PRESENTAZIONE Più di dodici mesi or sono

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PRESENTAZIONE Più di dodici mesi or sono
PRESENTAZIONE
Più di dodici mesi or sono, proprio in questa sala, abbiamo presentato la prima parte
della ricerca Preti tra i Migranti, mettendo a fuoco l’esperienza e il vissuto di
diciassette sacerdoti diocesani impegnati nella Missione Cattolica Italiana in Europa.
Abbiamo collocato il loro operato nel solco della tradizione missionaria bergamasca,
uno dei pilastri portanti della dimensione ecclesiale diocesana, costituito dall’esempio
di centinaia di uomini e donne, presbiteri e laici, che nei secoli scorsi hanno vissuto il
Vangelo sulle strade del mondo, portando appresso lo stile ecclesiale orobico e una
specifica formazione umana e religiosa.
Abbiamo cioè cercato di riportare squarci di luce sulla portata esistenziale e pastorale
di quei missionari diocesani che, dopo aver prestato servizio all’estero, in Europa,
erano rientrati.
Alcuni di essi avevano avviato, da protagonisti, la grande stagione delle Missioni
Cattoliche Italiane, come Antonio Locatelli, Gaetano Bonicelli, Lino Belotti, mentre
altri hanno continuato a operare responsabilmente, Ernesto Belloni, Achille Belotti,
Bruno Caccia, Mario Carminati, Luciano Epis, Pietro Natali, Giacomo Panfilo, Eliseo
Pasinelli, Paolo Rota, Michele Rota, Romeo Todeschini, Giuseppe Zambelli hanno
vissuto in modo personale e responsabile il proprio ruolo, introducendo di volta in
volta elementi di novità, interpretando i segni dei tempi e i fenomeni sociali,
nell’ottica di produrre azioni di evangelizzazione.
Anche in questa seconda parte della ricerca, il nostro intento è stato quello di dare
voce ai missionari e di mettere in luce il loro operato. Oggi siamo lieti di presentare
al pubblico l’opera di evangelizzazione promossa da Giovanni Battista Bettoni,
Domenico Locatelli, Pierluigi Carrara, Vittorio Consonni, Gianfranco Falgari, Pietro
Guerini, Flavio Gritti, Franco Besenzoni, Lorenzo Frosio, Luigi Betelli, Luigi
Usubelli, Federico Andreoletti, Egidio Todeschini.
Nonostante da più parti delle gerarchie ecclesiali venga messa in discussione la
continuità delle MCI, in genere abbiamo rilevato alla base un atteggiamento di
fiducia. Con Mons. Battista Bettoni entriamo subito nel vivo…
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DON BATTISTA BETTONI
Noi missionari non abbiamo mai alzato alcuna bandiera nazionale circa il nostro operato.
Siamo consapevoli che non siamo qui per fare la Chiesa italiana, ma a servizio della
Chiesa che vive e opera su questi territori! Non mi sono mai pensato e proposto solo come
prete italiano, bensì ho operato sempre quale sacerdote inserito in una dimensione
ecclesiastica connessa a un determinato territorio,
agendo ovviamente alla mia maniera, da Italiano.
Domando: siamo sicuri che la Chiesa che vive qui, in Belgio, sia belga?
Rispondo: è Chiesa belga, polacca, italiana, spagnola, portoghese, turca… insieme.
Oramai è così un po’ dappertutto, anche in Italia.
Pensiamo alle nostre chiese in Italia: chi partecipa alle funzioni?
Quanti i Rumeni? E gli Africani? E i Latinoamericani?
La Chiesa è l’insieme di tutte queste componenti, ossia una varietà di persone che ne
definiscono la bellezza e la ricchezza. La Chiesa è l’ambito dove tutte le persone possono
incontrarsi e vivere la propria dimensione spirituale, a prescindere dalle rispettive
provenienze.
Purtroppo, quando si allontanano da questa visione universale, molte volte le Chiese
nazionali seguono tendenze prettamente locali, marginalizzando il contesto delle Missioni e
annullando il lavoro dei missionari.
In alcune Missioni si legge una sorta di smantellamento generale; qualcuno sta già tirando
i remi in barca, come nell’attesa di un prossimo ordine di rientro. Mancano indicazioni
chiare e precise.
Anche la Svizzera sta soffrendo per questa situazione e il Delegato è diventato tale a metà
tempo, come se fosse stato svuotato in parte del suo mandato, pur dovendo coordinare
l’attività di circa ottanta missionari.
È un vento generale che soffia su tutta l’Europa. L’auspicio è che le Chiese che vivono nelle
diverse nazioni sappiano lavorare nella direzione di costruire comunioni di comunità,
perché i migranti sono Chiesa nei Paesi dove vivono.
Molti affermano che le Missioni cattoliche Italiane sono finite. Io penso, invece, che le
Missioni cominciano oggi!
Se non c’è Missione adesso… che le nostre Chiese sono sempre più vuote!
Bisognerà bene annunciare ancora questo Vangelo! E questo al di là delle strutture.
Ricominceremo ad entrare nelle varie case, recuperare i contatti con le famiglie, dissodare
di nuovo il terreno umano della vecchia Europa per incontrare l’uomo che spesso sembra
indifferente a Dio.
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Soprattutto questa ulteriore ricerca mette in luce sia gli elementi salienti di continuità,
che le novità nell’ambito dell’evoluzione delle Missioni Cattoliche Italiane, ciascuna
delle quali costituisce un organismo a sé e funziona in relazione allo specifiche
esperienze accumulate dai missionari che si sono succeduti negli ultimi decenni.
I caratteri dell’emigrazione italiana e bergamasca nel frattempo sono cambiati e
hanno richiesto l’aggiornamento continuo anche della linea pastorale.
Le esperienze offerte nel primo tomo erano ancora fortemente ancorate a una
tradizione missionaria consolidata e la pastorale, rivolta esclusivamente a favore
degli Italiani, si esplicava soprattutto nell’azione sacramentale, nella celebrazione
delle Messe e nell’avvicinamento delle famiglie, degli ammalati, dei bisognosi. Al
centro dell’azione del missionario stava ancora la prima generazione di immigrati
italiani.
Dagli anni Settanta del secolo scorso hanno incominciato ad affacciarsi sulla scena le
seconde e le terze generazioni, ossia i figli e i nipoti dei primi immigrati, le quali
sollevavano istanze diverse e maggiormente proiettate sul Paese di elezione dei
genitori.
