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243 NOTE E RASSEGNE UN ARTICOLO DI MORAVIA SUL ROMANZO COLLETTIVISTA N Gabriele Di Giammarino ei sei anni che intercorrono tra Gli indifferenti (1929) e Le ambizioni sbagliate (1935) Alberto Moravia fu particolarmente attivo, pubblicando novelle e racconti su riviste d'avanguardia e arricchendo le sue esperienze culturali con viaggi in Inghilterra, per conto della Stampa di Torino, in Francia e in altre nazioni. Consolidava in tal modo quell'impronta europea -costante nel suo itinerario di narratore, di critico, di moralista laico- che ci permette di collocarlo tra gli intellettuali in controtendenza con gli indirizzi di politica culturale del fascismo e insofferenti delle angustie di una letteratura provinciale. "Moravia -scriveva Angelo Guglielmi su Paese sera del 22 aprile 1980- offre modelli di comportamento e di pensiero in grado di affrettare la nascita dell'uomo europeo del nostro Paese". Gli anni che abbiamo indicato sono quelli in cui lo scrittore romano delinea l'idea che "il mondo esiste soltanto per essere interpretato" e, di conseguenza, "il mondo è l'interpretazione che se ne da" (ibidem). Concorreva così, in virtù di questi convincimenti, alla riduzione del divario tra aspirazioni letterarie e impegno ideologico collegato al processo interpretativo della realtà. Non cercava però, come scrive nell'articolo nel febbraio 1934 che qui si riporta, la trasmissione di modelli validi per tutto e per tutti mediante rappresentazioni dei "grandiosi movimenti di folle", così ben accette al romanzo collettivista, ο dei "particolari frantumati e insignificanti della realtà di tutti i giorni", secondo la persistente tendenza di un realismo che si perdeva sempre più nel limite del bozzetto regionale. La posizione moraviana trovava la sua specificità in un atteggiamento critico, non già in una neutrale equidistanza tra una scelta genericamente riferibile a un romanticismo rétro, che ipotizzava l'artista quale interprete della vox populi, e la proposta di un'arte engagé trionfante, allora, nell'avanguardia francese e destinata a sviluppi originali nella narrativa italiana del secondo dopoguerra. Moravia tuttavia non rimase in mezzo al guado, ma riuscì a ritrovare una cifra personale, rappresentando storie e drammi dell'individuo, non configurato come una monade, bensì sollevato "induttivamente" verso forme emblematiche dell'agire e dell'essere di un'età, di una gente o, per parlare più esplicitamente, di una classe sociale, senza mai procedere "deduttivamente" dal cosmo di una ipotizzata realtà sociale agli accadimenti singoli, secondo schemi cari ai tardo-romantici e agli scrittori socialisti d'antan. D'altronde, guardare con oggettività uomini e cose significava avvertire l'atmosfera opprimente che gravava sull'Europa e spingeva gli spiriti più attenti e animosi non già ad avanzare pretese salvifiche, considerate difficili Gabriele Di Giammarino 244 se non impossibili, ma ad assumersi il compito di denunciare una situazione percorsa da oscuri segni e di smascherare le mistificazioni dei trascinatori di folle. La scrittura, come testimonianza della verità, poteva offrire una strada di redenzione e scuotere dal torpore. Ma attraverso quali forme d'arte? Non già di un'arte retorica e fumosa -pensava Moravia- la quale pretendesse di svolgere, come nel romanzo collettivista, una denuncia sociale. La realtà sociale non è un unicum omogeneo: la complessa e variegata gamma del dolore, della gioia, dell'ambizione, del disgusto, dell'indifferenza ha in essa un preciso valore che, pur diffuso nell'aura di una situazione generale storicamente circostanziata, pervade con maggiore ο minore intensità la carne e lo spirito di questo ο di quello.