Grande Lago Amaro - Marinai d`Italia

Transcript

Grande Lago Amaro - Marinai d`Italia
Testimonianze
Grande Lago Amaro
Tratto da un racconto del giornalista Emanuele Bonfiglio
Il Grande al-Buhayra al-Murra-al-Kubr è un lago salato situato
tra l’Africa e il Sinai che si divide in una parte nord e in una parte sud
il canale di Suez ed è unito al Piccolo al-Buhayra al-Murra al-Sughr.
Questi luoghi rappresentano una triste tappa della sua storia, poco
nota, e che il nostro periodico ha deciso di divulgare grazie a recenti
lettere di soci che sono stati testimoni diretti di questi avvenimenti.
Con questo, termina la pubblicazione delle testimonianze
legate ai Laghi Amari e sugli avvenimenti occorsi in quei luoghi
subito dopo l’armistizio del 1943
F
ra noi e la solidità della coperta si
stendeva la esile striscia di una
passerella: avevamo ambedue le
mani impegnate a tenere le valige, e le onde imprimevano alla piccola nave i movimenti di una inquietante altalena. Il cane
di bordo ci ringhiava contro infastidito, e
sorrisi beffardi sfioravano le labbra dei
marinai che si godevano la scena di quel
nostro tragicomìco imbarco. Un po’ infastiditi erano tutti a bordo per il nostro arrivo: cosa c’entravano due giornalisti su
una nave da guerra ora che il conflitto era
finito, e così male, e non c’era più da descrivere belle imprese ed eroismi, e battaglie e affondamenti, ma soltanto una banale navigazione per il Mediterraneo, una
missione di rifornimento che avrebbe potuto assolvere un mercantile qualunque?
Eravamo nell’anno di grazia 1946: la guerra era finita, ma la pace non era ancora
arrivata: erano i tempi dell’UNRRA, degli
scìuscià e delle “segnorine” gli anni dolorosi della lotta per la sopravvivenza: sopravvivenza a qualunque costo. Nel Grande Lago Amaro, in mezzo al Canale di
Suez, c’erano due navi stupende, le più
belle, le più grandi corazzate che il Mediterraneo avesse mai viste. Erano state per
anni l’orgoglio della nostra Marina, l’orgoglio di tutto il Paese: una si chiamava Italia e l’altra Vittorio Veneto. Erano andate
nel Grande Lago Amaro perchè i marinai
sanno servire il paese sempre, e sanno
obbedire, nelle ore gloriose nelle quali occorre affrontare la morte, ed anche in
quelle malinconiche nelle quali si deve
subire un’onta immeritata, e pagare lo
scotto pesante degli errori altrui. Le due
corazzate erano prigioniere, dovevano restare lì, immobili in quello che fu forse il biblico Mare dell’Esodo, in mezzo al deserto, prezioso ma inutile pegno per il duro
prezzo della guerra perduta.
Una nave ogni mese raggiungeva laggiù
le due navi da battaglia, portava viveri e
posta per gli equipaggi: marinai liberi sulle corazzate prigioniere. Quella volta il Ministero della Marina aveva deciso che
due giornalisti andassero a visitare le due
corazzate e narrassero alla gente quanto
ancora, benché ridotte a quella triste prigionia, esse fossero possenti e belle, e
quanta cura se ne avesse, per conservarle lucenti, care ed eleganti, al loro durissimo destino. Perchè il Grande Lago Amaro,
nessuno lo sapeva ancora, era la “cella
della morte” di quelle due stupende navi
che una sentenza iniqua aveva condannato già, nelle segrete trattative fra i vincitori, a diventare una preda da spartire.
Con il mio collega Lino Pellegrini ci imbarcammo sul Mitragliere. il cacciatorpediniere che quel mese doveva assolvere la
missione di rifornimento .Fu, la nostra navigazione, come un salto indietro negli
anni, quando la sconfitta non aveva ancora sconvolto così profondamente gli
animi, e la gente fremeva nel salutare la
bandiera, e la Patria era per tutti la cosa
grande e bella che si amava al disopra di
ogni altra al mondo. Fu, tra le umilianti e
dolorose faccende di quei tempi, come
una gran boccata di aria pura, tra gente
fiera e leale, disciplinata e valorosa, che
sapeva ancora andare in giro per il mondo a testa alta, come si conveniva a chi
da tutti, amici e nemici, aveva meritato rispetto, e a chi glielo volesse per avventura negare,sapeva imporlo con un atteggiamento dignitoso e fermo.