I missionari sentivano il bisogno di dare l’esempio e avviare per primi alcuni percorsi
di inserimento nella Chiesa locale. È stata, ad esempio, la scelta di Don Franco
Besenzoni di fare vita di comunità con i presbiteri elvetici
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DON FRANCO BESENZONI
Quando sono diventato responsabile della Missione, la mia fortuna è stata che, in
quel periodo, i membri dell’amministrazione parrocchiale erano soprattutto giovani
che avevano viaggiato e quindi dimostravano grandi aperture. Il Presidente mi
chiese:
- Lei è il direttore della Missione?...
- Sì, ma non ho niente...
- Cominciamo a dire una cosa: lei cosa vuole?...
- Prima di tutto io vorrei che ci fosse un locale a Horgen, al centro del territorio
della Missione, dove gli Italiani possano fare riferimento, per dare quindi alla mia
attività una presenza fisica. Poi vorrei che ci fosse la possibilità di realizzare un
giornale, per poter comunicare con i componenti della Comunità italiana. Infine
avrei bisogno di una segretaria, che mi aiuti nell’organizzazione delle varie azioni
nelle diverse parrocchie del circondario, perché da solo faccio molta fatica…
- Al prossimo incontro io le do quaranta minuti per parlare: lei illustrerà ai presenti
queste cose.
Nel frattempo avevo compiuto una scelta determinante, ossia avevo stabilito di fare
vita comune con i preti della parrocchia di Horgen.
- Io non posso estraniami da loro, perché gli Svizzeri possono essere la vera forza in
tutte le mie azioni!... - pensavo.
Difatti così è successo. I preti della zona hanno scelto il sacerdote con il quale io
facevo vita comune. Alcuni miei confratelli Italiani erano rimasti perplessi nei
confronti di questa scelta, anzi alcuni fedeli mi chiedevano:
- Ma ti danno da mangiare?...
A quel tempi c’era ancora una forma di razzismo abbastanza diffuso, perché Italiani
e Svizzeri vivevano in comunità ancora separate, mentre io volevo testimoniare che
almeno tra noi preti andavamo d’accordo e non c’era separazione.
Convivere significava entrare in una relazione di comunione e di fraternità nel vero
senso della parola.
Una volta avevo detto a Monsignor Amadei, Vescovo di Bergamo, con il quale avevo
frequentato gli studi di Teologia:
- Ma quando comincerai a far fare ai tuoi preti vita comune?...
- Franco, sei capace di convincerli tu?! Io non ce la faccio...
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Mentre i padri avevano ancora lo sguardo rivolto al passato, ossia al Paese d’origine,
i figli hanno incominciato a guardare avanti e a costruire linee di progresso stabili,
mettendo le radici nella nuova realtà.
In quel periodo le Missioni hanno comunque rappresentato solidi punti di riferimento,
quando gli immigrati italiani non erano ancora percepiti come una componente
strutturale della società d’adozione, poiché veniva sempre palesato l’obiettivo
(rivelatosi poi, per i più, una grande finzione) del possibile e auspicato rientro in
Italia al termine di un periodo lavorativo più o meno lungo.
Ma per i più le cose sono andate diversamente e al diritto dei nostri connazionali a
mantenere la propria identità originaria e uno stile religioso connesso alle proprie
tradizioni viene gradualmente affiancato anche il dovere di collaborare con la Chiesa
locale e pure allo sviluppo del Paese ospitante.
La Missione cessa gradualmente di essere il “fortino” degli Italiani e si riscopre
“ponte di connessione” tra due e più culture, cui compete la funzione di favorire e
sostenere il processo di inserimento dei connazionali nella Chiesa locale e nella
nuova società.
Soprattutto nei Paesi di cultura germanica, la lingua ha agito da deterrente al processo
di costruzione di una comunità unica e solidale e, come una sorta di muro, sul piano
della comunicazione, mantiene tuttora distinti i gruppi sociali nazionali. Meno
evidente è la separazione nei Paesi di cultura e lingua francese.
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DON LUIGI BETELLI
Il novanta per cento degli immigrati in Germania proveniva dal mondo contadino e
rappresentava una fetta dell’Italia rurale della metà del Novecento. I nostri
immigrati erano considerati semplici Gastarbeiter, ossia operai ospiti.
C’era la convinzione che l’ospite doveva rimanere in Germania solo per un periodo
di tempo determinato, ma poi se ne doveva andare
Non volevano capire che, avendo reclutato forza lavoro, si sono trovati in casa delle
persone!
Già allora, nei primi anni Settanta, sia le Acli che il Sindacato andavano ripetendo
alle istituzioni politiche germaniche:
- Attenzione: gli emigranti sono una presenza strutturale dentro la società tedesca!
Occorre una politica di integrazione sia sociale che scolastica!
Invece il sistema era discriminante. Regolarmente accadeva che bambini italiani e
turchi fossero i super rappresentati nelle scuole differenziali. Essere in una scuola
differenziale, in Germania, significava avere un difficile avvenire nel mondo del
lavoro.
L’Enaip organizzava molti corsi di formazione professionale, che lasciava aperti a
tutti, non solo agli Italiani, ma anche ai Turchi e ad altre persone appartenenti alle
diverse nazionalità.
Ho strenuamente combattuto la logica discriminante della presenza degli Italiani
nella scuola differenziale, ma non c’è mai stata una vera attenzione a questo
fenomeno, perché i Tedeschi dicevano:
- Rientreranno!
Ma anche gli stessi Italiani sostenevano:
- Rientreremo!...
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Ovviamente, non è solo una questione linguistica ed emergono difficoltà di ordine
culturale da entrambe le parti. Molte volte, ad esempio, è stata la gerarchia ecclesiale
del posto a resistere alle richieste di partecipazione dei nuovi immigrati, per non
stravolgere l’organizzazione religiosa consolidata.
Illuminante, a tal proposito, è stata l’esperienza di Don Egidio Todeschini nella
Missione Cattolica di Morges, dove il parroco elvetico di una comunità locale
faticava ad accettare l’esistenza di una parrocchia nazionale italiana, ritenendo quindi
superfluo l’apporto della Chiesa migrante, solo per il fatto che egli possedeva la
lingua italiana: ciò aveva innescato una serie di relazioni difficili con il missionario,
in un clima di manifesta tensione.