- Descrivere le circostanze contingenti, che coinvolgono individui ed eventi particolari, può costituire il nucleo di un'operazione artistica felicemente riuscita, soprattutto se diviene a un tempo metafora di un sentimento universale, quasi lo specchio di un'età. Ma ciò è possibile purché si lasci riconoscere una specificità, un hic et nunc, circoscritto nello spazio e nel tempo narrativo, non soggetto a confluire nelle tenebre indistinte di una dimensione vagamente collettiva in cui tutte le vacche sono nere, né a divenire calligrafico frammentismo. Quello che, invece, non e concesso e il procedimento inverso, da cui Moravia sin dall'inizio della sua carriea si era ben guardato, come aveva acutamente compreso Giuseppe Antonio Borgese che, nello stesso anno della pubblicazione del primo romanzo di Moravia, scriveva sul Corriere della sera del 21 luglio 1929: "Qui, negli Indifferenti, tutto il dramma si svolge in tre giorni, ed è vero dramma, con quattro personaggi quasi sempre in scena, e Lisa quinta che talvolta sopraggiunge e poi dilegua; senza pause, senza digressioni, senza né un aneddoto né una comparsa". Effettivamente, da un canto Moravia non immette le masse nella sua opera narrativa, d'altro canto, pur facendo ruotare i fatti intorno a un protagonista, non gli attribuisce mai la figura tipologica di "eroe del suo tempo", titano ο vittima, ma in genere lo cala nel grigio ambito della vita borghese, come faceva Italo Svevo con i suoi personaggi: un'eco sveviana infatti è stata colta in alcune significative pagine degli Indifferenti . Di queste scelte Moravia era perfettamente consapevole e, perfino in un discorso riguardante semplici valutazioni letterarie, si possono individuare elementi copertamente apologetici, non tanto della sua opera, che non ne aveva bisogno, quanto della sua "poetica". Ecco perché non è superflua la ripubblicazione dell'articolo da lui scritto nel febbraio 1934 per la rivista romana Oggi sulla moda del collettivismo nella narrativa; anzi è da ritenersi utile sia perché fa comprendere meglio taluni motivi di base degli Indifferenti che, uscito da un quinquennio, presentava nei suoi pochi personaggi un vigoroso affresco della classe media romana, sia perché fa intuire al lettore che per delineare le macroscopiche lacerazioni di un tempo e di una società 1 Un articolo di Moravia sul romanzo collettivista 245 non occorre suonare la tromba epica. Lo scrittore giudica insoddisfacente il quadro della narrativa contemporanea - tanto per le scelte tecniche, quanto per gli esiti artistici aprendo una panoramica che non è solo europea con Körmendi e Huxley, ma internazionale con l'americano Dos Passos, considerati autori rappresentativi delle nuove tendenze. In primo luogo, si esprime negativamente sul romanzo collettivista, che corre dietro soltanto a una moda, attribuendosi etichette di "storico", "socialista", "populista", "coloniale", e preannuncia chi sa quali novità, mentre sostanzialmente si perde in mille esigui rivoli. In secondo luogo, lo condanna esplicitamente, convinto com'è che la strada del "vero" si persegue esplorando i risvolti psicologici dell'individuo, anziché rappresentando romanticamente la vanità del consorzio umano e il crepuscolo della vita cittadina. Per giunta, nell'ultima parte dell'articolo Moravia non riesce a nascondere un certo disagio o, più precisamente, un senso di pessimismo, perché avverte l'oscurarsi di ogni sincera tensione etica dietro il fumo di questo tipo di romanzo, proposto come paradigmatico genere letterario, sull'onda di un successo consacrato dal trionfo degli autori e dal plauso del pubblico. Tuttavia, come dalle poetiche romantiche -osserva lo scrittore- non scaturirono i grandi romanzi dell'Ottocento, ma ben fragili prove narrative che pretendevano di essere à la page, così le teorizzazioni novecentesche sulla narrativa collettivista, a quanto pare, non hanno prodotto alcunché di rilevante. Il guaio è che alla base delle scelte letterarie moderne si colloca il luogo comune secondo cui, se il Novecento è l'età delle masse, di conseguenza ad esse deve ispirarsi il nuovo romanzo. A dire il vero, questo ragionamento è innegabilmente corretto, e nessuno può replicare che i romanzi presi in esame siano meno che modesti, nondimeno la panoramica di Moravia è parziale e mette in ombra qualche elemento molto significativo di novità. Si andava affermando in quegli anni un genere di romanzo che con maggiore esattezza si dovrebbe chiamare "corale" anziché "collettivista", i cui più adeguati esempi