Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
Hai mai pensato di uscire a cena con un sistema operativo? Le vertiginose ipotesi di amicizie, relazioni, amori e gelosie nei confronti delle macchine, da sempre prefigurate nel cinema che racconta robot e computer dotati di emozioni, prendono in questo pluripremiato film del regista di Essere John Malkovich pieghe complesse e inaspettate. Oscar alla miglior sceneggiatura originale e doppiaggio italiano da bocciare. scheda tecnica tit. orig.: durata: nazionalità: anno: regia: soggetto: sceneggiatura: fotografia: montaggio: musiche: scenografia: distribuzione: HER 126 MINUTI USA 2013 SPIKE JONZE SPIKE JONZE SPIKE JONZE HOYTE VAN HOYTEMA JEFF BUCHANAN, ERIC ZUMBRUNNEN ARCADE FIRE K.K. BARRETT BIM DISTRIBUZIONE interpreti: JOAQUIN PHOENIX (Theodore Twombly), AMY ADAMS (Amy), ROONEY MARA (Catherine), OLIVIA WILDE (Amelia), CHRIS PRATT (Paul), PORTIA DOUBLEDAY (Isabella). doppiatori originali: SCARLETT JOHANSSON (Samantha), BRIAN COX (Alan Watts), KRISTEN WIIG (Sexykitten), SPIKE JONZE (Alieno nel gioco), SOKO (Isabella - solo voce). premi e riconoscimenti: 2014 Academy Awards, Oscar Miglior sceneggiatura originale, Nomination Miglior film , Miglior scenografia, Miglior colonna sonora, Miglior canzone (The Moon Song); 2014 Golden Globe, Migliore sceneggiatura a Spike Jonze, Nomination Miglior film commedia o musicale, Miglior attore in un film commedia o musicale a Joaquin Phoenix; 2013 - Festival Internazionale del Film di Roma, Miglior interpretazione femminile a Scarlett Johansson, Mouse d'oro a Spike Jonze; 2014 Saturn Award, Miglior film fantasy, Miglior sceneggiatura, Miglior attrice non protagonista a Scarlett Johansson, Miglior attore a Joaquin Phoenix; 2013 - Los Angeles Film Critics Association, Miglior film. Spike Jonze Spike Jonze, nome d'arte di Adam Spiegel (Rockville, 22 ottobre 1969), è un regista, sceneggiatore, attore e produttore cinematografico statunitense, autore di film, spot pubblicitari e videoclip musicali. Jonze, dopo aver girato diversi video di skateboarding, ha raggiunto il successo grazie alla commedia nera Essere John Malkovich (1999) e al film Il ladro di orchidee (2002), entrambi scritti da Charlie Kaufman. Oltre al cinema, Jonze è celebre anche per essere co-creatore e produttore della serie televisiva di MTV Jackass e di Jackass: The Movie. In alcune occasioni ha usato lo pseudonimo Richard Coufey (o Koufey, o Couffe) ed è anche il cofondatore e l'editore della rivista “Dirt”, così come è editore anche del “Grand Royal Magazine”. Nel 2009 dirige Nel paese delle creature selvagge, il suo terzo lungometraggio, la cui colonna sonora è firmata dalla cantante del gruppo indie rock statunitense Yeah Yeah Yeahs, Karen O. Con Karen O. ha una relazione dopo la separazione da Sophia Coppola. Nel 2014 esce Lei-Her, che gli procura l'Oscar per la miglior sceneggiatura originale e numerosi altri premi e riconoscimenti. Il più curioso è quello alla miglior attrice attribuito alla Johansson dal festival di Roma e dal Saturn Award, per la sola interpretazione vocale. La parola ai protagonisti Intervista a Spike Jonze È la sua prima sceneggiatura in solitario, il proverbiale passaggio da regista ad autore. L'idea è nata una decina di anni fa dal link di un sito che prometteva messaggi istantanei con un'intelligenza artificiale. Sembrava una normale chatline (Ehi, come stai?, E tu come stai ?), finché non sono saltati fuori gli insulti: Non essere odioso, Non fare l'insolente. Allora ho capito che il programma ripeteva frasi fatte, ma per venti secondi ho avuto l'illusione che interloquisse con me. Un'esperienza buffa, ma non certo un film, finita nel cassetto virtuale delle idee casuali. Se ne ho, quando non sono al computer mi spedisco una mail: che soddisfazione ricevere dritte da me stesso. Ha ripescato l'idea cinque anni fa, mentre montava Nel