MoneyExpert.it Diario di Bordo del 18 ottobre 2012 • L`effetto farfalla

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MoneyExpert.it Diario di Bordo del 18 ottobre 2012 • L`effetto farfalla
MoneyExpert.it Diario di Bordo del 18 ottobre 2012
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L’effetto farfalla e la crisi dell’Eurozona
La fiducia viene meno
I conti degli stati vanno in rosso
La cura alla crisi: l’austerity
Meno spese più tasse: crolla il Pil
Banche dimagrite un po’
Rigore addio?
A che punto siamo del guado
Il conto salato dei Pigs per l’Italia
L’effetto farfalla e la crisi dell’Eurozona
Secondo il padre della meteorologia moderna nonché fondatore della teoria del
caos, Edward Norton Lorenz, il battito d'ali di una farfalla in Brasile può
scatenare una tempesta in Texas. L’”effetto farfalla” spiega come un evento di
grande portata, possa essere innescato da una causa del tutto insignificante
come il battere di ali di una farfalla.
Quando penso alla crisi del debito sovrano in Europa e alla cause che l’hanno
provocata penso spesso a questo caos che governa anche il mondo finanziario
per cui eventi molto lontani geograficamente e con apparente bassa
correlazione tra loro possano essere tra loro concatenati e ed essere l’uno la
causa dell’altro.
La crisi del debito sovrano in Europa è scoppiata dopo il fallimento di Lehman
Brothers, banca che era stata assai prodiga nell’impacchettare e rivendere
obbligazioni garantite da mutui che non erano dati esattamente a debitori di
serie A. La crisi finanziaria del 2007 – 2008 è scoppiata negli Stati Uniti ma si
è diffusa e ha contagiato tutte le istituzioni finanziarie mondiali. Grazie ai
derivati questi debiti di serie B sono finiti ovunque, in modo non propriamente
evidente, perfino nelle polizze vendute alle Poste Italiane. Questi debiti grazie
ai derivati erano stati impacchettati e dentro c’era di tutto dalle obbligazioni
Parmalat alle auto e alle case comprate a rate, ovvero contraendo un debito
con una banca o un’istituzione finanziaria. Banca che anziché tenere questo
debito e metterlo tra i propri asset lo vendeva ad altre banche e istituzioni
finanziarie grazie alle famigerate “obbligazioni salsiccia”. Così il rischio di
credito dalle banche americane si trasferiva a tutte le istituzioni mondiali. E
quando è scoppiata la crisi economica e i debitori americani hanno perso il
lavoro e alcune aziende (come Parmalat e Worldcom hanno avuto difficoltà a
rimborsare i loro debiti) anche le banche europee che avevano comprato quei
titoli impachettati si sono trovati asset illiquidi e di valore enormemente
inferiore a quanto dichiarato in bilancio. Così hanno iniziato a subire perdite
pesanti che hanno fatto vacillare più di una banca (compresa la blasonatissima
Ubs) costringendo i governi a mettere dentro le istituzioni creditizie un sacco di
soldi pur di non farle fallire a causa di questi crediti improvvisamente
“avariati”.
La fiducia viene meno
La crisi partita dall’America ha di colpo portato all’attenzione dei mercati
mondiali l’esistenza di debitori di serie A (definiti “Prime” in America) e quelli di
serie B (i “subprime”). Scoperchiando il gigantesco vaso di Pandora dei debiti
pubblici dei paesi dell’Eurozona già pesantemente in rosso a causa della crisi
bancaria ed economica del 2007-2008.
Improvvisamente gli investitori hanno iniziato a chiedere premi al rischio
sempre più alti a quei paesi del’Eurozona caratterizzati come l’Italia da un
debito pubblico elevato e da una bassa crescita economica.
I conti degli stati vanno in rosso
Come si può vedere nel grafico sottostante lo spread che l’Italia e i Piigs
pagavano sul proprio debito pubblico rispetto alla Germania è stato contenuto
fino al 2008. La crisi finanziaria mondiale ha reso evidente ai mercati il mondo
non dei cattivi pagatori ma senz’altro di quelli più a rischio di altri. E far parte
della Unione Europea non è più stato un baluardo per i paesi deboli
dell’Eurozona. Gli investitori hanno iniziato a chiedere a questi paesi Piigs tassi
sempre più elevati, interessi sempre più “golosi”, per fargli sopportare il rischio
che si andavano a prendere investendo su paesi molto indebitati e che
crescevano poco, la cui competitività non era particolarmente elevata, la cui
spesa pubblica era molto alta e spesso dettata da motivi clientelari e non
improntata all’efficienza.