sono nei Fratelli Rupe di Leonida Repaci, nella Via del tabacco di Erskine Caldwell, nella Terra dissodata di Michail Sholocov, pubblicati tutti e tre nel 1932, e nella Condizione umana,di André Malraux, uscito l'anno successivo: si tratta di opere che, pur avendo un respiro collettivo, mancano dei difetti lamentati da Moravia. I romanzi che egli prende in considerazione sono, si, di maniera e carenti di novità, ma bisognerebbe aggiungere che la condanna è giustificabile non perché indulgono alla "moda collettivista", bensì perché in essi la smaliziata inclinazione al gusto in voga non lascia scoprire né l'urgenza di un ethos condiviso, né il senso di quella tragica preoccupazione, espressa da Benedetto Croce due anni prima che Moravia facesse le sue considerazioni, sul pesante torpore intellettuale e morale dell'Europa Gabriele Di Giammarino 246 contemporanea, rotto soltanto da manifestazioni di violenza che simulavano la forza. In ogni modo, dalla lettura dell'articolo s'intuisce che la risposta ai drammi della vita contemporanea, a giudizio di Moravia, non può essere data da un sottogenere letterario, come il romanzo collettivista, e neppure da un genere particolare. Scrive infatti in proposito: "Il dramma odierno non è che esistano milioni di persone piuttosto che migliaia ο centinaia, ma che certi valori siano innalzati e altri abbassati. E a mio avviso questo dramma può essere espresso anche in un romanzo a protagonista, anche in una novella, anche addirittura in una canzone del genere di quelle del Leopardi". È improprio riportare questa osservazione alla disamina dei generi letterari fatta dall'Estetica crociana: è invece opportuno, per spiegare Moravia con Moravia, riferirla alla struttura degli Indifferenti, che, in quanto a genere, non si sa se definire romanzo ο lungo racconto, per capire che all'autore, con buona pace degli astratti presupposti di forma, bastano quattro ο cinque personaggi di una famiglia romana per offrire un impietoso quadro d'insieme di tanta parte del costume borghese negli anni del fascismo. Insomma, le parole dell'articolo di Moravia suonano condanna, più che del romanzo collettivista in sé, delle mediocri prove che avevano dato i seguaci di tale indirizzo, condizionati da scelte dettate da mode letterarie, incapaci peraltro di rendere le poche luci e le molte ombre di un'esistenza che prospettava un futuro tempestoso. Un anno prima, infatti, era iniziato un grande esodo dalla Germania di scrittori e intellettuali, minacciati dal nazismo, e anche in Italia si annunciavano giorni funesti, tra l'indifferente silenzio o, in talune circostanze, in mezzo al tradimento di non pochi "chierici". Come possiamo considerare, in prospettiva attuale, le osservazioni di Moravia? Quale messaggio trasmettono alla sensibilità moderna? Per alcuni versi esse appaiono datate o, tutt'al più, consonanti con l'esistenzialismo di quegli anni, che opponeva ai trionfalismi ufficiali una profonda nota di angoscia individuale; per altri versi sono in anticipo sulle posizioni che assumerà Sartre, volte a considerare il dramma del singolo come emblematico di pensieri e atteggiamenti pervasivi, attraverso un complesso reticolo, di tutti i modelli sociali. Nella narrativa moderna, in cui, fatte poche eccezioni, l'ékphrasis soppianta l'epos, l'individuo, non già i popoli e gli eserciti, diviene il protagonista del bene e del male, dell'azione ο dell'inazione e a volte il modello esemplare delle speranze e delle delusioni di tutta un'età. Mi sembra questa la sostanza dell'insegnamento che si ricava dall'articolo di Moravia, soprattutto se si considera che egli ne ha rispettato fedelmente premesse, criteri e conclusioni nella sua produzione artistica. I romanzi, in particolare quelli composti nell'immediato dopoguerra, come Agostino Un articolo di Moravia sul romanzo collettivista 247 (1944), La romana (1947), Il conformista (1951) e, via via, fino a La ciociara (1957), delineano nel protagonista il profilo di una condizione umana, le caratteristiche di un'area geo-politica, i lineamenti di uno ο più strati sociali. In tal modo il "paradigma individuale" si sostituisce