Allo stesso modo in Belgio e in Germania di frequente i missionari hanno incontrato
atteggiamenti di ostilità da parte dei presbiteri locali. L’accusa più frequente è stata
quella di aver travalicato i loro compiti e quindi invaso ambiti territoriali e religiosi
non di propria competenza, che spettavano esclusivamente alla Chiesa locale.
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DON EGIDIO TODESCHINI
La Missione di Morges era stata istituita durante la costruzione della nuova
autostrada Losanna - Ginevra e Don Cosimo era stato il primo missionario. Quel
prete se ne stava andando perché non era ben accettato da due dei tre sacerdoti delle
parrocchie elvetiche comprese nel territorio della Missione: era benvoluto dal
parroco di Morges, che sosteneva la Missione, ma non da quelli di Saint-Prex e
Aubonne, contrari alla presenza del missionario.
A Saint-Prex, in particolare, vivevano circa cinquecento Italiani, su una popolazione
complessiva di circa quattromila abitanti.
Cambiando il missionario, si sperava probabilmente di introdurre elementi di novità
accettabili da tutti, soprattutto in vista di ricomporre relazioni positive con i due
parroci svizzeri. Invece il nostro sforzo non è servito a nulla: quando mi sono
presentato a salutare il parroco di Saint-Prex, questi non mi ha nemmeno ricevuto in
casa, trattenendomi in piedi sulla porta e, anche in seguito, nella sua parrocchia,
non sono mai riuscito a celebrare la Messa una volta. Obiettivamente quello di SaintPrex era un caso abbastanza isolato, anche se l’atteggiamento di molti preti svizzeri
non è sempre stato molto accogliente nei nostri confronti.
Il Vescovo di Friburgo, Losanna e Ginevra, Monsignor Mamy, andava ripetendo
sempre che “nella Chiesa non ci sono stranieri” e, approssimandosi il momento
della visita pastorale, mi aveva chiesto di organizzare un incontro con gli Italiani
nella parrocchia di Saint-Prex.
Il parroco non mi ha concesso la sala parrocchiale ed io sono stato costretto ad
organizzare l’incontro nella grande sala di un ristorante del posto, ma il Vescovo,
venuto a conoscenza del fatto, ha annullato la visita pastorale affermando:
- La organizziamo il mese di settembre e sarò io a chiedere gli spazi al parroco!
Così ha fatto e a settembre l’incontro del Vescovo con gli Italiani è avvenuto nella
sala parrocchiale, ma il parroco non ha partecipato. Non conosco i motivi per i quali
quel sacerdote aveva assunto posizioni così apertamente ostili nei confronti della
Missione Cattolica Italiana. Suppongo che, sapendo egli parlare un po’ l’italiano,
noi missionari gli fossimo di disturbo, perché gli portavamo via i suoi “clienti”.
Questa chiusura produceva anche il verificarsi di fatti spiacevoli, come quando era
morto un Italiano, per un incidente di lavoro su un cantiere. Al momento del
rimpatrio della salma non c’era nemmeno un prete. In quella circostanza sono stato
persino richiamato dal nostro Console:
- Ero lì io, alla partenza della salma, con i compagni di lavoro e i parenti, ma non
c’era nemmeno un prete!
Il parroco non mi aveva informato.
La situazione era davvero difficile, per certi versi insostenibile.
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Si ha la sensazione che l’attuale discussione circa il futuro delle Missioni nasca, da
una difficoltà delle Chiese locali di accogliere la dimensione della Chiesa migrante,
piuttosto che dall’esaurimento delle sue funzioni, soprattutto in un periodo di ripresa
alla grande dell’emigrazione, che invece - e qui sta il paradosso - richiederebbe un
rilancio dell’azione missionaria.
I fautori della chiusura delle Missioni invocavano il fatto che quelle degli immigrati
erano e sono comunità poco o per nulla strutturate, i cui componenti, in molti casi
sparsi qua e là, risultavano essere poco coesi e difficilmente raggiungibili.
Una sorta di comunità invisibile, non praticante, che affiora solamente in occasione
della richiesta dei Sacramenti, e che, di conseguenza, non può che ritenersi integrata
nella società locale.
Pare cioè di percepire che la chiusura delle Missioni, più che fondarsi sul concetto di
avvenuta integrazione della Comunità italiana, in realtà rappresenti l’espressione
concreta di un atteggiamento di restaurazione e di chiusura. Come chi, a un certo
punto di un viaggio faticoso, tenta di tirare i remi in barca e rinuncia a proseguire. Si
ferma.
L’attuale situazione di crisi e l’esigenza di riorganizzare le risorse economiche,
sempre più preziose, stanno facendo il resto, amplificando la chiusura di presidi
socio-religiosi e di servizi. Ma è quanto sta avvenendo a tutti i livelli della società.
Don Pierluigi Carrara da Seraing riconosce segnali di paura…
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DON GIGI CARRARA
Il futuro delle Missioni, secondo le direttive dell’Applicazione dell’Erga Migrantes
approvato dalla Conferenza Episcopale Belga, si scontra con alcuni problemi
strutturali della Chiesa locale. La Chiesa belga dichiara sulla carta di volersi
assumere la pastorale migrante, ma in realtà non dispone dei mezzi per attuare
questo orientamento, e soprattutto in questi ultimi decenni non sembra abbia cercato
di valorizzare e includere nella comunità locale le diverse componenti
nazionali, non ha colto sinora gli elementi di positività portate dai migranti.
Per quanto concerne il futuro delle Missioni Cattoliche Italiane, alcuni anni fa è
stato costituito un gruppo di lavoro e sono sicuro che i missionari che vi hanno fatto
parte si sono battuti per mettere in chiaro questi aspetti.
I preti belgi sono molto preparati sul piano teologico e, nella loro concezione, la
pastorale si fa essenzialmente sul piano culturale; purtroppo molti di essi danno
poca importanza alle relazioni, ai comportamenti, alle varie espressioni del
linguaggio umano.
È come se il curé dicesse ai suoi parrocchiani:
- Io celebro la Messa: se volete partecipare, siete i benvenuti. Se non avete voglia,
rimanete a casa! Io cerco di darvi il meglio della cultura e del sapere: che ciascuno
poi tiri le conseguenze!
