31 maggio 2015 - L`Agenzia Culturale
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31 maggio 2015 - L`Agenzia Culturale
227 La n os tr a Milano - Basilica di Sant’Ambrogio Rassegna Stampa 31 maggio 2015 A cura de: “L’Agenzia Culturale di Milano” Con sede in Milano, via Locatelli, 4 www.agenziaculturale.it Come di consueto la nostra rassegna stampa sospende le pubblicazioni per il periodo estivo; sarà nuovamente fra di voi all'inizio del prossimo autunno. Auguriamo a tutti i lettori una serena e perché no divertente vacanza, ringraziandoli di cuore per averci seguito con costanza e interesse. Questa rassegna stampa è scaricabile integralmente anche dal sito www.agenziaculturale.it Estratti da: Ciclostilato in proprio 27/5/2015 Nozze gay, Parolin: una sconfitta per l'umanità Il Segretario di Stato: «Famiglia da tutelare, la Chiesa rafforzi l'impegno di evangelizzazione» Fausto Gasparroni Per il Vaticano il «sì» alle nozze gay uscito dal referendum in Irlanda rappresenta «una sconfitta per l'umanità». «Sono rimasto molto triste di questo risultato, la Chiesa deve tener conto di questa realtà ma nel senso di rafforzare il suo impegno per l'evangelizzazione», dice amaramente il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin: «Credo che non si può parlare solo di una sconfitta dei principi cristiani ma di una sconfitta dell'umanità». Il voto nella cattolica Irlanda, primo caso in cui il matrimonio tra persone dello stesso sesso viene introdotto da una consultazione popolare, scuote quindi profondamente il Vaticano. «Come ha detto l'arcivescovo di Dublino spiega il cardinal Parolin - la Chiesa deve tenere conto di questa realtà ma deve farlo nel senso che deve rafforzare tutto il suo impegno e tutto il suo sforzo per evangelizzare anche la nostra cultura». «La famiglia - dice ancora il primo collaboratore di Papa Francesco rimane al centro e dobbiamo fare di tutto per difendere, tutelare e promuovere la famiglia perché ogni futuro dell'umanità e della Chiesa anche di fronte a certi avvenimenti che sono successi in questi giorni rimane la famiglia». «Colpirla - ha proseguito - sarebbe come togliere la base dell'edificio del futuro». Insomma per la Chiesa nessun «arroccamento» ma neanche «un'accettazione acritica» dopo il «sì» alle nozze gay uscito dal referendum nella cattolica Irlanda: primo caso in cui il matrimonio tra persone dello stesso sesso viene introdotto da una consultazione popolare, oltre che visibile esempio di come la base cattolica ormai pensi e decida in difformità da quanto proclamato dalle gerarchie. Per il segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, «il commento più interessante e meno bigotto che si possa L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 227 del 31 maggio 2015 fare» è quello del titolo dell'Osservatore Romano, secondo cui il risultato irlandese è «una sfida da raccogliere per la Chiesa». «La percentuale con cui è passato il referendum ci obbliga un pò tutti a prendere atto che l'Europa, e non solo l'Europa, sta vivendo un'accelerazione del processo di secolarizzazione che coinvolge tutti gli aspetti e quindi anche quello delle relazioni», osserva Galantino. Di fronte «a questo fatto che sta davanti a tutti», a «questo e ad altri cambiamenti che di sicuro sorprendono, e talvolta anche destabilizzano, la risposta non può essere né quella dell'arroccamento fatto di paure e di arroganza», né «quella dell'accettazione acritica, frutto di una sorta di fatalismo e di chi batte in ritirata». Per il numero due della Cei, «la paura, l'arroccamento, il fatalismo fanno il gioco delle lobby ideologiche, lasciano cioè il campo a chi purtroppo vive anche realtà importanti e belle come quella delle relazioni» unicamente «come conquista da esibire e da sbattere in faccia». Galantino nega inoltre che quanto è avvenuto in Irlanda sia «un sonoro schiaffo alla Chiesa», come qualcuno «si è affrettato a dire»: «non è così che si ragiona», premette prima di rispondere a una domanda sull'ipotesi che il governo approvi entro settembre una legge sulle unioni di fatto. Citando il Papa, ricorda che «il compito principale della Chiesa non è di costruire muri ma ponti, di stabilire un dialogo con tutti». In questo orizzonte, chiarisce il segretario Cei, «l'atteggiamento della Chiesa non è quello di chi subito spara al primo che parla e che dice cose contrarie, ma si tratta di capire». E ancora: «Gli uomini di Chiesa non sono fuori del mondo: il problema di far passare la Chiesa come quella che deve mettersi contro, mi pare un pò forzato». © RIPRODUZIONE RISERVATA. pagina 2 26/5/2015 «Noi aperti a tutto ma non cederemo su adozioni e spesa sociale» di ANTONIO PITONI «In Europa si respira un preoccupante vento relativista e nichilista». Non ha dubbi il presidente della commissione Lavoro del Senato del Nuovo centrodestra, Maurizio Sacconi, commentando lo storico referendum che, nella cattolica Irlanda, ha dato il via libera alle nozze gay. «Se il tema è quello del rispetto per ogni orientamento sessuale siamo tutti d'accordo - spiega -. Ma qui si stanno confondendo due piani: quello dei diritti, per loro natura limitati, e quello dei desideri, come sappiamo, infiniti». Ma se perfino l'Irlanda si è espressa a favore delle nozze tra persone dello stesso sesso, non crede che la posizioni del Ncd rischi di restare isolata oltre che in Italia anche in Europa? «La nostra contrarietà riguarda due aspetti e non penso sia una posizione isolata: le adozioni e la spesa sociale, a partire dalla reversibilità delle pensioni. Nel primo caso, riteniamo che i diritti dei minori abbiano la precedenza sui desideri degli adulti. Posso capire il desiderio delle coppie omosessuali di educare figli, ma non può non prevalere il diritto dei minori a crescere nella diversità genitoriale. Quanto alla reversibilità delle pensioni, che ci costano oltre 40 miliardi all'anno, verrebbe meno il già faticoso equilibrio del nostro welfare». Ma allora quando Alfano parla di unioni civili con il rafforzamento, in particolare, dei diritti patrimoniali, a che modello si riferisce? «Al contenuto della mia proposta di legge, improntato al principio del mutuo soccorso morale e materiali tra i conviventi dello stesso sesso. Comprendente, ad esempio, il diritto alla successione al netto della tutela di eredi legittimi, come i figli e il coniuge, la possibilità di assistere il partner ammalato o detenuto e, ancora, di subentrare nel contratto d'affitto. Insomma, tutto tranne adozioni e spesa sociale perché riservate alla famiglia naturale in quanto orientata alla procreazione. E dirimente è la registrazione». Sarebbe a dire? «Dalla registrazione pubblica delle unioni, la giurisprudenza europea deduce l'equiparazione al matrimonio. Con la conseguenza delle adozioni e delle pensioni». 