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EDITORIALE
PROFESSIONE
STORIA E CULTURA
TESI DI LAUREA
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Paolo Scandaletti
Quali professionisti e quale università per la comunicazione?
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Andrea Melodia
Giornalisti nel fiume di Internet
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Giorgio Tonelli
Credibilità del giornalismo e crisi della società
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Giancarlo Zizola
Psicopatologie “adulte” nel web e ricadute sui minori
23
Marino Cavalli
Progressive derive dell’ipercomunicazione pubblica
26
Paolo Scandaletti
I giornali di trincea dopo Caporetto
33
Camilla Rumi
Lobbies: regolamentazione possibile?
36
Piero Onofri
Lobby: un’attività di pressione moderna ed efficace
44
Sergio Borsi
Notizie dal mondo dell’informazione
48
Antonio Benforte
Enzo Baldoni. La morte di un giornalista atipico
49
Irene Iermano
Il caso Moro in tre quotidiani
51
Paolo Massa
Pasolini: storia «scandalosa» di un giornalista-scrittore
CONVEGNI
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E CONGRESSI
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MILANO Pubblicità online, crescita super
Rosa Maria Serrao
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LIBRI
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ROMA Più libri, più liberi. Fiera della piccola e media editoria
PROGETTO AMICO LIBRO 1000 euro alle scuole
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Camilla Rumi
ROMA Genitori e media, una sfida da vincere
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C.R.
ROMA UCSI Giornalisti con la schiena dritta
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Piero Onofri
STATISTICHE EUROPEE Uso del computer e di Internet
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P.S.
Giovanni Masciola, Il giornalista galantuomo
60
Mauro Banchini
Riccardo Bigi, Giorgio La Pira. I miei pensieri
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Paolo Scandaletti
Corrado Augias, Leggere - EZIO RAIMONDI, Un’etica del lettore
62
Angelo Sferrazza
Roberto Di Giovan Paolo con Maria Rita Moro, Comuni-
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Francesco Malgeri
care rende liberi
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Antonio e Furio Scrimali, Graffiti e iscrizioni della Grande Guerra
n. 2/2007
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C U LT U R A E R I C E R C A D E L L A C O M U N I C A Z I O N E
REDAZIONE:
ROMA, VIA IN LUCINA 16/A
Rosa Maria Serrao
06/68.80.28.74 fax 06/45.44.96.21
cell. 349/09.211.07
e-mail: [email protected]
NAPOLI: Arturo Lando,
Andrea Pitasi cell. 339/22.65.709
e mail: [email protected]
Proprietà ed Editore: Ucsi
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QUALI PROFESSIONISTI E QUALE UNIVERSITÀ
PER LA COMUNICAZIONE?
Anno XIV n. 4
COMITATO SCIENTIFICO
Francesco M. De Sanctis (Presidente)
Giuseppe Acocella
Ermanno Bocchini
Pasquale Borgomeo
Isabella Bossi Fedrigotti
Enzo Cheli
Massimo Corsale
Piero Craveri
Lucio D’Alessandro
Derrick De Kerckhove
Ornella De Sanctis
Gianpiero Gamaleri
Paolo Mazzoletti
Massimo Milone
Mario Morcellini
Agata Piromallo Gambardella
Emilio Rossi
Paolo Scandaletti
Franco Siddi
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LA RICERCA LUISS:
Rivista trimestrale
Università Sr. Orsola Benincasa e Ucsi
DIRETTORI
Paolo Scandaletti (responsabile)
Lucio D’Alessandro
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PAOLO SCANDALETTI
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Paolo Scandaletti, giornalista,
insegna etica della comunicazione
all’Università Luiss di Roma e
Storia del giornalismo al Sr
Orsola Benincasa di Napoli.
Dirige questa rivista insieme a
Lucio d’Alessandro
www.ucsi.it
GIUNTA ESECUTIVA
Massimo Milone (Presidente) Angelo
Sferrazza (Vicepresidente), Giorgio Tonelli
(Segretario), Francesco Birocchi (Tesoriere),
P. Pasquale Borgomeo (consulente
ecclesiastico), Maurizio Del Maschio, Paolo
Lambruschi, Andrea Melodia, Antonello
Riccelli, Giuseppe Vecchio
Finito di stampare: dicembre 2007
da CSR - Roma, Via di Pietralata 157
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on esisteva una foto-analisi sullo stato delle professioni dei comunicatori italiani, la corrispondente offerta formativa delle università, l’assetto delle loro
associazioni, la domanda del mercato. Tra evidenti reticenze, qualcosa era
emerso, ma poco volentieri se ne discuteva in pubblico. Eppure, nell’incompiuto assetto del nostro sistema dei media, anche queste carenze apparivano in tutta la loro rilevanza, come linee d’ombra su una vita sociale così
pervasa da trasmissioni e pagine, scelte e comportamenti sempre più aspramente giudicati dai cittadini-lettori-utenti.
Di qui è nato il progetto di ricerca Le professioni della comunicazione in
Italia e in Europa, nell’ambito della facoltà di scienze politiche-dipartimento
di scienze storiche e sociopolitiche, Università Luiss Guido Carli di Roma;
con il sostegno della Fondazione Antonveneta. E’ partito da una analitica e
diffusa ricognizione dei livelli di formazione negli atenei e nelle aziende, l’accesso alla professione, l’esercizio e il controllo sociale; per allargarsi alla
comparazione con sei significativi paesi europei. I risultati sono stati raccolti
e pubblicati nei quaderni di DESK n. 13 e 14; verranno discussi nel convegno internazionale a Roma del 26 febbraio 2008. Se e come vorrà rispondere il sistema universitario, con scelte e positivi adeguamenti, lo vedremo
nell’uncontro che il prossimo anno vi sarà dedicato.
Il principale riferimento valoriale della ricerca, il sistema dei media per il sistema Paese, emerge ancor più in questa seconda parte, dedicata a Università
e professioni dei comunicatori in Europa: criticità, ritardi e problemi irrisolti.
Al di là di ogni pretesa autoreferenziale, informazione e comunicazione troveranno infatti tanta legittimazione e credibilità, sviluppo e innovazione,
quanto saranno capaci di aiutare l’intera società a ben intendersi e rappresentarsi. Non riconoscendosi in un insieme di corporazioni in conflitto e i più
fuori della porta: ma in quella società aperta, fondata su valori condivisi,
che a Popper, dopo tanti disastri, hanno finalmente dovuto dare conferma.
È curioso come in ambiti sociali così privilegiati e bisognosi di apporti culturali saggi e lungimiranti quali appunto l’università e le professioni, in Italia
prevalga spesso invece la miopia e l’arroganza del potere. Caste chiuse, come e talvolta peggio di quella dei politici, di recente salita con clamore agli
onori di cronache impietose. Preceduta, l’anno avanti, da quella economin. 2/2007
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co-finanziaria impegnata nella scalata alle banche, coperta da chi avrebbe
dovuto controllare.
La ricerca su Le professioni della comunicazione in Italia e in Europa intendeva precisamente mettere il dito su questa piaga sociale, per il comparto
che più rientra nelle nostre competenze di studio e vissuto professionale. Abbiamo provato a rappresentare le cose come sono, evidenziandone sistematicamente i punti critici, le arretratezze e i problemi ancora insoluti; per ritrovare anche qui le motivazioni e le vie di una schietta consapevolezza, nella
volontà di far tornare a crescere questo affannato Paese.
Non è proprio questo, del resto, il nostro primo dovere di genitori, di educatori e formatori? Che altro ci potrebbero chiedere i giovani? Che cosa si
aspettano i nostri studenti, se non un valido aiuto per capire il mondo nel
quale si apprestano ad entrare con competenze specifiche? E - perché no?
- anche quella manciata di valori pubblici sui quali radicare le loro attese e
la speranza di una vita normale?
Nella buona sostanza, dalla panoramica della ricerca emergono alcune criticità rilevanti e comuni ai diversi ambiti professionali. Mentre per i giornalisti
l’identificazione delle proprie culture e competenze è andata crescendo e
specificandosi fino alla soglia della comune percezione, non così avviene
per i comunicatori; anche per uno sviluppo storicamente più ravvicinato.
Occorrono dunque profili professionali e competenze meglio definite e agevolmente rilevabili dai potenziali clienti e dalla gente comune, per quanti fanno relazioni esterne, pubblicità, comunicazione pubblica e politica, lobby.
E alla migliore definizione delle professioni è da accompagnare quella delle
relative associazioni e rappresentanze: ordini o associazioni riconosciute, alle
quali si dev’essere obbligatoriamente iscritti, che sono in grado di certificare
le competenze ai cittadini, definire e autogestire davvero le rispettive deontologie; trovando, peraltro, gli interlocutori editoriali ed aziendali altrettanto dotati di codici deontologici e della consuetudine di applicarli, perché gli conviene e per senso di responsabilità verso il sistema-Paese.
Rappresentanze lucide e decise nel collaborare con le università e le imprese,
per dotarci di un’offerta formativa di qualità alta ed in sintonia con la domanda corrente.
Perciò sul disegno di legge delega Mastella ministro e Parlamento non possono demordere, nè il Governo e la Pubblica amministrazione furbescamente defilarsi dall’applicare sistematicamente la legge 150 sulla comunicazione
pubblica. E perché finalmente non riconoscere ed accreditare, con regole e
sanzioni, le attività lobbistiche presso gli organi decisori; scegliendo la via legislativa (come ha fatto ora il Governo, in collaborazione con il CNEL e
per le attività proprie e delle autorità) o quella più semplice dell’integrazione
dei regolamenti parlamentari, sia pure pudicamente chiamandole comunicazioni istituzionali?
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Per la compiuta definizione del sistema dei media e del quadro di riferimento di queste professioni, è ancora tollerabile procrastinare di continuo gli ordinamenti-statuti per le aziende che pubblicano quotidiani e periodici, fanno
televisione e radio, libri e audiovisivi? Può decentemente il prolungato braccio di ferro nel rinnovo di un contratto di lavoro settoriale tentare di incidere
negli statuti che salvaguardano non le parti ma il bene pubblico dell’informazione-comunicazione? Si può sottovalutare impunemente il tema delle reciprocità europee e dei riflessi sulle possibilità di lavoro all’estero dei nostri
professionisti della comunicazione?
E perché non s’importano le felici esperienze del garante del lettore e dei
presscouncil, o non si realizza il comitato di mediaetica? Perché non si valorizzano appieno le crescenti energie e creatività della cittadinanza attiva,
quale benefico interlocutore oltre che fruitore-cliente dei media, sui più sensibili fronti dei notiziari televisivi, la pubblicità e il suo Istituto di autodisciplina,
i reality-show? Perché non unificare i cento dispersi, e singolarmente deboli
anche in termini di credibilità pubblica, monitoraggi e rilevamenti in un autorevole e permanente osservatorio sulla comunicazione al servizio degli operatori, delle aziende e dell’intero sistema; magari affidato agli esperti e collaudati ricercatori del Censis?
Le nostre università sono davvero in sintonia con queste lunghezze d’onda,
illuminano e motivano anche concretamente i giovani che si affidano loro?
E quanto sono predisposte a quella trasparenza vera ed efficace che sola
può consentire alle matricole scelte autentiche e fondate tra le offerte spesso
luccicanti degli atenei concorrenti? Lo Stato e il ministero addetto vogliono
decidersi a catalizzare questa crescita evolutiva, tendente all’alta innovazione
e capace di reggere la incalzante concorrenza degli atenei anglosassoni, destinando le risorse in ragione dei meriti conseguiti?
Noi ci auguriamo che le scelte avviate dal ministro Mussi diventino determinazione puntuale e coerente, passando appunto dal controllo delle procedure
alla valutazione dei risultati, frenando la proliferazione delle sedi e dei corsi,
privilegiando qualità e merito forieri di eguaglianza, combattendo mediocrità
arbitri e privilegi, fondendo davvero le culture professionali e quelle accademiche, impiegando i professionisti più colti e didatticamente capaci a condizioni
perlomeno dignitose, ripulendo il filone del “laureare l’esperienza”.
Del resto, se la gran parte dei giovani migliori e più capaci mostra sfiducia
nel nostro Paese, andandosene all’estero e guardandosi bene dal rientrare
qui una volta conquistate ottime specializzazioni, è proprio il caso che il
mondo adulto e più accorto si guardi allo specchio. Decida si scrollarsi di
dosso, una volta per tutte, le tanto comode quanto miopi autoreferenzialità,
in nome di quell’etica delle responsabilità che sola può reinnervare una moderna società autenticamente libera.
Paolo Scandaletti
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GIORNALISTI
NEL FIUME DI INTERNET
ANDREA MELODIA
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Andrea Melodia,
giornalista, dirigente
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l mancato rinnovo del contratto nazionale collettivo di lavoro dei giornalisti italiani, scaduto ormai da due anni, è segnale di uno scontro pesante tra
FNSI e FIEG, tra giornalisti ed
editori, che può essere spiegato con la
rilevanza dei cambiamenti indotti nella professione dalle nuove tecnologie.
Non è certo questa la sede per affrontare gli aspetti sindacali della controversia; possiamo invece cogliere l’occasione per riflettere su questi cambiamenti, che derivano direttamente dalle
trasformazioni dei media stessi in questi anni.
C’è una piattaforma tecnologica
che investe oggi tutte le professioni
dei comunicatori, indipendentemente
dal medium finale utilizzato e dagli intendimenti professionali o etici perseguiti. Si tratta naturalmente di Internet, che non è più solo una rete per
diffondere, ricevere e cercare informazioni, ma è divenuta il tessuto connettivo di un insieme di tecnologie
specifiche che consentono di gestire a
distanza elaborazioni e flussi di dati,
attività creative, ricerca di informazioni o di svaghi; che è moltiplicatore degli autori e delle fonti, creatore di conn. 2/2007
nessioni sociali e insieme strumento di
sopravvivenza di sette segrete; o anche, più semplicemente, strumento
per la gestione di processi finalizzati
alla produzione di beni materiali e immateriali. Un fiume in piena, che rischia di travolgere chi non abbia ripulito il suo alveo.
E’ evidente che l’attività giornalistica, da sempre legata alla corsa contro il tempo, sia stata tra le prime ad
avvalersi della semplice possibilità di
“arrivare prima” che la rete globale ha
reso disponibile. Gli strumenti tradizionali specifici della comunicazione
giornalistica – telescriventi, telefoto –
sono scomparsi, e lo stesso telefono
liberato dei fili oggi praticamente funziona ovunque. Attraverso Internet si
può trasmettere la matrice di stampa
di un giornale, un servizio sonoro o
un pezzo audiovisivo; si può editare
un testo, o anche un servizio filmato,
senza curarsi troppo se la memoria fisica su cui si interviene sia collocata
sotto la propria scrivania o molto più
lontano.
Se i tempi si sono accorciati, le
coordinate spaziali sono virtualmente
azzerate; la delocalizzazione, il lavoro
a distanza cambiano radicalmente le
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potenzialità di una professione che
come quella giornalistica è fatta essenzialmente del trattamento di dati immateriali. E’ importante capire come
questa trasformazione sia tutt’altro
che compiuta; per quanto veloci possano essere i cambiamenti, problemi
di natura tecnica, finanziaria e resistenze umane inducono formidabili
meccanismi inerziali che rallentano il
cambiamento. Tuttavia è evidente che
in una economia liberista vincerà o sopravvivrà solo l’impresa più capace di
governare in velocità la trasformazione.
Esaminerò alcuni aspetti del cambiamento riferendomi alle tecnologie
che mi sono più familiari, quelle televisive; ma esprimo la convinzione che
un percorso di evoluzione sostanzialmente analogo si possa applicare a
tutti i media. E questo è vero anche
perché Internet è oggi l’unico focus
della comunicazione, il nuovo paradigma che regola tutti gli altri media.
Nata poco più di 50 anni fa, la televisione si è rapidamente imposta come il mezzo di comunicazione più diffuso e performante della seconda
metà del secolo, una età segnata dalla
assenza di conflitti tra i paesi più industrializzati e fortemente impegnata
a ridurre il peso dei confini geografici.
Soprattutto attraverso la rete globale
dei satelliti di telecomunicazione, la televisione, finestra sul mondo, è stata
tra i principali attori nel nuovo bisogno di conoscere; il forte ostacolo delle barriere linguistiche è stato parzialmente abbattuto dalla comprensione
universale delle immagini. Tuttavia la
televisione è, e resta, un meccanismo
fortemente accentratore, che attiva un
meccanismo di comunicazione di pochi verso tutti, molto performante,
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potenzialmente autoritario, e proprio
per questo bisognoso di trasgredire
per essere accettato; un meccanismo
che sotto la spinta della concorrenza
commerciale facilmente degenera
creando una sorta di realtà alternativa,
formata da un gran numero di flussi
comunicativi che si intersecano autoreferenzialmente mescolando il vero,
il verosimile e l’invenzione fantastica
fino a renderli difficili da distinguere.
Questa è la situazione, oggi della
TV generalista. E’ uno strumento di
comunicazione di cui nessuno può fare realmente a meno, ma che sempre
più viene guardato con sospetto; i giovani, soprattutto, la usano ma non la
amano.
Se esaminiamo il mondo della televisione al suo interno, vediamo che
esso è oggi alimentato da un coacervo
di professioni della comunicazione tra
le quali quella giornalistica appare ancora centrale, a causa del bisogno che
la televisione conserva di confrontarsi
con la realtà e i suoi accadimenti, ma
che sempre meno appare sufficiente a
garantire la performance del canale se
non ci si piega a rilevanti compromessi con la elaborazione spettacolare e la
drammaturgia narrativa. Il giornalista
appare sempre più chiamato non a
raccogliere le notizie, ma a rielaborarle narrativamente, ad adattarle ai format e alle regole dello storytelling. Attività questa da non demonizzare, anche se spesso applicata con esiti demoralizzanti. Ma sono i limiti intrinseci della professione, o meglio delle
professioni comprendendo quelle limitrofe, ad essere sempre meno certi.
Se questa è in estrema sintesi la situazione della televisione generalista
oggi e della professione giornalistica al
suo interno, dobbiamo chiederci quan. 2/2007
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le possa essere l’effetto dell’impatto
con Internet, nuovo paradigma, come
si diceva, della tecnologia digitale e
della rete universale.
Gli effetti intervengono su piani
molto diversi tra loro. Il primo riguarda il medium televisivo in sé: Internet
è un nuovo modo possibile di vedere
la televisione tradizionale, ma è anche
la via attraverso cui possono nascere
nuove attività di produzione audiovisiva, immediatamente distribuite e quindi per molti aspetti simili alla televisione, ma cui si attribuiscono obbiettivi e
investimenti più limitati; per esempio
la TV di quartiere o quella di parrocchia, per restare sul territorio, che potrebbero raccontare i fatti sotto casa o
trasmettere l’omelia del parroco in diretta; oppure il canale destinato agli
appassionati di un hobby o ai consumatori di un certo tipo di prodotto.
Oppure ancora, seguendo il modello
dei giganti americani della nuova economia, una sorta di magazzino audiovisivo universale usa-e-getta come
YouTube. Le declinazioni possibili sono infinite, il numero delle iniziative
potenzialmente illimitato; mentre la
TV tradizionale rimane invischiata
nelle sue beghe antiche, tra carenza di
frequenze, crisi degli ascolti e costi
crescenti, in un sistema che molto lentamente declina, la nuova modalità
trasmissiva è freneticamente segnata
da pochi abbaglianti successi e da tanti subitanei declini, che lasciano un segno di dinamica vitalità.
Ma non è solo la velocità ad attrarre l’attenzione dei giovani. Internet – e
questo è un secondo aspetto – offre
una modalità comunicativa sostanzialmente diversa. Consente effettiva interattività, restituendo all’utente la libertà di scegliere tra infiniti percorsi e
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tra diverse tecnologie comunicative, di
cui quella dell’immagine audiovisiva è
solo una delle possibili; ed è assai più
efficiente della TV nell’offrire usi finalizzati a specifici percorsi di ricerca
informativa e formativa, anche per
gruppi limitati o chiusi. Simmetricamente, pretende il superamento di più
ardue barriere d’ingresso, economiche
e di “cultura d’uso” (il digital divide) e
nelle utilizzazioni finalizzate all’intrattenimento non fornisce alcun percorso preferenziale, costringendo a un
surplus di decisione che non tutti e
non sempre sono disposti a concedere. Come la televisione, Internet viene
invasa da fornitori di contenuti e dalle
loro attività di marketing, ma la loro
barriera di ingresso è molto più facile
da varcare di quella della televisione
tradizionale.
Mi pare chiaro che con il passare
del tempo Internet prevarrà sulla televisione, perché Internet possiede il
potenziale per inglobare tutti i modi
d’uso della TV tradizionale e di aggiungerne molti altri. Progressivamente Internet invaderà le frequenze televisive e quelle satellitari, fornendo servizi free e a pagamento, accesso a infinite banche dati e percorsi precostruiti, svago, informazione e educazione.
Non credo che un medium possa mai
scomparire travolto da uno nuovo, ma
certo può esserne significativamente
ridimensionato. La TV generalista
non sarà più quella di prima.
Cerchiamo a questo punto di tornare al nostro punto di partenza, la
professione del giornalista. Se Internet sarà il luogo privilegiato del suo lavoro, visto che in quella direzione
convergono, secondo l’opinione dei
protagonisti, non solo le attività radiotelevisive ma anche quelle a mezzo
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stampa, evidentemente il processo di
progressiva riduzione della focalizzazione professionale della categoria è
destinato ad accelerarsi. Nel recente
passato era giornalista chi lavorava più
o meno stabilmente alla produzione
dei contenuti primari in una azienda
editoriale orientata all’informazione;
già oggi appare sempre più incerto
stabilire i confini della professione
nella produzione di diffuse forme di
infotainment (che non è solo televisivo,
ma riguarda anche la stampa) e in altre
forme di contaminazione di genere;
domani le ambiguità cresceranno, e la
delocalizzazione insita nelle modalità
produttive di Internet ridurrà ulteriormente la possibilità di distinguere i
contenuti professionali partendo dalla
organizzazione dei luoghi della produzione.
Mi pare peraltro insensato illudersi
che sia possibile ostacolare questo
processo potenzialmente involutivo
interponendo ostacoli alla introduzione delle nuove tecnologie. Se penso al
giornalismo televisivo, per esempio,
noto che esiste un abisso in termini di
evoluzione tecnologica tra l’attuale e il
possibile. Se confrontiamo un canale
televisivo all news di recentissimo avvio, come France 24, nel quale i giornalisti selezionano, scrivono, montano,
leggono e trasmettono senza alzarsi
dalla scrivania, e la produzione tradizionale analogica fatta di nastri, macchinari obsoleti e mansioni rigidamente separate che contraddistinguono la
maggior parte dei nostri telegiornali,
ci rendiamo conto facilmente che i
conti sono destinati a non tornare.
Certo, si può dire che la professionalità nel vecchio modello è più garantita. Ma è più garantita perché viene da
una tradizione meglio garantita, men-
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tre l’immobilità del modello produttivo e la bassissima produttività non
rassicurano affatto sulla sopravvivenza delle garanzie; invece partendo da
un modello funzionale ed efficiente è
possibile introdurre miglioramenti
della qualità. Il vecchio sistema è certamente destinato a peggiorare, mentre il nuovo è possibile che migliori.
Inoltre basta riflettere sulle potenzialità delle tecnologie per immaginare
possibili andamenti futuri. La delocalizzazione può raggiungere le sue
estreme conseguenze in uno scenario
in cui potrebbe scomparire il concetto
stesso di redazione, perché tutte le attività, compresa l’impaginazione del
giornale o del telegiornale o delle pagine del sito Internet, si potrebbero
realizzare a distanza. E’ evidente in
questa situazione il riassorbimento
possibile nel lavoro giornalistico di
molti ruoli oggi considerati tecnici,
ma che in realtà hanno a che fare con
il linguaggio e la sua declinazione concreta. E’ evidente che gli editori premono per conquistare libertà d’azione
nel ridurre i ruoli e accorpare mansioni, e certo fa parte della dialettica sindacale ripartire i vantaggi di questo tipo di trasformazione tra le categorie
interessate. Mi è meno chiaro il motivo per cui molti giornalisti non colgano gli aspetti positivi di una tecnologia
che consente di riappropriarsi nella
sua interezza del processo di elaborazione linguistica, in una prospettiva di
sviluppo, come oggi si dice, cross-mediale, cioè capace di intervenire contemporaneamente su media diversi.