In questo senso la Chiesa belga esprime un’idea di pastorale molto diversa dalla
nostra, difficilmente digeribile da noi Italiani e da tante popolazioni del Sud abituate
a un rapporto di familiarità.
Il fatto che la Chiesa belga chieda ai suoi preti di ruotare costantemente da chiesa a
chiesa all’interno dell’unità pastorale, anche per la celebrazione delle messe, temo
sia finalizzato a non creare vera comunione. Lo ritengo un segnale di paura.
Ma un sacerdote che non fa comunità rischia di esaurire la sua azione in interventi
“spot”, diventa un sacerdote su chiamata, che viene interpellato solo in certe
circostanze, come si chiama l’idraulico o l’elettricista.
Mi auguro che si tratti di un atteggiamento limitato a questo periodo. Lo spero
vivamente. Stiamo pagando cara questa paura.
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Oggi le Missioni Cattoliche Italiane in Europa vivono un periodo di “bassa marea” e i
missionari stanno riflettendo sul futuro delle stesse, esprimono una serie di
preoccupazioni e subiscono nuove forme di spaesamento.
I missionari sono consapevoli di trovarsi dentro al cambiamento.
Sanno che non possono più appellarsi al concetto tradizionale di Missione, ma nello
stesso tempo non intravedono ancora una prospettiva futura, ossia non è ancora stato
costruito un nuovo modello di comunità missionaria cui riferirsi nel contesto europeo.
Si fatica a capire se l’attuale situazione di instabilità in cui versano le Missioni
Cattoliche Italiane sia propedeutica e quasi fisiologica a una nuova rinascita
dell’impegno missionario, oppure se costituisca il preludio della chiusura definitiva
dell’esperienza delle Missioni Cattoliche Italiane, preceduta da una lunga e dolorosa
agonia.
Questo dilemma, che ci pare aver colto in molti missionari, rende difficile oggi la
loro azione, impedisce il livello di programmazione a lungo termine, inibisce molte
attività, frena gli entusiasmi.
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DON FEDERICO ANDREOLETTI
Oltre a cappellano degli Italiani di Nizza, attualmente ricopro la funzione di
Delegato nazionale delle Missioni di tutta la Francia. Il mio compito consiste nel
coordinare le azioni tra le Missioni. La Francia è stata la nazione che, soprattutto
fra le due guerre, ha accolto positivamente l’esperienza dei cappellani per gli
emigranti, che poi si sono estesi a macchia d’olio anche negli altri Paesi. Basti
pensare alla preziosa opera di Don Benzoni.
Le Missioni si stanno spegnendo pian piano, una dopo l’altra. L’anno scorso è morto
il prete italiano della Missione di Behren-lès-Forbach, vicino a Metz, e non è stato
più sostituito. Nell’annuario della Diocesi sono state tolte le Missioni di Metz,
Behren-lès-Forbach e di Hayange: gli Italiani presenti in tali aree sono stati invitati
ad inserirsi nelle parrocchie francesi. Mi pongo un’altra domanda: le parrocchie
francesi sono pronte a sostenere questa ulteriore responsabilità? Le parrocchie
francesi esprimono oggi la volontà e la capacità di accoglienza nei confronti delle
comunità straniere? Sono soprattutto disposte a condividere la ricchezza della fede
offerta dalla comunità italiana?
Ho partecipato al funerale del missionario di Behren-lès-Forbach e ho visto la
chiesa piena di Italiani! Ciononostante il Vescovo non ha detto una parola in
italiano!
Le Missioni Cattoliche Italiane della Francia sono ridotte al minimo, non più di una
dozzina: Tolosa, Cannes, Ansy, Chambery, Valenciennes, Roubaix, Montigny, Parigi,
Strasburgo, Saint Etienne.
A Grenoble gli Scalabriniani hanno chiuso la Missione e nessuno si è fatto sentire.
Più che di “stato di salute” delle Missioni, oggi bisognerebbe parlare di “stato di
agonia”.
Sono in Missione da trentotto anni ed è difficile anche per me prevedere uno scenario
futuro.
Spero di sbagliare, ma penso proprio che, se non intervengono cambiamenti
sostanziali, tra poco più di dieci o quindici anni le Missioni spariranno del tutto. A
meno che non ci sia un ricambio e giovani missionari, pieni di energia, riescano a
ricompattare la comunità e a rimetterla in cammino. Su queste questioni, purtroppo,
non si discute ancora a sufficienza.
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Molti sforzi e contributi vanno nella direzione di costruire un nuovo equilibrio tra
Comunità italiana e Comunità locale.
La Comunità italiana ha espresso e continua a manifestare una propria vitalità,
specifiche tradizioni religiose, linee pastorali diverse e articolate, uno stile di
appartenenza alla Chiesa che non consiste solo nella partecipazione alla Messa o
nell’amministrazione dei Sacramenti: quale è stato, dunque, e quale potrà essere in
futuro il valore aggiunto delle forme di religiosità popolare introdotte dalle varie
Comunità italiane sparse in Europa? Oppure: esiste ancora questo valore aggiunto?
Alcuni hanno compreso la solidità della fede popolare, che la Comunità italiana ha
introdotto nel contesto d’Oltralpe, mentre altri la confondono con la superstizione e,
soprattutto in un contesto di lontananza, la interpretano come uno stratagemma per
attirare gli Italiani e presentarli aggregati in una comunità.
Ci raccontano Mons. Luigi Betelli e Don Gianfranco Falgari nella loro testimonianza:
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DON LUIGI BETELLI
Un gruppo, con il vescovo Voss, io e il Direttore nazionale tedesco, Monsignor
Prassel, esperto di liturgia, siamo andati ad Alberobello, dove abbiamo concelebrato
e partecipato alla processione.
Al termine della celebrazione Monsignor Prassel, irritato, ha sbottato:
- Tutto questo folclore!…
- Lei non capisce niente!... - gli avevo risposto.
Il Vescovo Voss, che parlava bene italiano, invece, mi disse:
- Adesso ho capito perché da voi la secolarizzazione non attecchirà come da noi, in
Germania, danneggiando molto la Chiesa. Le radici popolari della vostra fede sono
serie e fanno del bene anche in Germania.
DON GIANFRANCO FALGARI
La Chiesa di Yverdon ha di fatto riconosciuto la presenza italiana sul territorio.