Fu un periodo bello della mia esistenza,
quella mia navigazione a bordo della piccola nave da guerra. Si adunavano a poppa, al levare del sole, i marinai, e salutavano il tricolore che saliva sull’asta, e nuovamente si adunavano verso sera, al tramonto, per la preghiera del marinaio e per
l’ammaina bandiera. Vivevano, ufficiali,
sottufficiali e sottocapi e comuni in gran
cordialità tra loro, e poi in servizio nessuno era più riguardoso e più rigoroso di loro. Funzionava tutto a dovere, nella piccola nave da guerra, le punizioni erano severe, ma date con giustizia, e accolte con
serenità, il rancio era buono perchè il secondo in persona si soffermava a lungo
ad assaggiare tutto, e a sorvegliare che
cambusa, vinicola e cucina corrispondessero in pieno alla bisogna.
Il Comandante della nave era una divinità
lontana: egli stava su in cima, nella plancia, indaffarato a guidare, con gli ufficiali
di servizio, la navigazione. Non si vedeva
mai, cosicchè mi ero fatto di lui uno strano concetto, come di un uomo che volesse restar nell’Olimpo, e non scendere mai
tra i mortali. Anche questo però era sbagliato, perché un giorno che era gran festa a bordo, lo vidi indaffarato a predisporre un pranzo di eccezione, per i suoi
Marinai d’Italia Ottobre 2014
33
Testimonianze
uomini e sedere a tavola con tutto l’equipaggio, secondo una simpatica tradizione
che aveva fortuna proprio in quei tempi in
Marina. Il Comandante prese posto dunque tra il capo contabile e il capo cannoniere, e partecipò con slancio allo scambio di frizzi, di motti, che da un capo all’altro della vastissima tavola si intrecciarono, e i marinai gli risposero con uno spirito sano, di buona lega, che non scordava
il rispetto dovuto al suo grado, ma cordialmente li avvicinava all’uomo che aveva il
loro comando.
Porto Said
Il nostro ingresso nella rada di Porto Said
fu solenne e bello: c’era alla fonda proprio
all’imboccatura una grossa nave americana, ma come può capitare a un capo ufficio distratto di salutare per primo un dipendente incontrato al passeggio un giorno di festa, così avviene talvolta alle navi
andando per mare, e noi non facemmo in
tempo a lanciare fischi di sirena, che già
dalla grande nave si salutava rispettosi al
nostro passaggio. Occorre dire che il nostro, benchè piccolino, era proprio un bel
bastimento, che aveva al suo attivo combattimenti e vittorie in gran numero, e l’equipaggio si era dato, prima dell’arrivo in
porto, molto da fare, cosicchè esso luceva in tutti i suoi ottoni e i suoi bronzi, e la
gente schierata al posto di manovra era
veramente impeccabile, nelle divise curate e nel portamento marziale.
Eravamo proprio una bella nave, e faceva
bene al cuore vederci dignitosi a scambiare saluti con questo e con quello, secondo
le ferree leggi dell’etichetta marinara,
mentre attraccavamo con manovra abile e
precisa ad uno dei moli della città di Porto
Said. Usciti dalle strettoie del Canale la
piccola nave arrivò nel Grande Lago Amaro, e l’equipaggio accorse a schierarsi in
coperta. I marinai avevano cambiato la loro divisa di fatica, con quella elegante della franchigia, per rendere onore alle belle
corazzate italiane che ormai si vedevano,
e apparivano minuscole nella immensità
del grande lago, una da una parte, una dall’altra, ambedue ancora col tricolore issato a poppa... ancora abbiamo detto, perchè di già il loro destino triste era stato deciso, e non lo sapevano i marinai che a
bordo se le covavano con gli occhi, e le lustravano per ogni dove, e le tenevano efficienti, in ordine, pronte a salpare. Non lo
34
Marinai d’Italia Ottobre 2014
conoscevano il destino delle loro navi gli
ufficiali, i sottufficiali, i marinai, i comuni
che con noi avevano viaggiato per far ritorno a bordo, dopo la licenza, e che si
erano arrampicati per ogni dove, per
meglio gustarsele, e vederle ingrandire
man mano al nostro avvicinarsi, e assicurarsi, che ancora esse erano lì, immense e solenni, e pure agili e forti, con
la bandiera tricolore a poppa, e gli equipaggi schierati anch’essi a salutare l’arrivo nostro, di noi che portavamo loro un
poco di aria italiana.