L’analisi dei linguaggi e delle loro
trasformazioni è forse un contenuto
trascurato delle riflessioni sulla trasformazione in atto, riflessioni che oggi sono riserva di caccia degli ingegnen. 2/2007
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ri e dei controller aziendali. Coniugando
potenzialità delle nuove tecnologie e
prospettive di migliorata produttività
le aziende corrono il rischio di trascurare l’aspetto essenziale del cambiamento, che è invece legato alla evoluzione dei linguaggi, alle mutate destinazioni d’uso della comunicazione, alle diverse condizioni della sua fruizione. Qualche esempio, pensando al solo segmento informativo: si continua a
credere che l’approfondimento richieda abbondanza di parole; che il pubblico abbia bisogno assoluto di molti
appuntamenti prefissati, anche se poveri di contenuti; che le redazioni di
canali e di media diversi debbano restare separate; che gli strumenti produttivi debbano restare legati alla tradizione e non affidarsi appieno alla
communication tecnology. Mi pare invece
ci sia un generale bisogno di leggerezza: nei linguaggi, nei palinsesti, nei
tempi di intervento, negli strumenti
usati. Leggerezza non intesa come vacuità o superficialità, ma come capacità di adattarsi a un modo di vivere
necessariamente più rapido anche nelle sue manifestazioni più profonde e
ricche di contenuti e valori.
Altro aspetto da non trascurare è
la possibilità che nella nuova condizione professionale il giornalista possa
essere invogliato a riconquistare il rapporto con il territorio, lavorando nei
luoghi dove gli avvenimenti si svolgono pur mantenendo il totale controllo
del segmento prodotto. Si dimentica
facilmente che la globalizzazione della
rete rafforza il bisogno di rapporti locali, e nel contempo fornisce strumenti per realizzarli. Questi strumenti
introducono un’altra novità, che è la
possibilità di integrare tra loro i processi produttivi destinati ai vari media:
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il rapporto del giornalista con la fonte
della notizia prevale rispetto al medium, e il giornalista sul territorio è
inevitabilmente sollecitato a lavorare
contemporaneamente per produrre
testi, suoni e immagini fisse e in movimento.
In un simile quadro di trasformazione è peraltro destinato a crescere
anche il ruolo già oggi essenziale del
giornalista di desk, di chi è addetto a
editare il format del medium, a selezionare, a rielaborare il lavoro altrui.
In questa area si accentrano le preoccupazioni di chi teme un imbarbarimento strisciante della professione
giornalistica. Francamente, capisco
ma non sono convinto. Non è l’uso
inevitabile di una tecnologia a causare
il degrado. Personalmente sono più
preoccupato dalla fervida immaginazione e dalle capacità drammaturgiche
senza freni di certi cronisti d’assalto.
In sostanza, sono convinto che le
innovazioni tecnologiche siano sostanzialmente ininfluenti circa la qualità del prodotto, ma siano essenziali
alla sua sopravvivenza e possano essere strumenti di miglioramento. La
professione giornalistica dovrà sempre più misurarsi con le potenzialità
delle nuove tecnologie e imparare a
gestirne le potenzialità positive. La
qualità del prodotto è la sola strada attraverso cui sarà eventualmente possibile continuare a distinguere in futuro
la professione giornalistica rispetto ad
altre attività di comunicazione, che si
svolgeranno in modo sostanzialmente
simile salvo che nelle intenzionalità
editoriali.
E’ sulla gerarchia delle intenzioni
che occorrerebbe maturare il giudizio
e forse anche i meccanismi di valutazione; certo non sul piano retributivo,
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ma almeno nella immagine pubblica di
queste attività. Nella gerarchia delle
intenzioni – ma questo apre un altro
discorso – quella che una volta si definiva “servizio pubblico” speriamo
possa riconquistare, anche nella transizione al digitale, il ruolo necessario:
sapendo con chiarezza, come si è sempre saputo, che la qualità del servizio
pubblico nella comunicazione non
viene definita necessariamente dalla
proprietà pubblica o meno dell’azienda o dalla esistenza o meno di un lungimirante “contratto di servizio”, ben-
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sì dalla qualità globale del prodotto
fornito e dalla sua utilità ai fini di un
ordinato sviluppo sociale.
Perché qualsiasi informazione,
qualsiasi processo comunicativo trasparente è destinato al pubblico e deve servirlo; e deve essere possibile ottenere che ciò avvenga, con buona pace di coloro che dipingono il servizio
pubblico solo come l’avanzo di un’epoca antica, corrosa dal compromesso
con la politica, che il nuovo clima di libera concorrenza dovrebbe taumaturgicamente sanare.
Andrea Melodia
P ROGETTO DI RICERCA
Le professioni della comunicazione in Italia e in Europa
vol. I - Le professioni dei comunicatori in Italia - Offerta formativa, associazioni e mercato
vol. II - Università e professioni dei comunicatori in Europa - Criticità, ritardi e problemi irrisolti
vol. III - Le proposte italiane ed europee - Cosa, come e quando fare
I DIRETTORI DELLA RICERCA
Prof. Massimo Baldini, Prof. Paolo Scandaletti
IL GRUPPO DI RICERCA
Antonio Benforte, Mascia Ferri, Sandra Gallerini, Settilio Mauro Gallinaro, Valeria Lupo, Donatella Marucci, Valeria
Nevadini, Sara Peticca, Paolo Peverini, Camilla Rumi, Rosa Maria Serrao, Marica Spalletta, Sabrina Speranza
Con la collaborazione di Ugo Apollonio, Germana Barba, Francesco Birocchi, Franco Mennitto Gianpietro Vecchiato; e Ilaria Della Corte per l’editing.
Il convegno che discuterà questa ricerca, valutandola e proponendo delle soluzioni, si terrà a Roma il 26 febbraio 2008 a palazzo Rondanini, in via del Corso. La partecipazione è libera.
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CARD. TONINI: «BIAGI PORTAVA NEL MONDO I SENTIMENTI DELLA SUA INFANZIA A PIANACCIO»
CREDIBILITÀ DEL GIORNALISMO
E CRISI DELLA SOCIETÀ
GIORGIO TONELLI
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Giorgio Tonelli,
giornalista RAI
Bologna, segretario
nazionale UCSI
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uando gli domandavano: quali sono le
persone che ha particolarmente stimato, Enzo Biagi citava sempre tre preti
che considerava «tre veri rivoluzionari:
don Zeno, don Mazzi e don Milani». E
tornando indietro negli anni, Biagi
amava ricordare di aver imparato a leggere a 5 anni «La Bibbia e i Miserabili
sono stati i primi due libri della mia vita. Poi i giornali».
Ma c’è un Biagi ancor più inedito. Nel
1933, anno del Giubileo straordinario,
la presidenza diocesana della Gioventù
di Azione Cattolica Diocesana di
Bologna promuove una ‘Gara di Cultura Religiosa’ che fu vinta dall’aspirante Enzo Biagi con un elaborato sulla ‘Passione di Cristo’ (con il voto finale di 30/30 e lode). Nell’archivio
storico che l’Azione Cattolica di
Bologna ha da poco riordinato, si conserva il testo autografo. Scrive, fra l’altro il 13enne Enzo Biagi «La passione
di Cristo ci appare in tutta la sua
grandezza, in tutta la sua potenza, ci fa
pensare al Dio uomo che patisce, soffre, muore per le creature, ci fa pensare alla sua bontà, al suo amore,verso
gli uomini…». E nel giorno della
scomparsa del più noto giornalista
italiano, “Casa Moretti” di Cesenatico
ha riproposto l’articolo di esordio di
quel “ragazzaccio di vent’anni”. Apn. 2/2007
parve sulle pagine de L’Avvenire d’Italia
quotidiano cattolico bolognese, l’11
gennaio 1939 ed era dedicato a Marino Moretti, l’autore delle “Poesie
scritte col Lapis”. Scriveva Biagi, parlando di Moretti che egli era poeta
delle cose di tutti e della vita comune,
il cui tormento è quello delle creature
che vivono nell’ombra, ai margini della vita. «E’ in Moretti infatti un’umanità soffusa da un senso cristiano di
bontà (una umanità che sa di dolore e
di speranza), un umorismo suo particolare, ingenuo, terraiolo, che nasce
spontaneo e lieve come un sorriso, un
pensiero forte che si nasconde in una
scrittura semplice, facile, chiara, uno
spirito di osservazione arguto e finissimo» e il giovane Biagi concludeva
«Anche quando la vita è bassezza e
volgarità, l’occhio di Moretti contempla le miserie umane con l’animo teso
alla pietà». Enzo Marco Biagi (all’epoca firmava col suo doppio nome)
mentre parlava di Marino Moretti, in
realtà stava - 67 anni fa - già costruendo le basi del progetto di vita e di
scrittura che lo avrebbero contraddistinto e fatto ammirare da milioni di
telespettatori e di lettori.
Amico dell’Ucsi
Enzo Biagi ha sempre seguito con attenzione le alterne vicende della pro-
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fessione. Nel 1946, fra l’altro, è stato
fra i fondatori dell’Associazione Stampa dell’Emilia Romagna. Ma è stato
anche un grande amico dell’Ucsi. Fra i
tanti suoi interventi, uno dei più recenti l’ha fatto al Congresso Nazionale
del 2-4 dicembre 1993. Nell’aula absidale di Santa Lucia dell’Università di
Bologna, dopo l’introduzione del presidente nazionale Paolo Scandaletti (che
aveva sostituito Flaminio Piccoli dopo
il congresso di Viterbo) Enzo Biagi incantò i congressisti intervenendo sulla
credibilità del giornalista nell’attuale
crisi della società. Quasi un anticipo
sulle difficoltà che vive oggi la professione fra interferenze politiche ed editoriali. Un’epoca segnata da notizie
che non nascono dalla realtà dei fatti,
ma da decisioni o da esigenze di centri
di potere che guidano la parabola delle
notizie. Già all’epoca l’artigiano Biagi
si sentiva stretto nell’industria della comunicazione, un’industria che antepone l’ufficio marketing alle esigenze
del lettore. «Dalle diverse inchieste sostiene Biagi - pare che ciò che rende
credibile un ‘operatore dei mass media’ è quella vecchia risorsa chiamata
onestà, che nessuna scuola può insegnare: già tutto stabilito dai Dieci Comandamenti. Poi c’è la preparazione
professionale: si impara qualcosa ogni
giorno. Infine - conclude Biagi - una
consolazione e una attenuante per gli
inevitabili errori: la buona fede. Il giornalista appartiene al genere umano: ma
anche chi finisce sul suo taccuino».
L’ultimo saluto
Nel giorno del suo funerale così il cardinal Ersilio Tonini, poco prima della
benedizione della bara, ringrazia Pianaccio, il piccolo paese dell’Appennino bolognese e i suoi abitanti «Enzo
Biagi portava nel mondo i sentimenti
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che aveva respirato nel suo paese. Per
questo motivo ringrazio Pianaccio».
E in precedenza, improvvisando
l’omelia per il ritardo del cardinale,
don Giovanni Nicolini, già responsabile Caritas di Bologna, fa a Biagi il
più bel complimento che si possa fare
a un giornalista «Ci sentivamo interpretati da lui» e lo ricorda anche come
«laico cristiano, angelo della speranza». Poi gli applausi, il coro che prima
canta “Madonna delle nevi” e poi intona “Bella ciao” e le preghiere e il
silenzio che porta al piccolo camposanto. Momenti di intensa commozione quando la bara di legno
chiaro cala nella nuda terra mentre le
due figlie Bice e Carla lanciano due
rose rosse. Piccolo cimitero rigorosamente diviso fra uomini e donne.
Un pò lontano, ma non tanto, riposano la moglie Lucia e la figlia Anna. Attorno i colori ruggine dell’autunno ed un cielo splendido che fanno
dolce cornice all’ultimo saluto ad Enzo Biagi. La chiesa è troppo piccola.
Una cinquantina di posti per familiari,
autorità e direttori dei giornali.
Fuori, quasi un migliaio di persone
che hanno sfidato i 60 chilometri tortuosi su per l’Appennino e la fila per le
navette da Lizzano. Sono assiepati nella piazzetta intitolata a don Giovanni
Fornasini. E non sarà stato solo un caso, se uno dei primi servizi del ritorno
di Biagi in Tv dopo l’editto bulgaro, è
stato dedicato a don Giovanni Fornasini, definito “l’angelo di Marzabotto”, ucciso il 13 ottobre 1944 dai
nazisti, mentre dava sepoltura ai suoi
parrocchiani trucidati dalle SS di Reder. Ancora un prete fra le persone che
ha stimato e, in qualche modo, lo hanno segnato per tutta la vita.
Giorgio Tonelli
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PSICOPATOLOGIE “ADULTE” NEL WEB
E RICADUTE SUI MINORI
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Giancarlo Zizola,
giornalista e scrittore, vaticanista de
Il Sole 24 Ore
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el corso degli anni 30 e 40 gli Stati fascisti e staliniani furono accusati di indottrinare i bambini, di suggestionarli
e di rivolgerli contro i loro genitori.
Delle questioni inquietanti furono sollevate allora da intellettuali quali Fritz
Lang, George Orwell, Thomas Mann,
Walter Benjamin, Theodor Adorno e
Hannah Arendt.
Ma oggi, con una democratizzazione
che forgia il mondo, siamo sicuri di
poter escludere che i grandi imperi
massmediali globali non comportino
delle tecniche temibili di manipolazione e di
asservimento?
Vogliamo ribadire il nostro approccio:demonizzare le reti della comunicazione, in particolare telematiche, oltre a non portare a un mutamento dello stato delle cose, produrrebbe un
inutile spreco di energie. E’consigliabile piuttosto capire i meccanismi e le
interazioni che l’individuo svolge con
l’Altro da sé, per incoraggiare un uso
del sistema più consapevole, eticamente compatibile e umanamente più
utile. Sul fondale di questo interrogativo noi cercheremo di interpellare la
responsabilità dei media in quello che
ci appare da vari segnali come un nuovo attacco sociale all’infanzia nel pianeta
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globalizzato e dunque, in certo modo,
come un colpo inferto sul futuro dell’umanità stessa, attraverso le “ferite
invisibili” procurate a vittime innocenti come i bambini.
Abbiamo presenti le ricerche che riguardano le conseguenze dell’assorbimento dell’infanzia dentro gli stereotipi di un universo competitivo e violento come quello del mercato dei cartoons e dei videogiochi (principale distrazione degli adolescenti).
E’ stato esplorato il processo mediante il quale il mondo dei minori viene
affittato in massa alla sovranità del conformismo mediante la soggezione a strutture di
normalizzazione, tramite la televisione.
La tv è ritenuta generalmente la baby
sitter principale e la distrazione primordiale dei bambini. Molteplici e innegabilmente non contestabili sono le
prove, confermate dall’esperienza
quotidiana, che la tv è una baby sitter
inaffidabile, perché procura ai bambini graffi profondi nell’anima.
Tutto ciò sembra porre in ultima analisi un problema di protezione delle
differenze antropologiche all’interno
del sistema mondo, il rispetto per i sogni, ove si annidano e si costruiscono
le risorse dell’immaginario dell’infan-
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zia, quelle risorse innovative che sono
decisive, in quanto siano salvaguardate, sviluppate, formate ma non coartate, per l’avvenire di ogni società democratica.
Per questo non possiamo esimerci dal
compito di porre senza soste il problema della mercificazione dei programmi televisivi e, in generale, del
mondo della comunicazione, in un
universo di connivenze industriali, come un problema principale del sistema liberale.
Se la comunicazione e l’informazione
vengono concepiti, percepiti e gestiti
come beni privati, come merci da vendere secondo gli imperativi del mercato, sarebbe difficile impedire che sia
mandato in esilio qualsiasi riferimento
vincolante a dei limiti che siano accettati come immanenti nell’impresa mediatica, così come lo sono nell’impresa scientifica.
Concezioni e dottrine neoliberiste
estese anche ai media finirebbero per
accelerare un processo di deregolamentazione intensiva o di un laissez-faire anarchista, destinato ad erodere i riferimenti etici nel mondo della comunicazione per servire il trionfo dei criteri individualisti nei comportamenti e
nelle scelte di larghe masse di cittadini, specialmente dei più giovani. Il risultato di un tale processo è già parzialmente sotto i nostri occhi, è lo sviluppo di una società gregaria, obbediente ai miti della massificazione.
Per questo abbiamo notato che codici
come la Carta di Treviso, primo tentativo in Italia di regolamentare i rapporti tra media e minori, sono divenuti dei fragili scudi, continuamente a repentaglio sotto la pressione dello scoop
e del successo economico.
Una seconda onda di domande riguar-
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da in modo specifico la Carta di Treviso. Che bilancio se ne può trarre dopo
oltre 15 anni? Si è fatta rispettare? L’anonimato dei minori, attivi o passivi in
fatti di cronaca nera, è stato mantenuto? Sono stati attentamente o almeno
in modo sufficientemente corretto risparmiati ai minori protagonismi e
spettacolarizzazioni? Quali punti della
Carta sono stati più ardui da onorare?
Infine le domande de jure condendo:se
non sia il caso di favorire la trasformazione della Carta di Treviso dal livello deontologico ad un più formale
livello di giuridicità, munendola di carattere vincolante e di un sistema penale che abbia un reale potere deterrente, tale da scoraggiare eventuali
tentazioni trasgressive.
Ambiguità dei videogames
Gli studi specializzati del prof. Giampaolo Nicolais, dell’Università degli
Studi del Molise, indicano quanto la
frequentazione dei videogames incida
nell’immaginario infantile forgiandone i paradigmi cognitivi secondo modelli antagonistici propri della “cultura
del nemico”.
Ciò asseconda le tendenze al conformismo sociale fin dalla tenera età, allontanando nel tempo la possibilità di
tradurre in progetto reale la proposta,
fatta propria da scienziati della politica e da spiriti religiosi in ogni tempo,
ma specialmente nel XX secolo, di arrivare all’abolizione della guerra come
strumento per la soluzione dei conflitti internazionali, come la civiltà occidentale è arrivata a suo tempo all’abolizione della schiavitù.
Nicolais invita a riflettere su alcuni dati, che qui riporto in modo sintetico.
I bambini dai 9 ai 12 anni sono abbeverati di storie e immagini violente. I
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conflitti fra gang e le battaglie intersiderali sono il pane quotidiano di cartoni giapponesi o coreani.
I celebri Mangas vengono divorati più
volentieri dei romanzi classici per bambini. I testi lapidari, gli scenari semplificati sui quali le peripezie si riassumono
spesso nella lotta e nell’assassinio non
incitano i bambini a riflettere sulla natura e sulle cause delle guerre.
La banalizzazione dell’aggressione e
della morte non li invita alla compassione
dinanzi alla sofferenza .Diventa sempre più assente nell’universo dei bambini il discernimento tra Bene e Male.
Si educa, divertendo, al sadismo banale, alla normalizzazione della violenza, allo
svuotamento della morte e della sua natura di
tragedia. Si educa il bambino all’indifferenza. I luoghi del gioco“al massacro”,
anche via Web, possono essere posti
dove ci si perde, si rimane bloccati,
mondi dove le cose sono più semplici
che nella vita reale, dove se si sbaglia
‘si muore’, tanto si muore solo per finta, dove, terminata un’esperienza sociale, basta un clic per cominciarne
un’altra.
La guerra è solo uno spettacolo, un gioco. Si
sviluppano tendenze alla indistinzione
fra fantasia e realtà.
Malgrado ciò è stato accertato che la
frequentazione dei videogame produce
nei bambini reazioni ansiogene e aumenta in
loro il volume dell’aggressività.
La crescita delle vendite dei Mangas in
Italia e in Francia (secondo mercato
mondiale dopo il Giappone) ne fa un
vettore di influenza maggiore. La sua
funzione indiretta è quella di normalizzare la guerra come evento ineluttabile, quasi un dato della natura umana
irrevocabile e persino a giustificarla
come una missione necessaria e perfino pedagogica per l’ordine internazion. 2/2007
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nale. La risposta possibile all’egemonia dei videogame potrebbe essere affidata allo sviluppo di una letteratura
dell’infanzia.
Essa dovrebbe poter disporre di un largo ventaglio di romanzi di qualità per
affrontare il tema della guerra in una
prospettiva educatrice.1 E’ possibile
agire anche con videogame alternativi.
Alcune ricerche curate dall’Onu hanno
consentito di verificare che Internet
può essere un ottimo strumento per
comunicare e educare.
Per esempio, l’ONU ha messo in rete
nel 2006 il videogioco Food Force, destinato ai bambini e alle bambine dagli 8 ai
13 anni. Un gioco che sensibilizza al problema della fame nel mondo. I giovani giocatori devono superare diverse prove con
un crescente grado di difficoltà per portare a termine 6 missioni umanitarie in
un paese bisognoso del loro aiuto.
Si calcola che finora oltre 3 milioni e
500 mila siano stati gli utenti, in oltre
40 paesi, collegatisi al sito del World
Food Program. Il videogioco è disponibile in italiano collegandosi a www.foodforce.com.
L’esempio è il videogioco Stopdisasters
lanciato dall’Onu mediante l’International Strategy for Desaster Reduction (Isdr) il
I marzo 2007 su Internet.
Obiettivo: insegnare ai bambini e ai
ragazzi dai 9 ai 16 anni, attraverso la
dimensione virtuale, come organizzarsi
in caso di disastri naturali, ma soprattutto come prevenirne gli effetti più devastanti dei quali è responsabile, più
che la natura, la cecità dell’azione
umana.
Questi giochi alternativi possono essere giocati in gruppo, ragionando e
scegliendo, anziché da solitari, in modo da educare allo spirito di solidarietà
e di cura dell’ambiente.
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I bambini sono gli architetti e i costruttori, i sindaci e gli amministratori,
gli insegnanti e i cittadini del futuro ed
è importante renderli consapevoli che
è possibile ridurre i danni provocati
dai disastri naturali.
Mediante questo videogioco si cerca
di aiutare le future generazioni a comprendere e ad adattarsi al cambiamento climatico e al conseguente aumento
del livello del mare. Ciò comporterà
prevedibili disastri naturali. Tuttavia,
con opportuni accorgimenti, ci si potrà difendere dall’apocalisse:se fossero
stati adottati sistemi di allarme anche
lo tsunami del dicembre 2004 non
avrebbe fatto 200 mila vittime, ma
forse alcune migliaia si sarebbero potute salvare.
Il videogioco propone cinque diversi
scenari catastrofici: un uragano, una
inondazione, l’incendio di una foresta,
un terremoto e uno tsunami. Presto
verrà aggiunta anche la siccità. Cinque
i piani di azione con tre livelli di difficoltà: il giocatore, rispettando un determinato bilancio di risorse a disposizione e entro tempo prestabiliti, deve
costruire case, ospedali e infrastrutture nei luoghi più sicuri, rispettando l’ecosistema dell’area e con criteri che
proteggano la popolazione dai pericoli di un eventuale disastro naturale.
Evento che probabilmente si scatenerà, con la simulazione di fiamme che
avanzano, terra che trema, onde gigantesche che si abbattono su centri abitati. Alla fine il giocatore otterrà più o
meno punti secondo il numero di vite
che sarà riuscito a salvare. Si tratta
dunque di un classico gioco interattivo,
che è possibile scaricare gratis da Internet in meno di tre minuti, collegandosi a www.stopdisastersgame.org.
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Pornografia
Spesso si sente dire che la pornografia
dilaga in ogni angolo del web. Una
quantità via via più ampia di utenti di
Internet fruirebbe di materiale porno
disponibile gratuitamente e a basso costo. I primi studi sul fenomeno dimostravano una netta prevalenza del consumo pornografico da parte di un
pubblico maschile. Le statistiche più
recenti registrano l’aumento degli accessi femminili. Ma non c’è ancora una
completa ricerca scientifica che abbia
esplorato questo delicato campo.
Ovviamente il consumo pornografico
esisteva anche prima di Internet. In genere si svolgeva con riviste e romanzi
erotici o con film per sale a luci rosse.
Ma certamente è con l’avvento su Internet di abbondante materiale porno
che il fenomeno è divenuto esteso, tanto da far tremare il limite dell’osceno
frapposto dall’art. 21 della Costituzione. Esso da un lato garantisce la totale
libertà di manifestazione del pensiero,
dall’altro vieta pubblicazioni a stampa,
spettacoli e ogni altra manifestazione
contraria al buon costume, cioè a ciò
che offende il pudore generale.