17/5/2015 Ritorniamo ai valori dell'economia reale di Bruno Forte «Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita»: con scelta significativa si è voluto far precedere e accompagnare l'Esposizione Universale di Milano (Expo Milano 2015) da una riflessione su questo tema, proposto al mondo scientifico, alla società civile ed alle istituzioni. Frutto di tale processo è la "Carta di Milano", documento inteso a stimolare la responsabilità di tutti in ordine al diritto al cibo delle generazioni future. L'appello mi sembra particolarmente rilevante perché - a differenza di quanto avveniva fino a poco prima della metà del secolo scorso - la produzione di cibo sul pianeta oggi sarebbe di per sé sufficiente a sfamare l'intera famiglia umana. Il fatto che ciò non avvenga mette in evidenza come le L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 227 del 31 maggio 2015 gravi sperequazioni alimentari siano frutto di una distribuzione inadeguata, conseguenza di scelte politiche e speculative responsabili non solo di molte tragedie connesse alla fame, ma anche di processi migratori dalle dimensioni sempre più vaste e drammatiche. L'idea centrale della Carta è che occorre giungere all'utilizzo sostenibile delle risorse del pianeta intervenendo su quattro fronti: la promozione di modelli economici e produttivi in grado di garantire uno sviluppo sostenibile in ambito economico e sociale; la verifica dei diversi tipi di agricoltura esistenti, onde individuare e favorire quelli che potrebbero produrre continua a pagina 4 > pagina 3 17/5/2015 < continua da pagina 3 una quantità sufficiente di cibo sano senza danneggiare le risorse idriche e la biodiversità; l'identificazione delle migliori pratiche e tecnologie messe in atto per ridurre le disuguaglianze all'interno delle aree urbane, dove si sta concentrando la maggior parte della popolazione umana; e l'elaborazione e lo sviluppo degli strumenti in grado di sensibilizzare a riconoscere nel cibo non solo una fonte di nutrizione, ma anche una peculiare espressione dell'identità socio-culturale di una comunità. La Carta si apre con una citazione emblematica dello «Human Development Report 2011», pubblicazione annuale dell'Ufficio delle Nazioni Unite che si occupa dei programmi di sviluppo in atto o da promuovere sul pianeta: «Salvaguardare il futuro del pianeta e il diritto delle generazioni future del mondo intero a vivere esistenze prospere e appaganti è la grande sfida per lo sviluppo del XXI secolo. Comprendere i legami fra sostenibilità ambientale ed equità è essenziale se vogliamo espandere le libertà umane per le generazioni attuali e future». Quest'intento programmatico è declinato anzitutto in riferimento all'impegno di tutti gli abitanti del pianeta, intesi non solo come singoli, ma anche nelle loro diverse possibili aggregazioni politiche, sociali e istituzionali: tutti i cittadini del mondo, sempre più percepito come "villaggio globale", sono chiamati a sottoscrivere la Carta per assumersi «impegni precisi in relazione al diritto al cibo che riteniamo debba essere considerato un diritto umano fondamentale». L'affermazione immediatamente successiva è di grande impatto morale: «Consideriamo una violazione della dignità umana il mancato accesso a cibo sano, sufficiente e nutriente, acqua pulita ed energia». Gli scopi dell'impegno assunto sono elencati con altrettanta chiarezza: «Combattere la denutrizione, la malnutrizione e lo spreco, promuovere un equo accesso alle risorse naturali, garantire una gestione sostenibile dei processi produttivi». La ricaduta sugli stili di vita da assumere è evidenziata: «Sottoscrivendo questa Carta di Milano affermiamo la responsabilità della generazione presente nel mettere in atto azioni, condotte e scelte che garantiscano la tutela del diritto al cibo anche per le generazioni future». Dinanzi a questo importante messaggio vorrei fermare l'attenzione su due punti chiave, che toccano aspetti etici di fondamentale importanza: la questione del modello economico cui ispirare le scelte e l'impegno da assumere in vista di stili di vita adeguati. La questione del modello che è alla base delle scelte macro- e microeconomiche è tutt'altro che secondaria, se solo si pensa alle cause della crisi economico-sociale che negli ultimi ha investito il pianeta, con conseguenze durissime sulla vita della gente comune. Sono state le speculazioni finanziarie a produrre disastri, dovuti al fatto che agenzie senza scrupoli hanno giocato sulla menzogna, inducendo a credere nella perfetta corrispondenza fra economia reale ed economia virtuale. A un agire economico orientato al solo profitto e all'interesse privato, occorre contrapporre un'economia attenta non solo alla massimizzazione dell'utile, ma anche alla partecipazione di tutti ai beni, al coinvolgimento dei più L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 227 del 31 maggio 2015 deboli, alla promozione dei giovani, delle donne, degli anziani, delle minoranze. Un'economia che miri alla messa in comune delle risorse, al rispetto della natura, alla partecipazione collettiva agli utili, al reinvestimento finalizzato a scopi sociali, alla responsabilità verso le generazioni future: fonte e guida della svolta necessaria in questo campo è il principio di gratuità in economia, di cui parla la Caritas in veritate di Benedetto XVI, vero fattore irrinunciabile di sviluppo per tutti. Esso sta a dire che la città futura non potrà essere programmata e gestita secondo logiche esclusivamente utilitaristiche: o sarà frutto di un'economia integrata, che unisca all'interesse pubblico quello privato secondo una logica di "economia civile" in grado di valorizzare tutti i soggetti in gioco e di promuoverne la crescita collettiva, o rischierà di accrescere i processi di frammentazione, che producono la disumanizzazione della vita di tutti. Processi di riconversione industriale e di ottimizzazione del capitale umano, legati anche all'investimento sulla qualità del prodotto, appaiono quanto mai urgenti, inseparabili dalla valorizzazione della centralità della persona umana, come criterio decisivo di riferimento e di misura. I nuovi stili di vita, corrispondenti a questo tipo di economia, dovranno essere caratterizzati da alcune virtù civili, fra