Che cosa vuol dire provare qualcosa? Per un

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Che cosa vuol dire provare qualcosa? Per un
Che cosa vuol dire provare qualcosa?
Per un lessico della vita affettiva fra fenomenologia e
neuroscienze
EMILIA BARILE
E. Bendemann (1811 Berlin–1889 Düsseldorf)
Die trauernden Juden im Exil – 1832
Studi Linguistici e Filologici Online
ISSN 1724-5230
Vol. 8.2 (2010), pp. 301-327
Emilia Barile, Che cosa vuol dire provare qualcosa?
Per un lessico della vita affettiva fra fenomenologia e neuroscienze
Studi Linguistici e Filologici Online 8.2 (2010)
Dipartimento di Linguistica – Università di Pisa
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Che cosa vuol dire sentire, provare qualcosa? Il sentire è uno dei
concetti
meno
distintamente
definiti,
nondimeno
psicologi,
neurobiologi, filosofi, ecc. ne fanno largo uso e nelle accezioni più
disparate, col risultato di utilizzare lo stesso termine per riferirsi a
fenomeni spesso estremamente diversi. Il contributo su questo
argomento che qui si propone costituisce a un tempo, come spesso
accade, una sorta di documento programmatico di un orizzonte di
ricerca ancora solo intravisto e l’esito di una parte di percorso già
svolto, considerato retrospettivamente. L’obiettivo generale è, dunque,
indagare il sentire a tutti i suoi livelli (dal sentire corporeo alla
percezione di valore e al suo ruolo nella costituzione degli ethos
personali) per tentare una tassonomia della vita affettiva, con la
consapevolezza che una classificazione muove sempre da una
definizione o, meglio, da una pluralità di significati. Il variegato
lessico del sentire, costitutivamente plurilingue e pluridisciplinare,
attesta l’utilizzo degli stessi termini per riferirsi a fenomeni
profondamente diversi. Il primo obiettivo che qui ci si propone, allora,
è di esplicitare il più possibile tali significati, attraverso una critica
sistematica soprattutto del linguaggio delle neuroscienze odierne,
basato su numerose variazioni della fallacia mereologica (Bennett –
Hacker 20073). Nel tentativo di ritradurre in termini neurobiologici
concetti provenienti da altre tradizioni (filosofiche e psicologiche),
infatti, soprattutto nel linguaggio neuroscientifico si utilizzano spesso
termini come pensiero o emozione con significati così aspecifici da
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renderli assimilabili a quelli che assumono, piuttosto, nel senso
comune. Il sentire non fa eccezione, anzi.
La trattazione del sentire, soprattutto (ma non solo) in ambito
psicologico, è per lo più legata a quella delle emozioni: tale termine
potrebbe quindi essere ascritto alla componente soggettiva del provare
un’emozione. I processi emozionali, infatti, sono costituiti da diverse
componenti: la cosiddetta dimensione pubblica dell’emozione, che si
può evincere dalla postura, la mimica, le espressioni facciali e il
comportamento, è la manifestazione più evidente delle emozioni, alla
quale si accompagna una dimensione privata e soggettiva, il sentire
[feeling]. Quanto più si è capaci di stabilire analogie tra quello che si
prova o si è provato personalmente in passato e ciò che prova un altro,
ad esempio, tanto più si riesce ad entrarvi in relazione empatica.
Sebbene approcci funzionalisti à la Frida (1987) sostengano la natura
meramente epifenomenica del ‘provare’, la dimensione ‘privata’ di
un’emozione difficilmente può essere eliminata dall’analisi (e
tantomeno dall’esperienza) in modo tanto sbrigativo, come l’autore
invece suggerisce.
Per questa riflessione iniziale sulla relazione tra sentire ed
emozioni ci si avvarrà dell’apporto iconografico di un dipinto di metà
Ottocento, Die trauernden Juden im Exil, di E. Bendemann della
scuola di Duesseldorf, che rappresenta l’episodio biblico della
cattività babilonese. Ciò che colpisce, soprattutto, è la capacità di
comunicare attraverso la postura e la mimica le emozioni dei
personaggi raffigurati. In particolare dall’osservazione dei volti si
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possono evincere alcune emozioni prevalenti quali tristezza, timore,
apprensione, rimpianto, smarrimento, ma anche sfiducia, amarezza. Il
personaggio rappresentato nella parte bassa del dipinto, invece, è
interessante soprattutto per la postura: oltre all’esasperazione delle
emozioni già evidenziate, si possono riconoscere anche disperazione o
abbandono. Il titolo originale, Die trauernden Juden, si riferisce
propriamente alla dimensione della afflizione, del lutto, dovuti al fatto
di dover abbandonare la propria terra senza sapere se si potrà farvi
ritorno: ben oltre, dunque, la generica tristezza. L’identificazione di
queste emozioni dipende non solo dalla percezione visiva del dipinto,
ma anche dalla capacità linguistica, dalla ricchezza lessicale del
singolo, grazie alla quale si è più o meno capaci di discriminare
emozioni diverse tra loro, seppur simili.