paese delle creature selvagge... Non mi sentivo pronto a cominciare niente di impegnativo, e come sempre ero a caccia di piccole cose veloci. È stato in quel periodo che ho messo a punto il corto I'm Here sulla storia d'amore di un robot, il corto We Were Once a Fairytale con Kanye West, e il corto animato in stop motion, Mourir auprès de toi». In sei mesi Her è diventata una sceneggiatura aumentando i personaggi intorno al volto di Thedore e alla voce di Samantha: l'ex moglie Catherine, la confidente Amy. Ha trovato subito il produttore, l'emergentissima Megan Ellison della Annapurna (appena 27 anni!), e il protagonista, Joaquin Phoenix, che dieci anni fa aveva rifiutato in malo modo la parte dei due gemelli di Il ladro di orchidee andata poi a Nicolas Cage. Il ruolo di Phoenix è stato rilevante? Non solo Joaquin si è fatto crescere i baffi ma ha anche dato un grosso contributo a migliorare la storia. È riduttivo definirlo attore, è un vero e proprio filmmaker. Poi è arrivato in aiuto Soderbergh che in un weekend si è offerto di ridurre il film da 150 minuti a 90. Anche se dura ancora 120 minuti, il suo intervento è stato decisivo perché ho trovato il coraggio di tagliare scene cui tenevo, ma che rallentavano il ritmo. Ma come si conciliano i suoi film raffinati e intellettuali col fatto che lei è anche creatore, scrittore e produttore della coattissima serie Jackass, di cui sta uscendo in questi giorni Jackass - Nonno cattivo? Sono molto affezionato a Jackass perché è stata una esperienza rivoluzionaria: 22 minuti su Mtv senza nessun tipo di controllo e censura. Concetto poi trasferito al cinema, per film viscerali, senza apparente narrativa; sono happening: è come andare a un concerto. Io faccio parte della prima generazione di registi cresciuta con in mano la videocamera. Mai vista una scuola di cinema. Non abbiamo chiesto il permesso. Una storia d’amore ma anche un film sulle contaminazioni: si vedono i videogames e si vede internet. Che cosa l’ha affascinata in questo tipo di esplorazione? Sai, questo film non l’ho fatto da solo. E con tutta la mia crew abbiamo cercato di fare un film che raccontasse cosa si prova a essere vivi oggi, di cosa si prova nel cercare di creare un legame con gli altri e di come la tecnologia ci può aiutare o ostacolare. Ho provato a scrivere di cose che sto provando a capire, per le quali sono confuso, in termini di come creiamo le relazioni, di come non ci riusciamo o aspiriamo a farlo. La cosa affascinante del film è che non c’è una posizione tra il fascino della virtualità e il grido d’allarme di tutto ciò. Probabilmente è perché provo sentimenti contraddittori su questo e volevo rappresentarli tutti. In più di natura provo sempre a non giudicare, a essere aperto alle possibilità. Nella vita come nel lavoro. La tecnologia è complicata: ci sono cose positive e negative proprio come in ogni cosa. È un film sul presente, con un occhio al futuro, ma molto radicato nel passato, in questo bisogno di relazionarsi con qualcuno, di amore, di essere riconosciuti... Non ho mai pensato a questo film come radicato nel passato, ma come una cosa di eternamente presente. Questo bisogno lo proviamo fin da quando abbiamo madri e padri, probabilmente anche gli uomini delle caverne già provavano questi sentimenti. Credo che questo bisogno di legami e intimità sia più complesso oggi, perché le nostre vite si muovono molto velocemente grazie alla tecnologia, che ci permette di avere un afflusso di informazioni enorme, una comunicazione rapida e veloce. Riceviamo tantissime mail e ci si aspetta una reazione, una risposta in tempi rapidissimi. Le aspettative che noi poniamo nei nostri confronti sono elevate e questo rappresenta una sfida per la nostra vita. Siamo duri con noi stessi. Forse lo siamo sempre stati, ma oggi, vista la situazione attuale, lo siamo ancora di più e questo ci impedisce di creare