Si sta rendendo conto che le Missioni non sono presenti solo per i nostalgici italiani,
oppure per fare le processioni, ma per promuovere una pastorale che non è
alternativa o parallela, bensì parte integrante e sostanziale della dimensione
missionaria della Chiesa locale.
Detto in parole più semplici, molte persone oggi si allontanano dalla religione: c’è
parecchio lavoro da fare, non c’è nemmeno lontanamente il rischio di calpestarsi i
piedi a vicenda, ossia c’è spazio per tutti, anzi il lavoro da svolgere è decisamente
superiore alle forze messe in atto dai missionari. Non abbiamo a che fare con clienti
che chiedono un prodotto. Non possiamo limitare la nostra opera pastorale alla
dimensione nazionale del cristiano, ossia non si può dire che l’Italiano è nostro e lo
Svizzero è loro. La nostra opera a favore degli Italiani non toglie nulla alla pastorale
elvetica, ma semmai rafforza una dimensione di Chiesa locale nelle sue diverse e
articolate componenti. Se non ci fossero le Missioni Cattoliche, alcune decine di
migliaia di Italiani in Svizzera non vivrebbero questa opportunità di sentirsi Chiesa e
di sentire un’appartenenza.
Nell’ambito delle unità pastorali sta prevalendo l’ottica di centralizzare.
Dietro a queste nuove tendenze c’è anche l’idea di laicizzare la dimensione
parrocchiale, per garantire una guida spirituale alla comunità anche in assenza di
presbiteri. Da noi i laici affiancano il prete, ma sta entrando l’idea, diffusa
soprattutto nel Nord Europa, del laico che rimpiazza addirittura la figura del prete,
ossia la sostituisce.
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Non è questa la sede per una trattazione esaustiva della storia sociale delle Missioni
Cattoliche Italiane in ambito europeo, che studiosi certamente più autorevoli hanno
sviluppato in modo compiuto.
Il nostro intento, in questo lavoro, è stato più semplicemente quello di raccontare la
vita di alcuni missionari e, attraverso di essi, cogliere gli elementi salienti della loro
esperienza e delle trasformazioni sociali e religiose.
Ci siamo trovati di fronte a un ingente lavoro quotidiano, svolto in silenzio, come
silenziosa è sempre stata l’emigrazione bergamasca, lontano dai riflettori, di cui
nessuno oggi parla.
Viene da paragonare questi missionari a tanti generosi operaie, che vivono e lavorano
quasi in anonimato nella vigna del Signore, sostenuti molte volte solo da una grande
fede e da una solida formazione cristiana e presbiterale.
Ascoltiamo due brevi testimonianze di Don Pietro Guerini di Neuchâtel e di Don
Lorenzo Frosio a Bradford
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DON PIETRO GUERINI
Non sono giunto a Neuchâtel con un progetto di Missione in tasca, ma con il
desiderio di conoscere e di mettermi al servizio delle nostre comunità e della Chiesa
locale per costruire alcuni percorsi consapevoli.
Desidero soprattutto portare questa testimonianza, che appartiene alla missione
della Chiesa tutta: rafforzare nelle persone che vivono quassù e appartengono a
questo territorio la consapevolezza che la Chiesa è presente, è viva, esiste e si fonda
sulla fede e il rispetto di valori che appartengono al mondo intero, alla stessa civiltà
umana e non solo a una nazione o all’altra. Se da un lato è importante aiutare le
persone a comprendere che la Missione italiana ha un proprio vissuto, una propria
storia che coincide con l’evoluzione dell’emigrazione italiana nella regione, e
conserva ancora alcune proposte specifiche per loro, dall’altro è altrettanto
necessario favorire la percezione che la Missione stessa fa parte di una dimensione
ecclesiale più ampia e non costituisce un corpo separato.
DON LORENZO FROSIO
Il primo giugno ho organizzato la festa della Missione e ho spedito quattrocento
inviti, con l’obiettivo di avvicinare i figli e le famiglie.
Risultato: sono arrivate centotrenta persone anziane, ma nemmeno una famiglia
giovane! Significa che i giovani sono lontani da questa logica aggregativa.
È stato un segnale allarmante e un grande motivo di delusione.
Vivono quassù altri cappellani: Eritrei, Nigeriani, Polacchi, Ucraini e altri ancora.
Si potrebbe pensare, in futuro, a una Missione interculturale che coinvolga più
presbiteri, in grado di lavorare insieme. Nelle dieci parrocchie in Bradford, ciascuna
di esse dispone di tre chiese, che ormai sono in prevalenza chiuse, per la mancanza
di fedeli. La parrocchia apre la chiesa una volta alla settimana, per la celebrazione
della Messa domenicale.
Sarebbe molto bello che due preti per gli immigrati lavorassero insieme e
prendessero in consegna una di quelle chiese per ripartire con un percorso di nuova
evangelizzazione.
La Missione potrebbe diventare un centro religioso multietnico, in grado di
accogliere e fare incontrare diverse provenienze culturali.
La collaborazione con il clero locale non è sempre facile. Solo poche volte sono stato
chiamato per un vicendevole aiuto. I sacerdoti inglesi sono bravi e gentili, ma vivono
isolati e ciascuno tende ad agire per proprio conto.
La mia funzione è quella di cappellano della Comunità italiana.
Reduce dalle esperienze missionarie prima in Costa d’Avorio e quindi nella Papua,
non è stato facile entrare in un contesto di “missione occidentale”.
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Mentre nel primo tomo le esperienze presentate riguardano in prevalenza l’intervento
missionario diocesano in Svizzera e Belgio, con una sola eccezione per la Missione di
Don Luciano Epis nei Paesi Nordici, in questo secondo tomo il panorama geografico
spazia maggiormente e coinvolge anche Germania, Francia, Liechtenstein, con
l’aggiunta di due esperienze in Inghilterra e in Australia, infine una appena avviata a
Barcellona.
I confini si espandono, gli scenari diventano vari e mutevoli. Inoltre almeno tre dei
tredici missionari intervistati hanno sperimentato le Missioni a Cuba, Costa d’Avorio
e Papua Nuova Guinea.
Il campo d’azione si apre quindi a ventaglio, per nuove sfide sociali e religiose,
poiché i percorsi migratori si diffondono un po’ dovunque, a macchia d’olio, sempre
sostenuti dalla ricerca del lavoro e di un maggior benessere sociale.
