono personaggi professionalmente preparatissimi, sono dei fuoriclasse, autentici assi della medicina. Sì, certo, qualche “difettuccio” ce l’hanno; sono spesso prepotenti, tracotanti, spregiudicati. La “tirannia” è il loro pane quotidiano: morose, mogli, figli, famiglia, ferie, feste, riposi, carriera, soldi, tutto è ostaggio dei baroni, che sono pure permalosi, ombrosi, suscettibili ed anche vendicativi. È difficile capire cosa frullasse nel cervello dei baroni; bisognava intuirlo, essere acuti, far funzionare sinapsi e cellule cerebrali. I baroni amano tenere tutti sul filo del rasoio, fanno sputar sangue, spremono come limoni, ma insegnano a lottare, a competere, a battersi duramente, a non mollare mai. Il mondo dei baroni non è un mondo per pappemolli, per sbracati, per mollacchi; dai baroni si impara a comandare e ad ubbidire, a vincere e a perdere, a cedere e a resistere ma, soprattutto, si impara ad imparare. È una psicologia brutale, da combattimento, da battaglia estrema. Dai baroni si apprende il sapere, il fare, l’essere, ma anche il ragionamento, l’analisi, il metodo. I baroni, il più delle volte, sono dei maestri, dei grandi maestri. Ma chi sono i maestri? Ed esistono ancora i maestri? Non esiste civiltà senza maestri e senza discepoli. Il termine maestro deriva dal latino magister, a sua volta derivante da magis, che significa “di più”; il maestro, infatti, è colui che “vale e sa di più”. Il contrario di magister è minister, derivante dal latino minus, che significa “di meno”; etimologicamente ministro è colui che “vale e sa di meno”. Mi piace pensare che magister derivi invece da magicum, perchè il vero maestro ha qualcosa di magico e di prodigioso, perchè lascia una traccia indelebile nel cuore, nella mente e nella personalità degli allievi. Il maestro, quello vero, ha la forza e la volontà di entrare nelle nostre radici, plasmando quei valori che ci ispirano e ci aiutano a vivere; il maestro ci insegna il saper essere, il sapere fare, ma, soprattutto, il saper essere e il saper vivere. Il più delle volte, in medicina, il maestro si identifica con un progetto che dura molti anni, ma, a volte, il maestro è la folgorazione di un momento. Davvero misterioso il maestro dell’attimo fuggente; è la magia di una persona che in un istante ci segna e ci insegna per tutta la vita. Esistono maestri di professionalità, di comportamenti e di vita, ma il vero maestro è maestro totale, globale come si dice oggi; per questo l’allievo è e resta un “innamorato del proprio maestro”. Il maestro non trasmette soltanto la disciplina nella quale eccelle, ma infonde dati morali, insegna un metodo, obbliga al rispetto delle regole; il vero maestro non sprona solo al progresso della propria materia, ma stimola la creatività e dona la ricchezza di sognare, a qualunque età. Anche il maestro apprende dall’allievo ed accade talvolta che l’allievo sia la fonte di innovazione per il proprio maestro; così l’allievo cresce e il maestro si rinnova, in una intensa simbiosi culturale ed intellettuale. Qualcuno ha la fortuna, nella vita, di incontrare bravi maestri, qualcun altro incappa solo in cattivi maestri. I cattivi maestri non sono maestri, sono carogne e basta, perchè sono colpevoli di un crimine morale: rovinano l’anima e, con l’anima, rovinano l’esistenza. Il danno formativo da cattivo maestro è indelebile, perpetuo; il cattivo maestro è utile a far capire ciò che non si debba fare e come non ci si debba comportare. Quando un bravo maestro scompare, rimaniamo attoniti, perchè il nostro cuore percepisce una verità assoluta: non c’è più tempo per un’altra lezione. Da quel momento siamo orfani e ciascuno, a modo suo, diviene erede del proprio maestro. Una volta raggiunta la Clinica Medica, Introzzi la trasforma in un ospedale, cioè in un piccolo ospedale all’interno di un grande ospedale come il S. Matteo. In