legami. Cosa è una relazione secondo lei? Non era di tecnologia che volevo parlare quando mi sono messo a scrivere questo film. Volevo parlare di un rapporto, di una relazione. La domanda che mi sono posto è: che cosa è un rapporto? Cosa è l’amore? Come si crea l’intimità e come si impedisce che questa si crei? È una domanda antica, su cosa c’è dentro di noi che crea o impedisce che si venga a creare un rapporto con le altre persone. In realtà che cosa è una relazione non lo so. Ho cercato di capire che cosa c’è dentro di me che mi impedisce di creare una connessione di intimità nei confronti di un’altra persona. Alla base di tutto ciò credo ci sia la volontà di essere vulnerabili: è in questo modo che puoi creare una relazione. Quello che conta è l’essere conosciuto, che sia tramite la tecnologia o a livello interpersonale. Ma è necessario che tu voglia essere conosciuto, che tu sia disposto a toglierti la maschera che tutti indossiamo. Io so di indossare una maschera ogni volta che scrivo una mail, per esempio. Ma cosa sia una relazione, proprio non lo so. Ma siamo ancora al punto in cui si pensa che più va avanti la tecnologia, più ci sentiamo soli? Penso che la solitudine sia un sentimento senza tempo. Oggi le circostanze sono tali per cui è possibile che si crei la solitudine. Ma non credo sia solo la tecnologia: viviamo in maniera diversa, siamo sempre molto presi, molto impegnati. Tendiamo a vivere in maniera isolata. A volte mi chiedo com’era vivere 200 anni fa, quando si viveva in un piccolo paesino, con le persone anziane, i genitori, i nonni. Magari c’era qualcuno con cui parlare e che viveva nella tua stessa casa... e se era diverso da oggi. Perché ha scelto Scarlett Johansson per interpretare la voce del sistema operativo, nonostante lei sia celebre anche, forse soprattutto, per la sua bellezza? Scarlett è una persona estremamente affascinante, intelligente e acuta. Naturalmente è bellissima, ma quando non la guardi è perfino meglio. Era molto importante che Samantha esprimesse eccitazione mentre pian piano “scopriva” se stessa, e lei riesce ad avere una consapevolezza di sé quando parla che permette di trasferire quella stessa eccitazione anche allo spettatore. Parliamo del finale del film. È sempre stata quella l’idea finale? Perché sembra quasi che il protagonista sia un po’ deluso verso il rapporto che ha avuto con la tecnologia. Quasi da non augurarsi un’evoluzione del sistema operativo... Pensi che sia deluso quando va sul tetto? Credo che quello che c’è di interessante su questo film è che ogni persona con cui parlo ha una reazione diversa, ma tutti pensano che quella sia la reazione giusta. E credo che tutti abbiano ragione. Non c’è una risposta sbagliata. L’obiettivo che volevo raggiungere è esattamente quello. Ho fatto un film personale nel quale ho cercato di rappresentare le varie contraddizioni che io vivo, che io sento. Cerco di capire il mondo in cui viviamo, le relazioni, me stesso. La mia speranza è che ciascuno abbia una sua propria reazione. È un film personale e la reazione deve essere personale, non importa che sia positiva o negativa. Theodore a me sembra un uomo come tanti che non riesce a stare al passo con le donne. Dopotutto viene costantemente abbandonato. È così che vedi l’uomo moderno? Vedo gli uomini così? Sono tempi complicati: credo che il mondo stia cambiando a una velocità tale... i ruoli tradizionalmente attribuiti ai due sessi sono sconvolti rispetto a quello che erano 50 anni fa. Stiamo cercando di recuperare, di guadagnare strada. Milioni di anni di biologia ci hanno detto una cosa, poi la società ci dice altro. Stiamo cercando in un certo senso di trovare la strada. Alla fine del film lui sembra essere diventato un uomo migliore rispetto all’inizio... Lo spero! Theodore attraverso tutto ciò in un certo senso è guarito. È un messaggio di speranza anche verso tutti noi. Dopo