a quello della "collettività sociale", in quanto il primo può dare la dimensione del secondo, mentre il secondo rende indifferenziati ο addirittura dissolve i tratti del primo. La problematica del rapporto tra lo scrittore e le istanze del realismo, quindi, si fa più "vera" scavando nella psicologia del singolo, che non è meno complessa della psicologia di massa, ed evitando cedimenti alla pretesa di "descriver fondo a tutto l'universo". Per tale via la tecnica di Moravia -che non per nulla è considerato il padre del neorealismo- anticipa il passaggio del "noi" all'"io", definito come il tratto saliente della narrativa di questo indirizzo . La posizione dello scrittore romano non si spiega solo con la sua diffidenza verso le avanguardie, ma con la fede nella virtù quasi demiurgica della "parola" che, secondo l'adagio classico, segue la "cosa", dandone fedele testimonianza. Perciò nel 1961 Moravia poteva pensare alla morte del neorealismo, ma riconosceva la vitalità, come categoria d'arte, del grande tronco del verismo da cui esso traeva linfe; pertanto nell'introduzione a Scrittori della realtà faceva le seguenti affermazioni: 2 Ammettiamo l'ipotesi peggiore: il caos. Ebbene, il momento stesso che il caos sarà nominato esso cesserà di esistere e comincerà il realismo. Ecco in che senso si è fatto cenno alla virtù quasi demiurgica della parola. I mille sperimentalismi, incontrati da Moravia nel suo lungo percorso, apparsi a torto ο a ragione come momenti di rottura, l'idolatria del tecnicismo e i feticci sempre risorgenti delle tentazioni calligrafiche furono in larga misura estranei alla sua esperienza di scrittore, non già per il fatto che egli rimase fedele al verbo neorealistico, ma perché concepì l'arte come testimonianza della realtà colta nel suo processo evolutivo e affidata a una scrittura in grado di rapportarsi alla dialettica dell'esistenza, senza proiezioni totalizzanti ο idealizzanti. "Lo scrittore ricorda, per tutti coloro che vogliono dimenticare", scrive ne L'uomo come fine, assumendo così sia la funzione del testimone dei tempi, attraverso i suoi personaggi, sia l'impegno di attuare una moderna catarsi, dato che "oggi c'è la tetra, squallida, mentecatta alienazione e noi siamo tenuti a parlarne finché ci sarà, ossia finché non saremo riusciti a oggettivarla completamente, cioè a liberarcene" (ibidem). La liberazione da essa presuppone il rappresentarla con freddezza scientifica e senza cedimenti sentimentali come un fenomeno (questo vuol dire "oggettivarla"), sicché il réalisme sans larmes della tradizione ottocentesca viene a perdere, nel pensiero di Moravia, la sua genericità e si carica di un contenuto attuale Gabriele Di Giammarino 248 come, ad esempio, l'alienazione che qui marxisticamente indica la perdita dell'identità, di cui è vittima l'uomo quando viene oppresso e sfruttato. Queste formulazioni si possono considerare il corollario dell'articolo sul romanzo collettivista che è condannato anche sotto l'aspetto tecnico-formale, perché, nella presunzione di allargare gli orizzonti giudicati circoscritti del verismo europeo, finisce con il pervenire a un "procedimento esterno e meccanico", in sostanza a "una singolare incomprensione della tecnica letteraria", a "uno strano formalismo". La poetica del verismo, che pur consigliava allo scrittore di limitarsi a rappresentare una tranche de vie, non pretendeva tuttavia di circoscrivere le tematiche narrative e di soffocarle in uno spazio e in un tempo rigidamente conclusi. Se i costumi e i comportamenti di un personaggio determinato riescono a dare la dimensione emblematica delle scelte morali e politiche di un'età, se un luogo geograficamente delineato diviene il contesto di eventi che riguardano un intero periodo storico (si pensi alla Sicilia di Verga), non c'è motivo per cui uno scrittore debba sovraccaricare di figure principali e secondarie i suoi romanzi, abbandonandosi alla descrizione delle scene di massa per rendere più convincente ed efficace il quadro d'insieme. Le convinzioni di Moravia s'incontrarono, negli anni Cinquanta, con la base teorica lukacsiana del "rispecchiamento della realtà