Fu bello il momento che noi passammo
veloci avanti alla Vittorio Veneto e salutammo, e da bordo ci fu risposto, e i marinai da una parte all’altra sventolarono i
berretti festosamente e poi facemmo un
vasto giro per il lago e passammo avanti
all’Italia a scambiare convenevoli, e poi
accostammo, e agilmente, come per una
esercitazione, in un lampo fummo nuovamente vicini alla Vittorio Veneto, ci attraccammo in un cantuccio della grande fiancata, e dovemmo mettere la passerella,
per arrivare al ponte della corazzata, addirittura su in alto, in cima al castello.
Suggeva vino invece la corazzata alle stive della piccola nave, perchè un grosso
carico ne avevamo portato, insieme agli
altri viveri, e alla posta, e agli uomini che
tornavano dalla licenza, per consolare
quegli italiani isolati in mezzo al lago, tra
l’Asia e l’Africa che si estendevano, coste
desertiche aride e solitarie da una parte e
dall’altra dell’acqua salata ed amara.
Per sei giorni restarono unite le due navi,
affiancate l’una all’altra e noi dividemmo
sei giorni di vita con gli uomini della Vittorio Veneto e seguimmo attraverso gli ordini, le comunicazioni, le chiamate dell’altoparlante che inondava di una voce rauca
e possente a tutte le ore ogni angolo della
grande nave, le fatiche con cui un minuscolo equipaggio, che a mala pena sarebbe bastato per un incrociatore, teneva in
vita, lustra e bella all’esterno, efficiente in
tutti i suoi complicati congegni, quella meravigliosa macchina di guerra, miracolo di
tecnica e gioiello di estetica, che i marinai
speravano di conservare per il loro Paese.
Si illudevano, i marinai della Vittorio Veneto e si ricordavano ad una ad una le
azioni di guerra che la Marina aveva
compiuto per riscattare presso i vincitori
il destino dell’Italia, e le promesse, e gli
elogi dei comandanti alleati, per trarne
suffragio alla loro presenza. Si illudevano
che giustizia e gratitudine esistessero ancora nel mondo, e lustravano, lubrificavano, faticavano ore e ore ogni giorno, da
un capo all’altro della nave grande quanto una città, e non si lamentavano di quella vita da cani che conducevano, da anni,
lontani dalle loro case, dalle loro famiglie,
dalle loro donne, isolati dal resto del mondo in quel lago costretto tra due deserti,
essi che erano abituati a spaziare da padroni nel mare immenso, fermi, immobili
da anni, essi che erano giovani e pieni di
vita, essi che erano fatti per il movimento,
la velocità, l’azione. I trecento marinai
della Vittorio Veneto faticavano tutto il
giorno e gli ufficiali non erano da meno, e
i sottufficiali non disdegnavano, quando
era necessario, se gli uomini mancavano
alla bisogna, di dare una mano ai comurni nelle opere più umili, e nessun servizio
era trascurato, nessuna tradizione era
abbandonata, perchè alla oscura ostilità
che li aveva condannati a quell’esilio, gli
uomini opponevano la loro immensa forza
d’animo, la loro profonda disciplina, il loro
amore per il Paese, per la Marina, per la
loro nave.
Fu proprio questo che più di tutto ci conquistò di loro, la composta dignità, l’energia, la disciplina, il rispetto delle forme
che regnavano a bordo, mentre tutto, il
clima, l’isolamento, quel vivere in pochi
sullo spazio vasto del grande bastimento
avrebbe dovuto indurli ad abbandonarsi,
ad allentare la disciplina, a trascurare le
forme esteriori. Invece non vi era ufficiale che salisse o discendesse la scaletta,
e che non fosse salutato dagli onori prescritti, non c’era data che non fosse ricordata, non c’era tradizione che non fosse
rispettata. E quando, a una certa ora, l’altoparlante ordinava franchi a cambiarsi,
gli uomini smettevano le divise di fatica, e
indossavano a seconda della stagione
l’uniforme prescritta, si allineavano sul
ponte per essere passati in minuziosa
rassegna, e poi finalmente potevano
scendere a terra. Scendere a terra significava andare sulla riva desertica, e passeggiare sulla strada che costeggiava il
canale, facendosi di lato al passare di
qualche rara automobile, e occhieggiarvi
dentro nella speranza di vedere per un attimo un volto di donna.
Significava, a voler fare stravizi, fermarsi
un’oretta in una specie di baracca in muratura ove una vecchia donna greca si
era installata a vendere birra e caffè turco, ovvero andare a comprare sigarette
La corazzata Vittorio Veneto
durante la burrasca
del 9 settembre 1940
(Archivio Storia Militare)
e cioccolata, nei limiti delle poche piastre disponibili, in una specie di villaggio
che era nato, per l’intensivo sfruttamento
dei marinai italiani, in mezzo al deserto:
un agglomerato di capannucce sporche
intorno ad una fetida palude ove uomini,
donne e bimbi si lavavano, bevevano e
rovesciavano le immondizie, sicchè mosche zanzare e peggio non mancavano
davvero.