i videoclip e la pubblicità, ha intenzione di lavorare nel settore dei videogame? Mi piacerebbe. Nel film abbiamo creato due videogiochi. Per il primo avevamo una storia molto complicata. Quello che mi piace dei videogame è che sono una nuova frontiera della narrazione, mi fa pensare al cinema ai suoi albori, quando avevamo appena iniziato a grattare la superficie della narrazione. Secondo me il videogioco ha del potenziale enorme. Recensioni Gianmaria Tammaro. Repubblica.it (…) Non faremo di ogni film doppiato male un caso, piuttosto affronteremo l’argomento parlando di una pellicola in particolare, uscita al cinema proprio in questi giorni, vincitrice di un Oscar (per la Miglior Sceneggiatura) e diretta da uno dei registi più visionari degli ultimi vent’anni. Stiamo parlando di Her, italianizzato Lei, film di Spike Jonze, che in Italia, com’è già successo per Django Unchained e per The Wolf of Wall Street, è stato distribuito anche in originale (65 copie, circa un terzo del totale). La giustificazione che tantissimi – giornalisti, spettatori, cinefili e addetti ai lavori – hanno usato è: c’è Scarlett Johansson e la gente vuole sentire la sua voce. Forse, in minima parte e in modo del tutto marginale, è così: è per sentire la voce della donna che ha vinto anche il premio di Miglior Attrice all’ultimo Festival di Roma per questo ruolo che Lei è stato proiettato anche in inglese, con sottotitoli in italiano. È poi anche vero che la pubblicità eccessiva di chi l’avrebbe sostituita ha ottenuto l’effetto contrario a quello sperato: Micaela Ramazzotti, scelta come voce italiana dell’OS Samantha, non è una doppiatrice e, cosa ancora più importante, non è la doppiatrice “storica” di Scarlett Johansson (ruolo rivestito quasi a turno da Perla Liberatori e da Domitilla D’Amico). Ci sono anche altre questioni legate al doppiaggio, più grandi e più generali: anche in Italia la lingua originale si sta ritagliando il suo posto al sole. Una volta i doppiatori riuscivano a migliorare il prodotto finale. Il film, grazie a loro, ne guadagnava: in spessore, espressività ed emotività. Oggi questo esercizio è difficile, quasi inarrivabile per le nuove leve. Il film di Spike Jonze è quasi un altro in lingua originale. E il discorso non riguarda solo Samantha o Theodore; riguarda tutti gli attori, tutte le voci. Nel quadro dipinto dal pittore Jonze non c’è spazio per le incertezze. La sceneggiatura, anch’essa firmata dal regista, fa delle scelte precise: si dicono cose precise. E sbagliare anche di poco non è accettabile. I lunghi silenzi, i primi piani assoluti, gli ambienti e le luci, il colore della fotografia, il suo calore, riducono al minimo le battute, rendendole essenziali. E se le sbagli, è la fine. Ci vuole il giusto tono (sperare di poter ricreare quello di Joaquin Phoenix, uno degli attori più bravi e capaci del panorama contemporaneo, in poco tempo è assurdo); ci vuole la giusta espressività (la sensualità della Johansson è una cosa rara: o ce l’hai o non ce l’hai); e ci vogliono le giuste pause. Che come nella musica sono fondamentali, più importanti ancora dei suoni delle parole. In Her versione italiana un po’ di tutto questo manca. E ve ne accorgerete anche se non avrete visto prima Her in lingua originale: vi aspetterete nella voce di Samantha/Ramazzotti un mormorio che non ci sarà; nella voce di Theodore un’esitazione che mancherà; e in quella degli altri interpreti una complicità essenziale, quasi spontanea, che puntualmente (purtroppo) mancherà. Il doppiaggio non sarà finito: ci sono ancora grandi, grandissimi doppiatori in giro e certamente non sta a noi farne i nomi. Ma la versione originale ha vinto la battaglia, almeno questa. Eleonora Saracino. Cultframe.com (…) In un futuro prossimo venturo Spike Jonze paventa un’e(in)voluzione emotiva che passa dalle corde vocali ai complessi circuiti di un sistema