Il maggior premio al rischio richiesto da investitori diventati improvvisamente
molto più cauti a causa della crisi finanziaria mondiale (e anche di quella
economica e bancaria) ha fatto esplodere il debito pubblico di questi paesi
prosciugando le loro finanze. Tanto che tre di loro (Grecia, Portogallo, Irlanda)
hanno dovuto richiedere l’aiuto di organismi sovranazionali. La Spagna deve
solo decidere quando richiederà l’intervento della Troika mentre l’Italia, il
paese dei Piigs messo comunque meglio, tanto che del salvataggio finora non
ha avuto bisogno, lo ha solo per ora accantonato ma non escluso.
La cura alla crisi: l’austerity
La Troika è intervenuta in soccorso di Portogallo, Irlanda e Grecia. Con ricette
per curare i malati secondo una corrente di pensiero molto in voga
ultimamente perfino controproducenti. Aggravando il malato che doveva
curare. Causando in Grecia e Portogallo disordini di piazza, recessione
economica, peggioramento delle finanze pubbliche e impoverimento delle
popolazioni sottoposte alla “cura da cavallo” imposta dalla Bce, dal Fondo
Monetario Internazionale e dalla Ue in cambio degli aiuti.
Oggi i Piigs dell’Eurozona si trovano ad affrontare quattro crisi finanziarie
strettamente interconnesse tra loro: la crisi finanziaria, quella del debito
sovrano, la crisi dell’economia reale e la crisi creditizia. Una alimenta l’altra in
una spirale perversa da cui è difficile uscire.
I conti pubblici degli stati dell’Eurozona sono andati pesantemente in rosso
perché la diminuzione del Pil nel periodo 2007 – 2009 ha da un lato ridotto le
entrate statali e dall’altra ha costretto lo stato a spendere di più. Dalla tabella
che segue si evince che nel periodo 2007 – 2009 il Pil dell’Eurozona è diminuito
del 4%, quello della Germania del 4,3%, quello dell’Italia del 7,7% e quello del
Regno Unito del 7,6%. A fronte di questa diminuzione del Pil il bilancio pubblico
è andato in rosso per “compensare” e contrastare la recessione economica.
Come si vede nella tabella sottostante tratta da un articolo pubblicato sul Sole
24 Ore firmato da Fabrizio Galimberti i conti dello Stato sono andati dal 2007 al
2009 pesantemente in rosso.
Per alcuni paesi (i cosiddetti PIIGS) i tassi di finanziamento del proprio debito
sovrano sono andati alle stelle. Alcuni di questi (Irlanda, Portogallo, Grecia e a
breve la Spagna) hanno dovuto chiedere l’aiuto internazionale non riuscendo
più a pagare con le entrate (diminuite pesantemente a causa della crisi
economica) le proprie spese (anche quelle sul debito pubblico per cui gli
investitori hanno richiesto un crescente premio al rischio).
Gli organismi sovranazionali non si sono tirati indietro e hanno concesso a tassi
di favore prestiti a questi paesi in cambio però di un riordino dei conti pubblici.
La cura individuata dai paesi forti della Ue (Germania, Austria, Finlandia i
cosiddetti “falchi”) e dagli organismi sovranazionali (Bce, Fmi, Ue) per
soccorrere alcuni dei PIIGS è stata quella della cosiddetta austerità: aumento
delle tasse e riduzione della spesa pubblica. Peccato che questa austerità abbia
avuto l’effetto di debilitare e indebitare ulteriormente i paesi in crisi. Facendo
aumentare la recessione economica, che a sua volta significa più
disoccupazione, mento entrate per lo stato, e aumento del deficit.
Meno spese più tasse: crolla il Pil
La recessione che ha fatto seguito le manovre di austerity ha colto impreparato
anche il Fondo Monetario Internazionale. Aveva stimato che a fronte di una
diminuzione del deficit statale di 100 il Pil si sarebbe ridotto della metà.
Nell’ultimo Wold Economic Outlook l’Fmi ha rifatto i conti e ha stimato questo
impatto del deficit sul Pil con un moltiplicatore compreso tra 0,9 e 1,7 quindi
una riduzione del deficit dell’1% può provocare una riduzione del Pil anche
dell’1,7%. Con questi nuovi numeri è palese che il bilancio non si sana mai e
che la politica di austerità fa più danni che altro. Per questo si sta pensando di
fare retromarcia allentando da parte della Troika le pretese di riordino dei conti
pubblici. Lo stiamo vedendo con la Grecia e con la Spagna. Ma se il Fmi è
favorevole a un allentamento dei bilanci pubblici (lo abbiamo visto nel caso
della Grecia a cui anche Angela Markel recentemente si è detta disposta a
concedere maggiori aiuti) per scongiurare la recessione internazionale
paventata dall’economista e Premio Nobel Paul Krugman, i falchi sostenitori del
rigore sono di tutto altro avviso. La partita è in altre parole ancora tutta da
giocare.