cui specialmente importanti mi sembrano la sobrietà, la responsabilità e la solidarietà. Se la sobrietà motiva ciascuno a non eccedere nelle aspirazioni da soddisfare, imparando a riconoscere il giusto limite delle proprie ambizioni nella necessità di promuovere la partecipazione di tutti al bene comune, educandosi anche ai sacrifici che la causa della giustizia e dell'equità può richiedere, la responsabilità insegna a misurare i propri comportamenti sul bene altrui, di cui farsi carico in maniera adeguatamente corrispondente all'impegno investito per conseguire il proprio. Se questo stile di vita può considerarsi una traduzione del comandamento «ama il prossimo tuo come te stesso», non meraviglia come esso possa richiedere una forte autodisciplina ed esiga motivazioni interiori alte e durature: l'etica della responsabilità di ciascuno nei confronti del bene di tutti non è un gioco, né un impegno a buon mercato. Tuttavia, essa è anche la sola capace di nutrire comportamenti alla fine vantaggiosi per tutti, come dimostrano gli esempi offerti dalla ricostruzione dell'Europa post-bellica e dallo stile di vita di quelli che ne furono i grandi protagonisti, profondamente ispirati a principi evangelici, quali De Gasperi, Adenauer e Schuman. Quest'agire responsabile dovrà essere parimenti sostenuto dalla acquisizione del principio di solidarietà, che non solo afferma la corrispondenza fra bene personale e bene comune, ma stimola all'attenzione verso i più deboli, perché il vantaggio di alcuni non vada a scapito dei meno garantiti e la crescita si distribuisca in maniera equa e proporzionale a favore di tutti. Risulta dunque chiaro che senza una forte tensione morale e spirituale, che è anche condanna di ogni criterio meramente speculativo, la Carta di Milano resterà lettera morta. È a questa tensione che il messaggio di Papa Francesco in occasione dell'apertura di Expo 2015 ha voluto richiamare tutti, dando voce specialmente ai bisogni e alle attese di tutti i poveri della terra. © RIPRODUZIONE RISERVATA. pagina 4 26/5/2015 Europa eAfrica: nodi e numeri su cui riflettere IL GIGANTE POVERO CHE MERITA AMICIZIA di GiulioAlbanese Mai come oggi è necessario 'mettere in agenda' il continente africano. E non solo perché ieri, come da calendario, abbiamo celebrato la 'Giornata Mondiale dell'Africa'. Ogni anno, infatti, il 25 maggio, su iniziativa dell'Unione Africana (Ua), si fa memoria della fondazione dell'Organizzazione per l'Unità Africana (Oua), avvenuta nel 1963, a cui è poi subentrato nel 2002, l'attuale organismo panafricano. Ma questo anniversario dovrebbe anche servire per prendere coscienza della centralità di un tema dalla forte valenza geopolitica e geostrategica. Purtroppo, nel nostro Paese, tranne alcune lodevoli eccezioni (come nel caso di questo giornale), l'informazione sulle vicende africane lascia molto a desiderare, sia per quanto concerne i fatti di cronaca, come anche le valutazioni rispetto a certi processi epocali, come quello migratorio. Non è lecito, infatti, limitarsi a raccontare le vicissitudini dei naufraghi provenienti dalla sponda africana, molti dei quali vittime dell'indifferenza planetaria. Andando al di là della questione libica, infatti, c'è davvero un fiume di umanità dolente che spinge dai 'bassifondi' dell'Africa Subsahariana, lungo le rischiose carovaniere che attraversano il deserto. Dalla Somalia alla regione sudanese del Darfur, dalla Repubblica Centrafricana al Mali, dalla Nigeria all'Eritrea, si regista una costante spinta verso settentrione. E la causa che determina l'incremento del flusso migratorio è rintracciabile in quella costante dialettica tra gli estremi: progresso e regresso; ricchezza e povertà. Da una parte vi è, in alcuni Paesi, una crescita significativa del Prodotto interno lordo, grazie soprattutto agli investimenti di alcune grandi potenze come la Cina, mentre dall'altra si acuisce l'esclusione sociale e il deficit di virtuosità delle leadership locali. E cosa dire del land grabbing, l'accaparramento dei terreni da parte di imprese straniere? Una questione scottante che, unitamente allo sfruttamento della manodopera, pesa sul destino dell'Africa come una spada di Damocle. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 227 del 31 maggio 2015 Nel frattempo, guardando al futuro, le proiezioni del Dependence index (Di) - un indicatore che misura la percentuale delle persone di età inferiore ai 15 anni e superiore ai 64, rispetto alla fascia lavorativa - dovrebbero far riflettere. Nel 2010, il continente con il 'Di' più alto era proprio l'Africa, con 80 persone in età non attiva (in gran parte minori) su 100 in età lavorativa. Ma l'ufficio statistico dell'Onu prevede un ribaltamento in poco meno di un secolo. L'Africa diventerà così il continente per eccellenza della produttività (come forza lavoro), con un indice del 56% contro l'82% del Sud America e l'80% del Vecchio Continente. Da rilevare che già nel 2010 gli africani erano un miliardo, mentre nel 2100 potrebbero essere più di 4 miliardi. Una cosa è certa: il continente africano esige un riconoscimento dei diritti che l'attuale globalizzazione dei mercati le sta negando. Occorre, pertanto, superare le tradizionali visioni stereotipate e ideologizzate di certa politica. Quelle che guardano solo alle opportunità del business, trovando una sponda sicura nelle monolitiche oligarchie africane. In questo contesto va comunque detto con chiarezza che l'Unione Europea non fa bella figura. Manca nei fatti una robusta politica comunitaria, col risultato che ogni Paese membro persegue la propria politica africana, acuendo la frammentazione degli interessi di parte che si assommano alla parcellizzazione determinata dal crescente strapotere in Africa del cartello dei Brics (Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica) e delle Petromonarchie del Golfo. Serve, pertanto, un significativo rilancio da parte europea di una cooperazione inclusiva (dunque non 'respingente') e di investimenti finalizzati al progresso (e non allo sfruttamento), nel rispetto di un welfare africano tutto da inventare, capace di contrastare il pensiero debole e gli interessi forti di chi guarda solo e unicamente alla massimizzazione dei profitti. © RIPRODUZIONE RISERVATA pagina 5 21/5/2015 Il Papa ai genitori separati "I figli non sono ostaggi" Il Pontefice:"Bambini usati come arma contro il coniuge" di GIACOMO GALEAZZI Minorenni contesi nella guerra fra genitori, «pacchi postali» alla mercè di ex coniugi in conflitto permanente. Una