oggettiva" che incoraggiava a insistere su tematiche circoscritte, ma precise e significative, anziché prospettare una macro-realtà in cui figure e accadimenti resteranno necessariamente generici e sfocati. La lezione moraviana ha avuto un seguito che non riguarda soltanto il neorealismo ma, per certi versi, quasi l'intero corpus della narrativa italiana laddove la descrizione dell'individuo e dell'evento individuale perevalga su quella della collettività. Senza dubbio, nelle opere artisticamente meglio riuscite, il singolo si spoglia dei panni dell'eroe solitario e veste quelli del testimone di un malessere che riconosciamo come nostro, di una storica "colpa" dell'umanità, di un intreccio di avvenimenti più grandi di lui, in cui si compie il destino della fragile e mirabile creatura umana. Un articolo di Moravia sul romanzo collettivista 249 LA MODA DEL COLLETTIVISMO* I miei appunti sul romanzo, pubblicati su Oggi qualche tempo fa, mi hanno 3 attirato alcune risposte tra le quali sono notevoli quelle di Piero Gaddal su 4 5 Domus e seppure in maniera indiretta l'articolo di Roberto Ducci anche su Oggi. Da questi due articoli e dagli altri meno importanti che non nomino emerge un fatto unico: il romanzo a protagonista sarebbe morto ο in via di morire, e ci si troverebbe di fronte alla nascita di una nuova specie di romanzo, nel quale il protagonista è la folla. Le pezze di appoggio di questa curiosa teoria che ricorda un poco il vecchio unanimismo francese sono i noiosi romanzi cinematografici e giornalistici del mediocre romanziere Dos Passos , il brutto romanzo di Huxley , Contrappunto, e peggio ancora L'avventura a Budapest dell'ungherese Kormendi . Pezze d'appoggio che basterebbero da sole a mostrare la debolezza dell'argomento. Ma ci troviamo di fronte ad infatuazioni che toccano dawicino questioni molto più gravi e più importanti; e però non sarà inutile rispondere. Diciamo subito che questa storia del romanzo collettivista rivela una strana mentalità critica tutta esterna e meccanica; e del resto neppur nuova. Assomiglia infatti la teoria del romanzo collettivista a quella del romanzo storico, del romanzo socialista, del romanzo populista, del romanzo coloniale e di non so quanti altri romanzi che in tempi vicini e lontani vennero annunziati a gran voce come veri e propri rinnovamenti di questo genere letterario. Ora l'errore è sempre lo stesso; e consiste nel vedere novità sostanziali e profonde dove invece non ci sono che mode di soggetti, infatuazioni di materiali in voga. Il primo romanticismo ottocentesco prediligeva assai borghesemente le epoche storiche medievali e rinascimentali: e si ebbero i romanzi storici, nella fattispecie il falso antico di Margherita Pusterla, di Niccolò dei Lapi e di tanti altri. Ma lo spirito romantico era ben altro e nulla aveva a che fare con quell mascherate; tanto è vero che i romanzieri rappresentativi dell'ottocento sono Flaubert, Balzac, Dickens, Dostoiewski e non Walter Scott e Alessandro Dumas. Quel che succede ora con il collettivismo non è molto diverso. L'epoca, dicono, è quella delle masse: ergo romanzo di masse. Ragionamento semplicistico e grossolano. Gioverebbe, invece di lasciarsi abbagliare dalle apparenze più vistose, rintracciare sotto questi grandiosi movimenti di folle, il dramma unitario e spirituale che non può non esservi dissimulato. Gioverebbe, per esempio, rintracciare il motivo più essenziale del Fascismo e concretarlo in un protagonista; e non adoperarsi a riprodurre fotograficamente i particolari frantumati e insignificanti della realtà di tutti i giorni. Anche le guerre Napoleoniche furono movimenti di folle: ma Julien Sorel e Fabrizio le 6 8 7 Gabriele Di Giammarino 250 personificano meglio assai delle vuote epopee di Victor Hugo. In un mondo unitario tutto può essere ridotto a unità. Il dramma odierno non è che esistano milioni di persone piuttosto che migliaia ο centinaia, ma che certi valori siano innalzati e altri abbassati. E a mio avviso questo dramma può essere espresso anche in un romanzo a protagonista, anche in una novella, anche addirittura in una canzone del genere di quelle del