7° film “Cineforum Il posto delle fragole” 21° edizione 2014

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7° film “Cineforum Il posto delle fragole” 21° edizione 2014
7° film “Cineforum
Il posto delle fragole”
21° edizione
2014
LEI
Titolo originale: Her. Regia e
sceneggiatura:
Spike
Jonze.
Fotografia: Hoyte Van Hoytema.
Montaggio: Jeff Buchanan, Eric
Zumbrunnen. Musica: Arcade Fire.
Scenografia:
K.K.
Barrett.
Costumi: Casey Storm. Interpreti:
Joaquin
Phoenix
(Theodore),
Scarlett Johansson (Samantha,
voce), Rooney Mara (Catherine),
Amy Adams (Amy), Matt Letscher
(Charles), May Lindstrom (la sexy
star), Olivia Wilde (la ragazza dell’appuntamento), Chris Pratt (Paul), Laura Kai Chen (Tatiana),
Portia Doubleday (Isabella), Robert Benard (Michael Wadsworth), Luka Jones (Lewman),
Gracie Prewitt (Jocelyn), Spike Jonze (il piccolo alieno, voce), Brian Cox (Alan Watts, voce),
Soko (Isabella, voce). Produzione: Megan Ellison, Spike Jones, Vincent Landay per Annapurna
Pictures. Distribuzione: BIM. Durata: 126’. Origine: USA, 2013.
La solitudine nell’inganno dei sensi Giampiero Frasca da CINEFORUM
Lei è un altro capitolo di quel discorso mai interrotto sulla fuga nell’estraneità che Spike Jonze
conduce fin dal suo esordio..
Lei , al netto di ogni implicazione semantica possibile e di ogni rilievo critico che
inevitabilmente potrebbe scaturire su una società spersonalizzata, è essenzialmente una storia
d’amore, come ricorda la tagline che accompagna la locandina del film («A Spike Jonze Love
Story»). Una storia d’amore al tempo dei social network, ambientata in una Los Angeles (con un
sincretismo architettonico futurista che si completa nelle scene girate a Shanghai) di poco
posteriore, ispirata, soprattutto negli interni caldi e melliflui, alla catena di ristoranti americana
Jamba Juice. L’anomalia del romance di Jonze risiede nell’asimmetria esistente nel rapporto
sentimentale tra un uomo e una presenza virtuale che si sostanzia esclusivamente attraverso una
voce, eccentricità che si riflette anche graficamente, in un rapporto di coppia spurio basato sulla
plasticità di un solo corpo.
Semplificando di molto, una storia d’amore mostrata per sottrazione dei suoi caratteri
essenziali, il primo dei quali è il consueto controcampo, tendenzialmente eliminato oppure
mutuato in scelte alternative, in qualche modo stranianti, forzatamente inconsuete. Nel dialogo
notturno tra Theodore e la voce di Samantha, in cui il protagonista, sconfortato dopo aver fallito
un appuntamento al buio con un’amica di alcuni suoi conoscenti, confessa al computer di
aspirare a frequentare qualcuno che lo desideri sessualmente e lo sottragga dallo stato di
solitudine cui pare condannato, i piani che solitamente sarebbero destinati all’altro interlocutore
sono indicativamente sostituiti da flashback sulla donna che ha causato la sua fresca frustrazione
e su situazioni del passato che lo vedono sorridente e spensierato in mezzo a persone care,
protagonista di una serenità che pare molto lontana.
In questo modo, l’alternanza dei piani non ha solo il compito di fornire una differenza tonale
rispetto al melmoso presente grazie ai colori sgargianti e al movimento delle figure che si
contrappongono al primo piano abbattuto di Theodore, ma illustra anche lo spettro della
depressione del personaggio, costantemente in bilico tra la delusione per le occasioni perdute e le
emozioni che si suppone non possano più essere vissute. Un controcampo che nasce, di fatto,
dalla propria incompletezza, un dialogo originato dalla voce di Samantha che ha come
interlocutore privilegiato l’avvilimento personale.