realtà dolorosa che Jorge Mario Bergoglio ha sperimentato come sacerdote e vescovo in Argentina e ora denuncia dal Soglio di Pietro. Genitori separati, non usate i figli come «ostaggio» contro il coniuge, non fate pagare ai figli il prezzo della separazione. «È difficile, ma potete farcela», avverte Francesco a San Pietro. Sos infanzia «usata» Un grido d'allarme per un dramma sommerso. «Spesso i bambini si sentono in colpa per la separazione o vengono usati come strumento di offesa da un genitore contro l'altro - osserva suor Giuliana Galli, fondatrice della onlus «Mamre» per l'assistenza dei bisognosi - I minori soffrono per la loro impotenza di fronte a questa reciproca rabbia. Anche quando il disaccordo non esplode in liti, le tensioni mascherate producono sempre una situazione che irretisce, turba e confonde i figli». Il Pontefice entra nel vivo di uno dei problemi più sentiti dalle famiglie: i figli usati come arma contro il coniuge, quando la coppia scoppia. L'avvocato Giulia Bongiorno, responsabile della fondazione «Doppia difesa», propone di inserire nel codice penale il divieto di denigrare l'altro coniuge alla presenza del figlio: «Ha ragione Francesco: in una separazione ciascuna parte si sente vittima e come tale legittimata ad aggredire e denigrare l'ex coniuge. Il minore subisce danni L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 227 del 31 maggio 2015 da un atteggiamento diffuso in coppie di ogni strato sociale. Serviva il monito del Papa». Approccio pragmatico Francesco lancia l'allarme: non bisogna scaricare sui bambini la conflittualità coniugale. Educare i figli «senza esasperarli» richiede «saggezza ed equilibrio». I genitori non chiedano ai figli «le cose che non possono fare». Un impegno gravoso quando i genitori tornano a casa stanchi dal lavoro. «È ancora più difficile per i genitori separati che sono appesantiti da questa condizione evidenzia Bergoglio - Poverini hanno avuto difficoltà, si sono separati e tante volte il figlio è preso come ostaggio: il papà gli parla male della mamma e la mamma gli parla male del papà. Così si fa tanto male». Quindi «dirò a voi che vivete matrimoni separati: mai prendere il figlio come ostaggio, voi siete separati per tante difficoltà e motivi, la vita vi ha dato questa prova, ma che i figli non siano quelli che portano il peso della separazione». Il Papa esorta che «i figli non siano usati come ostaggi contro l'altro coniuge e crescano sentendo che la mamma parla bene del papà anche se non sono più insieme, e che papà parla bene della mamma». Un approccio pragmatico e misericordioso ai disagi delle famiglie separate che al Sinodo di ottobre saranno esaminati dai vescovi anche nel dibattito teologico sull'ammissione alla comunione ai divorziati risposati. Il ruolo educativo richiede «amore, tenerezza, pazienza». Papa docet . pagina 6 27/5/2015 GLI ULTRÀ STRANIERI INFILTRATI NEL DERBY DI ROMA VIOLENZA PREMEDITATA N O N C A L C I O di Massimiliano Castellani La storia, ai "soliti noti", a quest'orda di bamboccioni mascherati, che si fanno chiamare "ultrà", non ha insegnato proprio niente. Era di maggio, il 29, di trent'anni fa, quando a Bruxelles, 39 civilissime persone, non solo tifosi italiani della Juventus, morivano allo stadio Heysel prima della sanguinosa finale con il Liverpool. Per commemorare i nostri "martiri da stadio", sono stati scritti saggi, romanzi (da leggere nelle scuole Il giorno perduto di Favetto e Cartwright), sono state promosse tavole rotonde e seminari nei circoli culturali e nelle università. Ma l'ultrà violento non sente e non parla, agisce nell'ombra e colpisce duro, alle spalle. Quelle della guerriglia dell'Olimpico, prima e dopo il derby Lazio-Roma, sono scene già viste. Era sempre di maggio, il 1° scorso, a Milano quando il centro della città è stato assediato e distrutto dai "black bloc", i sedicenti oppositori di Expo 2015, giunti da ogni dove. Sono gli stessi che, ogni maledetta domenica, ma anche di lunedì sera, in tutta Europa, dalla loro porzione riservata di Curva dividono e imperano, indisturbati. Hanno facoltà di ferire a morte il tifoso avversario, di catturare e poi torturare il poliziotto, il loro primo, vero, nemico giurato. È inutile anticipare i derby romani del futuro a mezzogiorno - onde evitare le tenebre, perché le "iene" si mimetizzano meglio , qui serve un definitivo e rapido cambiamento di rotta. Serve far capire, una volta per tutte, specie ai signori della politica, che il calcio è solo un pretesto di un cancro sociale più profondo e radicato. Per la sociologia da ultimo stadio, anche la maglietta sfottò del "Pupone" Totti o il ditino medio alzato a tradimento dall'altro tribuno romanista De Rossi possono alimentare i focolai violenti. Ma siamo seri, queste sono goliardate. Al limite, tempi supplementari di adolescenze maleducate che, da sole, non possono accendere la già incendiaria "torcida" mascherata. I bollenti spiriti ultrà hanno un loro preciso codice bellico, fanno dell'organizzazione premeditata il loro marchio e il comune grido di battaglia. Come si è visto, esistono pericolose e striscianti alleanze internazionali: polacchi, inglesi, greci e bulgari, chiamati a raccolta dagli "Irriducibili" della Lazio. Bastano cinquanta di questi legionari incappucciati per trascinare nel terrore la maggioranza silenziosa. Sono teppisti, alcuni, aspiranti terroristi, che parlano lingue diverse, ma che possiedono un linguaggio universale - diffuso in Rete - , quello del caos violento. Trattasi di "infiltrati", tutt'altro che inediti. Anche all'Heysel gli scontri mortali pare vennero innescati da infiltrati, hooligans londinesi («in quanto gelosi dei L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 227 del 31 maggio 2015 successi del nostro Liverpool», ha rivelato a 'Repubblica' il portiere Bruce Grobbelaar) rimasti ancora impuniti. Ecco cosa fa più paura dell'ultrà-infiltrato, la loro perenne impunità. La t-shirt di Totti non ha ucciso nessuno, mentre per i coltelli e le pistole di questa peggiore gioventù si muore tutti i giorni, fuori e dentro lo stadio. «Io so...» urlerebbe con noi il calciofilo Pasolini - i nomi e i cognomi, e perfino i numeri civici delle tane in cui risiedono gli infiltrati, spettro del terzo millennio. © RIPRODUZIONE RISERVATA. 