elettronico, andando ben oltre i rapporti virtuali ai quali siamo già da tempo avvezzi ma tracciando una parabola comunicativa che, proprio attraverso la sua spersonalizzazione, finisce per agognare la primigenia dimensione umana. Un paradosso soltanto apparente poiché il regista americano, con sensibilità e intelligenza, racconta le profonde inquietudini della nostra contemporaneità schivando i luoghi comuni e le facili critiche di un’epoca che sempre più delega a quei dispositivi, complessi quanto aridi, il compito di farsi azione e/o espressione. Chiamandosi fuori dall’ovvietà di un giudizio o del biasimo, Jonze converte quel che pare un riarso territorio emotivo in un desiderio, addirittura poetico, di riappropriarsi dell’umanissima possibilità di provare amore o dolore. Her diviene così una sorta di “passo a due”, una danza cadenzata dal suono suadente di una voce (quella di Samantha, ovvero un Sistema Operativo di ultima generazione) e dai gesti e dalle parole di Theodore che da lei viene sedotto. Ciò che si cela dietro quei circuiti non è soltanto una super intelligenza artificiale ma una struttura complessa in costante evoluzione che modula la sua continua metamorfosi in base alle pressochè infinite proprietà antropiche. Sentendosi sempre più umana – troppo umana – Samantha non tollera i limiti fisici che la separano da Theodore, così come Theodore stenta ad affrancarsi da una passione che “consuma” solo attraverso la voce. Jonze non indaga il rapporto, già tante volte affrontato al cinema e non solo, uomo-macchina ma esplora, da una originale angolazione, il mistero, ancora insondabile, di quel legame antico chiamato amore. Dalla scintilla dell’innamoramento, al viluppo dei sensi, passando per la gelosia e il dolore della fine, la “storia” di Theodore e Samantha ripercorre tutte le tappe di una relazione del mondo fisico e reale. L’eclettico talento di Joaquin Phoenix fa di Theodore un protagonista straordinario, in perfetta sintonia con un comprimario invisibile la cui voce (di Scarlett Johansson nella versione originale) riesce, anche nella sola immaginazione, a dar forma e carattere ad una donna sexy e appassionata ma anche fragile e confusa. In un ininterrotto discorso amoroso i due si conoscono e si seducono, si amano e si scontrano, fino a ferirsi e soffrire in un continuo flusso di parole il cui straordinario potere evocativo sa rendere tangibile, andando ben oltre l’udito, un intero universo sensoriale. In una Los Angeles futuribile, scintillante di specchio e di acciaio, Jonze fa invece muovere i suoi personaggi in interni dai colori caldi della terra (l’arancio, il giallo, l’ocra…) che racchiudono in uno spazio cromaticamente pop un’atmosfera vintage che non lascia tuttavia fuori guizzi avveniristici, come a ricordarci che ogni emozione resta comunque pura e atemporale. Perché Her non è (solo) un film sull’amore ma soprattutto sull’idea di esso, sull’illusione di un “per sempre” destinato spesso ad infrangersi sul disincanto di un’aspettativa mancata. Ed è nel vagheggiare quel sentimento perfetto che, sovente, si rifugge il vero cercando in un altrove fittizio quell’ideale romantico che fughi l’endemico, umano terrore della solitudine. Per questo nel finale sarà, ancora una volta, la parola con il suo potere fondante – che in questo film ne declina perfettamente i toni dall’incantatorio al comico financo al salvifico – ad “assolvere” l’uomo dal non voler essere più solo e, nel percorre gli “spazi bianchi” del linguaggio, catapultarlo, di nuovo, in quell’avventura ineluttabilmente reale che è la sua stessa vita. Gabriele Niola. Mymovies.it (…) A Spike Jonze interessano le più banali e comuni tra le sensazioni umane ma per arrivare a dar voce e corpo in maniera personale e addirittura "nuova" ai più antichi tra i temi trattati dall'arte (e dunque dal cinema) necessita sempre di passare per un elemento