Si è potuto osservare come la tendenza
a spostare il limite dell’osceno oltre i
vincoli di legge e di buon senso sia stata notevolmente accelerata dal mezzo
Internet. Il bacino dei fruitori di materiale pedofilo è aumentato, e così le forme di violenza sessuale incensurate.
La facilità di entrare in contatto in Internet con materiale porno è estrema.
In tale circostanza il senso del pudore,
che può costituire un freno nella vita
reale, si dissolve in Rete dentro l’anonimato, grazie anche alla possibilità di
volatilizzare l’informazione una volta
fruita. Entrano in funzione dei meccanismi di “autocondizionamento open. 2/2007
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rante”, per cui l’utente viene incalzato a
fare scelte successive quasi in modo
meccanico, inabissandolo nella navigazione “proibita” e cancellando i riferimenti consueti nella barra degli strumenti alle possibilità di sganciarsi e di
tornare indietro.
Se poi la fruizione diventa abitudinaria, si innesca un meccanismo negativo le cui conseguenze sul soggetto
possono essere letali.
Per superare lo stress e uno stato di
insoddisfazione il soggetto tenderà ad aumentare lo stimolo e cioè a spostare la soglia di ciò che gli procura piacere verso zone liminari e sempre più stravaganti rispetto a normali prassi sessuali. Ci si sposta verso zone di perversione, fino a visitare siti di sesso / violenza, di stupro, di pedofilia2.
Può accadere che nel soggetto la percezione del sesso possa subire delle alterazioni, nella maggior parte dei casi
studiati. Il rapporto reale non viene
più considerato tale se non rientra nei
modelli fruiti in Rete.
In tal modo può alterarsi la personalità del soggetto: nasce una tensione al
limite che, entrando in attrito con il
senso del pudore sociale o familiare
introiettato, può indurre disturbi nevrotici. Questi a loro volta possono
incatenare il soggetto alla pornografia
in Rete, in una matrice di comportamento compulsivo – ossessivo.
Noi qui esamineremo il fenomeno per
i suoi indegni, pesanti contraccolpi sul
mondo dei minori. Nel marzo del
2005 una operazione di polizia internazionale partita da Venezia portò a
centinaia di arresti in decine di paesi in
tutto il mondo.Era già un indizio allarmante della proporzione del fenomeno dei “predoni dell’infanzia” che fanno uso del web per la pedofilia e la
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pornografia minorile. La grande Rete
della comunicazione, della connessione globale, il miracolo della tecnologia
moderna col mondo a portata di clic e
a costo zero si riduceva a veicolo di
traffici perversi e corruttivi sui minorenni.
L’Unicef aveva da tempo dato l’allarme denunciando l’esistenza di un vero
e proprio business globale legato al
mercato delle immagini e dei video
che ritraggono abusi e violenze su
bambini.
La rete, una delle più straordinarie
scoperte dell’umanità globale, era di
fatto usata come incubatrice di ferocia
atroce senza confini.
L’Università di Kork, in Irlanda, ha
raccolto con una specifica ricerca uno
dei maggiori database di immagini pedofile dove la metà dei bambini ha
meno di 12 anni. Un report del Telefono Arcobaleno(Italia) segnala che la
pedofilia online su Internet è raddoppiata nel corso degli ultimi tre anni e
che i siti scoperti nel 2004 sono oltre
19 mila, la maggior parte negli Usa,
poi in Russia, Corea, Giappone, Spagna, Polonia, Germania, Svizzera, Inghilterra e Italia. L’Italia è citata fra i
primi dieci paesi in questa classifica
dell’orrore3.
La legge n. 269 del 1998 stabilisce il
carcere da 6 a 12 anni per lo sfruttamento della pornografia minorile. Punisce la detenzione di materiale pornografico acquisito con 3 anni di reclusione.
Il Web non può essere trattato come
una zona franca, al di fuori dei diritti e
dei doveri: la libertà della rete per
quanto prodigiosa non è un assoluto.
E cresce la consapevolezza che i traffici oscuri vadano oscurati e debellati
nell’interesse della società liberale.
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La Corte di Cassazione dell’Italia, II
Sezione Civile, con una sentenza(n.
5749) pubblicata il 13 marzo 2007 ha
ricordato come l’articolo 15 della legge 223 del 1990 stabilisce che “è vietata la trasmissione di programmi che
possano nuocere allo sviluppo psichico o morale dei minori, che contengano scene di violenza gratuite o pornografiche, che inducano ad atteggiamenti di intolleranza basati su differenze di razza, sesso, religione o nazionalità”.
In questo modo la Suprema Corte ha
accolto il ricorso dell’Autorità Garante
delle Comunicazioni che si era opposta
all’annullamento da parte del Tribunale
di Milano della sanzione di 10 mila euro inflitta alla Rete A per avere mandato in onda “trasmissioni in ore notturne
di spot che promozionavano l’uso di linee telefoniche erotiche contenenti scene di natura pornografica”.
Il Tribunale di Milano aveva annullato
la sanzione. Il giudice aveva ritenuto
di non applicare alla fattispecie la norma specifica che impone limiti alla
pubblicità televisiva, ma quella più generale che vieta la trasmissione di programmi che possano nuocere allo sviluppo psichico e morale dei minori.
Invece la Cassazione ha sottolineato
che l’illecito era stato giustamente contestato, in base all’articolo che tutela lo
sviluppo psichico dei minori. Tale sviluppo psichico è stato riconosciuto come un bene degno di tutela giuridica.
Come si evince dal dispositivo della
sentenza, “in tema di disciplina del sistema tv pubblico e privato la trasmissione di spot pubblicitari contenenti
scene porno integra l’illecito amministrativo” previsto dalla legge indicata.
Visto l’andazzo, l’Autorità della Comunicazione ha ritenuto necessario un
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proprio intervento. Lo ha fatto con
una delibera del 19 marzo 2007 che
vieta il porno in tv( divenuta operativa
un mese dopo la pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale): “Atto di indirizzo
sul rispetto dei diritti fondamentali
della persona e sul divieto di trasmissioni che presentino scene pornografiche”. Il criterio adottato è che la pornografia offende comunque il senso
del pudore.
Riaffermazione significativa dal momento che, con l’avvento di Internet,
si sviluppa la tendenza a spostare il limite dell’osceno oltre i limiti di legge
e di buon senso.
Restano fuori dal divieto i programmi
ad accesso condizionato, cioè criptati
e protetti da un sistema di“Parental control”, cioè di un codice che impedisca
l’accesso ai minori. L’unica eccezione
riguarda il caso che l’immagine sia parte di “un contesto culturale o di valore artistico e risulti non fine a se stessa ma funzionale all’economia dell’opera in cui è inserita”. Ai trasgressori
del divieto vengono comminate multe
dai 5 mila ai 50 mila euro.
E’ stato dunque ribadito il principio
adottato dalla Cassazione che anche gli
spot a luci rosse che promuovono in tv
linee telefoniche erotiche sono vietati.
Questo a tutela dei minori mentre l’emittente che li trasmette deve essere
multata pesantemente, come se si trattasse di veri e propri programmi tv e
non di semplici messaggi pubblicitari.
Queste trasmissioni di contenuti porno presenti su quasi tutte le reti locali
sono l’epicentro di un business enorme: i
gestori delle società di chiamate a luci
rosse hanno pagato multe da 250 mila-300 mila euro senza batter ciglio.
Logico pensare che incassino almeno
dieci volte tanto.
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Si tratta di truffe mascherate, denunciate dalla Lega Consumatori cui si sono rivolte molte famiglia allibite per
bollette telefoniche impazzite. I programmi a luci rosse trasmessi finora
dalle 22 alle 7 del mattino contenevano servizi “a valore aggiunto”, espliciti inviti a fare telefonate a numeri particolari. Spesso chiamavano ragazzi
minorenni o poco più. All’altro capo
del filo un operatore chiedeva l’assenso a effettuare la telefonata a pagamento. Dopo di che era praticata una
tariffa salatissima per ogni minuto di
conversazione.
La lobby del porno voleva sbarcare sulla telefonia mobile, un gestore aveva
messo in commercio i videotelefonini
con inviti a fare foto spinte da inviare
in cambio di tariffe scontate. E’ stato
denunciato all’Autorità. Ciononostante
la Rete è invasa da vido-choc con la trasmissione do scene di sesso scolastico
o di bullismo, orribile il video su telefonino di una disabile aggredita e fotografata in un liceo di Torino4.
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Pedofilia
Meglio studiato il fenomeno della pedofilia e della sua estensione al mondo
della Rete. Si trovano studi di criminologi, psicologi e altri osservatori professionali nella Rivista telematica di Criminologia Clinica.
Si è accertato che con l’avvento delle
reti telematiche il fenomeno ha registrato una nuova dimensione organizzata della pedofilia e una intensificazione del crimine.
Lo sviluppo di Internet riesce a mettere in connessione pedofili di tutto il
mondo con minori rischi di essere
scoperti vista l’enorme quantità di collegamenti che la Rete ospita e l’inadeguatezza delle attuali tecniche di inven. 2/2007
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stigazione e controllo. E’ stata resa
possibile l’offerta on-line di una serie
di servizi illegali, legati allo sfruttamento dei minori, da parte di organizzazioni criminali.
I rischi associati all’offerta pedofila sono
notevoli: gli studiosi hanno evidenziato
soprattutto il rischio d’indebolimento
delle difese personali e sociali a causa
della possibilità di stimolazioni e occasioni di appagamento visivo delle proprie fantasie indecenti con l’effetto di
normalizzare e quindi rendere meno riprovevole soggettivamente tale pulsione.
Tutto ciò porterebbe alla rimozione di
remore e sensi di colpa, a meccanismi
di autogiustificazione dell’abnorme, al
superamento delle barriere psicologiche della censurabilità o tabuizzazione
della pedofilia facilitandone la traduzione dal visivo al fattuale, dal pensato all’agito.
Il pericolo si nasconde nell’ambiente
delle chat, aree o canali che consentono conversazioni ondine in tempo
reale fra due o più persone. Il rischio
maggiore è dato dalla possibilità di interloquire in maniera anonima sotto le
maschere di un nome di comodo che
permette di giocare con la propria
identità rappresentata in Rete.
Ricordiamo unepisodio avvenuto a
Enna: un ragazzino di 13 anni, Antonio Lo Bue, di Barrafranca, venne ucciso nel dicembre 2005 per essersi ribellato a una tentata violenza di gruppo. Dopo mesi di indagini si è scoperto che l’omicidio era maturato e realizzato da una banda di pedofili che
avrebbero violentato altri ragazzi, filmandoli, fotografandoli in pose oscene per poi far circolare le immagini nel
giro internazionale della pedofilia.
I carabinieri hanno scoperto siti porno per pedofili con immagini di bam-
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bini violentati, nei computer in uso ad
almeno due dei cinque arrestati. E nella memoria di alcune macchine fotografiche sono state trovate le immagini di bambini nudi scattate nelle campagne in stalle della zona.
Le ricerche svolte sul campo dal
Gruppo di Ricerca sulle Forme Criminali Emergenti dell’Università Cattolica di Roma hanno prodotto risultati
importanti circa l’atteggiamento di un
adulto camuffato nei confronti di
bambini incontrati in chat.
Tra l’altro è emerso che in tutti i casi di
molestia o di tentativo di adescamento,
il pedofilo si accerta della condizione
di solitudine del bambino con domande sulla presenza o meno di adulti in
casa e che, in caso di risposta affermativa, tende a non rischiare. Molto spesso egli raccomanda la più totale riservatezza sui contenuti della conversazione che si accinge ad effettuare.
Un’altra domanda ricorrente è che il
bambino descriva le proprie caratteristiche fisiche, specie delle componenti genitali e sessuali. Il pedofilo si spinge a volte a chiedere l’invio di foto digitali. Nei tentativi di adescamento è
molto comune che il pedofilo, mettendo in opera metodi da intelligence nel
corso di chiacchiere apparentemente
casuali, raccolga informazioni sui gusti, gli hobbies, le piccole manie e gli
interessi del minore per poi offrirgli
oggetti o situazioni che avranno per
lui una particolare attrattiva e che rappresentano l’equivalente virtuale delle
famose caramelle offerte dal famoso
sconosciuto.
Regola per una navigazione sicura
dei bambini in Internet
Quando sei su Internet non dare mai
a nessuno il tuo indirizzo di casa, il
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tuo numero di telefono o il nome della tua scuola, a meno che i tuoi genitori non ti diano il permesso di farlo;
Non prendere appuntamenti con persone conosciute su Internet, anche se
dicono di essere tuoi coetanei, senza
prima avere il permesso dei tuoi genitori e fai venire anche loro, comunque,
al primo incontro:
Se frequenti una chat-room e qualcuno ti dice qualcosa di strano e di
preoccupante – ad esempio, discorsi
sul sesso – parlane appena possibile
con i tuoi genitori;
Non rispondere mai a email o messaggi fastidiosi oppure allusivi, specie
se di argomento sessuale, e se ti capita di notare foto di persone adulte o
bambini nudi parlane sempre ai tuoi
genitori;
Ricorda che se qualcuno ti fa un’offerta che sembra troppo bella per essere
vera, probabilmente non lo è;
Se non riesci a parlare subito con i tuoi
genitori, parlane ai tuoi insegnanti;
Ricordati che Internet è come il mondo reale, ci sono le cose belle e le cose brutte, zucchero e letame mischiati
insieme.
Basta seguire queste regole e fare un
po’ di attenzione per divertirsi e imparare tante cose interessanti senza rischiare brutte sorprese.
Consigli per i genitori dei bambini
che usano Internet
-tenere il computer in un posto centrale
della casa, non nella stanza del bambino.
Il computer dovrebbe essere uno strumento per
attività che coinvolgono tutta la famiglia, non
un pretesto del bambino per isolarsi;
-cercare di imparare a usare Internet
per riuscire a capire che cosa fanno i
propri bambini;
-cercare di conoscere gli amici online
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dei propri bambini;
-leggere e visionare le email con i propri bambini. Molti pedofili attaccano
foto di pornografia infantile alle email
inviate ai bambini. La pornografia viene usata dai pedofili per convincere il
bambino che altri bambini compiono
atti sessuali. Assicurarsi di controllare
tutti gli attak alle email, file di testo o
di immagini allegati;
-aiutare i propri bambini a usare il
computer in maniera equilibrata.
Molti bambini si appassionano troppo al computer dimenticando di giocare con gli amici reali;
-stabilire regole precise su come utilizzare Internet;
-assicurarsi che i bambini comprendano che non possono incontrare
nessuno nella vita reale, conosciuto
online senza il consenso dei genitori e
che le persone online non sempre sono così sincere su chi sono;
-insegnare a propri bambini a non dare informazioni personali alle persone che incontrano online, specialmente in luoghi pubblici come le chatroom:
-tenere i bambini lontani dalle chatroom a meno che non siano controllati;
-incoraggiare discussioni con i propri
bambini su ciò che trovano divertente online;
-insegnare ai propri bambini a non rispondere quando ricevono email offensive o dannose, messaggi da chat o
altre comunicazioni specie su temi
sessuali;
-seguire i propri bambini quando sono online e vedere dove vanno, senza
pressarli troppo;
-se non si può essere in casa quando
i bambini sono online, usare software
di protezione( riconoscono alcune
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parole-chiave tipo sex, erotico, ecc., e
non consentono l’accesso ai siti che
le contengono) per tenerli sotto controllo nelle navigazioni autonome;
-installare sul proprio computer un
programma che memorizza gli indirizzi Internet visitati dal proprio
bambino e controllare quali sono da
lui più frequentati;
-in generale, insegnare ai propri bambini quali possono essere i rischi di
Internet senza terrorizzarli e senza
dimenticare che la Rete è come il
mondo reale, che si può esplorare
con un minimo di prudenza e precauzioni in modo positivo.
Giancarlo Zizola
NOTE
1 [email protected]
2 Gabriella Pravettoni, Web psychology, Guerini
e associati, Milano 2002, p. 110.
3 Giuseppe Anzani, “Navigatori di mari putridi”, Avvenire, 18 marzo 2005.
4 Corriere della Sera, 18 novembre 2006.
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PROGRESSIVE DERIVE
DELL’IPERCOMUNICAZIONE PUBBLICA
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ssistiamo a una costante espansione della
logica razionalizzante all’interno dei sistemi sociali
contemporanei.
Questo testimonia, se
mai ce ne fosse ancora
bisogno, della sorprendente vitalità e
performatività di schemi interpretativi
dei processi sociali basati sulle logiche
dell’azione razionale e dell’approccio
cibernetico allo studio della società.
L’orizzonte di razionalità così ben delineato da Max Weber nel secolo scorso1, distintivo della modernità, alle soglie di questo nuovo millennio ha allargato il proprio dominio dilagando
addirittura verso ambiti dell’individualità e della relazione interpersonale finora preservati dalle logiche del calcolo e del riduzionismo astratto. Infatti
ora sono le emozioni stesse ad essere
toccate da dinamiche di «rischiaramento» basate sulla capacità e la volontà di rendere positive e discorsive
le «grammatiche» che regolano l’analisi del vissuto e la capacità delle persone di narrare e conferire significato
identitario ai sentimenti e alla relazione con alter (comprese le relazioni
identitarie di comunità)2.
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Mai come nella società attuale gli
ambiti di regolazione si sono estesi, fino a interpellare nella regola giuridica
i territori della nuda vita3. Non a caso
il diritto diventa uno dei luoghi privilegiati dell’indagine attorno ai corpi,
uno dei campi prescelti per l’esercizio
del potere disciplinare e dell’indagine
sulla verità «incorporata» nel comportamento delle persone e nelle loro
azioni quotidiane, atti che confermano o mettono in discussione le «microstrutture» e i «microsaperi»dell’architettura moderna del controllo4.
Questa «potenza del diritto», che si
manifesta nell’odierna law-satureted society,5 si accompagna a una profonda
trasformazione dei confini tra sfera
pubblica e sfera privata, tra visibilità e
invisibilità, tra contesti trasparenti e
contesti opachi, o nascosti. Nella classica divaricazione tra teorie sociali che
postulano la completa indipendenza
del sistema rispetto al proprio ambiente, la cecità autopoietica e autoreferenziale6, e teorie sociali che invece
evidenziano le potenzialità sconfinate
di controllo costante e totalizzante
dell’universo delle azioni sociali dei sistemi tecnologici (anche attraverso
tecniche sempre più raffinate di ossern. 2/2007
Marino Cavallo,
Università degli
Studi Suor Orsola
Benincasa, Napoli.
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vazione e di registrazione), pare prevalere nei nostri tempi la consapevolezza che i meccanismi di controllo possono essere efficacemente decentrati,
delocalizzati e inoculati gradualmente
nel corpo vivente oltre che nel corpo sociale7. Nel rendere «positivo» il discorso attorno al sé, nel portare nel bios il
fondamento del potere-sapere sociale,
nell’istituire la biopolitica quale zona
privilegiata di esercizio disciplinare e
di dislocazione dei dispositivi di sapere-potere si compie la transizione alla
società del controllo tecnologico. Non è
tanto la società del controllo totale,
degli apparati totalitari di sorveglianza, quanto piuttosto la società della
«microfisica dell’allarme», una società
basata sulla potenzialità dell’ipercomunicazione pubblica, della comunicazione
che rende oggetto di sapere-potere un
ambito enormemente più esteso dei
mondi di vita.
Se accettiamo come riferimento di
analisi il concetto di ipercomunicazione pubblica ecco che diventa essenziale indagare e rintracciare quei settori
della vita sociale dove si esplica in modo visibile questo esercizio di ipertrofia della comunicazione pubblicamente orientata. La comunicazione della
devianza e la comunicazione del rischio rappresentano a mio avviso due
zone in cui emergono nettamente le
tendenze attuali ad interpretare in
chiave ipercomunicativa le minacce alla convivenza sociale. In questo modo
dilagano interpretazioni del rischio
strettamente collegate alle dinamiche
di incertezza tipiche della modernità
liquida8 e all’opacità dei sistemi esperti contemporanei9.
Un’efficace analisi della percezione
dell’insicurezza e dell’allarme sociale è
presente nell’accurata indagine delle
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caratteristiche della criminalità nel tessuto urbano di una grande città, svolta con le tecniche della ricerca qualitativa da Alessandro Dal Lago qualche
anno fa. La tesi che emerge dalla sua
documentata ricerca è che il rischio e
l’allarme sociale sono direttamente
collegati alla visibilità pubblica del deviante prima e ancora che al rischio e
al pericolo del reato. Spaventa ciò che
è esposto e ostentato nel corpo sociale e urbano, impauriscono i comportamenti anormali che infrangono lo
scorrere quieto del quotidiano, che
mettono in discussione gli equilibri faticosamente negoziati tra la città visibile e la città invisibile, tra i corpi
esposti alla luce del sole e i corpi che
si muovono furtivi e di cui si intravedono a malapena le ombre nei vicoli
scarsamente illuminati del centro urbano delle nostre metropoli10.
Analoghe analisi sono applicabili ai
media, che producono e moltiplicano
immagini stereotipate dell’altro e che
spesso mettono in scena, per esempio
sugli immigrati, «cerimonie informative» ingannevoli, basate sulla diffusione di paure irrazionali e di conoscenze distorte e semplificatorie dei fenomeni. È in agguato lo stigma, che vede nel comportamento individuale il
segno di una minaccia depositata nel
gruppo sociale (o addirittura etnico!) a
cui il singolo appartiene. Diventa così
inevitabile per i media veicolare volontariamente o subire passivamente,
dall’esterno, il frame interpretativo degli eventi. Però, sull’onda dell’emotività, la percezione sociale del rischio
contribuisce a produrre dinamiche e
processi di opinion building artificiosamente strumentalizzabili11. Così il
conformismo e una certa superficialità nella lettura degli eventi rischiano
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di alimentare un «clima d’opinione»12
ostile, che rende tecnicamente semplice diffondere dispositivi e atteggiamenti di chiusura e di separatezza all’interno della nostra società.
È ormai evidente che una delle poche vie d’uscita non regressive da questa situazione richiede un aumento
della capacità del sistema di prodursi e
rappresentarsi come intelligenza collettiva, in grado però di generare non
solo reti di «intelligenze cognitive», ma
pure solide e consistenti architetture
di senso e di significato13.
Marino Cavallo
NOTE
1. M. Weber, Economia e società, Edizioni
di Comunità, Milano, 1961, [1922].
2. E. Illouz, Intimità fredde. Le emozioni nella società dei consumi, Feltrinelli, Milano, 2007.
3. G. Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 1995.
4. M. Foucault, La verità e le forme
giuridiche, La città del sole, Napoli, 1994. In
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particolare cfr. L.D’Alessandro, “Potere e pena nella problematica di Michel Foucault”,
ivi, pp. 141-160.
5. S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e
non diritto, Feltrinelli, Milano, 2006.
6. N. Luhmann, Sistemi sociali: fondamenti
di una teoria generale, Il Mulino, Bologna, 1990.
7. D. Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie
di controllo della vita quotidiana, Feltrinelli, Milano, 2002, [2001]. A. Pitasi (a cura di), Webcrimes: normalità, devianze e reati nel cyberspace,
Guerini, 2007.
8. Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza,
Roma-Bari, 2002, [2000].
9. A. Giddens, Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna, 1994, [1990].
10. A. Dal Lago, La città e le ombre: crimini,
criminali, cittadini, Feltrinelli, Milano, 2003. La
città presa in esame nello studio è Genova.
11. G. Grossi, L’opinione pubblica, Laterza,
Roma-Bari, 2004.
12. E. Noelle-Neumann, La spirale del silenzio, Meltemi, Roma, 2002.
13. P. Lévy, “Verso una mappa dell’intelligenza collettiva nel cyberspazio”, pp. 15-24,e
L. d’Alessandro, “Introduzione”, pp. 9-14, in
L. d’Alessandro (a cura di), Il gioco dell’intelligenza collettiva e i nuovi percorsi dei significati
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NELLA STORIA DEL GIORNALISMO E DELLA COMUNICAZIONE,
DELLA GUERRA E DELLA SOCIETÀ ITALIANA
PAOLO SCANDALETTI
L
Paolo Scandaletti,
professore di storia e
di etica del giornalismo e della comunicazione nelle università Luiss di Roma e Suor Orsola
Benincasa di Napoli
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si con i grandi numeri, con i milioni di
persone da mobilitare e mandare al
combattimento, con le ingenti risorse
da reperire facendo versare i pur esigui
risparmi nelle sempre più esangui casse pubbliche. Così – in un mondo senza radio e televisione – ci si serve ancora degli ottocenteschi manifesti
commerciali, nobilitati peraltro dall’arte di Toulouse-Lautrec, trasformati in
strumenti di vasta comunicazione bellica.