Tale riferimento iconografico vuol richiamare un preciso filone di
ricerca, cui fa capo D. Freedberg (2004), che ha proposto un approccio
innovativo allo studio dell’opera d’arte, rifacendosi, in particolare, alle
teorie di A. Damasio (1994, 1999) e alla scoperta dei neuroni-specchio
di Rizzolatti/Sinigaglia (2006). Secondo Freedberg, infatti, il
riconoscimento così unanime del valore artistico di alcune opere, per
esempio la Gioconda, è dovuto alla possibilità di suscitare alcune
emozioni, che si possono definire primarie, ovvero quelle cinque o sei
(rabbia, paura, disgusto, gioia, tristezza, sorpresa) che C. Darwin
(1872) ritenne comuni a culture se non a specie diverse. Delle
emozioni non esistono, infatti, né tassonomie né definizioni condivise:
allo stato attuale delle ricerche, è onesto riconoscere che non si
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dispone di una teoria definitiva. Di certo esiste solo una serie di
classificazioni, spesso confliggenti tra loro. Lungi dal proporre
l’ennesima classificazione delle emozioni, questo contributo cercherà
di occuparsi, piuttosto, del loro status quaestionis e degli aspetti
caratterizzanti, tra cui lo stesso sentire, oggetto di precipuo interesse.
Più che uno stato, l’emozione può essere considerata un processo,
che consta di diverse fasi. Affinché si scateni, prima di tutto deve
verificarsi uno stimolo oltre soglia (in modo da ricadere nel cono
d’attenzione),
cui
seguono
altre
fasi
(valutazione,
reazioni
fisiologiche, manifestazione pubblica tramite mimica, postura e
comportamento, dimensione privata: provare l’emozione stessa).
L’ordine in cui tali fasi si susseguono è una delle principali fonti di
dissenso tra le diverse teorie esistenti sulle emozioni, contrapposte a
riguardo, secondo l’enfasi attribuita all’una o all’altra componente.
Semplificando molto, potremmo raggruppare le diverse teorie
disponibili sulle emozioni in quelle che enfatizzano il ruolo delle
reazioni fisiologiche, facendo capo a una visione neuroscientifica
(Panksepp 1998; LeDoux 1996; Damasio 1994, 1999, 2003) e quelle
che si basano prevalentemente sul ruolo della valutazione cognitiva
(ritenuta primigenia e antecedente rispetto alle reazioni fisiologiche),
assecondano la visione logocentrica dominante.
Una delle componenti fondamentali del processo emozionale, la
valutazione, è in genere una dimensione ritenuta estremamente
cognitiva: nella concezione cognitivista, valutare è considerata una
operazione mentale di alto livello, che consente di decidere
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coscientemente e razionalmente fra valori di qualsiasi livello; infatti,
si possono distinguere teorie diverse sul processo emozionale anche a
seconda di come si intendono la valutazione e i valori corrispondenti.
A. Damasco (1994), ad esempio, propone una teoria che reinterpreta il
concetto di valutazione in termini neurobiologici, come il processo
automatico
alla
sopravvivenza.
base
delle
scelte
Conseguentemente,
effettuate
assegnare
in
termini
questo
tipo
di
di
significato alla valutazione implica considerare, ad esempio, le
emozioni secondo un’accezione che non fa riferimento soltanto alla
nostra specie ma anche ad altre, soprattutto agli animali superiori.
Altrettanto fondamentali per la costituzione dei processi
emozionali, le reazioni fisiologiche sono enfatizzate soprattutto dagli
approcci à la James, secondo cui non piangiamo perché abbiamo
paura ma «abbiamo paura perché piangiamo»1: secondo questa
interpretazione alternativa, a scatenare le emozioni sono le reazioni
fisiologiche automatiche, che solo in seconda battuta vengono
interpretate ed etichettate cognitivamente come paura o altre
emozioni.
L’approccio che si intende qui privilegiare, non senza riserve, è la
cosiddetta affective neuroscience, cui afferiscono autori come J.
Panksepp e, in particolare, J. LeDoux (che ha fondato a livello
neuroanatomico le teorie che l’allievo D. Goleman ha sapientemente
divulgato con una serie di libri di successo come Emotional
intelligence 1995 e altri) e lo stesso A. Damasio. Di contro a questo
1
«We feel sorry because we cry» (James 1889, 190).