Clinica Medica c’è tutto, non manca nulla: letti di degenza, camere a pagamento, radiologia, biochimica, cardiologia, medicina nucleare, laboratori di ricerca. Assetato di novità, attentissimo alla tecnologia d’avanguardia, Introzzi organizza la clinica secondo i criteri della medicina aperta al futuro e secondo i principi della concezione integrata dipartimentale. La sua disponibilità è totale; sempre pronto a discutere di qualunque caso, dorme spesso in clinica, “per non disperdere inutilmente il tempo”. È naturale che, al momento della nascita delle specialità, Introzzi abbia già in casa le persone preparate; a quel punto non fa altro che “spianare” la strada ai suoi molti allievi. Introzzi ama la giostra dei concorsi, occupandone ogni spiraglio; il gruppo è sempre pronto anche per le nuove discipline. Gli allievi, universitari ed ospedalieri, sono molti e tutti ben “corazzati”. Vanno in cattedra Elio Guido Rondanelli in Malattie Infettive, Pietro De Nicola in Geriatria e Gerontologia, Carlo Bernasconi in Ematologia, Angelo Baserga a Ferrara, Domenico Larizza a Perugia; più tardi va in cattedra Antonia Notario. Vanno a ricoprire prestigiosi primariati Mario Ravetta a Como, Marco Baldini a Cremona, Santino Mainoli a Sondrio, Giovanni Astaldi a Tortona, Siro Nava a Vigevano, Gianluigi Olivari a Lodi, Francesco Rovello a Domodossola, Renzo Traverso a Conigliano Veneto, Mario Ninni ad Este, Sergio Marigo a La Spezia, Francesco Nicrosini a Voghera, Aldo Colli a Mortara, Giuseppe Marinone a Brescia; tanti altri si fanno molto onore e fra essi Rinaldo Turpini, Giordano Maggi, Giuseppe Casirola, Italo Cattaneo, Pietro Rosti ed Onofrio Zangaglia. II A tutti gli allievi, Introzzi lascia un’eredità basilare: il fiuto clinico, fondato sulla costruzione logica del mosaico diagnostico, sulla attenzione rigorosa ai dettagli e sulla capacità analitica ai fini della sintesi decisionale. Si dice che “Gli universitari sono cavalli da corsa, gli ospedalieri sono cavalli da tiro”; può darsi, ma l’acume clinico, per gli allievi di Introzzi, resta un patrimonio di tutti. Il colpo d’occhio è uno dei pallini di Introzzi. Non gli par vero di fare diagnosi rapide, al fulmicotone. Il colpo d’occhio, in medicina, ha qualcosa di istrionico, diffonde il fascino del miracoloso, offre l’immagine del fuoriclasse; certo, la diagnosi intuitiva, fatta al volo, d’istinto, è più appagante di quella ragionata, riflessiva, meditata. Il colpo d’occhio si fonda sulla capacità di cogliere un particolare, anche minimo, e di saperlo integrare nel ragionamento clinico; è frutto di una grande esperienza diversificata, commista ad astuzia, a scaltrezza ed anche ad audacia. Per Introzzi il colpo d’occhio consiste nel “saper cogliere ciò che può sembrare secondario, accessorio e superfluo”. Oggi il colpo d’occhio è tramontato, sopraffatto dalla medicina tecnologica; è divenuto un “occaso”, è svanito, si è sciolto come neve al sole, è scomparso dall’orizzonte, travolto dal progresso medico. Le diagnosi fatte da Introzzi sono precise, definite, dettagliate. Introzzi non fa diagnosi fumose, approssimative, generiche; si sbilancia, prende posizione. Pur a volte lezioso e civettuoso, Introzzi incarna il clima del suo tempo: impegno totale, disponibilità immediata, analisi critica per tutto e per tutti, sempre, di giorno e di notte. Le storie aneddotiche su Introzzi si sprecano. Introzzi ha un aspetto sereno, pacioso, rassicurante; di statura non considerevole, ha il viso pieno, gli occhi chiari, lo sguardo vivace; sempre ben curato e ben vestito, è galante con le donne ed è amante delle belle automobili come di tutte le cose belle. È un falso mite, nel senso che il suo animo ribolle ogni momento di novità, di innovazione, di ricerca; Introzzi è un uomo energico, divorato dalla forza di andare avanti. Introzzi viene soprannominato “Paolo