Il cuore mondo
Transcript
Il cuore mondo
QUELLO CHE LA TV NON DICE Il cuore del mondo La testimonianza di un “Eroe mancato” tornato in Italia con molte domande e qualche risposta. QUANDO IL PETROLIO E’ SANGUE “Esto es el coracon del mundo”. Disse con aria profetica il cacique major Berito, col suo sguardo da sciamano che penetra l’anima. Forse hai ragione tu, Berito. Come tutti i cuori anche il vostro coracon del mundo pompa sangue. Sangue vitale al tuo popolo, gli U’wa, ed alla selva, che vi ospita. Il sangue non ha prezzo. Se la Madre Terra ne fosse privata, morirebbe, come qualsiasi altro essere vivente che è dissanguato. L’uomo occidentale invece l’ha battezzato in maniera diversa: petrolio. E un prezzo lo ha, tutti i giorni differente, deciso in stanze piene di computers, che ricevono ordini di compravendita da tutto il mondo. Uomo contro uomo, profitto contro ambiente, guerra contro pace, morte contro vita. Il tutto riconducibile a due semplici parole: progresso e sviluppo. Parole che non hanno più il significato originario, surrogati di un concetto molto Il cacique major Berito più imbarazzante: denaro. UNA STORIA SEMPLICE: INGIUSTIZIA Il sottosuolo del territorio U’wa è ricco d’idrocarburi. Il governo di Bogotà, nel febbraio del 1995, concede la licenza d’esplorazione alla multinazionale statunitense Oxy Corporation che perfora, pochi metri all’esterno del territorio sacro, il primo pozzo: “Gibraltar One”. Simbolo della divisione fra il mondo conosciuto e l’ignoto. Eccolo di fronte a me il libero mercato, nella sua versione più sfrenata, selvaggia e pura. Luogo che non prevede culture diverse da quella tecno consumistica occidentale, che considera un fastidio uomini col colore della terra. Come sarebbe istruttivo portare su questa collina (un tempo ricoperta di selva, oggi di cemento ed acciaio) i “guru” della crescita economica continua. Vi abitavano circa 150 persone. Un giorno arrivarono gli elicotteri e le sfollarono. Una sola famiglia resiste: arrampicata sul versante (con vista sul pozzo petrolifero), invasa dal fetore nauseabondo che il cantiere emette incessantemente, circondata da militari che vigilano giorno e notte. Che sguardo triste hanno questi uomini e queste donne. Non parlano, ma resistono. C’è una sola ragione per cui queste persone debbano morire per far posto ad un impianto petrolifero o, meglio, affinché noi occidentali si abbia il diritto di non utilizzare i mezzi pubblici perché un po’ scomodi? Pagine a cura di Giovanni Guzzi. Foto e testi sono tratti da “Missioni Consolata” Corso Ferrucci, n. 14 10138 Torino - www.missionariconsolata.it In Colombia il popolo degli U’wa (seimila persone, in maggioranza bambini), col sostegno di numerose organizzazioni internazionali, ha vinto una prima battaglia, per conservare l’integrità della propria terra, contro un oleodotto che avrebbe dovuto attraversarla causando gravi danni sociali ed ambientali “Il petrolio si trasformerà in acqua perché noi stiamo pregando Sira, la Madre Terra, di compiere questo prodigio. La Oxy non troverà oro nero e sarà costretta ad andarsene lasciandoci finalmente in pace”. Così disse un giorno un capo indigeno. Gli ultimi sviluppi della storia sembrano dargli ragione: i sondaggi esplorativi non hanno raggiunto giacimenti di petrolio. L’IMPIANTO Per arrivarci bisogna sottostare ad estenuanti controlli da parte dell’esercito schierato a sua difesa. Giovani militari controllano tutto quello che facciamo. Vietato fotografare, vietato parlare con gli operai, vietato filmare. Sopra di noi volteggiano gli elicotteri che trasportano i tecnici della Oxy dalla cittadina di Arauca al pozzo petrolifero. Vivono blindati. Gli operai (coloni con la faccia triste riconoscibili dalla mantellina gialla) viaggiano ogni mattina, su camion messi a disposizione dalla società, lungo la pista che corre in mezzo alla selva. Anche noi la percorriamo: immensi pascoli testimoniano la distruzione della foresta negli anni del “taglia e brucia” selvaggio. L’autista spiega che erano tutte terre ancestrali indigene, quando il territorio U’wa era dieci volte più grande e la comunità più numerosa di oggi. Ogni tanto spunta un bovino: “long horn”, come lo chiamano i locali. Testimonia che una ricchezza (anche economica) come la foresta pluviale è tuttora distrutta da capitali ansiosi di portare nei fast food occidentali hamburger a basso costo. Petrolio e bovini, lo sviluppo che passa attraverso la distruzione delle ricchezze naturali e la cacciata delle popolazioni locali. QUALE POTREBBE ESSERE IL FINALE? La comunità U’wa non può immaginare le catastrofi che la attenderebbero. Inquinamento generalizzato ed irreversibile. Fiumi trasformati in collettori di liquami tossici. Sparizione dei pesci. Foresta rasa al suolo. Al suo posto pozzi d’estrazione, oleodotti, piste asfaltate, accampamenti per operai, nuovi insediamenti per coloni. Prostituzione e alcolismo dilaganti tra i nuovi abitanti arrivati da lontano. Gli U’wa ribelli uccisi da paramilitari adibiti al “lavoro sporco” che l’esercito regolare non può fare. Distruzione e morte dove ora sono pace e prosperità. Verso tutto questo gli U’wa sono indifesi, come un bambino che si incammina inconsapevole con l’orco. Solo pochi inSegue a pag. 9 > 8 n. 2 - maggio 2003