E’ un’esperienza comune a tutti gli
Stati europei in armi. Colori e slogan
su immagini eroiche ed esortative, o di
soldati feriti e profughi, proclamano le
ragioni della guerra e le sue necessità.
Erano mezzi e modalità assunti nella
convinzione che la durata del conflitto sarebbe stata breve. Per Natale, tutti
a casa, si diceva a Londra. Ma quando
l’arretrata cultura militare dei generali,
l’impreparazione di fronte ad una
guerra di tipo nuovo, il malcostume
dell’arroganza e della supponenza, misto alle doppiezze e ai rimpalli di responsabilità, fecero cadere le illusioni
o provocarono disastri come quelli accaduti a noi, si pose il problema di
guardare ai soldati anche come soggetti con diritto alla vita e alla dignità,
di passare dalla mera imposizione al
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rispetto, alla cura e soprattutto alla
motivazione o ri – motivazione a resistere in guerra. Una estenuante guerra
di posizione, confinati per mesi nella
melma delle trincee, a combattere
contro il gelo e il tanfo della putrefazione e degli escrementi, negli occhi lo
spettacolo dei corpi smembrati dei
compagni uccisi..
Vigendo la coscrizione obbligatoria, i manifesti per la mobilitazione ebbero origine e vita facile. Più arduo fu
mobilitare i soldi, e infatti si ricorreva
anche alla lusinga; o più tardi – col
prolungarsi degli eventi bellici – alla
mozione dei sentimenti verso i combattenti, i feriti, i profughi e gli orfani.
Infine, venendo meno uomini e mezzi, arrivò l’appello alle donne affinché
lavorassero nelle fabbriche, incrementassero la produzione. Così fu fatto in
tutti i paesi dell’Europa continentale,
ultima la Gran Bretagna, perché poteva contare su un esercito di soli volontari professionisti.
La fotografia non ancora centenaria e un cinema appena ventenne muovevano i primi passi nella combinazione con le cronache illustrate e i cinegiornali, pioniere la Francia e l’Inghilterra. Mentre il grande schermo già
svuotava i teatri, Hollywood era prossima a diventare la capitale della produzione e Charlie Chaplin si preparava
a testimoniare i tempi con lo straordinario “Charlot soldato” del 1918. Si trattava di strumenti bellici del tutto nuovi: la settima arte nel rappresentare i
vari fronti del bene e del male, la fotografia nelle rilevazioni e nella propaganda. Ma in trincea le foto giravano
poco, per le restrizioni censorie e gli alti costi, eccettuato qualche raro e ingiallito ritratto famigliare; di più le immagini del santo protettore, il calenda-
I GIORNALI DI TRINCEA DOPO CAPORETTO
a prima Guerra Mondiale costituisce
uno straordinario punto di svolta storico: cambia il potere e gli Stati, la società e l’economia, la cultura, la strategia e la tecnologia della guerra, ma avvia anche un cambiamento profondo
del giornalismo e dei giornali. A mezzo secolo dalla sua unità, è stata per
l’Italia, - non ancora veramente unificata e modernizzata, più agricola che
industriale, dissanguata dall’ingente
emigrazione e dalle avventurose vicende coloniali, debilitata dall’analfabetismo e dai risicati diritti elettorali –
una prova tremenda.
Così è stato per il suo giornalismo,
già appesantito da assetti proprietari non
originariamente editoriali, dalle ambizioni letterarie delle sue penne più note e
dalle finalità di lotta politica. Pochi sono
i fogli nati esclusivamente per i cittadini
– lettori, e raramente hanno alle spalle
una tradizione consolidata e duratura di
“cani da guardia” dei poteri. Peraltro declinata all’impotenza perfino davanti agli
atti lesivi della libertà del Parlamento della corrente interventista che spingeva alla guerra
Ma la guerra di massa, che si profila nel 1914 sui territori di un’Europa
spaccata verticalmente, costringe le élite e gli uomini di potere a confrontar-
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rio profumato del barbiere con “le signorine” o le cartoline illustrate da
mandare a casa con qualche scatto del
‘fotografista’.. Erano invece assai più
significative le pitture che arrivavano
dal fronte: tra i milioni di soldati, infatti, vi erano parecchi artisti – come sir
Stanley Spencer, l’austriaco Egon
Schiele, i tedeschi Otto Dix e Franz
Marc, i nostri Umberto Boccioni e
quell’Aristide Sartorio che aveva appena affrescato l’aula di Montecitorio – in
grado di riprodurre con la matita e il
pennello, con orrore e pietà, le scene
del conflitto, eludendo le pressanti limitazioni imposte dalle autorità.
A differenza dei manifesti, in queste immagini, come nei canti malinconici e nostalgici che salivano dalle trincee - canti popolari imparati da bambini, o composti dagli stessi soldati
come “Bombardano Cortina” del 7° Alpini, o “Sul ponte di Bassano”, (“La leggenda del Piave” sarà scritta invece da
intellettuali e cantata per la prima volta a Napoli nel 1918) o nelle iscrizioni
incise sulle pareti di gallerie, rifugi e
depositi, non vi è traccia di odio per i
nemici, solo il ricordo degli amici
scomparsi e il rimpianto per la gioventù perduta, la casa lontana, gli affetti interrotti, un senso di sfida verso
la morte che coglie a tradimento in
ogni angolo. Riecheggiavano questi temi anche le lettere che i soldati spedivano a casa o alla ‘morosa’: di proprio
pugno molti, facendosi aiutare dai
cappellani militari o dai commilitoni i
più.
I grandi quotidiani nazionali facevano eco alle dispute dei politici, l’un
contro l’altro armati.. Qualcuno si occupava anche dei costi della guerra,
che si stavano mangiando i due terzi
del valore della lira; e magari degli avn. 2/2007
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vertimenti di Max Weber sulla necessità di affidarsi alla legalità che legittima il comando. Si discuteva sulle posizioni di Croce e Cadorna, sull’avanzata del socialismo, sulla guerra come
igiene del mondo predicata dai futuristi, della reciproca e crescente interferenza fra Stato economia e finanza, del
nazionalismo e la relativa demonizzazione dello straniero – nemico. Ma tutto questo fervore dialettico rimaneva
confinato nei recinti abituali della gente che conta e negli strati medio – alti
della società: quelli dei consigli di amministrazione e dei ministeri, delle
università e dei giornali destinati a chi
aveva studiato; letti dagli aristocratici e
dai borghesi, assai meno da operai e
contadini. Qui si sosteneva con calore
la ragione dell’intervento; di là saliva la
protesta: “Basta che non continuino a scrivere balle su di noi in trincea” o anche “Se
prendo Barzino, l’ammazzo”, secondo la
testimonianza di Alfonso Omodeo e
Corrado Alvaro. Benché lassù arrivassero poche copie di giornali, solo i
bollettini di guerra e gli asciutti se non
minacciosi comunicati dei comandi.
In verità, i resoconti di guerra subivano tutte le limitazioni che ogni conflitto impone: informazioni parziali e
verità taciute, censure e autocensure,
per non dire dell’avversione del generale Cadorna per la stampa come per
le “baionette intelligenti”e i “grilli parlanti”intellettuali e politici. Così, anche per il giornalismo più maturo e
volonteroso correvano tempi difficili,
poiché, come si sa, la prima vittima
della guerra diventa proprio la verità
dei fatti: e dunque la prima grande
sconfitta fu l’informazione. I 14 giornalisti italiani – obbligatoriamente ultraquarantenni - accreditati nel gennaio del ‘16 presso il comando di Ca-
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dorna a Udine, al di là degli scoop di
Rino Alessi e Arnaldo Fraccaroli, dovevano limitarsi a 500 parole di cronaca edulcorata, piena di retorica e di
omissioni, mirante più a convincere e
rassicurare che ad informare. Mentre
riservavano le verità più crude, gli errori e le disfunzioni toccati con mano,
alle missive private, come faceva Luigi
Barzini col suo direttore Albertini. E
nonostante tutto, per i giornali erano
affari d’oro e le tirature salivano: il
Corriere veleggiò spesso sopra il mezzo
milione di copie, La Stampa oltre le
200 mila, Il Resto del Carlino di Bologna
passò dalle 38 alle 150 mila, così il
Gazzettino di Venezia. Cominciava anche ad affermarsi l’abitudine a leggere
il quotidiano.
In uno scenario di stallo sostanziale, ma rivelatore di tutte le illusioni e le
incapacità, i limiti culturali e materiali
del Paese, irrompe Caporetto. Come
dice Mario Rigoni Stern: “Ora sappiamo
che fu solo una battaglia perduta, non una disfatta”. Ma, ben oltre il cambio Cadorna – Diaz, ha la capacità di rimettere in
discussione quasi tutto. Compreso il
giornalismo, che deve raccontare l’attacco subito e la ritirata, l’abbandono
dei paesi e del territorio, la fuga dei
profughi e l’invasione. Quando la guerra arriva a coinvolgere direttamente la
società civile, assume ancor più dimensioni di popolo: e anche il giornalismo,
dovendo fare i conti con nuovi protagonisti e nuovi lettori, deve darsi dei
parametri diversi, una cultura e dei format più popolari.
Nel dicembre del ‘17, due mesi dopo Caporetto, - consapevole che per il
governo degli uomini la prima scelta
strategica è di ricostruine il morale – il
generale Diaz riassetta il rapporto dei
poteri militari con i sottoposti e le fa-
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miglie dedicandovi maggiore rispetto
e attenzione. Così i civili che lavorano
nelle città possono sapere di più e cominciano a farsi un’opinione in proprio. A primavera istituisce, nell’ambito dell’ufficio stampa del suo Stato
maggiore, la sezione propaganda:
all’”ubbidire e combattere” subentra la rimotivazione e la cura del morale delle
truppe. Manda Ugo Ojetti, un intellettuale, nella Commissione Interalleata;
prende con sé il pedagogista Giuseppe Lombardo Radice; soprattutto promuove la pubblicazione dei giornali di
trincea, destinatario il soldato che si
logora sulla linea del fuoco.
Prima di allora, giravano saltuariamente solo alcuni fogli improvvisati,
compilati dai soldati stessi per i loro
commilitoni: scritti nelle pause del
combattimento e riprodotti al ciclostile, di impronta per lo più goliardica,
letti e discussi al momento del rancio,
magari con qualche ulteriore sfottò. Si
chiamavano: Il Trentino, La scarica, Vittoria, Cecco Beppe, La sanità, Ragno, Elmetto, Fifa. Avevano la prevalente caratteristica della spontaneità, della vita
alterna e breve, di un lessico spesso inventato: si diceva colla per dire riso, torrone stava per fucile, prugne per pallottole (ne è stato redatto un piccolo dizionario).
La propaganda bellica, fin lì quasi
improvvisata ed espressa nei manifesti
e nelle conferenze, assume connotati
cultural – scientifici e si esprime con
modalità nuove, dapprima sperimentali e poi via via più rigorose. Tra queste,
per l’appunto, i giornali di trincea: redatti da giornalisti – soldati per i soldati. Dal giugno 1918 vengono regolarmente spediti al fronte; secondo l’inventario fatto dall’Archivio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, 28 te-
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state destinate alle prime linee, 10 diffuse nelle retrovie e nelle città, altrettante all’estero.
Naturalmente sono diversi l’uno
dall’altro: più modesti o più raffinati,
settimanali o mensili, popolari o colti,
sciatti o eleganti, a colori alcuni e con
fior di illustrazioni. Vi collaborano firme illustri come Gaetano Salvemini,
Emilio Cecchi, Gioacchino Volpe, Ardengo Soffici, Giorgio De Chirico,
Pietro Jahier, Giuseppe Ungaretti,
Curzio Malaparte, Salvator Gotta,
Grazia Deledda.
All’ufficio P si preparano gli ‘spunti’, spesso stilati da Salvemini o Lombardo, per affidarli alla penna di qualche tenente o sergente che li renda più
discorsivi e credibili ai commilitoni.
Ci sono anche le pagine pubblicitarie di Pirelli o delle biciclette Bianchi.
Pezzi e immagini puntano a rialzare il
morale: compresi i rebus, le barzellette, i consigli pratici, lo sport, la poesia,
le ‘signorine’; ma anche satira e malignità per denigrare il nemico, descrizioni tanto crude quanto fantasiose
sui maltrattamenti ai prigionieri, documenti falsi che attestano la vittoria imminente, immagini volgari, eccessi retorici. Commistioni talvolta pesanti,
come fa il giornale dei cappellani militari là dove definisce l’esercito come
“il grande ritiro spirituale della gioventù d’Italia”.
Praticamente ogni armata aveva il
suo foglio, come pure enti o reparti
minori. Lo scrittore vociano Jahier
con il settimanale L’Astico, stampato a
Piovene Rocchette, si occupava degli
alpini della I Armata, con accenti democratici (il generale Cappello amava
circondarsi di ufficiali colti). Per la III
si pubblicava La Tradotta, realizzato da
uomini del Corriere della Sera; la IV aven. 2/2007
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va La Ghirba, dietro la quale c’era Soffici. E così La Marmitta, Il Grappa, il
San Marco avevano precisi destinatari.
Giornali per le trincee dunque, più che
giornali delle trincee: veicoli di quegli
“spunti” che in seguito, al tempo del
fascismo, si trasformeranno in “veline” del Minculpop. Sullo sfondo di
questa storia dei giornali di trincea risaltano con particolare spicco tre personaggi davvero emblematici: Renato
Simoni, Arnaldo Fraccaroli e Arnoldo
Mondadori; veronesi di origine e al
Corriere i primi due, veronese d’adozione e tipografo il terzo.
Delle 700 persone – fra giornalisti,
tipografi e impiegati - in organico al
Corriere della Sera all’inizio del conflitto, erano partiti in 380, ai quali lo stipendio continuava ad arrivare. Guidava la redazione romana Giovanni
Amendola, con Angelo Gatti collaboratore militare; c’erano corrispondenti
nelle principali capitali europee e 20
inviati sui fronti della guerra. E’ il
giornale che per primo ha dato la notizia della morte di Francesco Giuseppe nel 1916; e l’anno dopo Fraccaroli
avrebbe raccontato l’assalto con una
torpediniera al porto di Trieste, per
avervi personalmente partecipato.
Renato Simoni ne sarà il critico
teatrale per 40 anni. Comincia diciannovenne a L’Adige come cronista e poi
agli spettacoli; nel 1897 passa a L’Arena e due anni dopo si trasferisce a Milano, al Tempo. Il successo della sua
commedia La Vedova nel marzo 1903
induce il direttore Albertini ad assumerlo immediatamente al Corriere, con
un ragguardevole stipendio. All’entrata in guerra ha 40 anni, è sottotenente
di fanteria. Interventista convinto, va
a dirigere il settimanale La Tradotta e
organizza anche spettacoli per la trup-
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pa. Finirà col grado di maggiore, decorato con la Croce di guerra. Della
Tradotta, progettata e affidatagli dal
colonnello trevigiano Ercole Smaniotto, capo dell’ufficio informazioni della
Terza Armata, Simoni farà il modello
per questo genere di pubblicazioni.
Esce tra il 21 marzo 1918 e il 1° luglio
del ‘19, con 25 numeri e tre supplementi. Redazione a Mogliano Veneto,
al piano terra di villa Perosini, poi a
Trieste al seguito dell’avanzata vittoriosa. Graficamente elegante, stampa
a colori, illustrazioni davvero notevoli.
Erano stati chiamati a collaborare dal
Corriere dei Piccoli i disegnatori Antonio
Rubini e Bruno Brunelleschi, così Enrico Sacchetti da Lettura; e inoltre gli
inviati Riccardo Gigante e Arnaldo
Fraccaroli. Editore il ventinovenne
Arnoldo Mondadori, stampatore a
Verona.
Ma a fare il giornale è soprattutto
lui, Simoni, capace di miscelare abilmente il serio e il faceto, con un linguaggio semplice ed accattivante. Talvolta eccedendo nei toni, là dove demonizza il nemico parlando di un re
antropofago, del feldmaresciallo Conrad che sperpera le energie nelle alcove,
di “quando erano già celebri i Romani,/ marciavano i tedeschi a quattro mani”; o se la
prende con i socialisti (ed era un ex), ridicolizza l’anima di Pio X, la socializzazione delle donne in Russia, ricorre ai
doppi sensi di derivazione plebea.. La
linea politico – militare è altrettanto
semplificata: “nessun popolo è rispettato se non ha dimostrato di saper menare le mani”, i soldati nemici praticano le peggiori bassezze, è contro gli
americani e poi contro la “vittoria mutilata”, i lati più crudi della guerra vengono oscurati, il re e il Duca d’Aosta
sempre esaltati. Arnaldo Fraccaroli na-
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sce sempre a Verona da una famiglia
poverissima, sette anni dopo Simoni.
Inviato speciale del Corriere e più avanti direttore della Domenica del Corriere,
inizia come garzone di tipografia.
Scrisse la prime righe sul giornale umoristico vicentino La Freccia e su L’Arena, ma esordì nel 1902 come cronista a
La Provincia di Vicenza, diretto da un
amico del padre; l’anno seguente si trasferì al Veneto di Padova e poi alla Gazzetta di Venezia.
Il figlio Aldo lo ricorda come “un
esempio di decoro e di dignità”, sempre
pronto ad aiutare gli altri, saldamente
ancorato ad una rigida scala di valori:
la religione, la famiglia, l’amore per la
patria e la passione per il lavoro, la generosità verso i meno fortunati. Non
in linea il cliché degli inviati e dei corrispondenti di guerra, diventerà davvero uno dei più notevoli giornalisti
italiani del suo tempo: conquistando
fama, ricchezza e potere professionale. Ma occupandosi sino alla fine del
milanesissimo premio Notte di Natale.
A scoprirlo e valorizzarlo fu proprio Renato Simoni, e tra i due si stabilirà una stima ed un’amicizia indistruttibili. A Padova diventa redattore
capo, scrive e mette in scena una commedia: “Ostrega che sbrego”, che avrà
una fortuna straordinaria per oltre
mezzo secolo. E’ il 1907, e due anni
dopo Simoni dal Corriere lo chiama per
presentarlo a Luigi Albertini, che lo
assume ma lo fa ripartire da semplice
cronista di nera.
E’ comunque una via per entrare
nel grande giornale e l’occasione per
dimostrare le straordinarie qualità di
testimone che va, vede e racconta, facendosi comprendere da tutti. Capita
l’occasione di sostituire un collega e
nella guerra italo – turca per la conqui-
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sta della Libia e lavora accanto a Luigi
Barzini e Guelfo Civinini, il pool di redattori viaggianti che di lì a poco seguirà
la Grande Guerra. Dapprima sul fronte austro – russo, non oscurando gli
orrori della guerra e non facendo storiografia né letteratura, ma soltanto vero giornalismo.
In Italia esordisce sul fronte trentino; dopo Caporetto segue a Padova il
comando generale che vi si è trasferito: ed è qui che collabora a La Tradotta di Simoni, inventandosi la corrispondenza amorosa fra il soldato Baldoria e la morosa Teresina, donna di
servizio. Il fascino e la comicità nascono dalle situazioni, raccontate con
un linguaggio che scambia le parole
del gergo militare con quelle dell’amore: “Amore mio intangibile.. mi par di leggerti nelle retrovie del pensiero.. ti voglio dare
un bacio a tiro radente.. scrivimi a bruciapelo”. E la propaganda la fa spiegando
come la Patria sia “l’insieme di tante Teresine” e la difesa del Paese la lotta per
difendere i propri cari.
Il terzo determinante responsabile
del successo del miglior giornale di
trincea è Arnoldo Mondadori, che a
Verona aveva già avviato un’ iniziativa
editoriale. Mantovano, di poveri natali
e di studi elementari, non avendo “mai
potuto godere neppure una volta del possesso
di un libro nuovo”, per campare fa di tutto. Il contatto con la carta stampata avviene nelle tipografia – cartoleria in cui
fa il commesso. Socialista, promuove
La Luce, giornale popolare e istruttivo. Poi
rileva la tipografia, diventa amico del
giornalista Tommaso Monicelli, socialista come lui, del quale sposerà la sorella e pubblicherà il primo libro.
Allo scoppio della guerra è dichiarato ‘inabile’ a sparare, ma da essa
trarrà le iniziali fortune editoriali
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stampando materiali per i militari e
ben tre dei giornali di trincea: La Tradotta, La Ghirba e Le Fiamme nere. “La
Sociale” - così si chiamava la sua società editrice – piantò ad Ostiglia il
nuovo stabilimento, avendo assorbito
una tipografia veronese, ma non il
quotidiano L’Arena, che andava nelle
mani dei liberali monarchici. Ma lui,
per sostenere il crescente successo
della sua Tradotta, la portò direttamente in prima linea alla truppa servendosi perfino di aeroplani. Era nato il
grande editore.
Concludendo, va ricordato che l’azione di propaganda militare veniva
praticata anche negli altri Paesi europei
di più consolidata tradizione democratico-liberale, dove la stampa aveva alle
spalle una lunga storia di autonomia dai
poteri politico – economici. Per prima
la Gran Bretagna, con la collaborazione
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di fior di intellettuali e scrittori: là i nostri scrittori si chiamavano Kipling,
Wells o Doyle... Così in Francia, in Germania e negli Stati Uniti.
Nei momenti critici si può fare ricorso ad ogni mezzo: del resto, per
promuovere la Rivoluzione francese
vennero usati perfino i ventagli delle
signore, le tazzine da caffè e le carte
da gioco. Ma alla fine la verità ottiene
la sua rivincita; finita la guerra, anche
da noi s’è saputo quasi tutto: dalle
Scarpe al sole di Paolo Monelli e Un anno sull’altipiano di Lussu, ai successivi
film di Mario Monicelli e Francesco
Rosi. E tuttavia il racconto storico, come ricerca e opinabile riflessione sui
fatti e sui comportamenti, deve continuare: è ciò che stan facendo appunto
il progetto “Rileggiamo la Grande Guerra”.
Paolo Scandaletti
NUOVO VERTICE FNSI
Il 25° Congresso tenutosi a Bari dal 26 al 30 novembre ha eletto nuovo presidente della Federazione della stampa Roberto Natale, e segretario Franco Siddi. Il 18 dicembre è stata eletta la nuova Giunta esecutiva: Luigi Ronsisvalle, Marco Gardenghi, Guido Besana, Enrico Ferri,
Giovanni Rossi, Pierfranco Devecchi, Fabio Azzolini, Lucia Visca, Carlo Maria Parisi, Daniela Stigliano, Marina Garbesi; collaboratori: Gino
Falleri, Domenico Castellano, Ezio Ercole.
“Contratto, riforma della professione, pluralismo, qualita’ dei contenuti. Con la guida di Franco Siddi e Roberto Natale il sindacato unitario
dei giornalisti italiani” - per Massimo Milone, presidente Unione Cattolica Stampa Italiana - “colleghi che saldano robuste storie professionali, e sindacali, sensibilità e profonde motivazioni etiche, ha la possibilità di aprire una pagina nuova e diversa di protagonismo, seppur in
uno scenario di crisi e di interrogativi, tra le logiche perverse del mercato e il diritto dei cittadini ad una informazione veritiera. Auguriamo
alla nuova FNSI tante battaglie per la libertà d’informazione, l’obiettività, il pluralismo delle fonti, l’autonomia dei giornalisti, beni irrinunciabili non solo per il giornalismo italiano, ma per l’intera società”.
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LOBBIES
REGOLAMENTAZIONE POSSIBILE?
CAMILLA RUMI
“
I lobbisti sono quelle persone
che per farmi comprendere un
problema impiegano dieci minuti e cinque fogli di carta. Per spiegarmi
lo stesso problema i miei collaboratori impiegano tre giorni e decine di pagine”. Tale affermazione fatta dal Presidente Kennedy ed eletta a frase d’apertura della home page del sito di Reti, una delle principali società italiane
di lobbying e public affaire, chiarisce
in modo molto sintetico come la professione del lobbista consista nel rappresentare gli interessi di una determinata categoria sociale presso le sedi
pubbliche, per raccogliere e sostenere
le istanze di singole imprese private,
enti o associazioni presso coloro che
decidono e approvano le leggi. Un’attività che spazia dalla difesa di cause
etiche, come l’ambiente e i diritti dei
minori, agli interessi economici di
grandi aziende.