Banche dimagrite un po’
Per scongiurare nuove crisi bancarie dopo quella del 2008 si è deciso di
imporre alle banche nuovi ratio patrimoniali finalizzati a renderle più solide. Per
essere in regola con questo nuovo accordo internazionale il sistema bancario
europeo deve ridurre la propria leva finanziaria (il rapporto tra il capitale
proprio e il totale delle attività detenute). La leva si riduce in due modi:
aumentando il capitale in rapporto ai propri asset o riducendo i propri asset
rispetto al patrimonio. Le banche, non potendo effettuare aumenti di capitale
che il mercato non sottoscriverebbe, stanno riducendo il proprio attivo. Per
rispettare i parametri di Basilea III le banche europee hanno ridotto nel 2012 i
propri asset di circa 600 miliardi ma secondo stime del Fondo Monetario
internazionale nei prossimi quindici mesi le banche dovrebbero liquidare asset
per 2800 miliardi nello scenario più ottimista e 4500 nello scenario peggiore.
Ma vendere i propri asset significa farne emergere il loro reale valore cosa che
le banche finora con il placet dell’autorità di vigilanza non sono state costrette
a fare. Finchè rimangono in bilancio queste attività il loro reale valore non
emerge. Ma se le banche sono costrette a venderle emerge eccome. Ovvero le
banche sono costrette a registrate perdite. Possono erogare meno credito
perché il valore dei loro asset è diminuito. E la crisi bancaria si ripercuote su
famiglie e imprese perché significa meno credito per tutti. E un altro colpo
all’economia (meno credito significa meno investimenti delle imprese e meno
consumi da parte delle famiglie). Un altro colpo quindi ai bilanci statali (le
entrate dello stato diminuiscono). E un aumento dei debiti degli stati sovrani
(meno tasse più deficit).
Per questo si sta pensando a procrastinare Basilea III a dare cioè alle banche
un po’ più di tempo per mettere in ordine i propri conti. La Gran Bretagna ha
già abbandonato il tavolo del rigore bancario: la Bank of England ha allentato
la qualità dei titoli che accetta come collaterali e sta consentendo alle proprie
banche di aumentare il credito (ovvero i propri asset) senza fare aumenti di
capitali. L’Europa potrebbe seguire la stessa via. Con buona pace dell’austerity.
Rigore addio?
Non è certo che queste mosse di allentamento sul debito sovrano e sul sistema
bancario di cui si inizia a parlare servano per far ripartire l’economia. Ma quel
che è certo è che perché si possa sottoporre i bilanci dei paesi PIIGS a misure
meno da “lacrime e sangue” ci vorrà il beneplacito del paesi forti dell’Eurozona
e l’abbandono di una politica del rigore a oltranza. E questa è una posizione
assai dura da far accettare ai tedeschi per cui citando il nostro premier
“L’economia è una branca della filosofia morale”.
Sul fronte bancario, l’equazione meno rigore più credito all’economia è poi
ancora tutta da dimostrare. Gli istituti di credito con maggiori soldi a
disposizione finanzieranno veramente l’economia e le famiglie o speculeranno
per aumentare i propri profitti come hanno fatto con i recenti LTRO della Bce?
E’ una domanda ancora aperta.
A che punto siamo del guado
Insomma in questa partita per ora che si è giocata sullo scacchiere europeo
molto è stato fatto ma la cura per risolvere i mali dell’Europa non è stata
ancora trovata. Visto che quella utilizzata finora ha mostrato di avere
controindicazioni piuttosto pesanti e di non curare il malato. Oggi ci troviamo
ad affrontare la crisi economica, la crisi bancaria, la crisi finanziaria e la crisi
del debito sovrano. Crisi tra loro interconnesse e che si auto alimentano tra
loro in una spirale perversa. La buona notizia è che l’Europa non ha più il fiato
sul collo come qualche mese fa, lo spread per molti Piigs si è abbassato dando
fiato ai conti pubblici, alcuni organismi internazionali si sono accordi delle
conseguenze del rigore, si iniziano a studiare manovre alternative per uscire
dalla crisi. Nel gioco dell’oca non siamo certo al punto di partenza e la partita è
ancora tutta da giocare. Tentando altre strade che permettano ai paesi salvati
di non essere di nuovo sommersi. Ogni PIIGS ha una storia a sé e dal prossimo
Diario di Bordo racconterò la loro storia per capire a che punto sono del loro
guado. Ma che ci importa degli altri si potrebbe obiettare? Siamo costretti ad
occuparcene. La loro salvezza in questa mutua assistenza cui ci costringe la Ue
è anche la nostra visto che l’Italia è uno dei paesi che contribuisce
maggiormente ai vari fondi salva stati. E ogni volta che uno di questi paesi ha
bisogno di aiuto il nostro PIL ne risente.