fantastico, l'inserimento di una sola implausibile stranezza per attivare meccanismi e percorsi nuovi. In passato lo ha fatto con lo sceneggiatore Charlie Kaufman (che di questo è stato maestro) ora ci è arrivato con un film scritto autonomamente (e si nota un po' di fatica della sceneggiatura nel giungere alla conclusione), un'opera che attinge ai temi della fantascienza classica e li trasforma da obiettivo del film a suo mezzo. Il rapporto con le macchine non come spunto di riflessione ma come strumento per parlare d'altro. Con il lusso di poter usare l'attrice più attraente del momento solo in audio, senza mai farla vedere (l'intelligenza artificiale parla per bocca di Scarlett Johansson), facendo in modo che sia il cervello dello spettatore a sollecitare il rinforzo positivo legato a quella voce, e appoggiandosi alla capacità superiore alla media di Joaquin Phoenix di "ascoltare", cioè di essere l'unico inquadrato in ogni conversazione significativa, volto emittente e ricevente di tutte le battute, Spike Jonze riesce a girare una storia d'amore al singolare, senza puntare il dito contro la tecnologia. Anzi. Attraverso la sua versione estrema della società in cui viviamo (sembra ambientato 10 anni da oggi) Her supera la dicotomia classica della fantascienza tra spirito e materia, ovvero la lotta che in ogni uomo l'umanità compie per emergere e trionfare sul dominio imposto con o dalla tecnologia. Rifiutandosi di mettere in scena il rapporto che avevamo fino a qualche decennio fa con l'avanzamento tecnologico, Jonze arriva invece dalle parti di Wall-E, cioè in quel reame di storie in cui la lotta dello spirito per emergere è aiutata dalla tecnologia e non ostacolata. Non cosa la tecnologia rischi di farci ma chi siamo noi mentre ci guardiamo nel suo specchio. Ridotto ai minimi termini infatti Her mette in scena il lungo processo attraverso il quale viene elaborata la fine di un amore: venire a patti con l'esigenza di andare avanti, lasciare il passato dietro di sè e voltare pagina attraverso esperienze estreme e grottesche. Questo modo di procedere consente al regista di piegare i generi, fondendo fantascienza e melodramma (ma non c'è dubbio che sia il secondo a prevalere) e dipingendo uno stile di vita e un universo animato dalla più evidente contingenza con il tempo presente. Non c'è un briciolo di fobia nella sua visione ma anzi l'amichevole presa in giro da parte di chi con le novità del presente ha un rapporto di confidenza. Il risultato è che vedendo Her si ha l'impressione che solo in questa maniera sia possibile operare quell'indagine sull'attualità, tipica delle forme d'arte non ancora morte, quella che consente di scovare quali siano le pieghe in cui poter trovare il sentimentalismo oggi. Simona Santoni. Panorama Decisamente affascinante, dolcissimo con qualche spruzzata acre, capace di strisciare dentro a lungo e aprire riflessioni sul nostro oggi. Finalmente arriva nelle sale italiane - dal 13 marzo - Lei (titolo originale Her) dello statunitense Spike Jonze, trionfatore morale dello scorso Festival di Roma (dove invece vinse l'italiano Tir). Anche l'Academy of Motion Picture Arts and Science non è rimasta immune al suo charme e gli ha consegnato l'Oscar come migliore sceneggiatura originale. Opera intrigante, ecco cinque motivi per cui è (assolutamente) da vedere. Bim Distribuzione, tra l'altro, la fa gioiosamente uscire in una doppia versione, originale e doppiata: su 170 copie in sala, ben 65 saranno in inglese con sottotitoli. 