23/5/2015 Movimento vita Celebrati 40 anni di attività FIRENZE Con una breve cerimonia ieri è stato ricordato il 40° anniversario del Movimento per la vita italiano. Il 22 maggio 1975 veniva fondato il Centro di aiuto alla vita di Firenze che unendosi agli altri Caved ai Movimenti locali avrebbe di lì a poco formato il Movimento per la vita nazionale. E sempre il 22 maggio, nel 1978, fu approvata la legge 194 che legalizzava l'aborto in Italia. Una legge che in questi anni, ha causato più di cinque milioni e mezzo di aborti. La rete del Movimento per la vita, contando esclusivamente sulle risorse del volontariato, ha potuto comunque sottrarre a questo destino oltre 170mila bambini ed evitare dolore e amarezze ad altrettante mamme. Le strutture del Movimento sono cresciute fino a diventare oltre 650 tra movimenti locali, Cave Case di accoglienza. «Quarant'anni di aborto legalizzato hanno trasformato il costume del Paese - commenta Gian Luigi Gigli, presidente del Movimento per la vita, da poco subentrato al fondatore Carlo Casini - Ciò che prima era un crimine, si è trasformato in una necessità da tutelare e a cui dare risposta nelle strutture pubbliche. Ora la cultura individualistica e radicale che domina trasversalmente lo scenario politico vorrebbe far cadere l'ultima barriera, facendo dell'aborto un vero e proprio diritto. Nel frattempo gli interessi delle multinazionali del farmaco, con la Ru486 e con le pillole dei giorni dopo, stanno riportando l'aborto nella sfera privata e nella clandestinità, contro le stesse intenzioni della 194». pagina 7 PAPA FRANCESCO REGINA COELI SOLENNITÀ DI PENTECOSTE Roma - Piazza San Pietro 24 maggio 2015 Cari fratelli e sorelle, buongiorno. La festa della Pentecoste ci fa rivivere gli inizi della Chiesa. Il libro degli Atti degli Apostoli narra che, cinquanta giorni dopo la Pasqua, nella casa dove si trovavano i discepoli di Gesù, «venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso …e tutti furono colmati di Spirito Santo» (2,1-2). Da questa effusione i discepoli vengono completamente trasformati: alla paura subentra il coraggio, la chiusura cede il posto all’annuncio e ogni dubbio viene scacciato dalla fede piena d’amore. E’ il “battesimo” della Chiesa, che iniziava così il suo cammino nella storia, guidata dalla forza dello Spirito Santo. Quell’evento, che cambia il cuore e la vita degli Apostoli e degli altri discepoli, si ripercuote subito al di fuori del Cenacolo. Infatti, quella porta tenuta chiusa per cinquanta giorni finalmente viene spalancata e la prima Comunità cristiana, non più ripiegata su sé stessa, inizia a parlare alle folle di diversa provenienza delle grandi cose che Dio ha fatto (cfr v. 11), cioè della Risurrezione di Gesù, che era stato crocifisso. E ognuno dei presenti sente parlare i discepoli nella propria lingua. Il dono dello Spirito ristabilisce l’armonia delle lingue che era andata perduta a Babele e prefigura la dimensione universale della missione degli Apostoli. La Chiesa non nasce isolata, nasce universale, una, cattolica, con una identità precisa ma aperta a tutti, non chiusa, un’identità che abbraccia il mondo intero, senza escludere nessuno. A nessuno la madre Chiesa chiude la porta in faccia, a nessuno! L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 227 del 31 maggio 2015 pagina 8 Neppure al più peccatore, a nessuno! E questo per la forza, per la grazia dello Spirito Santo. La madre Chiesa apre, spalanca le sue porte a tutti perché è madre. Lo Spirito Santo effuso a Pentecoste nel cuore dei discepoli è l’inizio di una nuova stagione: la stagione della testimonianza e della fraternità. È una stagione che viene dall’alto, viene da Dio, come le fiamme di fuoco che si posarono sul capo di ogni discepolo. Era la fiamma dell’amore che brucia ogni asprezza; era la lingua del Vangelo che varca i confini posti dagli uomini e tocca i cuori della moltitudine, senza distinzione di lingua, razza o nazionalità. Come quel giorno di Pentecoste, lo Spirito Santo è effuso continuamente anche oggi sulla Chiesa e su ciascuno di noi perché usciamo dalle nostre mediocrità e dalle nostre chiusure e comunichiamo al mondo intero l’amore misericordioso del Signore. Comunicare l’amore misericordioso del Signore: questa è la nostra missione! Anche a noi sono dati in dono la “lingua” del Vangelo e il “fuoco” dello Spirito Santo, perché mentre annunciamo Gesù risorto, vivo e presente in mezzo a noi, scaldiamo il nostro cuore e anche il cuore dei popoli avvicinandoli a Lui, via, verità e vita. Ci affidiamo alla materna intercessione di Maria Santissima, che era presente come Madre in mezzo ai discepoli nel Cenacolo: è la madre della Chiesa, la madre di Gesù diventata madre della Chiesa. Ci affidiamo a Lei affinché lo Spirito Santo scenda in abbondanza sulla Chiesa del nostro tempo, riempia i cuori di tutti i fedeli e accenda in essi il fuoco del suo amore. © Copyright 2015 - Libreria Editrice Vaticana L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 227 del 31 maggio 2015 pagina 9 quaderno 3957 2 maggio 2015 LA GUERRA CIVILE IN SUD SUDAN Luciano Larivera S.I. La Repubblica del Sud Sudan è il più giovane Stato riconosciuto dall'Onu. Ma il suo Presidente e il suo ex-Vicepresidente non hanno saputo gestire il loro confronto politico. E così da 16 mesi il Paese è dilaniato da una disumana guerra civile, che è semplicistico ridurre a scontro etnico. E che non ha connotati religiosi. Ormai la missione locale dei caschi blu (Unmiss) è una delle maggiori al mondo, con circa 12.500 militari. E la connessa crisi umanitaria ha raggiunto il «livello 3», il massimo grado di allarme, come in Siria e nella Repubblica Centrafricana. Inoltre, a maggio, quando la stagione delle piogge sarà ormai in corso, il 60% dei sud sudanesi non sarà raggiungibile via terra dagli aiuti d'emergenza. Nel frattempo il processo di pace langue. E l'instabilità dello Yemen in guerra, e quindi nel Mar Rosso, può avere un impatto devastante sulle esportazioni di petrolio sud sudanese. Una panoramica Lo Stato del Sud Sudan con capitale Juba, bagnata dal Nilo Bianco, nacque il 9 luglio 2011, quando il referendum nel gennaio precedente lo decretò con il 98,83% dei «sì». Era l'effetto del Comprehensive Peace Agreement firmato nel 2005 dalle autorità sudanesi di Khartoum, rappresentative della maggioranza araba e musulmana, e dai ribelli neri (animisti e cristiani) del Movimento popolare di liberazione del Sudan e del suo braccio armato (Splm/Spia, Sudan People's Liberation Movement/Army). Quei negoziati di pace e l'applicazione (incompleta) dell'accordo furono accompagnati dalla troika Stati Uniti, Regno Unito e Norvegia. Si mise così fine a due lunghe guerre civili (1956-72; 1983-2005), la seconda delle quali causò, soprattutto