Il conto salato dei Pigs per l’Italia
Secondo la sintesi elaborata da Bankitalia nella sua relazione all'Assemblea del
31 maggio scorso nel 2011 sono stati erogati prestiti ai Pigs per 110 miliardi:
34,5 a favore dell'Irlanda, 34 del Portogallo e 41,5 alla Grecia. Di questi 110
miliardi 74,9 sono versati da parte di Paesi e istituzioni finanziarie europei e
35,1 da parte del Fmi. Nella prima parte del 2012 sono stati concessi ulteriori
prestiti per 102,7 miliardi (91,8 europei e 10,9 del Fmi) ai paesi in difficoltà:
13,8 miliardi per l'Irlanda, 14,3 per il Portogallo e 74,6 per la Grecia.
Complessivamente stima Bankitalia a Grecia, Irlanda e Portogallo sono stati
concessi più di 244 miliardi di prestiti a fronte di piani di sostegno che
prevedono finanziamenti fino al 2016 per 391 miliardi.
Secondo il il Centre for European Studies di Bruxelles il salvataggio della Grecia
è costato finora alla zona euro 313 miliardi, sommando prestiti bilaterali o
tramite il fondo salva-Stati e interventi della Bce.
L’Italia ha fatto la sua parte in queste operazioni di salvataggio essendo dopo
la Germania e la Francia il maggior contribuente dei vari fondi salva stati.
I contributi maggiori, diretti e indiretti, sono stati e saranno a carico della
Francia, seguita da Germania e Italia.
Secondo Bankitalia nel corso del 2010 il sostegno ai Paesi in difficoltà è costato
all'Italia 3,9 miliardi, pari allo 0,3% del prodotto interno lordo. Nel 2011 la
somma degli aiuti italiani è salita a 9,2 miliardi, pari allo 0,6% del prodotto
interno lordo. Nel 2012 l’Italia dovrà sborsare 48,2 miliardi di euro senza
contare le altre tre rate di versamenti pro-quota del capitale dell'Esm entro la
metà del 2014.
Ci sono poi gli aiuti alla Spagna che si stima avrà bisogno di un centinaio di
miliardi per rimettere in sesto il suo sistema bancario. Il Fondo europeo di
stabilità, detto anche fondo "salva Stati", è stato creato nel 2010 ma ha già
quasi svuotato la sua disponibilità iniziale. Qualora il prestito dovesse essere
regolato ancora dal Fondo Efsf, l'Italia dovrà contribuire sborsando 19,8
miliardi di euro.
Certo finchè aiutiamo gli altri significa che noi tutto sommato ce la caviamo.
Ma il rischio contagio esiste come ammette lo stesso ministro dello Sviluppo
Economico. "Non si può dire che il rischio contagio non ci sia - ha ammesso il
ministro Corrado Passera - però credo che la situazione italiana sia ben diversa
da tutte le altre “.
La pensano così anche i mercati. I CDS sull’Italia (i credit default swap, quelle
polizze che assicurano un obbligazionista contro il fallimento dell’emittente del
titolo) viaggiano a 316 (in concreto assicurare 10 milioni di debito pubblico
italiano costa 316 mila euro), quelli sulla Spagna sono a 365 (in concreto
assicurare 10 milioni di debito pubblico spagnolo costa 365 mila euro) mentre
assicurare 10 milioni di debito greco o portoghese costa 484 mila euro. Il Piigs
cui il mercato attribuisce al momento meno probabilità di default è l’Irlanda i
cui CDS viaggiano a 272.
Il rischio Italia
Il rischio vero per i detentori di debito pubblico italiano è costituito da un
eventuale abbassamento del rating. I CDS sul Belpaese esprimono una
valutazione peggiore del rating attuale di Standard&Poor’s e in passato in caso
di divergenza le agenzie di rating si sono allineate alla valutazione espressa sui
CDS. Se il rating dell’Italia dovesse allinearsi ai CDS dovrebbe scendere di due
gradini a BB+ (oggi il rating dell’Italia è BBB+). Ovvero sotto l’investment
grade. E questo comporrebbe conseguenze pesanti per i possessori di Btp.
Perché significherebbe uscire dai principali indici utilizzati dai fondi nelle
gestioni passive, quelle che replicano l’andamento di un paniere di titoli.
L’abbassamento del rating sotto la soglia dell’investment grade farebbe
scattare vendite automatiche da parte di questi fondi indipendentemente
dall’andamento dei conti pubblici. E’ “l’effetto farfalla” per cui un battito d'ali
scatena una tempesta.
Cordiali saluti,
Roberta Rossi