Il fenomeno dell’emigrazione non è più un segmento unidirezionale, ma va
inquadrato e interpretato alla luce delle questioni migratorie mondiali ancora aperte,
circa il significato della qualità della vita e le nuove prospettive dello sviluppo
globale del pianeta.
Don Vittorio Consonni ha vissuto sia la missione di Seraing, in Belgio, che quella in
Costa d’Avorio
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DON VITTORIO CONSONNI
Il concetto di Missione in Costa d’Avorio è completamente diverso da quello che ho
conosciuto e sperimentato a Seraing.
In Belgio il confronto avviene con la società moderna dei servizi e del post sviluppo
industriale, mentre in Africa si ha a che fare con evidenti situazioni di sottosviluppo.
In Belgio nessuno viene più a Messa, mentre a Agnibilékrou non sappiamo dove
mettere i fedeli perché anche le chiese grandi sono piccole!
Alla fondazione della Parrocchia, avvenuta il 7 febbraio 1952, il numero dei
battezzati era di 3.135. Negli anni Sessanta i Cristiani erano 5.500, mentre negli anni
Settanta siamo passati a 6.900. Gradualmente abbiamo incominciato ad essere più
esigenti, chiedendo un tempo più lungo di catecumenato e condizioni precise a
riguardo del feticismo e del matrimonio cristiano.
Quando la Diocesi di Bergamo ha cominciato il suo impegno, il numero di battezzati
era di circa novemila, di cui millecinquecento stranieri. Oggi siamo a tredicimila.
Verso la fine del secondo millennio abbiamo cominciato anche a preparare le nuove
parrocchie.
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I missionari oggi si confrontano soprattutto con le terze e quarte generazioni di
emigranti e con il tema della nuova evangelizzazione.
Le Messe sono poco partecipate, molte chiese sono vuote e i missionari sono
impegnati a costruire diversi percorsi di Vangelo stando in mezzo al popolo, nei
luoghi abituali della vita, del lavoro e del tempo libero della gente. Sono le sfide del
Vangelo, che i nostri missionari sono chiamati a vivere sempre di più fuori dalle
chiese, dagli oratori e dagli altri spazi propri dell’organizzazione ecclesiale.
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DON LUIGI USUBELLI
La Chiesa ci insegna a essere missionari sempre e in ogni luogo. Affrontare il tema
della missionarietà in Italia, nel clima culturale che ci ritroviamo, è assai difficile.
L’impostazione stessa degli oratori, ad esempio, è escludente e molti bellissimi
ambienti sono vuoti o semivuoti. Già vecchi.
Questi luoghi riflettono ancora la logica del “costruisco un luogo dove la gente
possa entrare”.
Ma oggi le cose non funzionano più così. E’ è cambiato completamente il senso di
appartenenza dei giovani: sono poliappartenenti E non si identificano più solo in un
luogo o in un ruolo.
Chi non coglie questo passaggio, rimane tagliato fuori, si chiude e corre il rischio di
sbilanciare tutta la pastorale giovanile.
In secondo luogo, rimanendo in oratorio, com’è possibile praticare la necessità di
“andare incontro a…”?
Un oratorio è una porta, una soglia, che richiama l’azione dell’entrare e dell’uscire.
Quelli che si avvicinano alla struttura è perché hanno già raggiunto e maturato la
fase di dover chiedere.
Ma perché dobbiamo aspettare che giunga quella fase? Soprattutto sapendo che
molti giovani non la raggiungeranno mai, per diversi motivi.
Costruire una pastorale diversa significa non attendere che qualcuno ci interpelli o
venga di proposito a chiederci qualcosa. Siamo rimasti un po’ bloccati ad alcuni
schemi, che hanno certamente funzionato nel passato, ma che se non vengono rivisti
rischiano di essere non più il nostro futuro, ma la nostra gabbia.
Che senso ha oggi investire denari nella costruzione di nuovi oratori, se poi non
abbiamo il coraggio di operare la scelta di avere operatori di ispirazione cristiana
per sostenere una pastorale di strada e incominciare forme diverse di catechesi?
Siamo ancora troppo sbilanciati nelle strutture.
Fatta eccezione per l’Eucarestia, tutta la pastorale deve essere giocata al di fuori
delle chiese e degli oratori, ossia nei luoghi della vita, del lavoro e del tempo libero
delle persone. Non sto dicendo che dobbiamo abbattere gli oratori, ma consiglio
sempre, anche ai giovani preti: dedicate pure la metà del vostro tempo all’oratorio,
ma l’altra metà giocatevela con la pastorale giovanile, mettendo al centro della
vostra azione quell’ottanta per cento dei ragazzi che non verranno mai all’oratorio.
Dobbiamo essere noi ad andare da loro, frequentando i bar, sedendoci agli incroci
delle loro vie, entrando nelle famiglie, bussando ai luoghi abituali d’incontro. Questo
è il progetto che mi accingo a sperimentare nei prossimi mesi a Barcellona.
Sinora i missionari andavano all’estero per fondare nuove comunità, mentre io vado
a Barcellona non per istituire una Missione, ma per inserirmi, quale cappellano, nei
luoghi abituali di vita dei nostri connazionali e nelle diverse comunità in cui essi
vivono, studiano e lavorano.
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Le Missioni Cattoliche Italiane sono nuovamente chiamate a confrontarsi con l’arrivo
nei Paesi europei di migliaia di giovani connazionali che, per motivi di lavoro,
tornano ad emigrare, vivono una relazione di allontanamento dalle proprie radici e
improvvisamente si trovano inseriti in una comunità diversa, molte volte senza
riferimenti. Purtroppo non emigrano solo i giovani dai “colletti bianchi”, ossia con la
laurea in mano, che pure ci sono e si spostano sulle rotte degli interessi delle grandi
multinazionali o delle organizzazioni politiche europee, ma vanno all’estero in cerca
di lavoro soprattutto molte persone senza una specializzazione particolare. Sono le
fasce più deboli e meno protette della nuova emigrazione, cui va rivolta l’attenzione
dei missionari.
L’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (Aire) ci informa che nel 2013 sono
emigrate ben 94.126 persone, il 19,2% in più rispetto al 2012, e queste cifre sono
parziali per difetto, giacché molti connazionali non si iscrivono subito all’Aire,
soprattutto nella prima fase della loro permanenza all’estero.