Per questo, soltanto per questo, i marinai
obbedivano all’ordine «franchi a cambiarsi», indossavano le loro belle divise
kaki o turchine a seconda della stagione,
subivano l’accurato esame dei loro ufficiali, i qual i non tolleravano nemmeno
una minuscola macchia sull’uniforme o
un granellino di polvere sulle scarpe, la
minima trascuratezza nel taglio dei capelli e nella rasatura della barba, e facevano presto, se qualcosa non andava, a
ordinare di mettersi da una parte, e restare a bordo. Poi, dopo aver passeggiato per due ore sulla strada polverosa in
mezzo al deserto, e aver bevuto una birra
nella baracca della vecchia greca, e nelle giornate migliori aver carpito un sorriso di donna attraverso il finestrino di
un’automobile in corsa, i marinai tornavano a bordo: la loro franchigia era finita.
Così ogni giorno, per mesi e mesi, fino a
che si avvicinava il momento di partire per
la licenza, e allora le giornate passavano
più rapide, a fare preparativi e catalogare
commissioni di tutti gli amici, e soprattutto
a sognare. Sognare di vedere finalmente
intorno a sè un paesaggio diverso da quel
desolato deserto lontano e da quel ristretto lago vicino, cioè case e strade, alberi e
fiori, vetrine e semafori, e poi finalmente
non più come una cosa vaga esistente in
un mondo diverso, ma come una realtà
prossima e vera da vedere, toccare, rapire, una donna in carne ed ossa: capelli,
occhi, bocca e tutto il resto, e non soltanto una testa in fuga dietro il cristallo di un
finestrino.
Del pericolo che incombeva sulle loro navi, maggiore di ogni altro che esse avevano affrontato nella guerra i marinai non
parlavano mai. Non ammettevano che alcuno potesse porre in discussione il loro
diritto a restare sulla Vittorio Veneto e
sull’Italia fino a che ai superiori comandi
piacesse, e a essere sostituiti, allo sbarco, da altri marinai italiani Non concedevano ad alcuno il diritto di far preda di
quelle navi meravigliose che essi stessi
avevano guidate, sotto la minaccia tedesca, fin qui, fiduciosi che non sarebbe
mancato loro il rispetto dovuto al valore
sfortunato, sicuri che mai alla Marina che
aveva saputo, e Dio sa con quanto sacrificio, obbedire, sarebbe stata inflitta l’umiliazione di dovere ammainare sulle navi la bandiera, e abbandonarle, vani strumenti di guerra ormai privi di anima, a un
diverso destino.
Una volta, che il comandante in seconda
mi invitò a bere un cognac nella sua cabina, osai toccare l’argomento spinoso
“Che farebbe l’equipaggio - gli chiesi bruscamente - se improvvisamente venisse
l’ordine di consegnare le navi?”. Il comandante Spigai si rabbuiò in volto poi pose
mano a un cassetto del sua grande scrittoio, rovistò fra le carte, scelse un foglio e
me lo porse ”Voi siete un marinaio e sapete il vostro dovere “ lessi in quel foglio, nel
punto che l’indice dell’ ufficiale mi indicava “o a Taranto o a fondo”. Chi aveva
scritto con calligrafia stentata e lenta
quelle parole era un uomo del popolo, un
marinaio andato in congedo, e sotto la firma e l’indirizzo Decembrino Enrico, Via
Quintino Sella 84, Bari.
Forse perchè il pensiero del marò Decembrino Enrico era quello di tutti i marinai
delle navi esiliate nel Grande Lago Amaro,
un giorno la Vittorio Veneto e l’Italia poterono accendere le loro immense caldaie,
attraversare di nuovo il Canale, e giunti al
Mediterraneo, mettere la prua verso nord,
verso l’Italia. Non furono quegli equipaggi
valorosi a consegnare al vincitore ingrato
le loro belle navi, e non furono più la Vittorio Veneto e l’Italia i due bastimenti che
esso ebbe, in modo che mai potesse avvenire al marò Decembrino o a qualsiasi
altro dei suoi vecchi compagni di vedere
una nave con bandiera straniera in un
porto del vasto mondo, e di dover dire che
quella era stata una volta la sua bella nave dal nome glorioso.
Mai, mi fu detto, la Vittorio Veneto e l’Italia
furono così lustre e belle come quando fecero quell’ultimo viaggio verso l’Italia. Andarono verso la morte in tenuta di gala.
nnn
Marinai d’Italia Ottobre 2014
35