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approccio, le teorie cognitiviste fanno capo soprattutto a N. Frijda
(1986), A. Ortony et alii (1988) e M. Nussbaum (2001), tra i contributi
più recenti. È opportuno tuttavia precisare che, riguardo al rapporto tra
cognizione ed emozione, questa contrapposizione così netta tra
cognitivisti e neuroscienziati non ha più ragione di esistere: lo attesta,
ad esempio, da più di 20 anni, l’esistenza di una rivista come
Cognition and Emotion, fondata con lo scopo precipuo di far
interagire queste due dimensioni che, quantomeno da Platone in poi,
sono sempre state considerate opposte e contrastanti2. Il rapporto
emozione/cognizione
è
molto
più
sfumato
di
quanto
semplicisticamente si ritenga, e anche i cognitivisti più ortodossi
oggigiorno riconoscono che le emozioni non possono più essere
ignorate, ma devono essere incluse a buon diritto tra gli stati di cui
occuparsi, anche in relazione a quelli più “cognitivi”. Gli ostacoli a
questa visione “integrata” si incontrano prevalentemente nel
linguaggio, nel senso che la “nuova scienza della mente”, per dirla con
H. Gardner (1985), si è costituita come scienza cognitiva perché dal
punto di vista storico ha avuto questa caratterizzazione, ma sarebbe
più opportuno acquisire la consuetudine di parlare, al plurale, di
scienze cognitive, di cui la psicologia cognitiva costituisce solo uno
dei vertici dell’“esagono” che rappresenta graficamente questo
plurimo campo di ricerca (cfr. Marconi 2003, 12-18).
2
Tuttavia, ci si permette di far notare che anche nel mito della biga alata, spesso
citato a sostegno di questa tesi, la biga è pur sempre trainata (e quindi
intrinsecamente anche costituita) dai cavalli.
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Alcune considerazioni preliminari sugli approcci neuroscientifici,
soprattutto quello di LeDoux, che si è occupato del rapporto
emozione/cognizione
cercando
di
rivendicare
la
diversità
dell’emozione dalla cognizione e la precedenza della prima rispetto
alla seconda. A sostegno di questa posizione, LeDoux ha addotto
motivazioni non solo teoriche o di principio, ma basate su precisi
riscontri di tipo neuro anatomico. In particolare, ha giustificato la
considerazione che l’emozione sia primigenia e costitutiva rispetto
alla cognizione con la costatazione che il legame che unisce
l’amigdala (la struttura neuroanatomica più intrinsecamente legata alle
emozioni) alla corteccia cerebrale è in realtà più breve del circuito
neurale che invece permette l’inibizione delle emozioni dal livello
corticale a quello dell’amigdala (LeDoux 1996).
Nonostante la solidità dell’impianto teorico, la critica principale
che gli si può muovere consiste nell’aver costruito un modello delle
emozioni sulla base dell’analisi di una sola di esse, in particolare
un’emozione primaria come la paura. Considerando le emozioni in
generale, in realtà egli analizza questa in particolare: nel caso della
paura, infatti, è evidente quanto la velocità di risposta e di
processamento dell’emozione appropriata a una situazione di pericolo
assicuri la sopravvivenza delle specie e che, quindi, l’emozione sia
primigenia e precedente rispetto alla cognizione. LeDoux, però, ha
esteso questo meccanismo non soltanto alla paura, ma a tutte le
emozioni. Questo, a dire il vero, è il limite di molti approcci al
processo emozionale: prendere in considerazione una emozione, che
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spesso per i neuroscienziati figura tra quelle molto elementari, ovvero
le cosiddette “Big Six” (Ekman 2003) e considerarla come caso
paradigmatico per tutte le altre. In realtà, bisognerebbe analizzare e
trattare ogni singola emozione in maniera diversa, anche perché, pure
a livello neurale, i circuiti che sottostanno ad ogni emozione sono
diversi e specifici (cfr. lo stesso LeDoux 1996 o Gazzaniga et alii
2002). Anche solo dal punto di vista neurobiologico non sembra
legittimo né opportuno considerare questo fenomeno in generale.
Un ulteriore rilievo che si può fare a LeDoux, ma anche ad altri
neuroscienziati, è che a volte si lanciano in rassegne, che per
completezza vogliono essere anche di tipo storico, per la propria o per
altre discipline come la filosofia e la psicologia, ma che si rivelano
tuttavia spesso molto parziali. Si evince, ad esempio, che la
conoscenza filosofica alla base di questi testi probabilmente non va
molto al di là della Storia della filosofia occidentale di B. Russell. Tali
rassegne, inoltre, sono compilate secondo una mentalità antistorica, in
cui la storia della filosofia e della psicologia sono presentate come un
cumulo di ‘errori’ commessi nel corso del tempo fino a quando, ai
giorni nostri, finalmente sarebbero arrivati i neuroscienziati a spiegare
‘come stanno le cose’. Questa visione, da un lato ingenua, dall’altro
ingenerosa nei confronti di altre discipline e in primis della filosofia,
culla del problema della mente, rivela tutta la sua parzialità soprattutto
nelle sezioni ‘storiche’ o pseudo tali. Quando alcuni neuroscienziati si
cimentano in riletture neurobiologiche di testi filosofici di molto
antecedenti (Damasio in primis ha subito il fascino di autori come
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Cartesio e Spinoza) lo fanno, il più delle volte, in modo
approssimativo e superficiale.