L’attività di lobbying, riconosciuta come vera e propria professione sia negli Stati Uniti che in gran parte d’Europa, stenta però a trovare un’adeguata regolamentazione in Italia, dove in-
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vece, grazie alla scomparsa delle vecchie strutture di partito, sono sorte
nuove esigenze e nuovi interessi da
rappresentare che hanno, di conseguenza, incrementato lo spazio di attuazione di questa specifica professionalità. Questo atteggiamento di incondizionato sospetto verso tale professione, vista come gruppo di potere occulto che influenza le decisioni politiche tramite la pressione economica,
inizia a vacillare, ma si è decisamente
ancora molto lontani da un suo totale
superamento. Ciò è testimoniato dal
fatto che in Italia sono non più di una
decina le società di comunicazione
che dichiarano ufficialmente nello statuto, sul sito Internet o sui biglietti da
visita di svolgere attività di lobbying.
Tale pregiudizio ha senz’altro contribuito in maniera importante a bloccare la strada ad una seria e completa legislazione dell’attività lobbistica sia a
livello nazionale che regionale, pur
con qualche eccezione. Soltanto due
delle venti Regioni italiane, Toscana e
Molise, hanno infatti pienamente riconosciuto i gruppi di interesse presenti
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Camilla Rumi, giornalista, dottoranda
Università LUMSA, Roma
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nella società e valorizzato il loro ruolo
ai fini della trasparenza dell’attività
politica e amministrativa. Le leggi regionali 18 gennaio 2002 n. 5 (“Norme
per la trasparenza dell’attività politica
e amministrativa del Consiglio regionale della Toscana”) e 22 ottobre 2004
n. 4 (“Norme per la trasparenza dell’attività politica e amministrativa del
Consiglio regionale del Molise”), grazie alle quali sono state poste le basi
per la realizzazione di un vero pluralismo economico, sociale e culturale,
sembrano rappresentare, almeno per
il momento, due casi più che isolati.
Nonostante in molti atti parlamentari
si possa leggere che l’attività di
lobbying è “un’attività in sé legittima
ed ineliminabile in un regime pluralista”, il binomio lobby-democrazia
stenta a trovare un pieno riconoscimento nel nostro Paese. Dal 1948 al
marzo del 2006 (termine della XIV legislatura), sono stati presentati in materia ben 25 progetti di legge, di cui
nessuno ha trovato una definitiva approvazione e soltanto 6 sono arrivati
ad essere discussi dalle Commissioni
competenti. L’ultima iniziativa risale
invece allo scorso 12 ottobre, data in
cui il Consiglio dei Ministri ha approvato su proposta del Presidente del
Consiglio, Romano Prodi, e del Ministro per l’attuazione del programma di
Governo, Giulio Santagata, il disegno
di legge n. 1866 “Disciplina dell’attività di rappresentanza di interessi particolari”, con il preciso scopo di regolamentare, per la prima volta in Italia,
l’attività di lobbying. Il ddl, il cui esan. 2/2007
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me è stato assegnato ufficialmente lo
scorso 13 novembre alla Commissione Affari costituzionali, si propone di
soddisfare esigenze di trasparenza, al
fine di rendere conoscibili al cittadino
i molteplici fattori che incidono sui
processi decisionali pubblici, e di garantire ai lobbisti la partecipazione a
tali processi in condizioni di parità di
trattamento. L’iniziativa del Governo
introduce quindi disposizioni che intendono finalmente regolare il rapporto tra decisori pubblici e gruppi di
pressione, la cui attività di rappresentanza di interessi particolari non può
essere svolta nei confronti dei membri
delle Camere o degli esponenti degli
altri organi costituzionali, essendo circoscritta ai vertici del potere esecutivo, per la volontà di garantire una piena autonomia di tali organi.
Le principali novità introdotte da questo disegno di legge, consultabile nella sua versione integrale sul sito del
Senato (www.senato.it), possono essere considerate:
a) la massima trasparenza dell’attività
di lobbying: i decisori pubblici devono
rendere disponibili a chiunque i documenti presentati dai lobbisti;
b) l’obbligo dei decisori pubblici di
citare nella relazione illustrativa e nel
preambolo degli atti normativi e degli
atti amministrativi generali l’attività di
rappresentanza degli interessi svolta
nei propri confronti;
c) l’individuazione nel CNEL del
soggetto garante dell’esercizio dell’attività di lobbying;
d) l’istituzione presso il CNEL di un
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“Registro pubblico dei rappresentanti
di interessi particolari” al fine di
garantire la conoscibilità dell’attività
dei soggetti che influenzano i processi decisionali pubblici;
e) l’iscrizione a tale registro viene subordinata ad alcuni requisiti, tra i quali,
si segnala, il rispetto del Codice di deontologia che sarà emanato dal
CNEL, previa consultazione delle organizzazioni rappresentative del settore;
f) la previsione di un sistema di
sanzioni reputazionali (pubblicazione
sui giornali) e pecuniarie (da 2.000 a
20.000 euro) per lo svolgimento dell’attività di lobbying da parte dei
soggetti non iscritti al registro;
g) l’obbligo per i lobbisti di presentare, ogni anno, al CNEL una relazione sull’attività di rappresentanza
di interessi svolta;
h) la trasmissione al Parlamento da
parte del CNEL di un rapporto annuale sull’attività di verifica svolta.
“I palazzi del Governo diventeranno
trasparenti – ha dichiarato Michele
Corradino, capo di Gabinetto del Ministero per l’attuazione del programma, agli esperti del sito lobbyingitalia.info – e con il riconoscimento del
diritto di lobbying cade quell’aura negativa che circonda questo mestiere”.
Soddisfatto del testo approvato dal
Governo si è dimostrato anche Gianluca Comin, presidente della Federazione Italiana Relazioni Pubbliche: “Il
provvedimento riconosce la professione del lobbista. Ora auspichiamo
una rapida approvazione in Parlamen-
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to anche se su alcuni punti il testo richiede alcuni affinamenti: sulle sanzioni per chi non rispetta le regole è
chiaro che il CNEL emetterà provvedimenti motivati, ma non è esplicitato
se prima sarà sentito l’interessato. Diamo inoltre la nostra disponibilità fin
da ora per la consultazione sul codice
deontologico che dovrà essere deliberato dal CNEL dopo l’entrata in vigore della legge”.
Ciò che tutti ci auguriamo è che quindi tale disegno di legge possa andare
incontro ad una rapida approvazione e
che, soprattutto, non rappresenti l’ultima di una lunga serie di proposte legislative che hanno finito per arenarsi
in Parlamento. Per ulteriori approfondimenti sul tema si rimanda al quaderno di Desk n. 14 “Università e professioni dei comunicatori in Europa. Criticità, ritardi e problemi irrisolti”, curato dal direttore di questa rivista,
Paolo Scandaletti, e dal Preside della
Facoltà di Scienze Politiche della
Luiss, Massimo Baldini, che sarà presentato all’inizio del 2008 presso Palazzo Rondinini a Roma.
Camilla Rumi
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UN’ATTIVITÀ
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LOBBY:
MODERNA ED EFFICACE
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Piero Onofri, esperto
di comunicazione
europea
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progressiva internalizzazione della attività di Lobby. Con l’opzione di scegliere il tipo ed il peso del messaggio
agendo direttamente ed individualmente, tramite proprie rappresentanze, oppure attraverso le Associazioni.
Cito a titolo di esempio a livello europeo la Confindustria e l’UNICE, La
Fiat e l’ACEA, le singole Regioni ed il
Comitato delle Regioni, le Ferrovie e
la CCFE e la UIC, le Confederazioni
delle PMI e l’UEAPME.
Alla complessità dell’apparato decisionale specialmente a livello Europeo ed
al potere decisionale via via crescente
delegato agli Enti Territoriali, vanno
aggiunte le Autorità. E’ sufficiente indicare, a puro titolo di esempio, gli
aspetti oggetto di esame e controllo
della Autorità garante della concorrenza e del mercato2. Questa Autorità
opera in piena autonomia su aspetti
che hanno ricadute importanti sul
tessuto economico e sociale: intese restrittive della libertà di concorrenza; abuso di
posizione dominante; concentrazione di imprese.
Il Potere Legislativo, in un assetto Costituzionale come il nostro, si estrinseca solo attraverso le decisioni prese
dal Parlamento. Una Repubblica par-
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lamentare bicamerale come la nostra
presenta comunque, a prescindere dai
rischi dei rimbalzi da una Camera all’altra, un assetto decisionale stringato
e sufficientemente elementare nei suoi
passaggi. Stiamo assistendo, è vero, ad
un crescente ricorso ai Decreti Legge
ed alle Leggi Delegate; rimane pur
sempre intatto ed intangibile il primato legislativo del Parlamento.
Grande e crescente rilievo hanno
assunto, come anticipato, le Istituzioni
locali alle quali sono collegati gli stessi
Parlamentari sempre più connessi con
i rispettivi collegi le cui posizioni e/o
richieste non sono sempre in sintonia
con i Partiti.
Il rapporto istituzionale è chiaramente esteso all’esecutivo sotto due
aspetti. Da un lato la preparazione o
predisposizione di norme, dall’altro
per l’esecuzione appunto che i Dicasteri danno normalmente alle normative generali.E’ unanimemente nota la
pletora di Decreti, Circolari, note ed
interpretazioni. La complessità dell’organizzazione dei Ministeri è un aggravante del problema dei contatti per
i risvolti delicati e spesso a rischio
conflittualità che si possono creare
passando dagli esecutivi ai direttivi. Va
sottolineata al riguardo la estrema
aleatorietà che ha caratterizzato i Governi fino agli ultimi anni del secolo
scorso il che ha reso spesso inutili o
comunque estremamente teorici i rapporti con i Titolari dei Dicasteri. Le
azioni sono state e sono tutt’ora rivolte alla macchina ministeriale caratterizzata almeno fino al 2001 da una sostanziale stabilità a prescindere dal
Governo in carica3.
A tutto ciò va aggiunta poi l’attività di monitoraggio a posteriori delle
ricadute delle norme, sulla possibilità
DI PRESSIONE
re gli aspetti di base da
considerare: la complessità
dell’impalcatura legislativa
ed esecutiva specialmente
nella Unione Europea; il
decentramento del potere
decisionale; una attività di pressione
moderna ed efficace.
Il primo aspetto problematico è
imperniato sulla correlazione strettissima tra “Azione di Stimolo” cioè
Lobby, Relazioni Istituzionali, conoscenza della materia di cui si tratta e
capacità di Comunicazione. Tra le definizioni infatti della attività di Lobby,
che mi sembrano maggiormente aderenti alla realtà, cito quella del Professore Mazzei1 : “strumento per rendere più flessibili e sensibili agli interessi, la politica e le forze che regolano il
mercato”. Ricordo anche le Sue tre C
“ Comunicazione, Convinzione, Cogestione delle decisioni” Non dunque
una attività oscura, riprovevole, mistificante ma una Professione che richiede onestà intellettuale, grande professionalità, grande preparazione, disponibilità ai contatti interpersonali.
Non a caso stiamo assistendo nelle Imprese ma anche nelle Associazioni di rappresentanza e tutela ad una
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della loro interpretazione che l’averne
partecipato alla stesura rende possibile.
Si è detto sopra che il bicameralismo è sufficientemente chiaro e con
percorsi definiti. La netta separazione
dei poteri contribuisce a tale chiarezza
e snellezza operativa. Il lavoro delle
Commissioni rappresenta il lavoro di
base, siano esse in sede deliberante o
in sede legislativa. Le audizioni sono
molto spesso una forma di lobby organizzata Il Parlamento è il Legislatore dunque, per antonomasia e per definizione. A lui spetta fare le Leggi,
convertire in Legge i Decreti Legge
che in caso eccezionale di necessità ed
urgenza il Governo può emanare; delegare con apposito atto legislativo il
suo potere al Governo che deve rispettare scrupolosamente i limiti previsti nella delega.
L’Unione Europea presenta, per
contro una impalcatura legislativa
estremamente complessa, variegata e
di difficile comprensione almeno a
prima vista. Risente delle difficoltà
che il percorso verso una Unione politica poi declassata ad un mercato
unico e l’abolizione delle barriere di
frontiera per giungere alla realizzazione delle quattro libertà di circolazione
( persone, merci, capitali, servizi), ha
incontrato. Una Unione politica che, è
amaro sottolineare, appare sempre più
lontana, sostituita da un approccio
economico-monetario che sono certo
dispiacerebbe molto ai Padri fondatori della Comunità Europea come il nostro impareggiabile Altiero Spinelli
che ebbe a dire molti anni fa “Il Mercato comune non è una tappa ma una
beffa”4 Problema riproposto in agosto dal Presidente della Repubblica
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che ha parlato di una “ semplice rete
di cooperazione intergovernativa se
non verrà cambiato l’assetto istituzionale”.
L’attuale assetto ha portato a privilegiare alcuni aspetti come il Libero
Mercato, la Concorrenza con un
orientamento ad un corpo legislativo
estremamente vasto, spesso frammentato e più volto a ciò che non si deve
fare piuttosto che a quello che si dovrebbe e potrebbe fare.La Liberalizzazione e la Concorrenza hanno di fatto
preso il sopravvento sulla politica industriale.E’ conseguenza, questo assetto, della difficoltà da parte degli
Stati Membri di delegare la propria autonomia e potestà legislativa ad una
entità superiore. Risente a sua volta tale impostazione, dall’avere gli Stati
Membri cultura e tradizioni millenarie
con specificità e caratterizzazioni ai
quali non ritengo sia possibile derogare e che per contro rappresentano un
patrimonio di civiltà non annullabile.
Una costruzione che non è un Superstato né una federazione di Stati ma
una sommatoria-Unione di Stati che
mantiene lingue diverse ed assetti politici differenziati. Frutto anche di una
marcata diversità di essere e sul come
intendere questa nuova entità da parte
degli Stati membri. Solo a titolo di
esempio cito uno Paese fortemente
centralizzato e caratterizzato da un
forte senso dello Stato, la Francia; un
Paese federato con ben 16 Lander, la
Germania. Un esempio ulteriore è stato fornito dapprima dal voto contrario
alla Costituzione Europea da parte di
Francia ed Olanda e successivamente
dall’accordo non certo esaltante raggiunto nella notte del 22 giugno di
quest’anno. Cito inoltre la clausola del
opt-out5 imposta dalla Gran Bretagna
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che, forse a qualcuno è sfuggito, è stato il motivo per il quale non si è riusciti agli inizi dell’anno, a far approvare la proposta di Direttiva di modifica
dell’orario di lavoro. Ma non va neppure sottaciuto lo slittamento a tempi
lunghi dell’entrata in vigore delle norme istituzionali appunto, che potrebbero rendere più agevole l’approvazione delle Leggi Europee. Un’entità,
dunque, assolutamente inedita e storicamente unica. Ricalca, questa costruzione, quanto previsto con straordinario acume da Benedetto Croce in un
periodo nel quale a tutto si poteva
pensare meno che ad una Europa unita. Scriveva dunque Croce: “A quel
modo che, or sono settant’anni, un
napoletano dell’antico Regno o un
piemontese del regno subalpino si fecero italiani, non rinnegando l’essere
loro anteriore ma innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere, così e
Francesi e Tedeschi e Italiani e tutti gli
altri si innalzeranno ad Europei ed i
loro pensieri indirizzeranno all’Europa e i loro cuori batteranno per Lei
come prima per le Patrie più piccole,
non dimenticate già, ma meglio amate”6. Si tratta di un sistema tutto particolare e che non ha eguali in alcuna altra realtà al mondo. Uno Stato che
non è uno Stato; una articolazione di
gestione che non tiene in alcun conto
il principio della separazione dei poteri, impostata come è sulla Commissione, vero motore della vita comunitaria
e sotto certi aspetti rappresentante del
potere esecutivo e controllore attento
del rispetto delle normative comunitarie che essa stessa prepara e presenta,
da parte degli Stati Membri Una Istituzione, questa, che come detto, presenta le proposte di Legge a due Istituzioni, il Parlamento ed il Consiglio,
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che procedono in via normale senza
alcun coordinamento e che si trovano
sempre più spesso a confrontarsi solo
in sede di Comitato di Conciliazione.
Già perché, unico caso conosciuto al
mondo, se le due Istituzioni e la Commissione non si trovano d’accordo su
un testo normativo, si ricorre al tentativo estremo di conciliazione appunto.
Si ricorre cioè ad un Comitato formato da un numero uguale di Membri del
Consiglio e del Parlamento7. Risente
questo sistema del duopolio imperante dove il Parlamento Europeo è stato
a lungo considerato privo di ogni autorità. Una Istituzione con funzioni
meramente consultive che doveva
esprimere pareri obbligatori ma non
vincolanti come il CESE (Comitato
Economico e Sociale Europeo). Questo fino all’Atto Unico (1 luglio 1987)
consolidato poi con il Trattato di Maastricht nel febbraio 1992 da dove è iniziata lenta ma sicura la risalita del Parlamento europeo nella scala dei valori
legislativi. Dapprima con poteri di codecisione limitati ad alcuni aspetti della vita europea per poi espandersi fino
alla situazione attuale che vede tale
metodologia pressoché generalizzata.
Rimangono fuori dal sistema della
codecisione alcuni settori definiti sensibili e tra questi ricordo quello fiscale
per il quale è previsto un iter tutto eccezionale.. L’articolo 93 del Trattato
assegna infatti una competenza esclusiva
al Consiglio dei Ministri delle Finanze,
il cosiddetto ECOFIN, che deve pronunciarsi alla unanimità sentito il parere del Parlamento Europeo e del Comitato Economico e Sociale Europeo.
Pareri questi obbligatori si, ma non
vincolanti.
La Commissione è dunque fonte
delle proposte legislative8 e nel con-
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tempo vigile controllore del rispetto
dei Trattati e delle normative comunitarie a livello nazionale.Ha il compito
quindi di dare esecuzione, a livello comunitario, alla normativa adottata dal
Consiglio e dal Parlamento. Una Istituzione articolata in Direzioni generali con funzioni specifiche e spiccatamente tecniche.
Il Consiglio dei ministri, competente per materia, che si riunisce mediamente quattro volte l’anno e per la
cui preparazione vengono coinvolti
Gruppi di lavoro, tecnici dei vari Paesi ed il COREPER9.
Proprio per questi motivi, considerato l’elevato tasso di tecnicismo che
caratterizza la vita moderna ed i rapporti a tutti i livelli, nonché il panorama istituzionale così vasto ed articolato, l’attività di lobby è sempre di più
vista come Relazioni Istituzionali all’interno delle strutture portatrici di
interessi, molto spesso accorpata nella
Direzione Relazione esterne. Uno degli ultimi esempi di tale scelta internalizzante è quello della General Electric che ha aperto un suo ufficio di
rappresentanza a Bruxelles retto da un
Vicepresidente. Qualcuno sostiene
che tale iniziativa sia stata presa dopo
la sonora bocciatura della fusione con
Honeywell da parte della DG Concorrenza. Va aggiunto che fanno parte del
variegato mondo dei portatori di interesse, anche realtà, senza fine di lucro,
che sostengono diritti di convivenza e
parificazione. Un esempio fra tanti ma
forse il meno conosciuto, è il LEF
(Lobbying Européen des Femmes)
nato nel 1990 e cofinanziato dalla UE.
Ed infine le cosiddette “Think Tanks”
vere e proprie “Camere pensanti” o “
Riserve di pensiero” che si pongono
l’obiettivo di identificare opzioni gen. 2/2007
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nerali e politiche volte ad influenzare
le riflessioni si noti bene, non le decisioni. Apparse all’inizio del secolo
scorso in G.B. si sono poi estese e sono operative a Bruxelles a partire dal
1990. Sono circa 700 in tutta Europa
di cui un quarto interviene su problematiche europee, a fronte delle 4.500
operanti in USA. Funzionano come
una lobby nei confronti della Commissione UE che le sovvenziona con
un budget di circa 3,5 milioni €. La loro influenza, ripeto, è ideologica e politica non commerciale. Cito ad esempio la CEPS (Centre for European
Policy Studies) che ha avuto un ruolo
importante nella stesura del Libro
Bianco su crescita e competitività di
Jacques Delors e sulla creazione della
BCE. Un altro esempio è la “Rete di
Stoccolma” animata da un editorialista
inglese che raggruppa 130 think tanks
sostenitrice di una liberalizzazione totale dei mercati, della conseguente deregolamentazione dell’economia e di
un livello di tassazione uniformata.
L’European Enterprise Institut ha
giocato un ruolo importante nella
questione Microsoft/Commissione
UE. Proprio in questi giorni è al lavoro un Think Tank inglese per l’esame
dell’adozione del road pricing a Londra e l’eventuale estensione ad altre
città e capitali europee, sempre da un
punto di vista politico e strategico.
In generale, pur nella difficoltà di
effettuare censimenti precisi, operano
a Bruxelles 3.000 Gruppi di pressione,
150 uffici di Governi Regionali comprese tutte le Regioni italiane se si eccettua la Basilicata. I contatti con il PE
vengono fatti assommare a circa
70.000 l’anno mentre oltre 4.000 sono
le Persone che hanno ottenuto i permessi di accesso cosiddetti di“ lunga
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durata” di cui diremo fra breve. Una
attività regolamentata in Unione Europea in maniera molto blanda anche
se ovviamente nel rispetto di normative precise differenti tra Parlamento
che da questo anno ha irrigidito il sistema di rilascio dei permessi di accesso di lunga durata; Commissione che
dal 2008 prevederà registrazioni su base volontaria e la presa visione di un
Codice di deontologia in fase di definizione; Consiglio che ha puntato l’attenzione sul libero accesso alla documentazione. Anche nei singoli Paesi
non esistono normative stringenti
(esiste un blando controllo in Germania ma solo al Bundestag ed in Francia
sono contingentati gli accessi ad alcuni locali), simili a quanto previsto negli USA. Il confronto però non è valido tenuto conto sia della Organizzazione Istituzionale che raggruppa nelle mani di una sola Persona poteri
enormi, sia per la struttura stessa e
l’organizzazione delle campagne elettorali. In questa ottica al finanziamento pubblico sempre largamente insufficiente, si sommano i fondi raccolti
dai privati e dai PAC ( Political Action
Committes).
In Italia si è alla ricerca da anni di
un simulacro di normalizzazione e solo due sono le Regioni che si sono date una normativa che peraltro è limitata all’obbligo di registrazione.
Sono queste solo anticipazioni di
quanto verrà detto più dettagliatamente nel corso di altri interventi previsti
in questa giornata.
In tutti questi casi, Relazioni Istituzionali assicura il monitoraggio continuo e l’analisi durante l’intero iter dei
provvedimenti allertando le funzioni
aziendali interessate fornendo e ricevendone impulsi. Cura i rapporti con i
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Parlamentari, organizza le audizioni
avendo cura di fare intervenire i tecnici e gli specialisti e fornendo studi e ricerche di supporto. Emergono chiaramente le caratteristiche che Relazioni
Istituzionali ha nell’organigramma
aziendale: una funzione di staff intendendosi come trasversale alle altre
funzioni alla pari con la funzione “ risorse umane”, Finanza, Legale.
Una funzione dunque trasversale quella delle R.I. come si è detto più sopra caratterizzata da una molteplicità di sfaccettature e di interventi a diversi livelli che ne fanno una
realtà aziendale assai importante, nevralgica e complessa i cui risultati sono valutati sulla base di parametri sostanzialmente differenti da quelli utilizzati per le funzioni cosiddette di “line” a diretto contatto cioè con il mercato, con i possibili o potenziali clienti. Ecco perché la maggior parte delle
volte, una funzione come questa è difficile da pesare con parametri quantitativi.
Una funzione strategica, dunque,
allocata in Organigramma a livello
molto alto, allineata alle funzioni trasversali più rilevanti come il Marketing
o la Finanza o le Risorse Umane10.
Rappresenta una delle professioni di
maggiore rilievo e prestigio specialmente a Bruxelles.