dunque”, perchè, nel lessico corrente, ama intercalare la parola dunque. Questo termine dovrebbe esprimere la conclusione di un ragionamento ed andrebbe utilizzato solo alla fine di una argomentazione; si può usare all’inizio di un pensiero, ma sempre con finalità riassuntive o conclusive. No, Introzzi usa il dunque “sempre, dovunque e comunque”, senza ritegno e senza distinzione di sorta. Qualcuno offre una interpretazione maliziosa di questo intercalare: il dunque, il veniamo al dunque, per Introzzi rappresenta il conquibus o cumquibus, cioè il danaro, le palanche, i franc, la lira. Appassionato dei quattrini, ben organizzato per farli e per farli ben fruttare, Introzzi non guarda in faccia a nessuno; ricchi e poveri, vestiti bene e vestiti male, raccomandati e non raccomandati, la legge del “dunque” vale per tutti. La clinica medica diviene, per Introzzi, una autentica miniera di soldi. Il risvolto della medaglia non è da poco; Introzzi è un grande clinico, scrupoloso e raffinato, che mette tutto a disposizione di tutti. Non c’è paziente visto da Introzzi che non venga passato in rassegna da cima a fondo, dall’alto in basso, da fuori a dentro. Introzzi utilizza, per i malati, tutto e tutti; attenzione, impegno, competenza e passione sono, per Introzzi, valori universali della medicina. Introzzi è sempre attentissimo ai problemi clinici ed in particolare, come allievo di Ferrata, a quelli ematologici. Molti pazienti, dopo aver vagato in Italia ed anche all’estero, si rivolgono ad Introzzi, il quale coglie con precisione la diagnosi e, per semplificare, utilizza terminologie un poco fantasiose, ma espressive; la piastrinosi diviene così la leucemia delle piastrine, la macroglobulinemia diviene la malattia delle molecole milionarie per il loro elevato peso molecolare, lo shock ipovolemico diviene lo sbadiglio del dissanguato oppure la cavia delle Wassermann (l’allusione era al sacrificio della cavia per l’esame sierologico della sifilide). Un paziente “eccellente” è Renato Kappel, primo caso in Italia di diagnosi di macroglobulinemia, una malattia immoproliferativa degli immunociti polimorfi della serie B-linfocitaria. Kappel è un uomo piccolo, ricco e timido, che si presenta da Introzzi con una potente automobile, autista con visiera e signora con pelliccia. Kappel ha una milza grossa ed una porpora agli arti inferiori. Introzzi, autentico ”segugio” delle malattie, in pochi minuti risolve il problema utilizzando la prima ultracentrifuga giunta in Italia. Soddisfatto della diagnosi, Introzzi si piazza di fronte al malato e, con tono inquisitore, puntando il dito al cuore del paziente, tuona: “Lei magari non ha neanche le lire per pagarmi, ma io dico che lei ha la malattia del mio amico von Waldenstrom di Upssala”. Il cliente, spaventato e tremante si fa ancor più piccolo, e sussurra “Professore, ma io i soldi li ho... per davvero”. “Meno male”, ribatte Introzzi. Nel corso di una visita privata, Introzzi apprende da un suo allievo, di ritorno dall’estero, dell’esistenza di una nuova apparecchiatura; seduta stante Introzzi chiede quanto venga a costare. “Costa uno sproposito”, risponde l’allievo. Introzzi, al volo, fissa negli occhi il suo ricco paziente e lo fulmina: “Ad avere le lire, questa potrebbe essere una macchina utile, molto utile, anche per lei”. Il malato, frastornato e spaurito, mette mano al portafoglio e stacca un assegno. Si scopre poi che la “macchina” non è vitale per quel malato e che costa poco più della metà. Una signora si reca in ospedale a trovare il marito, ricoverato al reparto 12. Vede Introzzi in corridoio e gli chiede informazioni circa la dimissione del marito. Introzzi si ferma e risponde: “Lo dimetto fra 2-3 giorni; penso di fargli un esame speciale”. La signora ringrazia, soddisfatta. Introzzi ribatte: “Adesso può passare dalla mia infermiera”. Anche III