Le emozioni, dunque, sono un problema, non un fatto da cui
partire, soprattutto se vi si vuole basare una indagine sul sentire. Non
esistono classificazioni unificate e condivise: ogni tassonomia
presuppone a sua volta una definizione, in un circolo evidente, per cui
se si definisce l’emozione in un modo ne consegue un certo tipo di
classificazione e viceversa. Il dibattito sul rapporto tra cognizione ed
emozione, inoltre, rischia di essere ormai frusto. Più rilevante, ai fini
euristici, sembra invece l’individuazione delle dimensioni critiche del
fenomeno emozionale, tra cui: cos’è il ‘pensiero’ in generale, al di là
di una visione logocentrica della mente secondo la quale per pensiero
si è sempre inteso e si continua ad intendere soltanto il logos; che cosa
vuol dire valutare, operazione considerata quasi esclusivamente di
alto livello, cognitivo; inoltre, e soprattutto nell’analisi qui di seguito
proposta, che cosa vuol dire sentire, ‘provare’ qualcosa. In particolare,
una maggiore focalizzazione su questo aspetto consentirebbe di
emancipare la discussione sul sentire dal solo fenomeno emozionale e
di evitarne, almeno in parte, le insuperate impasse teoriche
evidenziate. Quella del provare, infatti, è una dimensione che non
intrattiene un rapporto esclusivo con l’emozione ma attiene ad una
serie di stati, tra cui bisogni, motivazioni, ecc., di cui l’emozione è
solo uno dei casi possibili e, probabilmente, neanche il più rilevante.
La consuetudine di associare il sentire all’emozione nasce
probabilmente da un fraintendimento proprio della lingua inglese, in
310
cui spesso si utilizzano i termini feeling ed emotion come sinonimi.
Soprattutto nelle lingue romanze, invece, è possibile discriminarli in
modo più raffinato: in lingua italiana, ad esempio, si distingue
l’emozione dal sentire e dal sentimento. In questa sede, si propone
d’intendere il sentire come distinto non solo dall’emozione, ma anche
dal sentimento: questo è definibile, piuttosto, come uno stato mentale
vero e proprio, sempre consapevole, temporalmente successivo
all’emozione, anzi, ad una collezione di emozioni. Un sentimento
elaborato come l’amicizia, ad esempio, non è semplicemente la
percezione cosciente di un’emozione: è identificabile, piuttosto, con
uno stato a lungo termine che coinvolge l’individuo in una serie di
emozioni. A differenza anche del sentimento, dunque, il sentire
potrebbe allora essere ascritto alla componente soggettiva insita nel
provare un qualunque stato psicologico. In questa sede, si propone di
utilizzare il termine sentire [feeling] per riferirsi all’intera ‘collezione
di stati’ che possono essere ‘sentiti’ (come le emozioni, ma anche
bisogni, desideri, motivazioni ecc.).
Così inteso, si può considerare il sentire solo uno stato di alto
livello? In genere, infatti, siamo portati a considerarlo un’operazione
che la nostra mente può compiere soltanto quando tutte le funzioni
cognitive, soprattutto quelle superiori (collegate prevalentemente alla
neocorteccia), funzionano, permettendoci di provare stati che, invece,
a una analisi meno superficiale, sembrano rivelare una radice corporea
molto più basilare ma anche meno evidente. Una delle questioni
fondamentali da porsi, infatti, è se per ‘sentire’ sia intrinsecamente
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necessaria una base neocorticale o se il ‘sentire’ non sia, piuttosto, una
dimensione più radicata a livello corporeo di quanto si è soliti ritenere.
Che cosa hanno in comune gli stati che possono essere provati?
Ve ne sono alcuni che possono esserlo e altri no? Partendo da
un’analisi del linguaggio comune, C. Castelfranchi, ad esempio, ha
evidenziato che in genere riferiamo di sentire solo alcuni stati
psicologici e non altri. Di solito, infatti, affermiamo: «I feel the need
for…», «I feel the desire of…», «I feel the motivation to…», ma non
«I feel the intention of…» or «I feel the belief of…» (cfr.
Castelfranchi 1998, 56-57). Lo stesso suggerisce che se si sostituisse
al termine sentire, così compromesso col legame con le emozioni,
quello più generale di affetti si potrebbero meglio identificare le
componenti comuni a stati che possono essere provati, rispetto a
quegli stati cui non attribuiamo questa caratteristica, e cioè: delle
componenti senso-motorie di base, dei feedback corporei, a diversi
livelli, e una valenza edonica (positiva/negativa, in termini di piacere/
dispiacere). Di fatto, però, anche degli affetti non esistono una
definizione, una teoria e una tassonomia generale.