1) L'incomunicabilità di un futuro così prossimo. Jonze, nella sua carriera contraddistinta da un forte spirito indipendente, è stato anche attore, autore di spot e videoclip. Ma soprattutto è stato regista di pochissimi ma geniali film: la commedia surrealista Essere John Malkovich (1999) è diventata un cult, Il ladro di orchidee (2002) l'ha portato a una nomination ai Golden Globe per la regia. Amante del paradosso e spinto da visioni mai scontate, con Lei ci porta nella Los Angeles di un futuro non troppo lontano, evidente riflesso dell'oggi. (…) Nella versione originale la voce è di Scarlett Johansson, che per questa interpretazione è stata premiata come migliore attrice a Roma; in quella italiana è di Micaela Ramazzotti. Per Theodore Samantha diventa sempre più indispensabile. E anche Samantha è sempre più alla ricerca di lui. Il loro rapporto assomiglia sempre di più all'amore. Dietro una storia semplice eppure profonda e originale, Jonze intanto indaga la natura e i rischi dell'intimità e dei rapporti umani nel mondo contemporaneo. Lo fa però senza presentarci la tecnologia come nemica insidiosa, senza critiche palesi e senza sollecitare emozioni cupe. È l'uomo a essere sotto la sua lente, nelle sue fragilità e nelle sue incapacità. 2) Un amore virtuale eppure dolcissimo. La storia tra Theodore e Samantha è di una dolcezza penetrante, senza mai essere stucchevole. Per quanto possa sembrare assurdo, il loro amore sul filo della voce e della tecnologia è davvero coinvolgente. Ha il romanticismo emozionante degli amori impossibili. (...) Jonze mescola i generi, si muove tra fantascienza e melodramma, scavando nei sentimenti più complessi. Con sapienza, riesce a toglierci di dosso ogni tentazione di giudizio nei confronti di Theodore, che sembra così simile a noi. 3) Scenografie futuristiche e calde. Scordatevi le architetture fredde e minimal di tanti film di fantascienza recenti: il futuro secondo Jonze ha scenografie essenziali ma dolcemente calde, dominate da tinte pastellate e lievemente "abbrustolite". Tra bianchi e spazi sgombri sono tante le tenui pennellate di colore, arancio su tutti. Una visione innovativa e tutt'altro che inquietante, di una ricerca estetica seducente. L'avvenire e la tecnologia, di per sé, non sarebbero allarmanti. 4) Sceneggiatura visionaria. "È bello stare con qualcuno che ama la vita": così Theodore parla della sua nuova compagna, il sistema operativo Samantha. In questa frase che sembrerebbe paradossale se non fosse del tutto sincera c'è tutto l'acume di una sceneggiatura che non è mai banale. Ora tocca le corde più intime, ora ha flutti di ironia, è delicata ma talvolta anche cruda. Non a caso si è meritata un Oscar. 5) Joaquin Phoenix, mai così commovente. Joaquin Phoenix ha saputo essere brutale (Il gladiatore) o animalesco (The Master), ambiguo (C'era una volta a New York) o tormentato (Quando l'amore brucia l'anima). Il suo talento è strabordante e multiforme e mai, forse, Joaquin è stato così tenero e commovente. Protagonista assoluto, ci fa dimenticare la sua bravura per com'è bravo a essere Theodore e non Joaquin. Scordiamo completamente che sta recitando. (...) Roy Menarini. Mymovies.it l film Lei di Spike Jonze, ben lungi dall'essere un film perfetto, è tuttavia il film perfetto per i nostri tempi. Ogni tanto giunge nelle sale internazionali un lungometraggio che ci guarda e ci comprende con grande precisione, che mette a fuoco i temi e i problemi che viviamo quotidianamente e che li processa per riconsegnarli alla pubblica discussione. Lei è uno di quei film. Inoltre, pur rifuggendo dal suo aspetto più chiassoso e spettacolare, dopo molto tempo risarcisce la fantascienza del suo compito primario: anticipare le domande che poniamo a noi stessi. Il futuro immaginato da Jonze non è troppo lontano. La completa digitalizzazione della nostra esistenza permetterà di interagire con le macchine intelligenti soprattutto attraverso voce e udito, dialogo e suono. Meno "touch" di quanto non siamo noi oggi, più immediati nel contattare la nostra controparte informatica, avremo intelligenze "mobili" sempre al nostro fianco, semplici evoluzioni qualitative degli smartphone e tablet che già possediamo. È vero che a Jonze interessa relativamente poco la coscienza della