per fame e malattie, circa 2,5 milioni di morti sud sudanesi e quattro milioni di profughi. Ma, come nel 1991, le milizie sud sudanesi si sono spesso scontrate anche tra di loro per il controllo delle risorse locali e della leadership nello Splm/a. La Costituzione di transizione del Sud Sudan stabilisce che il Presidente è il Capo di Stato e di Governo. Viene eletto a suffragio universale con un mandato quadriennale, ed è affiancato da un Vicepresidente. L'Esecutivo viene nominato dal Presidente e riceve l'approvazione dall'Assemblea legislativa (332 membri), che è uno dei due rami del Parlamento insieme con il Consiglio degli Stati (50 membri). Entrambe le Camere sono rinnovate ogni 4 anni. Il Presidente in carica è Salva Kiir Mayardit, cattolico, di 63 anni, a capo anche dello Splm, ma adesso soltanto della sua parte maggioritaria. Fu eletto il 26 aprile 2010. E il suo mandato presidenziale, come quello dei parlamentari, sarebbe dovuto scadere il prossimo 8 luglio. Dal punto di vista amministrativo, il Sud Sudan è suddiviso in dieci Stati: Bahr-El- L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 227 del 31 maggio 2015 pagina 10 quaderno 3957 2 maggio 2015 Ghazal Occidentale, Bahr-El-Ghazal Settentrionale, Equatoria Centrale (dove si colloca Juba), Equatoria Occidentale, Equatoria Orientale, Laghi, Warrap, Jonglei, Nilo Superiore, Unità. In questi ultimi due Stati settentrionali si concentra maggiormente la produzione petrolifera e, con Jonglei, essi sono i territori a maggiore frequenza di scontri armati, con vaste aree occupate dai ribelli anti-Kiir. E in questi tre Stati, l'80% della popolazione non è riuscita a coltivare il sorgo, l'alimento di base, mentre i prodotti alimentari hanno subìto un drastico rincaro dei prezzi. II Sud Sudan non ha sbocchi sul mare. E il porto di riferimento, per l'esportazione di petrolio, è ancora Port Sudan sul Mar Rosso. Il Paese si estende per 644.329 kmq, con un territorio composto da altopiani; ma vaste zone sono occupate da stagni e paludi, soprattutto nella stagione delle piogge. Confina a nord con il Sudan per 2.184 km; a est con l'Etiopia (934 km); a sud-est con il Kenya (232 km); a sud con l'Uganda (435 km) e la Repubblica democratica del Congo (639 km); a ovest con la Repubblica Centrafricana (989 km). Dato il passato di colonia britannica fino al 1956, la lingua ufficiale è l'inglese, ma sono parlati anche l'arabo e vari idiomi locali. I sud sudanesi sono circa 12 milioni, dei quali il 4,2% ha più di 54 anni e il 45,8% meno di 15 anni. Per etnia, si suddividono in Dinka (38%), Nuer (17%), Zande (10%), Bari (10%), Shiluk/Anywa (10%), Arabi (4%), altri (11%). In totale 64 gruppi etnici (e centinaia i clan), diversi dei quali presenti oltre confine. Dal punto di vista religioso, i cristiani e gli animisti sono, rispettivamente, circa il 60% e il 40% della popolazione, di cui i cattolici erano il 37,5% nel 2011. Nel 2013, prima della guerra civile, il Pil del Sud Sudan non superava i 15 miliardi di dollari. E contava su boom petrolifero e investimenti esteri. Ma il reddito pro-capite annuo, a parità di potere d'acquisto, era di 1.400 dollari, con il 12% delle donne e l'11% degli uomini ufficialmente occupati. Lo Stato ha scarse infrastrutture, con soli 250 km di strade asfaltate e alcuni impianti idroelettrici (oltre ai generatori diesel). Tuttavia il Sud Sudan è una delle più fertili terre d'Africa anche a motivo della ricchezza d'acqua. Potrebbe sostenersi dal punto di vista alimentare ed esportare cibo. E molti suoi terreni agricoli sono già posseduti da società straniere. Ad esempio, quelle statunitensi controllano almeno 1,4 milioni di ettari (www.landmatrix.org). Però il Sud Sudan importava il 50% del cibo, perché una parte della sua produzione marciva per mancanza di sistemi di conservazione. Adesso, con lo scoppio della guerra civile, il 15 dicembre 2013, gli aiuti alimentari e sanitari internazionali sono sempre più indispensabili. Per il 2015, secondo le richieste dell'Onu, essi dovrebbero ammontare a 1,8 miliardi di dollari. Ma è l'acqua salubre ad uso alimentare e sanitario la principale medicina. E così, nel giugno 2014, il Sud Sudan, oltre a essere considerata la nazione al mondo con il peggiore livello di scolarizzazione dei bambini e il più elevato tasso di mortalità materna, venne collocato in prima posizione secondo il Fragile States Index, dizione che prese il posto di «Stati falliti». Ha preceduto Somalia, Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo, L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 227 del 31 maggio 2015 pagina 11 quaderno 3957 2 maggio 2015 Sudan. Tutti Stati tra loro vicini e lacerati da violenze. E anche il Sud Sudan accoglie loro profughi. Per effetto della guerra, almeno 50.000 sud sudanesi avrebbero già perso la vita. E 12.000 minori sono stati costretti a unirsi a qualche gruppo combattente su entrambi gli schieramenti. Altri crimini di guerra e contro l'umanità sono pure molto estesi (stupri, stragi etniche, torture, distruzione di abitazioni e proprietà, persecuzione di giornalisti, cfr. Human Rights Watch e Amnesty International). Un rapporto di 400 pagine su tali crimini, redatto da una Commissione d'inchiesta dell'Unione Africana, è pronto da ottobre, ma non è stato pubblicato per timore di ostacolare i negoziati di pace. Però, secondo molte ong, così si legittimano impunità e nuovi crimini. Nel frattempo è aumentato il bracconaggio, anche per scopi alimentari. E sono sempre più a rischio di scomparsa, tra le altre specie, elefanti, giraffe e antilopi, topi e gazzelle Mongalla. Le Nazioni Unite stimavano in 1,5 milioni i sud sudanesi sfollati dentro i confini nazionali, mentre i rifugiati fuggiti all'estero superano i 500.000 - al 70% sono costituiti da minori -, con proiezioni a oltre 800.000 entro dicembre 2015, se la guerra proseguirà. Già 3,5 milioni di sud sudanesi ricevono assistenza umanitaria, ma saliranno a 4,1 entro l'anno. Perché si stima che, in assenza di una credibile soluzione politica al conflitto, supereranno i 2,5 milioni le persone colpite da insicurezza alimentare, anche per la perdita dei raccolti a motivo della guerra. Ma già entro i confini del Sud Sudan 235.000 bambini sotto i cinque anni sono denutriti, a cui si aggiunge circa il doppio di malnutriti (comprese migliaia di donne in gravidanza e in allattamento). Con la guerra sono scesi gli investimenti esteri e, soprattutto, è crollata la produzione petrolifera del 60%, scendendo a 160.000 barili al giorno. Essa sostiene