La radice corporea comune agli stati che possono essere provati è
spesso ignorata, o, quantomeno, sottovalutata, nelle analisi di stampo
cognitivista dominanti. In ambito neuroscientifico, invece, tale
prospettiva è decisamente centrale. Sin da Descartes’ Error (1994) A.
Damasio, ad esempio, ha proposto, una formulazione del ‘sentire’ in
cui emerge in modo evidente questa radice corporea. Il neurobiologo
propone, infatti, una visione organismica con cui tenta di superare il
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nuovo dualismo (proprio dello stesso approccio neuroscientifico) tra
cervello e corpo. Al fine di semplificare, infatti, le neuroscienze hanno
preso in considerazione prevalentemente la relazione mente/cervello,
che ha surclassato il ruolo del corpo nella costituzione degli stati
mentali. Allo stato attuale delle ricerche, invece, non si può più
considerare il corpo semplicemente il “contenitore” del cervello: il suo
ruolo sembra altrettanto fondamentale per andare a costituire ciò che
si definisce, in modo ancora nebuloso, mente.
Riguardo alla classificazione del sentire, più in particolare,
Damasio ha proposto un concetto non ortodosso, quello dei
background feelings, una sorta di concetto specchio rispetto alle
background emotions, introdotte dallo stesso nella già problematica
tassonomia delle emozioni, di cui il neurobiologo fornisce l’ennesima
versione.
I am postulating another variety of feeling which I suspect preceded the
others in evolution. I call it background feeling because it originates in
“background” body states rather than in emotional states (1994, 150).
Nel solco della tradizione neuroscientifica, Damasio considera
emozioni e feeling non solo degli stati mentali, ma soprattutto
corporei: contrariamente ad altri approcci dello stesso tipo (Panksepp
1998, LeDoux 1996), tuttavia, la valutazione riveste un ruolo
fondamentale; ‘valutazione’ che, però, non è intesa in senso
esclusivamente cognitivo, ma anche come appraisal, scelta operata in
base a piacere/dolore, espressi in termini di sopravvivenza.
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Considerata la pletora di classificazioni esistenti, si azzarda qui
l’ipotesi che la motivazione che ha probabilmente spinto Damasio ad
introdurre un ulteriore livello tassonomico sia delle emozioni sia del
sentire risieda proprio nel tentativo di farne emergere chiaramente la
radice corporea, meno evidente in altre classificazioni. Data la
struttura a specchio di questi concetti, si dovrà quindi soffermarsi
brevemente sulla natura delle background emotions per poter meglio
comprendere anche quella dei background feelings.
Oltre alla problematica suddivisione delle emozioni in secondarie
o sociali (invidia, gelosia, disprezzo, ecc.) e primarie (rabbia, disgusto,
sorpresa, gioia, tristezza, paura), Damasio introduce l’ulteriore livello
delle emozioni di fondo, emozioni o, meglio, “protoemozioni” che
precedono tutte le altre a livello filogenetico ed ontogenetico, e che
non richiedono necessariamente il linguaggio per essere espresse o
identificate (1999, 52). Emozioni di fondo sono stati come malessere,
benessere, tensione, irritabilità, ossia «collezioni complesse di stati
corporei basati sugli stati fondamentali di piacere e dolore»3,
aspecifiche e precedenti rispetto alle emozioni propriamente dette (a
partire da quelle primarie). Non si tratta, quindi, di emozioni4:
Damasio le definisce tali, ma vi si differenziano, in quanto emergono
da uno stato corporeo complessivo online, nel senso che restituiscono
la condizione in cui versa il proprio corpo, considerato non in una sua
parte specifica, ma come un tutto. Quando si è “rilassati” o “tesi”, ad
3
«Complex collections of bodily changes, basic homeostatic processes, pain and
pleasure behaviours, regulatory responses of the organism» (Damasio 1999, 52).
4
S. Harnad (2001), infatti, ha proposto di chiamarle motions invece di emotions.
314
esempio, non è una parte del proprio corpo che è rilassata o tesa, ma
questi stati “emergono” dal complesso dei feedback corporei ricevuti.
Le emozioni di fondo non appartengono all’armamentario
concettuale comune: si tenterà pertanto di individuarle grazie a una
tecnica
a
contrasto,
paragonandole
(e
allo
stesso
tempo
discriminandole) a stati solo apparentemente simili. Rispetto alle
emozioni propriamente dette, a partire da quelle primarie, ad esempio,
le emozioni di fondo sono precedenti (nella linea evolutiva, nel tempo
e per complessità), più fondamentali e semplici allo stesso tempo, più
legate alla dimensione corporea di quanto invece non lo siano gli altri
livelli tassonomici delle emozioni, che si costituiscono in maniera
sempre più complessa e condizionata dalla cultura e dal contesto.