Inoltre dai dati del nuovo Rapporto sugli Italiani nel Mondo, pubblicato dalla
Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale Italiana emerge che nel 2013 la
cifra dell’emigrazione italiana supera di gran lunga quella dell’immigrazione
L’emigrazione, dunque, torna ad essere un problema di casa nostra.
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DON FLAVIO GRITTI
Gli Italiani ritornano a emigrare in Svizzera e probabilmente le Missioni Cattoliche Italiane sono
chiamate ancora a svolgere una funzione in relazione alle nuove forme di immigrazione che stanno
venendo avanti. Restano un prezioso punto di riferimento.
Non si può certo paragonare l’attuale situazione con quella degli anni Cinquanta, che io non ho
vissuto direttamente, ma ho studiato e appreso dai racconti personali dei protagonisti di allora.
Oggi la realtà è decisamente diversa e gli immigrati non arrivano certo a “vagonate” come in quel
periodo, quando il treno era l’unico mezzo di trasporto per le classi popolari.
I giovani si spostano con l’aereo o in automobile e individualmente, non più in gruppo.
Inoltre la Missione ha a che fare in prevalenza con persone singole, ma anche giovani coppie e
famiglie che vivono e soffrono la crisi in Italia.
Ho incontrato anche persone le quali, nonostante in Italia abbiano un piccolo lavoretto, non si
sentono sicuri e aspirano a una realizzazione personale migliore in un contesto più affidabile.
Ma la maggioranza dei nuovi immigrati è in cerca di un lavoro per sopravvivere.
Oppure, più semplicemente, fugge da una crisi evidente, dal paese dove magari ha vissuto uno
sfratto e non si sente abbastanza tutelata.
Di frequente, poi, le situazioni di disagio economico si ripercuotono sul piano personale e sociale.
Ci troviamo attualmente di fronte ad una complessità di situazioni, con diversi livelli di emergenza,
e la Missione rimane in molti casi un valido sostegno cui aggrapparsi nel momento del bisogno.
In questi casi la Missione viene contattata, soprattutto utilizzando il canale verbale, “dalla bocca
all’orecchio”, come si dice quassù. In certe situazioni il passaparola è un sistema che funziona
ancora.
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La crisi economica protratta nel tempo evidentemente ha prodotto un’accelerazione
dell’emigrazione e una diminuzione dell’immigrazione, perché i popoli migranti sono
attratti soprattutto dai paesi più ricchi dove c’è lavoro, mentre il nostro Paese si sta
impoverendo.
Il dibattito in corso circa il ruolo e il futuro delle Missioni Cattoliche Italiane si
illumina di una luce nuova e non può essere limitato solo ad aspetti di natura
economica o alla riorganizzazione della struttura ecclesiale, pur necessaria, in ragione
della scarsità di clero.
Le Missioni si sentono di nuovo chiamate in causa dalla ripresa dell’emigrazione,
non solo per prestare assistenza e fornire i primi servizi di accoglienza, anche sul
piano spirituale, ma in modo particolare per cercare di costruire ponti di dialogo e
luoghi di incontro tra culture e fedi diverse, per favorire momenti di coesione e di
fratellanza fondati su una scala di valori universalmente condivisi, in relazione con le
nuove economie di territorio dal volto umano.
I missionari devono lavorare per abbattere muri e costruire ponti, ha detto Papa
Francesco domenica 9 novembre, per predisporre modelli di pastorale in grado di
intercettare gli attuali flussi migratori.
Le destinazioni geografiche si distribuiscono non solo nei diversi Paesi d’Europa,
soprattutto Inghilterra e Germania, ma raggiungono anche altri continenti, persino
l’Australia, dove stanno giungendo numerosi Italiani, la maggioranza dei quali svolge
lavori di manovalanza per brevi periodi. I missionari denunciano le nuove forme di
sfruttamento, più sottile e raffinato, nascosto nei meccanismi di ingresso e di
controllo delle presenze straniere.
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DON LUIGI USUBELLI
Molti giovani Italiani emigrano in Australia con un visto particolare, che si chiama
Working Holiday, vacanza-lavoro: dà diritto al soggiorno di due anni, durante i
quali il beneficiario può lavorare per mantenersi e imparare la lingua inglese.
In realtà, però, i più emigrano per cercare lavoro pluriennale e duraturo.
Il meccanismo montato dal Governo australiano è sottilmente a vantaggio del paese
ospitante: l’immigrato può rimanere due anni, ma se poi non trova uno sponsor che
versa quaranta o cinquantamila dollari come garanzia al Governo, in funzione di
una successiva assunzione, se ne deve andare. All’inizio si trovano soprattutto quei
lavori umili che gli Australiani non vogliono più fare, esattamente come fanno gli
immigrati da noi in Italia: raccolta di patate e pomodori, camerieri, cleaner,…
Giovani laureati accettano il lavoro di camerieri. Sono ragazzi morigerati, che
accettano di vivere anche in tre o in quattro in una modesta stanzetta, pur di
risparmiare. Occupano le abitazioni più economiche. Sanno che possono lavorare
due anni e cercano di impegnarsi duramente per guadagnare di più.
L’Australia è molto abile a vendere sui siti l’immagine di una nuova America, ma è
un’enorme menzogna, perché anche quel Paese è entrato in recessione e sta
licenziando i propri cittadini. Ha però bisogno di questa manovalanza. Ci sono
giovani che svolgono anche due attività e lavorano come muli due anni, per ritornare
in Italia con in tasca trentamila dollari con cui avviare un’attività qualsiasi.
È il sogno dell’emigrante di sempre, di ieri e oggi.
La maggior parte dei nostri giovani immigrati vive tirando la cinghia, perché anche
l’Australia non offre grandi possibilità. Vengono trattati come noi oggi facciamo con
gli extracomunitari in Italia, che occupano una posizione decisamente subordinata.
L’ approccio psicologico non va sottovalutato. Non maltrattano, ma mantengono il
distacco e considerano l’immigrato al loro servizio.
Gli Australiani sono educati, ma freddi e distanti.
Il modello sociale è quello americano: all’esterno della cerchia centrale della città ci
sono i quartieri che potremmo definire dormitorio, quindi sprovvisti di vita sociale,
senza piazze, centri sociali o di aggregazione. Gli Australiani si ritrovano tra amici
nelle loro grandissime case. Come è nello stile anglosassone.