E’ fondamentale comunque una
correlazione stretta tra le varie funzioni aziendali che devono essere interessate con messaggi forti e chiari. Perché un grande rischio sta nella sopravvalutazione o sottovalutazione dei fatti sotto controllo e delle conseguenze
che determinate decisioni possono
avere in un ottica di rischio/opportunità. Il quadro che ne emerge è molto
articolato basato però su alcune impo-
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stazioni precise. Cultura generale, conoscenza delle problematiche aziendali, conoscenza della propria attività
e di quella dei competitori ma fondamentalmente conoscenza precisa e
dettagliata dei livelli di intervento e del
relativo spessore. Con alla base, onestà e senso del limite. Per giungere alla individuazione dei punti critici, dei
livelli da aggredire. In altri termini di
chi gestisce effettivamente il potere
decisionale.
La riuscita di una azione di tale fatta, implica dunque in sinergia e collaborazione stretta le varie funzioni
aziendali, come detto, ma anche un attento monitoraggio della posizione
degli Organismi “ associativi” al fine
di evitare contraddizioni. Non solo
perché è fondamentale intervenire anche su quegli Enti che pur avendo solo semplici poteri di espressione di pareri, possono costituire un appoggio
sostanziale. Si allude qui in particolare
al Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE) che rappresenta la cosiddetta Società civile e che è formato
da rappresentanti di tale Società (industria, commercio, sindacati etc).
Deve inoltre, R:I: seguire passo
passo l’iter dei provvedimenti rendendosi parte attiva e collaborativi a tutti i
livelli nella ripetuta caratteristica che le
norme sono ormai assate su aspetti
tecnici e tecnologici di particolare
complessità.
Proprio per questo è indispensabile una azione continua che assommi al
riconoscimento della professionalità
ed alla conquista di stima e fiducia e
sottolineo il termine fiducia, una presenza costante e discreta che eviti il
senso di scortese ed inaccettabile ricorso solo quando se ne avverte la necessità. Il rammentare certe date, rin. 2/2007
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correnze, certi aspetti anche non rilevanti della vita quotidiana ( una vittoria sportiva del Paese o della squadra
ad esempio), rappresentano l’abc del
portatore di interessi.
Proprio per i motivi addotti, il portatore di interessi fornisce notizie ed
informazioni tecniche e consigli: e necessita di una grande trasparenza . Ed
uno stile non aggressivo - a differenza
di quanto avviene negli USA - con interventi molto tecnici sempre dimostrati e possibilmente in ottica di interesse europeo. Onestà intellettuale e
grande disponibilità al dialogo ed al
contatto umano sono le componenti
aggiuntive. D’altro canto la molteplicità degli attori istituzionali in UE, la
loro differente estrazione e potere di
rappresentanza, non possono che
comportare atteggiamenti di grande
prudenza senza forzature di alcun genere.
Una professione ad elevato valore
aggiunto che coniuga conoscenze ed
obiettivi. Nel caso di appartenenza ad
una impresa il lobbista deve essere
convinto delle tesi sostenute e conscio
delle relative ricadute.
La caratteristica fondamentale ed
irrinunciabile deve essere quella della
trasparenza. I dubbi e le perplessità
che il termine lobby ha sollevato, sono
infatti riconducibili all’alone di mistero che ha contraddistinto certe attività
che poco o nulla hanno a che vedere
con quella di pressione. Si tratta di
manifestare interessi legittimi che devono corrispondere al soddisfacimento di interessi specifici e ben individuati.
Quanto accaduto agli inizi degli
anni 90 con tangentopoli è da considerare una patologia grave, esecrabile
e non certo lobby. E’ stata semmai la
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della legislazione che ha un impatto
sugli Stati Membri, diretto o indiretto
che sia, nasce negli ambienti comunitari. E’ la UE ad avere una grande discrezionalità ed autonomia legislativa
in tutti i settori della vita quotidiana a
volte eccedendo nel legiferare ed a
volte assumendo una posizione di imposizione non comprensibile: alludo
qui, ad esempio, alla normativa in fase
di definizione sulle caratteristiche e
nomenclature degli olii solari ed alla
norma sulla detenzione nei bagagli a
mano di liquidi, paste, creme etc. Non
a caso il PE ha richiamato nello scorso mese di settembre, la Commissione
ha giustificare tale ultima normativa o
ad abolirla.
Termino con una citazione che, a
prescindere dalla attribuzione al Presidente Kennedy, fotografa in maniera
perfetta le necessità e ciò che si attendono i Decisori da parte di una lobby
in Europa : “I lobbisti sono quelle
persone che, per farmi comprendere
un problema impiegano dieci minuti e
cinque fogli di carta. Per spiegarmi lo
stesso problema i miei collaboratori
impiegano tre giorni e decine di pagine”.
manifestazione più deteriore di arroganza e sicumera con l’aggravante di
un sentimento di sfida alle Leggi convinti della impunità. Ha acuito, tale situazione deteriore, il senso di profonda sfiducia nei confronti del mondo
politico e dei decisori in generale.Sarebbe veramente sconfortante il pensare alla corruzione come ad un fenomeno di normale prassi con il quale
bisogna convivere. Ciò non significa
che situazioni siffatte non possano ripetersi e ne è un esempio triste e deplorevole quanto accaduto nel settore
del calcio professionistico oppure il
caso Abramov negli USA. Uno scandalo scoppiato a seguito della denuncia di una portavoce parlamentare che,
abbandonata da un collaboratore dello stesso parlamentare, ha svelato un
losco intrigo di soldi. Realtà vuole che
sia meglio confrontarsi con esempi di
grande rilievo e cito, per il nostro Paese, l’accordo nel settore saccarifero
che ha comportato ricadute positive
per il comparto nel 2005; e la fornitura di 23 elicotteri da parte della Finmeccanica all’Air Squadron Marine
One in concorrenza con la Sikorsky;
oppure ancora la bocciatura del sistema di ecopunti voluto dalla Austria e
dalla Commissione Europea per l’attraversamento di quel Paese da parte
dei veicoli trasporto merci. In chiave
più generale bisognerebbe rifarsi ai casi Europei come l’abolizione del Duty
Free nel 199911 con il Consiglio dei
Ministri Trasporti in contrasto con
quello dell’economia e finanze che alla fine ha vinto, oppure ancora la liberalizzazione del trasporto aereo.
Una ultima notazione che può agevolare la comprensione del fenomeno
in Unione Europea e che ci differenzia ulteriormente dagli USA. L’80%
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NOTE
1 Giuseppe Mazzei, Lobby della trasparenza
presentazione al Centro di documentazione
giornalistica del 18/1/2005
2 Legge 287 del 10/10/1990
3 Contrariamente a quanto avviene in
Francia ad esempio dove ad ogni cambiamento
di Governo fa spesso seguito il cambio degli alti vertici ministeriali.
4 Ricordo di Altiero Spinelli Camera dei
Deputati 16/12/1996
5 clausola che permette su accordo Azienda/Sindacati di non rispettare l’orario di lavoro
a determinate condizioni
6 Benedetto Croce Storia d’Europa del secolo XIX 1932
7 Lo schema della procedura di codecisione è riportata in pagina successiva.
8 Le fonti aventi forza di Legge sono Direttive, Regolamenti e Decisioni. Le Raccomandazioni non hanno invece valore di Legge.( art.
249 del trattato)
9 Comitato dei Rappresentanti Permanenti
(ambasciate dei vari Paesi accreditate presso la
Unione Europea)
10 V. anche G. Mazzei - Lobby della
trasparenza. Centro Doc.Giornalistica Roma
2003
11 Un businnes da 12 miliardi$ nel mondo
e quasi 5 in Europa con oltre 140.000 addetti.
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INFORMAZIONE
DELL’
SERGIO BORSI
Giornata comunicazioni sociali
“I mezzi di comunicazione sociale: al
bivio tra protagonismo e servizio.
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Rosi Brandi (La Prealpina) è la nuova
presidente del Gruppo cronisti lombardi. Sostituisce Michele Crosti, dimissionario.
NOTIZIE DAL MONDO
Legge editoria
Il Governo ha varato il 12 ottobre “un
disegno di legge per la nuova disciplina dell’editoria quotidiana, periodica e
libraria, che conferisce allo stesso Governo la delega per l’emanazione di un
testo unico finalizzato al riordino dell’intera legislazione del settore”. L’obiettivo è promuovere “un crescente
pluralismo ed un maggiore sostegno
all’innovazione, all’occupazione, alla
trasparenza delle provvidenze pubbliche”.
Il ddl è stato presentato il 24 ottobre
alla Commissione Cultura della Camera. Saranno due le autorità che vigileranno sulla libera concorrenza: quella
per le garanzie nelle comunicazioni e
l’antitrust che conosceranno il mercato attraverso il registro degli operatori
(Roc). Il finanziamento diretto dello
Stato continuerà per le cooperative e
le testate di partito ma il contributo
deve avvenire nelle forme più corrette
e con criteri più severi. Le riduzioni
delle spese postali sono sostituite dal
credito d’imposta.
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Cercare la verità per condividerla”:
questo il titolo scelto dal Papa per la
42.ma giornata mondiale delle comunicazioni sociali che sarà celebrata il 4
maggio 2008. Il testo del messaggio
papale sarà pubblicato il 24 gennaio,
festa di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti.
Internet
Sono esclusi dall’obbligo di iscrizione
al registro degli operatori della comunicazione i soggetti che accedono a internet o operano su internet in forme
o con prodotti, come i siti personali, o
a uso collettivo che non costituiscono
un’organizzazione imprenditoriale del
lavoro.
Con questa decisione il Governo ha
risposto positivamente alle richieste
avanzate da più parti, politiche e sociali, perché venisse riconosciuta la libertà ai cittadini di possedere o partecipare alla vita di un blog o di un sito
con caratteristiche non giornalistiche.
Unione cronisti
Al termine dei lavori del congresso
che si è svolto a San Felice Circeo, i
delegati hanno confermato alla presidenza dell’Unci Guido Columba.
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Free press
Dei 23 milioni di lettori di quotidiani
in Italia, un terzo legge giornali distribuiti gratuitamente. Questa è anche
una delle cause della crisi delle vendite di quotidiani. I dati sono stati forniti durante la presentazione a Roma
della terza edizione del volume: L’Europa di carta – Guida alla stampa estera, Franco Angeli editore. In Europa
la free press è un mercato di 97 testate con oltre 22 milioni di copie. La fase è delicata perché si tratta di far diventare stabile e duraturo un mercato
ancora giovane.
I nostri editori – Chi sono?
Il gruppo Il Sole-24 Ore ha acquistato il
30% del capitale di Diamante, software house attiva nel mercato delle soluzioni gestionali per professionisti, micro e piccole imprese. La società gestisce attualmente oltre 5 mila aziende
clienti.
Intesa-San Paolo è salita in RCS MediaGroup dal 4,863 al 4,917%.
Nicola Grauso ha lasciato la gestione
del Gruppo E Polis, i quotidiani a distribuzione mista (free e in edicola a
50 centesimi). Resta nel gruppo solo
come consulente fino alla fine di agosto del prossimo anno. Ciò in attuazione di una clausola del contratto di
acquisto del gruppo da parte della finanziaria ABM.
Il presidente di Confindustria ha scelto i componenti del cda de Il Sole-24
Ore che entrerà in carica il primo giorno di quotazione del giornale in Borsa. Alla presidenza è confermato
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Giancarlo Cerutti e Claudio Calabi come ad.
Quotidiano.net dopo l’accordo di collaborazione con Il Tempo.it ha sottoscritto l’intesa anche con il Secolo XIX.it,
della durata triennale per realizzare
un progetto di web marketing comune
attraverso l’integrazione dei siti e aggregazione dei volumi di traffico. L’obiettivo è di offrire alla pubblicità un
nuovo mezzo forte come numeri e come target.
Sono tre le caratteristiche del gruppo
RCS: multimediale, internazionale, integrato. Al centro – ha detto l’ad Perricone – c’è la carta stampata che però
non può essere considerato l’unico
mezzo. La vera sfida è catturare gli
utenti generalisti con nuove tecnologie, modalità e approcci.
Libero è ora controllato al 100% dalla
famiglia Angelucci dopo che i soci
Feltri, Tagliapietra, Di Giore e Capriglia hanno ceduto la loro quota del
30,8% alla Fondazione San Raffaele.
Angelucci è anche proprietario de il
Riformista ed è azionista de l’Unità
con ipotesi di acquisizione del quotidiano.
“De Bortoli è il direttore de Il Sole-24
Ore e, come tale, avrà uno dei ruoli più
importanti per lo sviluppo della casa
editrice e del giornale dopo la quotazione in Borsa”. Lo ha detto Montezemolo definendo prive di fondamento le notizie di un cambio alla direzione del quotidiano economico.
Chi viene e chi va
Angelo Sajeva è il nuovo amministratore delegato di Mondadori pubblicità. Dal 5 novembre ha preso il posto
di Eduardo Giliberti che manterrà la
presidenza di Mondadori pubblicità
fino alla fine dell’anno.
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Nel mondo
Dal 21 ottobre nelle edicole spagnole
il quotidiano El Pais ha cambiato motto: da “quotidiano indipendente del
mattino” a “quotidiano globale in spagnolo”. Il giornale socialista si trasforma potenziando anche la sua versione
on line.
Il direttore del settimanale tedesco Die
Zeit critica editori e manager editoriali
che in Germania considerano la carta
stampata come un prodotto provvisorio che durerà solo fino a quando quei
pochi eccentrici che ancora amano
prendere in mano un giornale di carta,
saranno così vecchi da non poter più
leggere.
Sulla fusione Thomson-Reuters la Commissione Ue ha aperto un’inchiesta
per verificare gli effetti negativi sulla
concorrenza in diversi mercati del settore. Entrambe le società sono leader
nell’informazione economica e finanziaria offrendo dati a banche, fondi,
società e operatori.
Dal 5 ottobre il quotidiano tedesco
Frankfurter Allgemeine Zeitung ha introdotto il colore cominciando a pubblicare foto a colori dei più importanti
avvenimenti. Lo scopo è quello di migliorare la qualità e recuperare lettori.
Negli ultimi nove anni il giornale ha
perso 40 mila copie mentre la concorrente Sueddeutsche Zeitung di Monaco ne ha guadagnati 20 mila.
Il tribunale di Algeri ha assolto gli otto giornalisti della tv pubblica e di altri due canali televisivi. Erano accusati di aver trasmesso, durante il telegiornale, le caricature danesi sul profeta Mohamed. Ha prevalso la tesi dell’assenza di volontà di danneggiare il
profeta.
Dal 31 dicembre 1999 ad oggi sono
43 i giornalisti uccisi nella Federazione
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Russa. In pratica l’intero periodo del
governo Putin. La prima vittima fu un
cittadino italiano, Antonio Russo che
denunciava il genocidio del popolo ceceno così come Anna Politkovskaja,
uccisa davanti alla sua abitazione il 7
ottobre dello scorso anno.
La BBC, per difficoltà economiche, ha
annunciato di voler ridurre il personale di 2800 unità, pari al 12% del totale
di 23 mila dipendenti.
La BBC, infatti, è finanziata esclusivamente dal canone televisivo e la decisione del Governo di non aumentare
il canone oltre il tasso d’inflazione, ha
creato un buco di due miliardi di sterline nel bilancio. Secondo i dirigenti
dell’ente l’unica strada per il risanamento è la riduzione del personale.
Dopo l’uscita di Colombani Le Monde
si prepara a liquidare anche Alain
Minc che per 13 anni è stato presidente del consiglio di vigilanza del gruppo
editoriale. Un’uscita voluta dalla redazione. Minc lascerà entro marzo del
prossimo anno.
A Varsavia dal 15 ottobre è in vendita
il nuovo quotidiano Polska, edito da
Polskapresse, società controllata dal
gruppo tedesco Verlagsgruppe Passau. Inizialmente è stampata in 600700 mila copie con una foliazione che
varia fra le 40 e le 56 pagine. Si tratta
di un’edizione locale – con notizie anche regionali – che si affianca ai sei
quotidiani regionali e a quelli locali
che sono già pubblicati dalla stessa società editrice.
La Tribune ha invitato il proprietario
Barnard Arnault a “divorziare con dignità”, cioè che la vendita del giornale
avvenga nel rispetto della sua indipendenza e della sua qualità. Arnault vuole vendere il giornale per comprare
Les Echos.
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Liberation, quotidiano della sinistra
francese, dal 15 ottobre è a colori e
con una sola grande immagine in prima pagina e un format più geometrico e lineare.
A Pechino e in tutta la Cina se i giornali stranieri pubblicano in prima pagina una notizia che suscita grande interesse fra i lettori fa scattare la censura. L’edizione asiatica del Wall Street
Journal aveva un pezzo in prima pagina che continuava in altra parte del
giornale. Ebbene la pagina interna è
stata tagliata su tutte le copie del giornale.
Il 62% dei francesi giudica i giornali
dipendenti dal potere politico mentre
il 33% li giudica indipendenti. In un
sondaggio realizzato per Liberation il
53% degli intervistati ritiene che nulla
sia cambiato dopo l’elezione di
Sarkozy.
In Slovenia oltre 500 giornalisti hanno
accusato il governo di centro-destra
del primo ministro Janez Jansa di censura e di pressioni politiche sui media.
Una petizione è stata consegnata al
presidente del Parlamento di Lubiana.
Negli Stati Uniti la Camera ha approvato un provvedimento a tutela del diritto dei giornalisti ad avere fonti confidenziali.
In particolare i giornalisti possono
continuare a mantenere riservate le loro fonti confidenziali anche quando
sono coinvolti in dibattimenti davanti
alla Corte federale.
Fanno eccezione le notizie che possono mettere a rischio la sicurezza nazionale. Inoltre il capo della Federal
Communication Commission ha proposto una riforma che prevede la revoca del divieto per una società di
possedere un quotidiano e una televisione o una stazione radio nello stesso
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bacino di utenza. La proposta gode
del consenso della maggioranza dei
membri della FCC.
News Corp ha superato la capitalizzazione di Time Warner alla borsa di
New York, diventando così il gruppo
più grande del settore dei media con
un valore di mercato di 67,79 miliardi
di dollari. Al terzo posto Disney, al
quarto Sony che precede Viacom e
Cbs.
I dirigenti di 84 agenzie di stampa operanti in oltre 90 Paesi si sono riuniti a
Estopona, in Andalusia, per il secondo congresso mondiale dedicato alle
questioni legate alla globalizzazione
nel mondo dell’informazione, alle
nuove tecnologie e alla libertà di stampa.
Ha detto re Juan Carlos, aprendo i lavori, che prima della rapidità di diffusione devono contare il rigore e la serietà dell’informazione.
Le agenzie hanno prospettive di sviluppo perché la domanda di informazione è in costante crescita ma devono sapersi adattare rapidamente alle
nuove modalità di confezionamento e
distribuzione del loro prodotto ed essere all’avanguardia nell’uso delle nuove tecnologie.
[email protected]
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a cura di
Settilio Mauro
Gallinaro, tutor
all’Università La
Sapienza, Roma
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Enzo Baldoni. La morte di un giornalista atipico.
di Antonio Benforte
Università “La Sapienza”, Roma
Relatore: Prof. Pietro Veronese
uesto lavoro di tesi nasce da due esigenze: fare chiarezza e non dimenticare. Portare alla luce i tratti di una vicenda che riguarda da vicino la
nostra storia recente e che, troppo in fretta, è finita nel dimenticatoio; e ricordare il lavoro di Enzo Baldoni, giornalista atipico, andato in Iraq per documentare la guerra ed invece morto in circostanze ancora non del tutto chiare, nonostante siano passati più di tre anni dal suo assassinio.
Questa è una ricerca sul suo modo di fare e di intendere il giornalismo, facendo parlare Baldoni attraverso i suoi scritti e i suoi reportage. In molte interviste aveva dichiarato di non sentirsi un vero giornalista, di scrivere soprattutto
per passione, perché amava i viaggi e desiderava capire le culture dei paesi lontani. Ma, nonostante quello dell’inviato non fosse il suo primo mestiere, il suo è
lo sguardo di un reporter esperto, curioso e dubbioso.
Alla luce di questa sua visione del mondo, l’intento è ripercorrere e ricostruire - attraverso articoli su (e di) Enzo Baldoni - la storia della sua vita, la carriera giornalistica ed il suo ultimo viaggio in Iraq.
Si è analizzata la figura di Baldoni come quella di giornalista fuori dai ranghi,
di battitore libero del giornalismo: dai primi reportage fino agli ultimi articoli per
“Diario”. Si è cercato di mettere in risalto gli elementi innovativi del suo modo
di intendere il giornalismo e la comunicazione, l’uso del blog come strumento
antimainstream e antagonistico e di uno stile di scrittura volutamente colloquiale, diretto, al di sopra delle righe.
Il ritratto che emerge è quello di un uomo spavaldo e curioso, caparbio e totalmente libero da ideologie. Un uomo senza rigidi schemi precostituiti, animato da una grande voglia di conoscere e capire.
Si cercherà di dare un senso ai suoi ultimi giorni di vita, ripercorrendo le tappe più importanti del suo viaggio a Baghdad, e confrontando le diverse versioni della vicenda apparse sui quotidiani – durante e dopo il rapimento – e sul settimanale “Diario” – diretto da Enrico Deaglio, per cui Enzo lavorava – che è l’unico ad aver realizzato una serie di numeri di inchiesta sulla vicenda.
Particolare attenzione è rivolta a comprendere cosa sia successo durante quei
concitati giorni di fine agosto, perché il giornalista sia stato rapito e quali siano
stati effettivamente le ultime ore prima del sequestro. Ci siamo chiesti quali siano state le cause che hanno portato alla sua morte, il motivo di una così evidente
approssimazione della stampa nell’analisi della vicenda e le motivazioni che hanno portato ad una conclusione così rapida e drammatica del rapimento.
Lo studio si è sviluppato attraverso quattro percorsi di ricerca bibliografica:
testi sull’Iraq, sul giornalismo in generale e sul giornalismo di guerra in particolare; libri su e di Baldoni, come i Roadbook in pdf scaricabili dal sito www.balene.it, e informazioni tratte dai suoi blog; giornali e articoli sul sequestro e l’assasn. 2/2007
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sinio; tutti i numeri della rivista “Diario” dedicati alla memoria del giornalista.
Dall’analisi comparata delle informazioni, si evidenzieranno numerose incongruenze tra le versioni riportate dai quotidiani e le ricerche più approfondite realizzate da “Diario” successivamente. Incongruenze che mettono in luce l’atteggiamento superficiale dei media italiani e la grettezza della campagna denigratoria di “Libero”, il quotidiano di Vittorio Feltri; dettagli che testimoniano la poca partecipazione del Governo italiano, i comportamenti ambigui della Croce
Rossa e di Scelli; che evidenziano la mancata attivazione dei giusti canali per rintracciare il giornalista e il disinteresse quasi totale da parte dell’opinione pubblica italiana.
C’era poi, inspiegabilmente, una strana combinazione di superficialità, ottimismo e ironia, in alcuni articoli e interventi pubblici che tratteggiavano la figura del reporter durante quei giorni concitati, che non hanno permesso di capire
in tempo la drammaticità della situazione. Tutta la vicenda, in generale, non è
stata affrontata con lo stesso interesse apparso in altri casi simili verificatisi in
Iraq nei mesi precedenti e successivi.
E, dopo queste vicende, anche la sua tragica fine ha subito quasi subito un
abbandono da parte di molti canali informativi e delle istituzioni. Dopo il suo
assassinio, infatti, ancora domande senza risposte, pressappochismo, colpevole
superficialità e inefficienza da parte dei media, del Governo e della Croce Rossa.
Intanto, la famiglia aspetta ancora il suo corpo, per un funerale che Enzo
Baldoni ancora non ha avuto. E sono ormai trascorsi più di tre anni dalla sua assurda morte.
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Il caso Moro in tre quotidiani
di Irene Iermano
Università Suor Orsola Benincasa, Napoli
Relatore: Prof. Paolo Scandaletti
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l lavoro di ricerca si è proposto di ripercorrere le fasi più drammatiche del
Caso Moro, attraverso l’analisi di tre testate giornalistiche che si sono occupate dell’affaire dal giorno del sequestro, avvenuto per mano brigatista il 16 marzo 1978 a Roma, a quello del ritrovamento del cadavere in Via Caetani il 9 maggio dello stesso anno.
La ricerca bibliografica si è avvalsa dei numerosi volumi dedicati alla figura
politica e umana di Aldo Moro ma, soprattutto, degli articoli giornalistici che
hanno monitorato in quei giorni gli sviluppi della drammatica vicenda. I giornali scelti per la ricerca sono stati: “Il Messaggero”, “l’Unità” e “il Mattino”. Si sono individuati, in questo modo, tre percorsi definiti, orientati a rappresentare gli
umori della capitale, le posizioni del PCI e le attese delle regioni meridionali di
fronte ad un avvenimento storico-politico dagli esisti imprevedibili.