macchina (da Hal 9000 in poi ne abbiamo viste sin troppe), ma non bisogna nemmeno credere sia completamente disinteressato all'argomento o che la fantascienza sia solamente un orpello per imbastire una storia romantica. L'appassionato di sci-fi, infatti, incontra alcuni spunti molto suggestivi. Il primo è che le macchine intelligenti comunicano e comunicheranno sempre più tra di loro: il sistema operativo Samantha acquisisce rapidamente forme linguistiche, esperienze e discorsi fino a dialogare con i videogame (una sequenza esilarante dove l'uomo sembra ormai un abitante non necessario delle realtà virtuali), poi con un soggetto filosofico ricostruito infine con gli altri sistemi operativi simili a lei. Il secondo è che, rispetto alla robotica classica o comunque a tutta la fantascienza delle intelligenze artificiali, il tema dell'assenza di corpo - nel film di Spike Jonze - viene tematizzato con grande lucidità: Samantha oscilla tra il rimpianto di non avere carne e ossa (fino a cercare un corpo vicario per l'esperienza erotica), e l'ebbrezza di poter essere ovunque e in qualsiasi luogo, tanto che il problema ontologico di fondo sembra essere: "Dove si trova Samantha quando non è collegata, quale autocoscienza esprime in stato di standby?". Infine, terzo e più importante elemento, Jonze rende struggente la nostra percezione dell'intelligenza artificiale, spostando l'obiettivo (specie nell'ultima parte del film) sulle nostre illusioni. L'incapacità di Theodore non è tanto quella di scambiare un essere artificiale per un essere umano, quanto di pensarlo come soggetto singolare. Le intelligenze del presente e del futuro sono de-soggettivizzate, il soggetto si dà esclusivamente come interfaccia, e la capacità di processare immense quantità di dati ha trasformato la macchina digitale in una entità disseminata, simultanea, capace di "essere se stessa" contemporaneamente con migliaia di interlocutori. (…) Valerio Caprara. Il Mattino Una concentrazione dolcissima. I sensi immersi in un gioco di seduzioni e stupori. Poi, quando lo schermo si spegne, ti metti a pensare con emozione asciutta, un po' stordito ma vigile, gli impulsi della mente e i battiti del cuore rallentati per prolungare l'eco di un mondo così incredibilmente vicino, così irrimediabilmente remoto. La visione di «Lei» («Her»), uno dei film candidati all'Oscar e quello che l'ha vinto per la migliore sceneggiatura, ha bisogno un impegno forte, ma nient'affatto arcigno: lo spettatore può entrare negli scenari geometrici, minimalistici, affabili di una città avveniristica ma non troppo, i suoi colori tenui e i suoi design levigati, i suoi riti societari condotti da persone reali senza spessore, amichevoli senza passione, infelici senza dolore a condizione che scatti un transfert d'immedesimazione. Natalia Aspesi. Repubblica Il nuovo film di Spike Jonze racconta una storia d'amore in un futuro vicino, tra un uomo fragile e un oggetto più maneggevole di una donna vera. Theodore (Joaquin Phoenix) sta subendo un doloroso divorzio imposto dalla moglie, quando Internet gli fa conoscere l'OS Samantha, che con la sua intelligenza, artificiale eppure umanissima, invade il gelo della sua vita dominata dalla depressione e dal vuoto. La voce seduttrice in lingua originale è quella di Scarlett Johansson, miglior attrice (fantasma) al Festival di Roma, nella versione italiana è quella di Micaela Ramazzotti, brava quanto la diva americana, e allo spettatore giova ricordare quanto le due cineinvisibili nella realtà siano belle. Basta un auricolare e uno smartphone che spunta dal taschino della camicia e Theodore non è più solo ma in due, ovunque. Il tutto si svolge in un futuro molto vicino, almeno per quel che riguarda il veloce, feroce progresso disumanamente tecnologico, in cui sistemi operativi efficienti come Samantha possono collegarsi con 8316 persone e innamorarsi di 641.