Le emozioni di fondo sono stati regolatori dell’organismo,
compresi tra quelli che, a partire dalla regolazione metabolica fino alle
emozioni secondarie o sociali, si occupano di tenere in equilibrio
l’organismo. Si distinguono dalle emozioni (per esempio quelle
primarie, che sono le più simili e hanno sempre un oggetto specifico),
per la loro aspecificità. Quando si è ‘tesi’, ad esempio, non
necessariamente è possibile risalire ad un oggetto specifico che sta
producendo tale tensione, che si verifica primariamente a livello
corporeo: è la relazione con il mondo in generale a provocare uno
stato tensivo. L’origine può essere esterna, come in questo caso, o
interna, quando proviene da reazioni viscerali.
Il concetto di emozioni di fondo è diverso anche dall’umore
[mood], che è uno stato anch’esso aspecifico, ma a lungo termine.
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Quando si afferma: «oggi sto bene» o «sono di buon umore», in
genere questo buon umore si prolunga per un certo periodo di tempo.
L’emozione di fondo, invece, è uno stato temporaneo in cui si può
incorrere, per esempio, anche quando si è di buon umore ma, in un
determinato momento, si diventa tuttavia ‘tesi’. Se non si è affetti da
disturbi dell’umore, il verificarsi di questo avvenimento non modifica
istantaneamente uno stato d’animo fondamentalmente positivo; in
genere, l’umore non cambia radicalmente ogniqualvolta si avverte una
fonte di tensione o di nervosismo. Se tali circostanze si moltiplicano,
però,
l’umore
generale
può
modificarsi
drasticamente.
Pur
condividendo la caratteristica dell’aspecificità, dunque, lo stato
d’animo è a lungo termine, mentre l’emozione di fondo è uno stato a
breve termine: è una sorta di “istantanea” dello stato corporeo
complessivo.
Sul concetto di emozioni di fondo Damasio costruisce, a
specchio, quello di background feelings, come si evince dalle seguenti
definizioni:
When we sense that a person is “tense” or “edgy”, “discouraged” or
“enthusiastic”, “down” or “cheerful”, without a single word having
been spoken to translate any of those possible states, we are detecting
background emotions (1999, 52).
Prominent background feelings include: fatigue; energy; excitement;
wellness; sickness; tension; relaxation; surging; dragging; stability;
balance;
imbalance;
harmony;
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discord.
The
relation
between
background feelings and moods is intimate: drives express themselves
directly in background emotions and we eventually become aware of
their existence by means of background feelings (1999, 286)5.
D’ora in avanti, ove opportuno, si preferirà dunque, per le
motivazioni addotte in precedenza, tradurre background feelings con
l’espressione sentire di fondo piuttosto che con quella sentimenti di
fondo della traduzione italiana Adelphi6. Le emozioni di fondo
diventano sentire di fondo quando se ne diventa consapevoli; quando
si portano in primo piano dallo sfondo, da questo background, le
emozioni di fondo vengono percepite e diventano sentimenti di fondo
(questo, d’altronde, rende bene anche il senso della etimologia della
parola emozione, da ex– movere = ‘muovere da’ uno stato preesistente,
sempre sullo sfondo). Soprattutto in The Feeling of What Happens
(1999), Damasio si premura di distinguere fra emozione e feeling
(inteso alternativamente come ‘sentire’ e ‘sentimento’) e propone una
propria classificazione non ortodossa anche del sentire, introducendo
l’ulteriore livello tassonomico dei background feelings. Nel più
recente Looking for Spinoza (2003), Damasio cerca di definire il
‘sentire’ [feeling] ripartendo dal concetto di spinoziano di affectus7. Il
5
Il corsivo è Nostro [NdA].
A.R. Damasio [1994], L’errore di Cartesio. Emozioni, ragione e cervello umano,
trad. it., Adelphi, Milano 1995.
7
La soluzione spinoziana, storicamente una delle soluzioni al problema
dell’interazione mente/corpo insito nel dualismo cartesiano, attraverso la teoria del
parallelismo psico-fisico, muove da una analisi degli affetti molto pregnante, che ha
suscitato l’interesse del neurobiologo al pari del pensiero di Descartes. In realtà,
anche rispetto a Spinoza Damasio commette degli “errori”, poiché ritiene che
l’interesse del filosofo fosse prevalentemente orientato nei confronti del corpo.
6
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neurobiologo definisce sentimenti di fondo quelli che non si originano
dalle emozioni: rispetto ai sentimenti cui usualmente ci si riferisce nel
lessico comune, essi non derivano dalle emozioni propriamente dette
(a partire da quelle primarie), ma le precedono, in quanto percezioni
consapevoli di collezioni di stati corporei definiti, appunto, emozioni
di fondo. Il termine sentimento, quindi, risulta estremamente
inappropriato per coprire l’intero spettro del sentire e differisce,
soprattutto, dal sentimento (o sentire) di fondo.
Che cosa vuol dire, invece, background, cioè ‘di fondo’? Non
inconscio, aggettivo molto più connotato dal punto di vista teorico: gli
stati inconsci sono stati rimossi, che quindi non possono essere portati
a livello di coscienza in maniera volontaria e al bisogno.