Attraverso campioni di lettura, la ricerca ha analizzato gli articoli pubblicati
durante il sequestro, soffermandosi sulla grammatica dei titoli, la nomenclatura
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dei pezzi, il taglio e lo stile di scrittura. Durante i cinquantacinque giorni di prigionia del presidente Moro, “Il Messaggero” raccolse, soprattutto nello spazio
delle opinioni, la voce di chi, oltre a condannare l’atto terroristico, stigmatizzava la debolezza delle forze statali. Inoltre, il giornale romano avviò una discussione di grande interesse mediatico sull’ipotesi di un black out delle comunicazioni per non essere, anche involontariamente, strumento di propaganda delle
BR. Tra i sostenitori del silenzio stampa ci fu anche il famoso sociologo delle
comunicazioni di massa Marshall McLuhan ma il “blocco della stampa” scelse
di non “staccare la spina” e di attestarsi sulla linea della fermezza.
Gli articoli e i resoconti parlamentari pubblicati dal “Il Mattino” raccolsero la
ferma decisione di difendere il diritto di cronaca, inteso come libertà di stampa.
In ultimo “Il Mattino” fu interprete degli umori dei cinque capoluoghi campani
e soprattutto di Maglie, il paese salentino di cui Moro era originario.
“l’Unità” invece seguì fedelmente la linea di piena collaborazione politica
con le forze della maggioranza, indicata dal PCI nel giorno della strage; da qui
scaturì anche la scelta di schierarsi a favore della “fermezza” quando i brigatisti
rossi proposero al governo uno scambio tra la vita di Moro e la libertà di tredici terroristi.
L’ultimo momento preso in esame dal lavoro di ricerca è stata la morte di Aldo Moro, freddamente annunciata nell’ultimo comunicato delle Brigate Rosse.
I tre quotidiani nazionali reagirono all’agghiacciante notizia con commozione ed indignazione: furono uniti nel condannare il delitto politico e ribadirono
con fermezza che, colpendo il leader più autorevole del partito della maggioranza il terrorismo aveva inflitto un durissimo colpo al sistema politico italiano,
proprio alle soglie di un nuovo capitolo storico.
In conclusione, possiamo affermare che la stampa italiana durante i cinquantacinque giorni del sequestro Moro è riuscita, anche se con qualche limite,
ad informare dettagliatamente l’opinione pubblica, fermo restante la difficoltà
di reperire notizie attendibili, e nello stesso tempo ad avviare un dibattito sui
nuovi scenari aperti dall’azione terroristica. Infine è da sottolineare, anche, la capacità avuta dai professionisti della comunicazione di mettere in discussione il
loro ruolo e quello dell’informazione nella ricerca del giusto equilibrio tra l’assicurare dovere di cronaca e il diventare cassa di risonanza delle forze criminali.
Pasolini: storia «scandalosa» di un giornalista-scrittore-regista
di Paolo Massa
Università Suor Orsola Benincasa, Napoli
Relatore: Prof. Paolo Scandaletti
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Alla luce delle sue parole, questo lavoro di tesi intende rileggere – attraverso
articoli su (e di) Pasolini – la storia «scandalosa» del poeta friulano, ripercorrendo le più importanti opere (in versi, in prosa, su pellicola e carta stampata) ed
evidenziando le scandalizzate reazioni di alcuni giornali (sia di destra che di sinistra, da “Il Contemporaneo” a “Lo Specchio”, da “Rinascita” fino a “Il Borghese”) in
prima linea nella violenta campagna mediatica antipasoliniana.
Si analizza la figura di Pasolini anche nella sua innata vocazione di pedagogo
di massa – da giovane professore di scuola media fino a intellettuale scomodo
dalle colonne dei più prestigiosi giornali italiani – rileggendo alcuni suoi articoli scritti tra il 1942 e il 1948, in aggiunta alla corrispondenza con i lettori del settimanale comunista “Vie Nuove” e alla rubrica “Il caos” su “Tempo”. Per concludere con gli ultimi anni delle sue collaborazioni giornalistiche, gli anni «scandalosi» del Pasolini “corsaro” e “luterano”.
La tesi è suddivisa in quattro capitoli.
Nel primo - “Nella Storia” – si parte dalla tragica morte del poeta friulano per
poi ripercorrere le ragioni di una vita che, dal Friuli fino a Roma, hanno animato le sue vicende pubbliche e private: dalla lettura vorace dei primi libri alla scoperta dell’antifascismo, dalla dura esperienza della seconda guerra mondiale alla
militanza politica nel partito comunista.
Il secondo capitolo – “Scandalo tra le righe” – si concentra principalmente sulle opere (in versi e in prosa) che più hanno scandalizzato (e non solo stilisticamente) la società dell’epoca: dalle poesie in lingua friulana di “Poesie a Casarsa”
fino alle storie di emarginazione dei giovani protagonisti di borgata dei romanzi “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”.
Nel terzo capitolo – “La lingua scritta della realtà” – partendo dall’analisi della
concezione cinematografica di Pasolini, secondo il quale con la Settima Arte diventa possibile rappresentare «la realtà attraverso la realtà», si ripercorrono le polemiche giornalistiche che hanno accompagnato negli anni l’uscita nelle sale dei
maggiori film del regista friulano: da “Accattone” a “Mamma Roma”, da “La ricotta” a “Il Vangelo secondo Matteo”, fino allo scandaloso “Salò o le 120 giornate di Sodoma”.
Il quarto e ultimo capitolo – “Il pedagogo di massa” – si sofferma invece sugli
scritti giornalistici di Pasolini, alla luce della sua vocazione pedagogica, come si
evince dal ruolo sempre più autorevole che ebbe, ad esempio dalle colonne del
“Corriere della Sera”, nell’analizzare criticamente la società italiana del tempo.
Un’indimenticabile stagione di impegno e lotta civile – suggellata dagli articoli dei primi anni Settanta, pubblicati poi in “Scritti corsari” e “Lettere luterane” –
che a distanza di oltre trent’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, ci fa rimpiangere ancor di più la voce anticonformista di un poeta eretico, che dando uno
sguardo impietoso al presente ci mise in guardia dai pericoli del futuro.
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n un’intervista al mensile francese “Lui”, nell’aprile 1970, Pier Paolo Pasolini dichiarò: «Amo la vita ferocemente, disperatamente. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. […] Io sono scandaloso. Lo sono nella misura in cui tendo una corda, anzi, un cordone ombelicale, tra il sacro e il profano».
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a cura di Camilla
Rumi, dottoranda
Università Lumsa,
Roma
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Milano - Pubblicità online, crescita super
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ronico e anche un po’ feroce l’intervento di un guru del web come David
Weinberger (Harvard Berkman Center for Internet Society) allo Iab Forum
2007, il forum dell'associazione internazionale per lo sviluppo dell'advertising
interattivo. Davanti a 4 mila persone mostra la pubblicità di una marca di lavatrici e attacca: “Le parole che molte aziende usano per parlare ai consumatori
sono vecchie e vuote. Di questa washing machine ho saputo molto di più da
un certo Jim - frequentando un forum specializzato mi ha spiegato pregi e difetti di questo prodotto - che dalla home page dell’azienda e dalle sue banali e
costosissime campagne”.
Il mercato della pubblicità su internet è in piena lievitazione e guarda oltre la
Manica, al ricchissimo mercato inglese, dove la “fetta” di messaggi commerciali che finiscono sul web ha superato il 10% dell’intera torta. “E’ solo questione di tempo” dice Layla Pavone presidente Iab Italia “poiché la pubblicità
tradizionale in Italia cresce del 1,1% e quella digitale dedicata a internet del
45% mese su mese. Inoltre, le aziende che investono sul web sono diventate
1.800 e mentre nel 2006 spendevano, in media, 75 mila euro per un’operazione di marketing, adesso la media si attesta sui 95 mila”.
Le connessioni a banda larga rappresentano il 75% di tutti i collegamenti attivi, gli utenti italiani del web sono 24 milioni, di cui 18 da casa e circa 8,6 dall’ufficio secondo Nielsen/NetRating”. Da Los Angeles arriva la voce di un
utente, Rob, 27 anni, che dice “Non voglio subire la pubblicità dalle marche,
ma voglio che loro divengano mie amiche”.
“Questo obiettivo”, sottolinea Jaap Favier di Forrester Research “è stato pienamente raggiunto dalla squadra del Liverpool, che ha usato il web in maniera decisiva per la sua community di tifosi. Lo stadio vero contiene appena 45
mila tifosi ma sul sito sono stati inviati 3,5 milioni di commenti alla fine di ogni
big match, totalizzando 70 milioni di contatti all’anno. Saper usare il web significa ottenere una vera e propria moltiplicazione dell’audience ed entrare in
un rapporto confidenziale con milioni di potenziali consumatori”.
Nota dolente, secondo il vice presidente di Forrester Research, l’attività online
delle banche che conta 13 milioni di uffici e appena 28 milioni di contatti online. “Il mercato italiano con le capacità creative che ha dimostrato in altri settori riuscirà ad elaborare grandi case-histories anche sul web”, afferma Lamberto Dolci, responsabile Immagine e Pubblicità dell’Eni che sta scoprendo
inedite possibilità sulla comunicazione digitale”. E Gianluca Stazio direttore
commerciale Rainet, ha annunciato un recentissimo accordo con Nokia, grazie al quale gli ultimi modelli dotati di Video Center (N95, N81 e futuri) mostreranno gratuitamente l’ampia selezione delle migliori clip presenti su Rai.tv.
E veniamo agli investimenti pubblicitari sul web che secondo Walter Hartsarich, Ceo di Aegis Media Italia “Sono destinati ad una progressiva moltiplicazione considerando che quest’anno le aziende hanno investito 665 milioni e
che per il 2008 si stima 1 milione di euro in arrivo da settori come auto, viagn. 2/2007
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gi, tlc, intrattenimento, assicurazioni/finanza, elettronica di consumo”.
Tra le tecnologie più gettonate allo Iab Forum 2007, specchio di un settore che
conta su 5 mila addetti, la IPTV quella televisione che arriverà attraverso la
banda larga e che riproporrà - oltre a tutte le possibili nuove forme di social
networking, web 2.0 - anche l’”antico” vecchio spot pubblicitario in modalità
più agile e guizzante rispetto a quelli di “nonna televisione”. (fonte: key4byz)
Roma - Più libri, più liberi: al via a Roma la 6a edizione
della fiera della piccola e media editoria
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n’avventura della conoscenza. Questo, e molto altro, è Più libri più liberi, la
Fiera della piccola e media editoria che torna per il sesto anno consecutivo, dal 6 al 9 dicembre, al Palazzo dei Congressi dell’Eur a Roma, confermandosi come il più importante evento dedicato al libro del centro-sud Italia.
50.000 le presenze registrate quest’anno.
Il rilievo nazionale e internazionale della manifestazione è ancora una volta
scandito dagli oltre 200 eventi, tra presentazioni, dibattiti, conferenze, convegni e incontri che coinvolgono autori, studiosi, personaggi della politica o dello spettacolo, legati al mondo del libro.
L’appuntamento annuale con circa 400 espositori e migliaia di libri, che lo scorso anno ha superato il record di 50mila visitatori, è realizzato, come sempre,
dall’Associazione Italiana Editori con il sostegno dell’Assessorato alle Politiche
Culturali del Comune di Roma, della Provincia di Roma e della Regione Lazio,
con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, tradizionali
partner della Fiera, ai quali si aggiunge anche quest’anno la Camera di Commercio di Roma che con il suo intervento salda il rapporto essenziale tra cultura, impresa e territorio. Completano le partnership il patrocinio del Ministero della Pubblica Istruzione, l’insostituibile supporto dell’Istituzione Biblioteche di Roma e di Radio Tre, la collaborazione con Atac.
E’ un mondo diversificato e in crescita quello degli editori piccoli e medi, protagonisti di una realtà dinamica, come dimostrano i dati dei quali si è discusso
nel convegno d’apertura della prima giornata ‘Gli stati della lettura’: dal 2001
al 2006, infatti, gli editori del settore hanno visto aumentare l’incidenza del
proprio fatturato dal 31% al 35% sul totale di quello registrato dall’intero comparto librario.
“I libri da leggere non potranno essere sostituiti da alcun congegno elettronico. Sono fatti per essere presi in mano, anche a letto, anche in barca, anche là
dove non ci sono spine elettriche”. In questa frase di Umberto Eco, che è una
dichiarazione d’amore per il libro, risuona lo spirito della Fiera, fatta di percorsi
molteplici attraverso i quali scegliere, e lasciarsi incuriosire, dalle novità e rarità
editoriali, dall’opera prima, italiana o straniera che sia, dal libro corrosivo, irriverente, indipendente.
Tre i temi-contenitore che hanno scandito quest’anno le tre giornate dedicate
ai programmi professionali: la Lettura con il convegno inaugurale dell’AIE ‘Sta-
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ti della Lettura’ dove sono stati presentati gli ultimi dati ISTAT e la tavola rotonda ’La lettura, e le altre letture’ per ragionare sulle trasformazioni in atto nel
settore dell’editoria libraria in seguito all’evoluzione delle tecnologie digitali; la
Distribuzione con l’incontro ‘Produrre, distribuire, vendere. Forse leggere’ a cura dell’AIE e del Giornale della libreria. Infine le Nuove tecnologie dove si sono
affrontate le problematiche legate ai nuovi orizzonti dei prodotti multimediali.
Ampio spazio anche all’aspetto della formazione e crescita professionale dei librai con la presentazione del Secondo Corso di Alta Formazione in Gestione
della Libreria. Un’iniziativa dell’Associazione Librai Italiani (ALI), aperta anche ai non addetti ai lavori.
Anche quest’anno gli editori stranieri hanno confermato la loro presenza in
Fiera: editori provenienti da Bulgaria, Francia, Germania, Gran Bretagna,
Olanda, Portogallo e Spagna, con l’obiettivo di favorire la conoscenza e il successivo scambio di diritti d’autore tra gli editori italiani e quelli stranieri, grazie
al progetto realizzato in collaborazione con l’Istituto Nazionale per il Commercio Estero (ICE). (Rosa Maria Serrao)
Progetto Amico Libro: ogni scuola italiana dotata di mille euro da
poter spendere per i libri
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li editori: ‘La nostra sfida è insegnare ad amare sempre più i libri ai ragazzi. Oggi
più di uno studente su tre, fra i 6 e i 19 anni, non legge alcun libro a parte quelli scolastici nel suo tempo libero’.
Un libro per amico? Adesso sì. Parte ufficialmente il Progetto Amico Libro,
frutto dell’accordo raggiunto tra il Ministero della Pubblica Istruzione, l’AIE
(Associazione Italiana Editori), l’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) e l’Upi (Unione Province Italiane) per promuovere tra i giovani la passione
della lettura e l’amore per i libri.
“Si tratta di un’intesa – ha sottolineato il presidente di AIE, Federico Motta – tra
soggetti uniti dal comune interesse per la promozione della lettura nelle scuole e tra i giovani, con l’obiettivo di insegnare ad amare (sempre più) i libri. Questa è un’occasione unica –
ha proseguito Motta - per arricchire già dalla fine dell’anno le biblioteche scolastiche in
Italia, avvicinando i giovani al piacere della lettura. La nostra grande sfida, come editori- e
da qui il supporto convinto al Progetto promosso dal Ministero - è contrastare questa emergenza di non lettura dei ragazzi. Un dato per tutti: in media il 35,8% degli studenti italiani – nella fascia tra le scuole primarie e l’ingresso in università - non legge alcun libro nel
tempo libero”.
La fotografia che emerge dagli ultimi dati Istat elaborati dall’Ufficio studi di
AIE non lascia dubbi: non legge nulla (a parte i libri scolastici) il 52,9% dei
bambini tra 6 e i 10 anni, il 40,2% degli 11-14enni, il 41,3% dei 15-17enni, il
48,8% dei 18-19enni e il 46,7% di chi entra in Università.
Grazie al progetto ogni scuola potrà invece spendere in libri per la propria biblioteca almeno 1.000 euro, destinati a questo scopo dal Ministero della Pub-
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blica Istruzione: “AIE – ha proseguito Motta - sul suo sito (www.aie.it) ha inoltre
già attivato una sezione in cui sono indicate le case editrici che hanno segnalato la propria
adesione al Progetto e la disponibilità a proporre offerte vantaggiose alle scuole. L’Associazione è intervenuta proprio per agevolare il contatto diretto tra scuole ed editori”.
(fonte: key4byz)
Roma – Genitori e media: una sfida da vincere
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li scorsi 30 novembre/1-2 dicembre, presso l’Hotel “Casa tra Noi” di Roma,
si è svolto il XII Congresso Nazionale dell’AGE (Associazione Italiana Genitori), che ormai da quasi quarant’anni raccoglie gruppi di genitori volenterosi che, ispirandosi alla Costituzione italiana e all’etica cristiana, intendono partecipare alla vita scolastica e sociale per fare della famiglia un soggetto politico. Il Congresso ha puntato a
ribadire la valenza della cultura di animazione e promozione sociale che ha consentito
fino a questo momento all’Associazione di collaborare, sia a livello nazionale che regionale e locale, con diverse realtà associative, istituzionali ed ecclesiali affinché anche
la famiglia potesse apportare il proprio contributo nei vari settori della vita pubblica.
Tra i molteplici temi affrontati nel corso del Congresso, quest’anno dedicato ai “Genitori: cittadini in Italia, in Europa. Diritti e doveri in famiglia, nella scuola, nella società”, anche quello della comunicazione interna ed esterna all’AGE. E’ essenziale infatti che le informazioni circolino in modo rapido, puntuale e corretto all’interno dell’Associazione chiarendo a tutti gli aderenti gli obiettivi definiti e condivisi, ma anche
una comunicazione ben strutturata verso l’esterno che, in modo chiaro e sintetico, sia
in grado di dare visibilità ai valori e alle iniziative delle diverse associazioni saldamente
radicate nel territorio.
Rita Manzani Di Goro, direttore responsabile dell’AGE Stampa, recentemente vincitrice del Premio addetto stampa dell’anno 2007 per la sezione “Non profit e diritti”,
ha sottolineato come tutto il mondo dell’associazionismo debba prestare attenzione ai
vecchi e ai nuovi media e come questi ultimi siano da impiegare secondo le esigenze e
i bisogni che di volta in volta emergono nella società (basti pensare al dibattito mediatico generato dai recenti fenomeni di bullismo nelle scuole) per comunicare contenuti
importanti. Un compito particolarmente difficile, considerando soprattutto l’attuale clima di “emergenza educativa” derivante dal vuoto lasciato dalle principali istituzioni, tra
cui appunto quella massmediale, che sembrano aver dimenticato le gravose responsabilità di cui sono portatrici verso i soggetti in età evolutiva.
“E’ necessario che i genitori raccolgano la sfida del cambiamento tecnologico – ha
affermato Maria Micaela Fagiolo, responsabile dell’Ufficio comunicazione dell’AGE –
e che richiedano all’intero sistema dei media una qualità dei contenuti che permetta il
corretto sviluppo psico-fisico dei bambini e degli adolescenti”. L’AGE sembra, quindi,
voler ricordare a tutta la società come sia fondamentale non dare per scontata l’esistenza di una cultura dell’infanzia, ma operare per ridefinirla giorno dopo giorno.
(Camilla Rumi)
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La questione informazione non può essere trascinata troppo nel tempo, pena la riduzione della consapevolezza dei cittadini degli spazi di libertà e di
autonomia del Paese, né può essere affrontata su singoli aspetti o con interventi settoriali. La manovra è complessa e deve coinvolgere contestualmente
tutti i protagonisti (proprietà, giornalisti, pubblicitari, classe politica, lettoriutenti) e tutte le aree di produzione: carta stampata, radio, televisione, internet”. Questo il motivo per cui l’UCSI (Unione Cattolica Stampa Italiana), alla
vigilia del XXV Congresso della FNSI, ha deciso di organizzare un convegno
dal titolo “La professione che cambia. Giornalisti con la schiena dritta”, volto
ad approfondire i temi, ormai da decenni al centro del dibattito tra giornalisti
ed editori, riguardanti la riforma dell’editoria, la riorganizzazione del servizio
pubblico ed il rinnovo del contratto di lavoro.
Il convegno, tenutosi a Roma lo scorso 21 novembre presso l’AICCRE (Sezione Italiana del Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa), ha rappresentato un importante momento di riflessione sullo stato attuale della professione giornalistica che necessita di nuove regole, maggiormente adeguate alla
legislazione e ai processi tecnologici in corso. Ai saluti del presidente nazionale dell’UCSI, Massimo Milone, sono seguiti gli interventi dei vertici della Federazione Nazionale Stampa Italiana, dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti e
dell’UsigRai, nella piena consapevolezza che solo un efficace intervento sul
piano associativo potrà riaffermare con decisione beni irrinunciabili quali la libertà d’informazione, l’obiettività, il pluralismo delle fonti, l’autonomia dei
giornalisti, che devono essere in grado di tenere, volendo riprendere il titolo
del convegno, “la schiena dritta”. L’immagine, evocata per la prima volta da
Oscar Luigi Scalfaro e recentemente ripresa da Carlo Azeglio Ciampi, chiarisce come tutti i professionisti della comunicazione debbano poter essere indipendenti dai poteri forti che detengono, in tutto o in parte, il controllo delle
imprese editoriali.
“Ci troviamo di fronte ad un quadro legislativo che non fornisce alcuna garanzia sul piano istituzionale – ha affermato Sergio Borsi, consigliere nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e membro della giunta nazionale dell’UCSI – a
strutture redazionali inadeguate, ad un forte ritardo tecnologico, alla mancanza di editori puri”. Se a ciò si aggiunge l’assenza, come ricordato da Enzo Iacopino, segretario nazionale dell’Ordine, del contratto di lavoro e la volontà
degli editori di scegliere i rappresentanti degli istituti di categoria e di fissare la
linea politica dei giornali, la possibilità di tenere “la schiena dritta” finisce per
diventare, come ha sottolineato Paola Springhetti, presidente dell’UCSI Lazio,
non un dovere di tutti ma “un lusso per pochi giornalisti”.
Di fronte ad una professione in continuo mutamento, come testimonia la storia del giornalismo dalle prime gazzette agli attuali quotidiani on line, l’indipendenza deve però rappresentare un principio costante ed ineliminabile per
tutti coloro che ancora svolgono tale professione nella convinzione che l’inforn. 2/2007
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mazione costituisca un bene prezioso per la crescita della società civile. E’ proprio in virtù di una informazione che sia realmente al servizio del cittadino che
Paolo Scandaletti, direttore della rivista “Desk” e docente presso le Università
Luiss di Roma e Suor Orsola Benincasa di Napoli, dopo aver evidenziato la
mancata preparazione culturale della nuova generazione di giornalisti (motivo
per il quale potrebbe addirittura verificarsi “un precariato al contrario”), ha ribadito l’importanza dei Press Council, della figura del garante del lettore e, soprattutto, dei codici deontologici. E’ su queste basi che l’UCSI, nel novembre
del 1999, avanzò la proposta di costituire un Comitato di Mediaetica con il preciso compito di offrire indirizzi adeguati in materia di etica e deontologia dell’informazione e della comunicazione.
“Il sistema che regola l’informazione – ha sostenuto Francesco Birocchi, presidente dell’UCSI Sardegna – necessita di essere completamente riformato.
Tutte le forze culturali che gravitano attorno a tale sistema devono pertanto
operare affinché si rafforzi la coscienza professionale e venga rivalutato il principio dell’obiettività per una informazione credibile”. Sull’argomento sono intervenuti anche Giuseppe Sangiorgi, membro del Consiglio comunicazione del
Ministero, Giorgio Tonelli, segretario nazionale dell’UCSI, Emilio Rossi, presidente del Comitato Tv e Minori, Angelo Sferrazza, vicepresidente nazionale
dell’UCSI, e Ignazio Ingrao, membro dell’Assostampa romana e consigliere
dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio.