[…]
Non vado all’estero, in Missione, per costruire strutture - afferma Don Luigi
Usubelli - ma per vivere e praticare il Vangelo stando in mezzo alla gente. In molti
casi abbiamo confuso la Missione con il “mattone”, ma oggi non è più così e a
maggior ragione dobbiamo liberarci da questi orpelli, dalle tante sovrastrutture che
pesano e rallentano il nostro operato.
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La Chiesa di Bergamo, poi, si è rivolta a Cuba, alla Bolivia e alla Costa d’Avorio, per
cui l’attenzione - un tempo orientata solo all’emigrazione bergamasca - si è aperta
alle diverse forme di evangelizzazione, sia in Italia che all’estero, considerando anche
ambiti e contesti un tempo affidati ai vari ordini religiosi.
A Bergamo sono state organizzate strutture di accoglienza per gli immigrati, ma la
Diocesi bergamasca ha continuato ad occuparsi di Africa e America Latina.
Si sottolinea maggiormente la dimensione della Missione non come struttura, ma
piuttosto nella veste di proposta evangelica in sé, con l’obiettivo di costruire percorsi
di avvicinamento alle persone.
È questo lo scopo, per fare un esempio, che Don Luigi Usubelli si è posto per la sua
prossima permanenza a Barcellona.
L’evoluzione economica e sociale coinvolge necessariamente anche le strutture
presenti sul territorio e di conseguenza cambiano i significati e le funzioni che esse
svolgono.
Così le Missioni Cattoliche Italiane stanno ridisegnando i contorni della loro presenza,
che si sta radicalmente trasformando, sia per quanto riguarda la figura del missionario,
che le diverse sedi operative, le quali non sono poi sempre così essenziali.
Nelle Missioni si avverte una forte necessità di cambiamento di ruoli e relazioni con
il contesto religioso e culturale. Si chiede un confronto, si attendono indicazioni
precise che consentano ai missionari di scegliere e progettare il futuro possibile.
I percorsi migratori degli Italiani nel mondo oggi seguono regole diverse, non si
costituiscono più Comunità di Italiani in modo così evidente e composito, come
avveniva nel passato.
Ma le persone continuano a vivere situazioni difficili.
In molte persone c’è solitudine e incapacità di relazionarsi con gli altri.
A volte si fa fatica persino a chiedere aiuto. Alcuni missionari affermano la necessità
che il missionario torni a bussare alle porte delle varie case dei nostri emigranti,
poiché essi difficilmente trovano la forza di rivolgersi alla struttura della Missione
tradizionale. Non si tratta di fondare Parrocchie per gli Italiani: ci saranno sì ancora
chiese di riferimento, ma sempre più sganciate da una specifica organizzazione
ecclesiale territoriale.
Con questo secondo tomo ci troviamo dentro la storia contemporanea
dell’emigrazione italiana all’estero in tutta la sua complessità e nel suo divenire.
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Alcune delle esperienze presentate si possono definire d’avanguardia, già proiettate
in un futuro che si sta velocemente avvicinando anche da noi, in Italia.
Considerate nel loro insieme, esse documentano la ricchezza e il dinamismo di una
Chiesa vivace, all’interno della quale coesistono posizioni diverse, le quali però
concorrono a costituire l’ossatura unitaria della proposta pastorale ed evangelica.
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Alcune precisazioni sulla metodologia adottata in questa ricerca, per entrambi i tomi,
che si è svolta rigorosamente “sul campo”, seguendo alcuni itinerari di conoscenza
delle varie Missioni Cattoliche Italiane attualmente operanti in Europa e rette da
sacerdoti di “casa nostra”.
L’indagine, infatti, si è svolta in stretta collaborazione con l’Ufficio per la Pastorale
dei Migranti della Diocesi di Bergamo.
Nella fase della raccolta delle diverse esperienze, abbiamo privilegiato lo strumento
dell’intervista, in genere programmata, semistrutturata, effettuata di solito al
domicilio dei sacerdoti, avvicinati preferibilmente nelle rispettive Missioni.
È stata per noi una preziosa occasione per visitare e toccare con mano le diverse
situazioni indagate e osservare più da vicino il contesto di vita narrato dai missionari.
Al termine “intervista” preferiamo però quello di “conversazione”, meno rigoroso sul
piano formale, certamente più vicino all’aspetto umano dell’incontro: con ciascuno
dei missionari incontrati abbiamo avviato una relazione dialogica e il nostro compito
consisteva nel sollecitare la ricostruzione e l’analisi, ponendo una serie di
questioni/domande.
Alcune conversazioni sono state più “focalizzate” di altre su aspetti particolari
dell’esperienza missionaria, in relazione al vissuto del singolo sacerdote e alle
caratteristiche del gruppo sociale di riferimento: ciò si è verificato ogni qualvolta
l’incontro ha voluto approfondire uno specifico argomento, riguardante ad esempio la
vicenda del Corriere degli Italiani (Egidio Todeschini), il valore della formazione
(Luigi Betelli), la vita comunitaria con i presbiteri locali (Franco Besenzoni), il
passaggio dalla Missione europea a quella africana (Vittorio Consonni), le nuove
frontiere della pastorale con i migranti (Luigi Usubelli),…
Il nostro approccio ha prodotto sempre due livelli di conoscenza: quello più di tipo
descrittivo-oggettivo delle esperienze narrate e l’altro di natura più interpretativa,
nella quale si cala maggiormente l’apporto dei vari protagonisti.
In alcuni casi il missionario intervistato ha fatto emergere situazioni personali
irrisolte, ancora presenti anche distanza di molti anni, che continuano a rappresentare
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motivo di sofferenza e di insoddisfazione: laddove queste hanno coinvolto altre
persone, non ci è stato possibile ricercare conferme o dare spazio al contraddittorio,
limitandoci ad esporre, in questa sede, il punto di vista dell’informatore.
Volutamente i testi sono stati lasciati in prima persona e quindi è come se il
missionario esponesse personalmente al lettore il racconto della sua esperienza.
E come tale noi l’abbiamo raccolto e ve lo presentiamo, sempre motivati da spirito di
conoscenza e di riconoscenza.
Comunità Missionaria Paradiso (Bergamo), 20 novembre 2014
Antonio Carminati e Roncelli Mirella
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