gran parte del valore delle esportazioni e dei bilanci pubblici. Inoltre il crollo del prezzo del petrolio ha tagliato ancor più le entrate statali (e l'apprezzamento del dollaro produce inflazione). E così il debito pubblico con l'estero aumenta per coprire il deficit statale, sovraccaricato anche da maggiori spese belliche. La guerra civile Purtroppo il territorio sud sudanese è «da sempre» segnato da conflitti violenti tra etnie o tra clan a livello locale. Per secoli gli arabi nord-africani vi si «rifornivano» di schiavi con complicità locali. Il furto di capi di bestiame (anche per avere una dote e poter prendere moglie) e il sequestro di donne e bambini sono stati una costante che continua a offrire l'occasione per l'accendersi, il prolungarsi e il propagarsi di rappresaglie cruente. A ciò si aggiunge la competizione, anche internazionale, per il controllo dei pascoli, dei terreni agricoli, dei giacimenti di petrolio e delle varie rendite. Adesso le vendette violente riguardano anche la «gestione» della guerra civile in corso. Perché l'assenza di un sistema giudiziario nazionale (e internazionale) garantisce l'impunità e la «giustizia fai da te». Tuttavia continuano a essere un combustibile formidabile per lo scontro anche l'afflusso di armi di contrabbando o legali (non soltanto L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 227 del 31 maggio 2015 pagina 12 quaderno 3957 2 maggio 2015 cinesi e iraniane), la forte quota dei redditi dell'industria petrolifera impiegata nella «sicurezza», la presenza militare ufficiale dell'Uganda a favore del Governo e il sostegno occulto del Sudan dietro ai ribelli. Perché anche il Governo di Juba appoggia ancora la guerriglia secessionista nei territori sudanesi in Darfur, e soprattutto la fazione dello Spla che combatte nelle regioni del Sud Kordofan e del Nilo Blu. E periodicamente le parti sud sudanesi in conflitto accusano l'Etiopia o i gruppi ribelli etiopici della regione del Gambella di «giocare», rispettivamente, contro o a favore del Governo di Juba, che ha pure sollevato il sospetto che il Kenya sostenga i rivoltosi. Ma è il fallimento della riforma del settore della sicurezza che ha bloccato la trasformazione del Sud Sudan in uno Stato funzionante. Il movimento Splm non è diventato un partito politico, ma è rimasto un aggregato di milizie. E i suoi leader hanno mantenuto il ruolo di «signori della guerra», anche perché non erano stati ben preparati dalla Troika a diventare statisti. Non si è quindi attuato il completo disarmo delle fazioni combattenti nello Spla e delle sue milizie irregolari, perché non è stato possibile inserire, senza clientelismo su base etnica, tutti gli ex-combattenti in funzioni pubbliche o nel settore privato, ancora sottodimensionati. E così si è evidenziata la complessità in ampiezza e profondità dei problemi sud sudanesi, incluse le loro inesperienze istituzionali. Soprattutto non è stato creato un vero corpo di polizia federale con compiti distinti dalle Forze armate, ossia a garanzia della sicurezza della popolazione anche nei riguardi degli abusi delle autorità politiche e militari. Al contrario, diversi generali per i loro interessi politici ed economici hanno continuato a mantenere le proprie milizie, anche quando risultavano formalmente arruolate nei ranghi dell'esercito. Nel maggio 2012 il presidente Kiir scrisse una lettera a 75 alti ufficiali delle Forze armate perché restituissero 4,5 miliardi di dollari, molti dei quali reinvestiti in Kenya e Uganda. Ma non è successo nulla. E così la corruzione e le rendite di posizione e da prelazione, ancora più endemiche a motivo dell'«economia di guerra», rendono la pace «troppo costosa» per molti attori. Quindi è perdurato l'autoritarismo militare diffuso e non sono fiorite le istituzioni di uno «Stato di diritto»: il pluralismo politico, la separazione e il bilanciamento dei poteri, e soprattutto un autonomo e forte sistema giudiziario, dei media e dell'educazione pubblica. Ma comunque ci sarebbero voluti molti anni per consolidarle. Le autorità tribali e religiose tradizionali, inclusi i vescovi cattolici, possono ancora poco con la loro azione disarmata. Ma restano la riserva fondamentale a cui ricorrere per favorire la riconciliazione e per fondare il senso di nazione, che è basato sulla tolleranza delle differenze, su istituzioni giuste (anche redistributive) e, in definitiva, su quel senso di umanità che la brutalità di una guerra civile annienta. Le incerte prospettive di pace La guerra civile si è aggravata per lo scontro tra due forti personalità, che hanno anche L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 227 del 31 maggio 2015 pagina 13 quaderno 3957 2 maggio 2015 usato le polarizzazioni etniche a loro vantaggio. Nel marzo 2013, l'allora vicepresidente Riek Machar, di etnia nuer e cristiano evangelico, aveva provato a sfidare Salva Kiir, un dinka, come leader dello Splm, e quindi diventare il candidato del loro «partito» alle elezioni a Capo di Stato. Però, il 15 aprile, Kiir toglieva i poteri delegati al vicepresidente Machar, che a maggio faceva presente che 1'80% dell'esercito era nuer. Poi, il 23 giugno, Kiir scioglieva l'intero suo Governo, licenziando anche il vicepresidente. Infine, il 15 dicembre 2013 Kiir denunciava un tentativo di colpo di Stato da parte di Machar, che lo negava e sfuggiva all'arresto. Nel frattempo, Kiir aveva già fatto arrivare a Juba milizie a lui fedeli oltre quelle dinka, per disarmare i membri nuer della sua guardia presidenziale. E il 16-18 dicembre, a Juba, scoppiarono scontri violenti tra militari, e quelli nuer (con i loro familiari) scelsero di abbandonare la capitale per evitare di essere sterminati. Iniziarono allora vendette, occupazioni militari, mobilitazioni di milizie, stipule di alleanze, acquisti di armi, propaganda ecc. Tuttavia sembra che più di tre quarti dei nuer, come gran parte delle etnie, non si siano fatti (ancora) coinvolgere negli scontri. Subito sono seguite risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. L'African Union Peace and Security Council si mobilitava e sosteneva la mediazione dell'Igad (Intergovernmental Authority on Development, l'organizzazione regionale che include Gibuti, Etiopia, Somalia, Eritrea, Sudan, Sud Sudan, Kenya e Uganda). Ma nessuno dei sei accordi di «cessate il fuoco» tra Kiir e Machar è stato rispettato, a partire dal Cessation of Hostilities Agreement del 23 gennaio 2014. Nel frattempo Ue e Usa hanno deciso di imporre sanzioni ad alcuni generali sud