Le conclusioni sono invece spettate a Franco Siddi e Roberto Natale, rispettivamente presidente e membro della giunta della FNSI, i quali hanno sottolineato come il Congresso debba necessariamente affrontare, oltre ai temi già citati in precedenza, quello della riorganizzazione del servizio pubblico che dovrebbe, soprattutto dopo i recenti casi di intercettazioni telefoniche, mandare
un forte segnale di “pulizia etica” affinché sia finalmente possibile “allontanare la maggioranza di turno dall’azienda”. Il problema principale resta però
quello, come evidenziato da Franco Siddi, di conciliare la pluralità di espressioni della professione giornalistica in un progetto unitario per chiedere con
forza un nuovo sistema dell’informazione basato sul senso del dovere che garantisca lo svolgimento di una professione realmente libera. (C.R.)
Roma - “La professione che cambia. Giornalisti con la schiena dritta”
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Statistiche europee: uso del computer e di Internet
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li uomini in Europa utilizzano di più il computer ed internet di quanto
non facciano le donne e molte meno degli uomini sono le donne che lavorano nel settore dell’informatica. Queste le conclusioni generali cui è pervenuta una rilevazione fatta da Eurostat Istituto statistico europeo (Eurostat Statistiques en bref n.119/2007 del 23.10.2007su rilevazioni effettuate il 4.4.2007).
La differenza calcolata in percentuale tra uomini e donne che utilizzano computer e internet, varia a seconda dell’età, essendo bassa nella fascia dei più giovani ( da 16 a 24 anni) per poi aumentare dai 5 punti ad 8 ( 25-54 anni) ed arrivare a 12 ( 55-74 anni) ma sempre a favore degli uomini. Nel complesso ed
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in generale gli uomini battono le donne di 8 punti con il nostro Paese che registra una differenza tra uomini e donne più elevata (12 punti). Il che lo pone
in una fascia che comprende Germania, Austria, Paesi Bassi, e Gran Bretagna.Evidenziamo comunque in Italia un minore utilizzo in generale rispetto alla media europea. con le donne a – 7 punti e gli uomini a –10 il che ci pone al
decimo posto sui 25 censiti.
Più in dettaglio usano il computer nella prima fascia il 67% degli uomini ed il
62% delle donne, nella seconda il 54 e 47 nella terza il 26 ed il 14%. Inferiore
è l’utilizzo di internet rispettivamente con 53 e 48 nella prima fascia; 43 e 34
nella seconda; 18 e 9 nella terza.
Il livello di utilizzazione quotidiana del computer varia considerevolmente da
Paese a Paese; per la prima fascia di età scarta da circa il 75% in Danimarca ed
altri Paesi del Nord Europa a meno del 40% in Bulgaria, con l’Italia al 66% e
ad un livello inferiore alla media europea. Salendo nell’età da 25 a 54 anni l’utilizzo nel nostro paese diminuisce rispetto alla media europea specialmente
per le donne che si posizionano al 57% contro l’81% con gli uomini al 69 contro l’83%. Nell’ultima fascia ( 55-74) il divario aumenta ancora 6 contro 21 per
le donne e 19 contro 35 per gli uomini.
Nell’uso di internet il nostro Paese si pone al di sotto della media europea ed
al 12° posto su 25 Paesi considerati. Varia però la differenza tra uomo e donna. In questo caso le donne italiane utilizzano internet di più in rapporto alla
rispettiva media europea e questo vale in particolare nella fascia giovanile ed in
quella media, in pratica da 16 a 54 anni.
Il livello di competenza di base in informatica evidenzia uno stridente scarto a
favore degli uomini sia in Europa che in Italia. Nella prima fascia di età in 7
Stati membri il 60 % degli uomini possiede un livello elevato ed in 6 altri il livello è superiore al 50%, mentre solo Austria e Slovenia evidenziano siffatta
competenza il 50% delle donne. In media europea gli uomini si posizionano
attorno al 50% ( Italia 39%) e le donne al 30% ( In Italia 25%).
Molti più uomini che donne lavorano infine nel comparto dell’informatica. In
Europa il 2,6% degli uomini attivi a fronte dello 0,7% delle donne il che significa una proporzione di 4 a 1. L’aspetto più interessante consiste nel fatto che
non c’è differenza tra Paesi della vecchia Europa ed i nuovi entrati con Romania e Lettonia ai primi posti. In Italia la percentuale degli uomini è del 1,9%
contro lo 0,6% delle donne ma va rilevato che mentre l’occupazione degli uomini è aumentata dello 0,5% in 5 anni ( 2001-2006), quella delle donne è rimasta invariata come d’altro canto in Europa. E non sembra prevedibile che
lo scarto diminuisca in futuro dal momento che proprio tra i più giovani si registra il maggiore divario a favore degli uomini. Fino a 40 anni infatti la percentuale delle donne impiegate nel settore rispetto a tutte le professioni è dello 0,8% contro il 3,5% degli uomini con l’Italia che registra rispettivamente lo
0,9% contro il 2,7%. (Piero Onofri)
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LIBRI
RECENSIONI
A cura di Marica
Spalletta, Università Luiss Guido
Carli, Roma
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milio Salgari e Renato Simoni, assurti in seguito a successi e notorietà, dove hanno cominciato come giovani cronisti, in quale giornale? A L’Arena di Verona, sul finire del 1800; dove aveva un ruolo di primo piano quel giornalista galantuomo, ma ancor più dal fiuto lungimirante, che fu Aymo, del quale ora Giovanni Masciola ci offre una succosa biografia. Anche Masciola è giovane e divide la sua giornata fra le assicurazioni e le pandette, le iniziative culturali e la collaborazione alla terza pagina di quel medesimo giornale. In particolare, avendo passione per la storia,
cura le interviste con gli autori che se ne occupano abitualmente.
Al tempo della presa di Roma, l’Italia era un paese malandato: analfabetismo al 70 per cento della popolazione, sui 25 milioni di abitanti votavano
in cinquecentomila; altrettanta era la tiratura complessiva dei quotidiani e
quando uno raggiungeva le 2500 copie si riteneva pago. I giornali erano
figli dei poteri economico - finanziari, o promossi per battaglie politico-culturali; alla fine, anche queste per il potere, come han mostrato i rapporti
non virtuosi fra Depretis e Crispi con più di una testata.
L’informazione secondo natura era rimasta un sogno. A badare ai lettori cominciò l’editore Sonzogno con Il Secolo nel 1866, sull’onda delle felici
esperienze fatte con i periodici. Importò dalla Francia il romanzo d’appendice, ma la leva del successo fu la cronaca, “il giro” quotidiano alle fonti
(municipio, polizia e carabinieri, ospedali, tribunale) dove trovare i fatti da
trasformare in notizie per i propri lettori. Nel 1870 il commerciante di medicinali Attilio Manzoni apre un’agenzia di intermediazione per gli spazi
pubblicitari. Nel 1876, sempre a Milano, Eugenio Torelli Viollier aveva fondato il Corriere della sera.
Ma giusto due anni prima era giunto a Verona, come direttore de L’Arena – in vita dal 1866 - Dario Papa, 28 anni, nato a Desenzano. Aveva vissuto a Vienna e a Venezia, imparato il giornalismo a Milano.
In questa nuova esperienza portò freschezza grafica ed innovazione, soprattutto facendo leva sulla cronaca locale. Se ne accorse il direttore del Corriere che se lo portò a Milano e poi lo mandò negli Stati Uniti, dove imparò
e s’entusiasmò ai giornali fatti per i lettori. Rientrato in sede e visto che lì
non si voleva cambiare, se ne tornò a Verona; incontrò il giovane Aymo, fra
i due scattò l’intesa e così tanta collaborazione che nel 1884 questi succedette a quello nella direzione del giornale. Anche Aymo, piemontese, aveva
avuto una vita avventurosa tra Messico e USA, polemiche e duelli. Ma in
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MASCIOLA
Il giornalista
galantuomo,
Giovanni Antonio Aymo
1861-1901 Gemma edizioni, pp.
256, € 13,00
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mente e nell’animo covava il vero giornalismo, sganciato da interessi altri e
rivolto davvero ai lettori. E per farlo appieno, grazie alle sostanze della moglie, si comprerà l’azienda editrice. Morì a 39 anni, di male ai polmoni. Fece in tempo tuttavia a costruire un gran bel giornale, anche girando egli
stesso per la città, a scoprirne fatti e vicende, persone ed umori. Il teatro e
la lirica l’appassionavano parecchio. Pubblicò un paio di libri.
Dipanò il suo progetto di giornale assicurandosi, oltre un affidabile notista politico a Roma che trasmetteva i pezzi col telegrafo, validi corrispondenti dai comuni della provincia veronese, da Milano, Torino, Firenze, Napoli, Venezia, Padova, Mantova e Vicenza. Emilio Salgari lavorerà al suo
fianco per dieci anni. Avranno ottimi risultati d’opinione e editoriali. Alla
scomparsa di Aymo il Corriere della sera gli dedicherà un’ampia nota d’elogio:
era un cavaliere del giornalismo, battagliero ma perfetto galantuomo.
Masciola lo chiama “giornalista dalla schiena dritta”, a ragione; e ce ne
offre un profilo ricco, minuzioso, assai ben documentato, anche nei risvolti più personali. E leale col lettore pure lui: dove la fonte è incerta, lo dice
chiaramente. Bel lavoro, perfino utile a qualche giovane direttore…(P.S.)
RICCARDO BIGI, (a cura di)
Giorgio La
Pira. I miei
pensieri (con
una testimonianza di Giulio Andreotti)
Società Editrice
Fiorentina,
2007, pp. 96, €
10,00
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opo averne scritti più d’uno – e tutti di notevole successo – ed essere
prezioso divulgatore in tv di moltissimi autori, ora racconta “degli
scrittori e dei libri che in tutti questi anni ho amato e ai quali devo quel poco che sono riuscito ad apprendere”. E’ la biografia intellettuale di Corrado Augias che alla fine confessa: “Con l’esperienza ho imparato, credo, a riconoscere i libri che mi piacciono, i soli che valga la pena di leggere per
davvero”.
In una scrittura magistrale e in tono confidenziale, si intrecciano qui due
registri: la sequenza dei “suoi libri”, dei quali diremo, e un condensato di
cultura del libro dalla quale conviene cominciare. “Perché si scrive?... è la
forma migliore di comunicazione”, e leggere fa parte della medesima operazione mentale, è il suo ‘positivo’: “scorrendoli con gli occhi restituiscono
il valore che chi li ha scritti ha inteso dar loro”. E quale piacere se ne trae,
e quali frutti?
“La persecuzione contro i libri è propria di tutti i regimi dispotici, e basterebbe questo per farci amare la lettura”. Citando G: Gioacchino Belli:
“che predicava a la Missione er prete?/ Li libri nun so’ robba da cristiano:/Fiji, pe’
carità, nun li leggete..”, commenta Augias: “foss’anche solo per questo, verrebbe la pena leggere”.
La sequenza dei libri che fissano le tappe di un’evoluzione partono naturalmente dagli anni del liceo, in aggiunta a quelli obbligatoriamente presenti sui banchi di scuola. E dunque “I Sepolcri” di Foscolo, “Guerra e pace” di Tolstoj e “I Miserabili” di Hugo, ma anche quelli proibiti come “L’amante di Lady Chatterley” e “Delta di Venere” di Anais Nin, che provocano turbamenti e insieme fanno capire che “l’erotismo è cultura”. Poi la
grande letteratura americana e francese, fino ai mitici Joseph Roth e Robert
Musil. Ma “se dovessi consigliare a un incerto lettore uno fra i possibili
strumenti capaci d’indurre un sicuro amore per la lettura, citerei senza esitazione i romanzi di Raymond Chandler”.
Il senso e la passione per il libro arrivano da tre grandi: 1. Petrarca: “Io
voglio che il mio lettore..mentre legge voglio che sia solo con me..non voglio che si impadronisca senza fatica di ciò che non senza fatica io ho scritto”; 2. Machiavelli, che
indossava abiti di gala per le serate di lettura: “non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte” ; 3. Sant’Agostino di Ippona, che svela come leggesse il suo maestro
sant’Ambrogio a Milano: “gli occhi gli scorrevano lungo la pagina e la mente ne coglieva il senso, ma voce e lingua restavano immobili”. Fu il primo a far così, annota l’autore. E nell’introdursi in questo mondo ‘altro’ si fonda, conclude Augias, “una vera etica della lettura”.
Quella affrontata dal grande storico della letteratura italiana Ezio Raimondi nel suo piccolo e prezioso testo. “La lettura non è mai un monologo, ma
n volume piccolo nelle dimensioni, ma da tenere in evidenza per
una utilità quotidiana che riguarda uomini e donne della politica ma
anche uomini e donne della comunicazione.
Lo ha curato Riccardo Bigi, giovane redattore a “Toscana Oggi” (la catena dei settimanali diocesani della Toscana), ed è stato presentato a Roma
nella sala Laurentina di via in Lucina su iniziativa di Ucsi, nazionale e toscana. Si intitola “Giorgio La Pira. I miei pensieri” ed è una raccolta di frasi
del “sindaco santo”, uscita nei giorni del trentesimo anniversario della morte, sulla base dei temi che ne hanno caratterizzato vita e attività: spiritualità,
politica, tematiche legate alla città, poveri, pace, opposizione alla brutalità e
inutilità della guerra.
“Un credente appassionato, un uomo delle istituzioni, un uomo della
mescolanza, un politico, un visionario”. Così era La Pira per Marco Politi,
vaticanista di “Repubblica” secondo cui l’idea di raccogliere alcune frasi per
grandi temi è un “eccellente” modo per contribuire, specie rivolgendosi ai
giovani, a non perdere la memoria di un personaggio ancora di enorme attualità.
Moderato da Angelo Sferrazza e con la partecipazione del curatore, l’incontro è stato animato anche da una bella testimonianza di Fabrizio Fabbrini: di La Pira fu assistente universitario per molti anni nella cattedra di
Diritto Romano e su La Pira ha detto parole ancora capaci di commuovere.
Ha concluso Giulio Andreotti, autore di una tanto breve quanto preziosa prefazione al volume. “Aveva ragione lui”si intitolano le poche parole scritte dal senatore che pure, nel suo intervento, non ha nascosto la “scomodità” del professore siciliano diventato sindaco in una città complessa
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come Firenze. “Anche oggi – ha concluso Andreotti – ho provato una sensazione: La Pira non è morto, è ancora vivo”. (Mauro Banchini)
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CORRADO AULeggere: Perchè i
libri ci rendono migliori, più allegri
e più liberi
Mondadori ed.,
pp. 115, €12,00
GIAS
EZIO RAIUn’etica del lettore ed. il Mulino,
pp.76, € 7,00
MONDI
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l’incontro con un altro uomo, che nel libro ci rivela qualcosa della sua storia più profonda e al quale ci rivolgiamo in uno slancio intimo della coscienza affettiva, che può valere anche un atto d’amore: la solitudine diventa paradossalmente socievolezza, entro un
rapporto certo fragile come sono fragili tutti i rapporti intensi e non convenzionali, che
aspirino ad essere autentici. E qui forse, tra il lettore e lo scrittore, si producono lo sguardo, la coscienza, il faccia a faccia di una vera e propria relazione etica”.”
La lettura non è mai un monologo, ma un incontro con un altro: il senso
di un’opera sta per metà nella risposta del lettore, scrivere è desiderio di farsi leggere e di colloquiare, fino alla risposta creativa.. Cita Virginia Wolf
“come dobbiamo leggere un libro?” per rispondere: con “una grande finezza di percezione e un’ardita larghezza di immaginazione” . Ed aggiunge che “l’etica della lettura sta in un’esperienza di libertà compresente nel pieno riconoscimento
dell’altro, nell’incontro di due solitudini”.
Raimondi mette in campo saperi ed erudizione da par suo, autori fra i più
raffinati. Non sarebbe stato forse più efficace usare un linguaggio meno da
iniziati? (Paolo Scandaletti)
Roberto Di
Giovan Paolo
con Maria Rita Moro
Comunicare
rende liberi
ed. Nutrimenti
pp. 236,€13,00
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l titolo già condensa il senso del libro e lo fa con una operazione di memoria molto complessa. Quel “rende liberi” ti riporta al ricordo di altri
“rende liberi” primi fra tutti quello terribile di Auschwitz campeggiante all’ingresso del campo. Dunque il “rende liberi” si può esprimere in molti
modi e può significare altrettante cose. Nel caso del “lavoro” degli autori il
fine è corretto e non dissimula il senso vero. Roberto Di Giovan Paolo non
è da poco che si batte sul fronte della comunicazione e il suo è un impegno
che si è espresso e si esprime anche nell’azione e non solo con la parola e
la scrittura. Questo libro, che si avvale anche della collaborazione di Maria
Rita Moro, è un lavoro che fa fare un passo avanti al modo di parlare di
comunicazione, una tematica che ci investe quotidianamente e trapassa i
nostri cervelli e le nostre coscienze come le invisibili onde elettromagnetiche. Gli autori hanno scelto dieci “comunicatori” di diversi campi: Luigi
Martini, Ascanio Celestini, Paolo Ruffini, Roberto Cotroneo, Alessandro
Portelli, Filippo Ceccarelli, Ivano Fossati, Liliana Cavani, Annamaria Testa,
Giorgio Bocca e con essi hanno colloquiato, socraticamente. E il risultato
è veramente notevole. Gli A. nella introduzione fanno un intelligente ed
opportuno riferimento alla nostra Costituzione e a quell’articolo (quello
che si riferisce al dovere di rimuovere le disuguaglianze) scrivendo che
«…davvero la frontiera del futuro è fatta anche di un welfare della comunicazione e delle conoscenze, di una lotta quotidiana, insomma, affinché ad
ogni cittadino sia garantito il diritto e il dovere di sapere decodificare cosa
lo circonda in una cosiddetta società della comunicazione…». E i colloqui
con i 10 hanno questo filo conduttore, cercare di farsi dire da operatori della comunicazione in campi diversi se questa che viviamo è davvero una società dove si comunica, cosa comunichiamo, cosa vorremmo comunicare,
se si sa comunicare e se si sanno ben utilizzare i mezzi anche in senso tec-
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nologico e in fine cosa rimane dopo il passaggio dell’ “alluvione comunicazionale”. I 10 non si sono sottratti all’interrogatorio e con le diverse sensibilità ed esperienze danno un contributo molto importante a districarsi in
questa matassa che è la comunicazione oggi. Da giornalisti ci catturano i
colloqui con Giorgio Bocca, Annamaria Testa e Filippo Ceccarelli. Come
non essere colpiti dalla lucidità con cui Annamaria Testa scava sul tema della pubblicità e ne parla con coraggiosa obbiettività. Di grande interesse le
sue analisi sul rapporto adolescenti-pubblicità che ci offrono chiavi di lettura di molti preoccupanti fenomeni generazionali: «gli adolescenti la sanno lunga, con la pubblicità ci sono nati e la usano in termini di intrattenimento». Forse è più importante per la società conoscere meglio questo
aspetto che parlare ancora del rapporto pubblicità-giornali. Giorgio Bocca
colpisce per quel suo coraggio di non sottrarsi ad una specie di gioco della
verità fra il giornalismo di ieri e quello di oggi e a riconoscere a quello di ieri un rispetto per la professionalità dei giornalisti che pare scomparso. Non
si salvano da queste considerazioni i direttori. Anzi! Bocca dice: «Io ho capito, attraverso le vicende di alcuni direttori di giornali, che i direttori oggi
sono completamente dipendenti dal potere economico e non hanno più alcuna autonomia». Filippo Ceccarelli, si addentra con quello stile che lo contraddistingue, nel rapporto comunicazione e politica, anzi politici. E ne
esce un quadro che colpisce, ma rattrista. Il libro è penetrante e nuovo. Ha
in sé il valore del saggio e lo spirito del reportage, l’autorevolezza del testo
di studio e la preziosità di un libro di meditazione. Sì, meditazione sul tempo che viviamo, che di giorno in giorno è quello del mare della comunicazione, nel quale rischiamo di affogare in mancanza di zattere di salvataggio.
(Angelo Sferrazza)
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uesto libro pubblicato dall’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, ci offre una singolare raccolta di splendide immagini, che
sono il frutto di un lungo, intenso e paziente lavoro condotto da Antonio
e Furio Scrimali dai primi anni Ottanta, un lavoro più che ventennale che
evidenzia anche una intensa passione nella ricerca di graffiti, iscrizioni, targhe e cippi disseminati lungo l’arco alpino del Carso e del alto, medio e basso Isonzo.
Centinaia e centinaia di splendide fotografie testimoniano questo lavoro carico di passione per la ricerca di testimonianze e dei segni tangibili di
una presenza e di una storia animata da vari sentimenti, di senso del dovere, di orgoglio nazionale, di sacrificio, di dolore, di nostalgia. Il sottotitolo
di questo libro “le pietre parlano” evidenzia con grande chiarezza il senso
di un repertorio così carico di suggestioni.
In realtà è molto difficile recensire un libro come questo. Non può essere presentato come un qualsiasi altro libro. Non si tratta di discuterne o
condividere o confutare una tesi o una interpretazione storiografica, di giudicare uno stile letterario o una riflessione filosofica. Questo è un libro che
va letto e soprattutto sfogliato, pagina dopo pagina, immagine dopo imma-
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FURIO SCRIMALI, Graffiti e
iscrizioni della
Grande Guerra. Dal Carso
alle Alpi Giulie-Carniche.
“Le pietre parlano”, Stato Maggiore dell’esercito. Ufficio storico, Roma
2007, pp. 301, €
18,00
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gine, facendosi condurre per mano in una realtà carica di suggestioni, di ricordi, di scoperte all’interno di una realtà territoriale fatta di montagne.
grotte, caverne, dirupi, trincee, fortini e così via.
Vi troviamo lapidi e cippi dedicati a soldato o ufficiali caduti, oppure
iscrizioni su importanti opere belliche eseguite assieme a fregi, targhe e cippi ufficiali dei vari reparti ed infine i graffiti e le scritte di singoli soldati.
Un primo aspetto da sottolineare è la possibilità, attraverso questi reperti, di testimoniare nelle diverse località la presenze dei vari reparti, reggimenti, battaglioni, compagnie, plotoni. Vi troviamo fanti, bersaglieri, genieri, mitraglieri, alpini, artiglieri, ma vi troviamo, soprattutto la volontà di
documentare una presenza di non lasciare senza memoria le lunghe e snervanti attese nelle trincee, e il sacrificio di uomini che con il fissare sulla pietra il proprio nome e la propria appartenenza in seno all’esercito ci lasciano un messaggio e un monito. Vi si coglie, come ha sottolineato Luigi Emilio Longo nella sua Prefazione, “l’affermazione indelebile di un’identità, la
testimonianza tangibile di una presenza, l’orgoglio di un’appartenenza”.
I sentimenti che sgorgano da queste pietre sono anche altri. A cominciare dall’attesa e dal desiderio di pace. L’invocazione alla pace è presente
in uno di questi graffiti con una straordinaria semplicità. “W la pace” si legge in una pietra rintracciata ai margini di una trincea sul monte Sei Busi. La
scritta è contornata da alcuni segni decorativi e dalla sigla D.G., a testimonianza di una attesa e di una speranza coltivata gelosamente nel cuore di un
combattente duramente provato.
Non mancano anche altri sentimenti. Lungo una mulattiera nel fondo valle del Monte Pal Grande si può leggere “Mamma ritornerò”, scritto da un
fante della Brigata Catania. Vi si coglie la speranza e il desiderio di un ritorno al mondo degli affetti nel guscio protettivo della famiglia e della casa.
In un altro di questi graffiti, cogliamo anche il senso di tristezza per un
amaro destino, evidenziato da alcune parole tracciate su un pezzo di cemento sulle Alpi carniche, ove si legge “Gli anni più belli i giorni più tristi”. Parole che in forma quanto mai incisiva esprimono le difficoltà di una
condizione che imponeva alle più giovani generazioni del nostro paese, e di
tutta Europa, il sacrificio dei loro anni migliori.
Abbiamo quindi a disposizione, con questa magnifica raccolta i segni visibili e concreti di una dura esperienza. Siamo di fronte ad una mappa nuova
e significativa della grande guerra sul fronte italiano, che ha il merito di restituirci la memoria di migliaia di uomini vissuti sulle montagne, nelle caverne e
nelle trincee, lì dove si è consumata, nel dolore, nella morte, nel sacrificio e
nella speranza una pagina della nostra storia che non va dimenticata.
Questo libro ci aiuta a custodirla la memoria della grande guerra. Grazie alla passione e alla tenacia di chi, come Antonio e Furio Scrimali, è andato a riscoprire, rileggere e restituirci i segni tangibili e reali di una presenza e di una storia, che parla anche attraverso le pietre.
(Francesco Malgeri)
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