Leopardi. D'altra parte buttiamo un'occhiata sopra, per esempio, Contrappunto di Huxley. Cosa osserviamo? osserviamo gruppi di personaggi che parlano e agiscono e poi bruscamente e senza motivo alcuno sono piantati in asso per far parlare e agire altri personaggi che a loro volta subiscono la stessa sorte. Procedimento esterno e meccanico che tradisce una singolare incomprensione della tecnica letteraria, uno strano formalismo. Giacché l'origine di ogni tecnica è sempre interna, strutturale, ossia obbedisce a necessità espressive senza le quali abbiamo l'arbitrario, il gratuito, l'informe. Lo stesso succede nei romanzi di Dos Passos che sono talmente poco basati sopra una necessità qualsiasi da dare continuamente l'impressione che potrebbero essere molto più lunghi di quello che sono. Una tragedia greca, modello di necessità, non si potrebbe accorciare ο allungare impunemente, ed i personaggi entrano ed escono tutte le volte che debbono entrare ed uscire e non quando l'arbitrio dell'autore ο la moda lo vogliono. Ma i sostenitori del romanzo collettivista mi risponderanno che la tragedia greca è sorpassata e però non c'entra. E ora un'ultima domanda: quanta etica collettivista c'è nei romanzi sunnominati? ο non ci sono piuttosto la melanconia crepuscolare delle grandi città, il senso della vanità del consorzio umano, in una parola un'ultima eco del romanticismo borghese? di quel romanticismo che si esaltava nelle visioni "collettive", mettiamo, di un Ba]zac? E ancora una domanda. Alla stregua di certe argomentazioni non sono allora I Miserabili di Victor Hugo un romanzo collettivista? ο meglio ancora I Misteri di Parigi di Eugenio Sue? 1 0 ALBERTO MORAVIA *** GABRIELE DI GIAMMARINO Roma NOTE * Da Oggi. Rasegna Mensile di Lettere ed Arti, Roma, Anno II, Numero II, Febbraio 1934, pp. 23-24. Un articolo di Moravia sul romanzo collettivista 251 Giorgio Luti, Letteratura del ventennio fascista, Firenze: La Nuova Italia, 1972, p. 95. Letteratura italiana Laterza (LIL), dirett. C. Muscetta, vol. 64, Roma-Bari: 1980, pp. 200 e sgg. Piero Gadda, milanese, cugino di Carlo Emilio di cui curò una raccolta di lettere (Le Confessioni di Carlo Emilio Gadda, 1974), aveva già pubblicato i racconti L'entusiastica estate (1924), Liuba ( 1926), Verdemare (1927, per le edizioni di "Solaria") e A gonfie vele (1931). Si occupò anche di cinematografìa e di critica, collaborando alla Fiera letteraria e ad altri periodici. Domus, mensile milanese di architettura, arte e arredamento, venne fondato nel 1928 da Giò Ponti e dal 1940 ebbe come direttore Massimo Bontempelli. Roberto Ducci, milanese, collaboratore di Oggi e di altre riviste. John Dos Passos (1896-1970): questo importante scrittore statunitense, definito mediocre da Moravia, non aveva ancora completato la sua grande trilogia USA, formata da 42 parallelo, 1919, e Un mucchio di quattrini. Allora era conosciuto per le prime prove narrative nelle quali i suoi mezzi espressivi appaiono alquanto inadeguati: Tre soldati (1921) e New York (1925). L'inglese Aldous Leonard Huxley (1894-1963) si era dimostrato più fornito d'ingegno brillante che di autentica ispirazione in Passo di danza ( 1923) e nel citato Contrappunto (1928). Forse Moravia non aveva ancora letto il significativo Mondo nuovo del 1932, profetica rappresentazione di un'umanità dominata da una feroce dittatura contro cui viene tentata un'impossibile ribellione. L'ungherese Ferenc Körmendi (1900-1972) raggiunse grande popolarità con Un'avventura a Budapest (1932), dimostrandosi narratore scorrevole e accattivante, per se disponibile a lusingare le aspettative di un pubblico poco smaliziato. I romanzi apparsi dopo l'articolo di Moravia, Peccatori (1935) e L'orrore (1938), non saranno migliori. Margherita Pusterla e Niccolò de ' Lapi sono i "romanzoni" storici, rispettivamente di Cesare Cantù e di Massimo D'Azeglio. Il romanzo del francese Eugene Sue (1804-1857) I misteri di Parigi, "orrorosa" opera in dieci libri con una miriade di personaggi, e paradossalmente indicato come precorrimento, in chiave esasperata, del romanzo collettivista. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10