Coerentemente con questo aspetto, l’immediatamente successiva connessione erotica tra
Theodore e il sistema operativo è in qualche modo filtrata attraverso il ricorso a una banale
dissolvenza in nero che permane per qualche secondo sullo schermo, a cui si lega la frase post
rapporto espressa da Samantha: «Dio, ero da un’altra parte solo con te». L’altra parte: il nulla
del nero, un’altra dimensione che non è fisica, che non può essere reale, sicuramente non
visibile, nata esclusivamente dall’unione di acustico e virtuale.
È lo stesso Jonze a fornire il paradosso su cui si basa l’intero assunto del film, ossia la
negazione della visione come pratica di determinazione della realtà. Nelle scene iniziali,
Theodore prende dal suo comodino l’auricolare per partecipare a una chat sexy, lasciando cadere
in terra i suoi preziosi occhiali. La stessa chat è affrontata con gli occhi chiusi, alla ricerca di una
concentrazione che genera soggettive mentali di un’ammaliante sexy star incinta, pronte a
dissolversi non appena giunge l’invito della partner virtuale a soffocarla con un gatto morto
immaginato ai piedi del letto. Non a caso, quando Samantha vorrà dotarsi di un corpo per
congiungersi con Theodore con un maggior grado di verosimiglianza, l’incanto si dissolverà nel
momento stesso in cui la voce del sistema operativo inviterà Theodore a guardare direttamente in
volto la ragazza prestatasi a compiere l’insolita esperienza.
La soggettività di Lei è orbata, privata della capacità di analisi, un corollario rispetto
all’aspetto verbale, in grado di generare emozioni, dipendenze e sentimenti, seppur in una
dimensione alternativa, impropria .
L’impossibilità di vedere esclude dal mondo e isola, pur illudendo su un’ipotesi di felicità. Lei
è anche una triste esplorazione della solitudine travestita da inganno dei sensi. Jonze illustra la
deriva del protagonista attraverso alcune precise modalità, che da un lato abbagliano circa un
ritorno di ardore vitale, dall’altro lo confinano in un limbo impersonale, annullandone ogni
individualità. La già citata assenza del controcampo provoca uno scivolamento esclusivo sul
personaggio, la cui costante appare quasi obbligata: lento movimento di macchina ad avvicinarsi
a Theodore, stacco sul suo primo piano che, nei dialoghi con Samantha, funge
contemporaneamente da agente attivo e da piano di reazione rispetto alle parole proferite dal
sistema operativo. Una fissità talvolta mitigata da frammenti di montaggio che mutano il taglio e
l’angolazione, ma mai il soggetto (che è sempre Theodore): la relazione si origina e giunge
sempre nel medesimo punto, trovando ragione e compimento solo su se stessi. Il primo piano che
racchiude il volto di Theodore è anche privo di sfondo: ripreso con obiettivi dalla focale lunga,
appare sempre separato dall’ambiente, galleggiante in uno spazio differente, alternativo alla
realtà.
E quando il protagonista vi è invece immerso, Jonze lavora con estrema raffinatezza, agendo
sulla mimesis e fornendo l’aspetto più interessante della pellicola, perché la solitudine di
Theodore non è altro che uno sprofondamento totale in una dimensione indeterminata all’interno
di una falsa unicità. Così come tutte le altre persone concentrate in conversazioni solipsistiche
con il loro palmare, Theodore è solo parte della scenografia, non si staglia nettamente da essa,
ma è concretamente assorbito nello spazio. La sua solitudine è contestualizzata in un sistema che
smarrisce margini, forme e riferimenti e illude sulla felicità che ne può scaturire. Un
annullamento nella scenografia che accompagna il personaggio fino alla fine del film, anche nei
pochi passi condotti all’interno del mesto pianerottolo che lo separa dalla porta dell’amica Amy,
poco prima che i due si adagino fianco a fianco a osservare l’alba di una nuova giornata e,
probabilmente, di un rapporto insieme. Generando il lecito dubbio che dietro l’happy end risieda
solo l’opacità di un ripiego consolatorio.
Prossimo film giovedì 13 novembre : GABRIELLE di Louise Archambaud