L’equivalente semantico della qualificazione di fondo potrebbe essere,
piuttosto, ‘non consapevole’, intendendo ciò che non cade nel fuoco
dell’attenzione: in qualunque momento, infatti, si può portare
l’attenzione su questi stati e farli quindi tornare nel suo fuoco, farli
diventare consapevoli nel momento in cui ci si rende conto di quello
che sta accadendo a livello corporeo. Alla maniera dei disegni di
Escher, si può portare sullo sfondo o in primo piano questo tipo di
percezioni corporee una volta che esse cadono nel fuoco
dell’attenzione. Allo stato di emozioni di fondo, queste collezioni
complesse di stati corporei sono ancora fuori dal cono di attenzione,
Utilizzando il linguaggio della filosofia della mente, si è invece più propensi, come
suggerisce S. Nannini (2002), a considerare la teoria di Spinoza un monismo
neutrale, che non attribuisce un predominio né al pensiero né alla materia. Il primato
che Spinoza assegnerebbe al corpo andrebbe quindi ridimensionato perché è
probabilmente una forzatura teoretica di Damasio.
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inconsapevoli, aspecifiche, in grado di restituire il senso delle cose (il
mondo o il corpo) come un tutto; non riguardano una parte specifica
del mondo, un oggetto, e neanche una parte specifica del corpo, ma il
senso di ‘noi’ come un ‘tutto’.
Anche i background feelings potrebbero essere confusi con gli
stati d’animo, l’umore generale: tuttavia, quelli rivelano “online” la
situazione interna temporanea dell’organismo, mentre gli stati
d’animo sono stati a lungo termine. Per questo aspetto, si permetta di
rinviare al Nostro articolo in revisione:
We can get up in the morning, for instance, feeling in “a very good
mood” the whole day, but this doesn’t mean that we could not also have
rather bad background feelings such as a bit of “tension” or “malaise”
for short periods of time during the same day. If we are not affected by
mood disorders, we usually don’t change a “good mood” immediately
due to minor disturbances such as a short tension or malaise, provided
that the duration of these background feelings is short enough and they
don’t occur too often (Barile/Stephan, Are background feelings
intentional?, forthcoming).
Concludendo: dall’analisi di Damasio qui proposta, emerge
chiaramente
una
radice
corporea
del
sentire
generalmente
sottovalutata dalle analisi standard di questo fenomeno. Che cos’è,
allora, il sentire? Per una definizione possibile, occorrerebbe
preliminarmente emancipare l’analisi di questo fenomeno dal dominio
esclusivo delle emozioni, che sono solo uno degli stati che possono
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essere “sentiti” e, probabilmente, neanche il più rilevante. Questo,
anche al fine di evitare le forse insuperabili impasse teoriche in cui il
dibattito sulla definizione e la classificazione delle emozioni sembra
ormai essersi arenato. Il sentire non riguarda solo le emozioni, ma
anche i bisogni, le motivazioni, i desideri, ecc., che hanno la
caratteristica comune di comprendere una componente valutativa (a
diversi livelli di complessità) e feedback provenienti dalla percezione
dello
stato
corporeo
complessivo
attraverso
la
cosiddetta
enterocezione, che può avvenire a due livelli. Il primo è quello della
propriocezione, la percezione del corpo come struttura muscoloscheletrica; il secondo livello è quello dell’interocezione, il senso del
corpo proveniente dai visceri e dal milieu interno, dall’equilibrio
omeostatico (Damasio 2003 e Gallagher 2005).
Il sentire, infatti, rivela una profonda ed ineludibile radice
corporea, che non risiede soltanto nel cervello: la retroazione del
corpo, a livello propriocettivo ed interocettivo, coinvolge tutto il corpo
(di cui il cervello, naturalmente, fa parte). È necessario, dunque,
superare il dualismo corpo/cervello in cui anche le neuroscienze sono
ricadute. Damasio riconosce un primato del somatico rispetto al
mentale o, meglio, ribadisce che ciò che definiamo mentale, in realtà
non deriverebbe da altro che da livelli sempre più complessi di
organizzazione di una struttura biologica e corporea, in prima istanza.