sudanesi. Ma non sono riusciti a bloccare la violenza, anche se alcune centinaia di minori sono stati liberati dall'arruolamento forzato. Il 21 gennaio 2015 ad Arusha, in Tanzania, è stato siglato l'«Accordo per la riunificazione dello Splm», adesso separato in tre componenti principali: Splm-Juba, legato a Kiir, lo Splm-In Opposition, che fa capo a Machar, e una terza branca SplmFormer De-tainees, non combattente e composta di alti dirigenti del movimento liberati dagli arresti seguiti al «tentativo di colpo di Stato». In effetti, senza la trasformazione dello Splm in un vero partito con dinamiche democratiche al suo interno, prevarrà una gestione autoritaria che impedirà anche ai piccoli partiti di opposizione di emergere. Con la mediazione dello Igad, lo scorso 1° febbraio, Kiir e Machar hanno siglato l'Areas of Agreement of the Establishment of the Transitional Government of National Unity. Oltre al «cessate il fuoco», non rispettato da nessuno dei due, si conveniva di firmare, entro il 5 marzo, un accordo sui temi di dissenso; di dare vita, dal 1° aprile, alla fase di transizione; e di varare il Governo di transizione di unità nazionale non oltre il 9 luglio, con durata 30 mesi. E poi le urne. Lo scorso 3 marzo, per spingere le parti ad accordarsi, il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha varato la Risoluzione 2206. Si prevede il blocco dei beni e il divieto di viaggio a singoli individui considerati responsabili di minare la stabilità del Paese L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 227 del 31 maggio 2015 pagina 14 quaderno 3957 2 maggio 2015 commettendo crimini, ostacolando gli aiuti umanitari o impedendo l'avanzamento del processo negoziale. Non è previsto ancora l'embargo delle armi - difficile comunque da garantire, vista la «porosità» dei confini -, ma un gruppo di esperti dovrebbe sorvegliarne i flussi. Purtroppo, al vertice di Addis Abeba, nonostante il prolungamento dei negoziati fino al 6 marzo, non si è arrivati all'accordo comprensivo. Nel frattempo sembra che Kiir, per la maggior facilità di acquistare armi sofisticate e assoldare mercenari, punti a una soluzione militare del conflitto; mentre Machar ha minacciato di iniziare azioni di guerriglia in regioni finora escluse dalla guerra civile. Ma tutto ciò lascerà ferite ancora più profonde da sanare. Nel frattempo, le elezioni generali, previste per il prossimo 30 giugno, sono già state annullate a febbraio. Poi a marzo i due rami del Parlamento hanno aderito alla proposta di Kiir di riforma costituzionale per prolungare di tre anni, dopo il prossimo 9 luglio, i mandati presidenziale e parlamentari. Kiir si è però impegnato ad attuare un rimpasto di Governo per quella data, affidando incarichi anche a esponenti dell'opposizione non armata. Ma se entro il 9 luglio fosse siglato un accordo per il Transitional Government of National Unity, sarebbe cancellato quell'emendamento costituzionale. Il Political Parties Leadership Forum, una fragile associazione di 18 partiti di opposizione, chiede che Kiir e Machar non prendano parte all'eventuale Governo di transizione, domandando che in caso contrario siano sanzionati dal Consiglio di Sicurezza. Questo non sembra possibile, perché non ci sono personalità locali con sufficiente credito popolare per sostituirli. E perché la comunità internazionale non è abbastanza coesa per imporlo, ad esempio proponendo, come al momento dell'indipendenza del Timor Est, un Panel di tre alte personalità straniere (specializzate in finanza, sicurezza e costruzione dello Stato) che supervisionino l'Esecutivo di transizione. Inoltre ogni soluzione (e sanzione) imposta dall'esterno rischia di far abbrutire ancora di più la guerra, coinvolgendo caschi blu e operatori umanitari stranieri. I punti di disaccordo sono troppi. Kiir non vuole allargare il numero di parlamentari per fare spazio a quelli di Machar; né avere un ruolo cerimoniale o sottoposto a Machar; né il pieno federalismo già nella fase di transizione (con 21 Stati secondo il volere del suo nemico). Il Presidente in carica neppure accetta che nel tempo di transizione, dopo l'eventuale accordo di pace, le Forze armate restino divise in due, ossia una dei nuer e una per le altre etnie. Cautamente, i pre-negoziati di pace sono ripresi ad aprile con una mediazione esterna nel formato «Igad-Plus», coinvolgendovi, oltre all'Unione Africana, la Troika, l'Ue, la Cina e altri Stati africani (Sudafrica, Nigeria, Ruanda, Ciad e Algeria). Ma, per far cessare tutte le violenze, andranno coinvolti nei negoziati anche quei clan che si scontrano per meri interessi locali e fuori dagli schieramenti Kiir/Machar. Purtroppo, in L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 227 del 31 maggio 2015 pagina 15 quaderno 3957 2 maggio 2015 un Paese sottosviluppato, è difficile proporre ai contendenti la prospettiva di poter partecipare, a breve termine, ai dividendi economici della pace. Inoltre i problemi del Sud Sudan devono essere risolti in connessione con quelli che sono alla base delle guerriglie in Sudan, perché i due conflitti sono intrecciati per motivi politici, etnici ed economici. Il Sud Sudan non deve diventare un luogo di saccheggi per le potenze circostanti o per quelle internazionali, che potrebbero anche voler soltanto interdire ad altri la partecipazione ai benefici di un Sud Sudan in pace e incamminato verso uno sviluppo sostenibile. Altrimenti questo territorio potrebbe ridursi a un campo di guerre per procura a tempo indeterminato, sul modello siriano, somalo e forse libico e yemenita. Per l'Unione Africana, il Sud Sudan è un altro grande test per rafforzare la sua capacità di dare una risposta africana ai problemi africani. E per Cina e Stati Uniti, tramite la loro potenza economica e politica anche nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu, il Sud Sudan è il «laboratorio» per sperimentare con successo la concordia nel creare un nuovo ordine mondiale sostenibile, perché basato su accordi giusti di pace e di promozione dello sviluppo umano. Adesso, per i vescovi cattolici del Sud Sudan e per gli altri rappresentanti religiosi, la buona fede di tutte le parti nel cercare il bene comune è misurabile soltanto sull'effettivo e immediato «cessate il fuoco» nel Paese. Questo è direttamente a vantaggio delle popolazioni stremate e indifese, non la ripartizione di cariche politiche e rendite, a cui ormai è funzionalizzata la guerra e non la pace. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 227 del 31 maggio 2015