Nonostante i meriti ascrivibili a questa analisi, bisogna tuttavia
rilevare che i concetti di background feelings/emotions non sono del
tutto originali: come fa notare lo stesso Damasio in Looking for
320
Spinoza (2003), riportando le osservazioni e i commenti dei suoi
lettori e critici, questi concetti sono simili ai vitality affects [‘affetti
vitali’] che si possono ritrovare in D. Stern (1985), nell’ambito della
psicologia dello sviluppo e, ancor prima, nella filosofia di S. Langer
(1942). Inoltre, come emerso dai colloqui con R. De Monticelli, già
occupatasi della classificazione della vita affettiva in L’ordine del
cuore. Etica e teoria del sentire (2003), vi sarebbe anche un
insospettabile precedente nella tradizione fenomenologica, nei
Lebensgefuehle [‘sensi vitali’], in particolare in Max Scheler (1913,
1916; ed. 1980, pp. 340-351), ora finalmente disponibile anche nella
traduzione italiana a cura di R. Guccinelli (forthcoming), di cui si
riporta il passo corrispondente in traduzione, per gentile concessione
della traduttrice:
Penso, tuttavia, che il tratto fenomenico della «profondità» del sentimento
sia essenzialmente connesso a quattro gradi del sentimento ben definiti che
corrispondono alla struttura dell’esistenza umana nel suo complesso.
Nell’ordine:
1. Affezioni sensoriali (sinnliche Gefühle) o «sentimenti di sensazione»
(Carl Stumpf)*; 2. sensi del proprio corpo (Leibgefühle), in quanto stati, e
sensi vitali (Lebensgefühle), in quanto funzioni; 3. puri sentimenti
dell’anima (seelische Gefühle) o puri sentimenti dell’io; 4. sentimenti
spirituali
(geistige
Gefühle)
o
(Persönlichkeitsgefühle).
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sentimenti
della
personalità
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Al di là delle rivendicazioni di paternità terminologica e
concettuale, l’importanza di un approccio come quello di Damasio
risiede, piuttosto, nella rivendicazione della radice corporea del
sentire, che è, poi, anche uno dei modi di “dire” la coscienza, una
dimensione plurima che, a livelli diversi, sembra anch’essa
profondamente radicata a livello corporeo prima che corticale. La
rappresentazione costante del corpo (che avviene tramite la
propriocezione e l’interocezione) costituisce, infatti, il senso del
proprio “sé biologico” [proto–self; core self] (Damasio 2003), il
nucleo da cui si sviluppano gli stati superiori di coscienza tra cui, solo
a mo’ di un possibile elenco, lo stato di veglia, lo «stato minimo di
coscienza» (Giacino 2002), la consapevolezza del mondo, la
consapevolezza di sé, l’autocoscienza8.
L’impostazione logocentrica del mentale ancora largamente
dominante ignora pregiudizialmente il sentire nella definizione dei
diversi livelli di coscienza, per la quale sembra essere invece
indispensabile un livello, anche minimo, di retroazione corporea.
Occorre soprattutto chiarire la relazione tra sentire [feeling] e sapere
[knowing] (Castelfranchi 1998), ad esempio, generalmente considerati
aspetti inscindibili dei contenuti di coscienza, ma non necessariamente
della coscienza tout court. Anche in una serie di esperimenti sulla
conduttanza cutanea condotti dallo stesso Damasio emerge una
8
Per una trattazione dettagliata di questa classificazione, che emerge dalla analisi di
casi di pazienti in PVS (Permanent Vegetative State) si permetta di rinviare al
Nostro Dell’incertezza: cosa provano i pazienti in PVS? «Medicina e Morale», 1
(2006), pp. 41-65.
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differenza fra sapere e sentire, solitamente considerati congiunti: su
pazienti con lesioni a livello corticale sono stati infatti condotti
esperimenti in cui venivano proiettate delle immagini dal forte
contenuto emotivo e veniva chiesto loro che cosa provassero. I
pazienti riferivano per esempio che, rispetto ad immagini che
potevano suscitare dolore, essi sapevano, a livello cognitivo, che in
quella situazione avrebbero dovuto provare dolore, tuttavia riferivano
di non sentire nulla (Damasio 1999). «Sapevano», ma non
«provavano»:
manifestavano
un’evidente
dissociazione
tra
la
conoscenza di dover provare qualche cosa in quella determinata
situazione e il provare in prima persona, a livello prima di tutto
corporeo. Queste considerazioni suggeriscono la necessità di ridefinire
anche ciò che si intende sia per coscienza sia per pensiero.
A tutt’oggi, non esiste nessuna definizione o teoria generale
condivisa su che cosa significhi provare qualcosa e ancora più oscuro
è il ruolo che il sentire riveste nei processi di pensiero e in quella
nebulosa di significati cui ci riferiamo col termine coscienza, a tutti i
suoi livelli. Da qui l’urgenza di tentare una tassonomia, esplicitando
prima di tutto i diversi significati possibili che il concetto di sentire
riveste nelle diverse discipline da cui viene tuttavia utilizzato in modo
plurimo, pur sotto le stesse vesti terminologiche. Se si vuol evitare il
perpetuarsi di un “dialogo tra sordi” in cui si ha l’impressione di
capirsi per il solo fatto di utilizzare le stesse parole, tale analisi deve
ripartire da una esplicitazione dei diversi significati possibili, in vista
della compilazione di un lessico di riferimento, pluridisciplinare e
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plurilingue, certamente tutto da costruire, ma a partire almeno da
questo contributo iniziale.
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