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Il Logos e gli scambi nella formazione al pensiero interculturale di Mariangela Giusti* Premessa All’epoca dei nuovi fondamentalismi (le cui immagini truci e i cui proclami circolano pervasivamente sul web 2.0 e su tutti i media) è richiesta una nuova formazione al pensiero interculturale. Agli insegnanti, agli educatori è richiesto di essere attivi (a scuola e fuori; nei contesti della formazione adulta e nella convivenza di ogni giorno) nel compito (nell’impegno e nella responsabilità) di creare ponti di comunicazione fra gruppi culturali e religiosi diversi, provando a vederli dall’interno, non da una posizione esterna, distaccata o lontana. In quanto educatori e insegnanti (e in quanto studenti universitari che si formano alle professioni educative) occorre maturare in noi la convinzione che le fonti possibili per avviare percorsi interculturali sono molte e occorre percorrerle. Anche il Discorso di Ratisbona di Benedetto XVI su “Fede, ragione e università” fornisce spunti importanti in quanto induce a interrogarsi su quanto sia necessario perseguire un adattamento reciproco ai punti di vista dell’Altro per mezzo della ragione e rifuggendo il conflitto. 1. L’incontro fra diversità: un impegno da ricercare L’educazione interculturale è presente in modo ufficiale da molti anni nella normativa del sistema scolastico italiano, ma c’è ancora bisogno di formazione alla competenza interculturale. Le attività che si svolgono nella prospettiva pedagogica dell’intercultura partono dalla consapevolezza della diversità degli esseri umani, delle loro lingue, culture, religioni. Gli spazi educativi sono spazi di crescita e di apprendimento dove ciascun allievo è un soggetto unico e la capacità di ciascuno di mescolare, assimilare, rielaborare frammenti di culture diverse diventa la condizione della crescita di tutti. Esiste un patrimonio metodologico della pedagogia interculturale riconoscibile, da cui ciascuno può certo attingere,1 ma va arricchito di descrizioni e riflessioni per evitare che si chiuda in se stesso, si appiattisca, si esaurisca e non risponda alle nuove esigenze. Come insegnanti e come educatori non dobbiamo smettere di avere fiducia: dobbiamo continuare a trasmettere ai ragazzi la certezza che facciamo parte di un tutto, ma non si può fare in astratto. È necessario partire dai rapporti umani; essere noi stessi i primi esempi di persone curiose, che creano incontri, sperimentano l’osservazione diretta, attivano il dialogo, non si tirano indietro dalla necessaria operazione di esplorare, capire, mettere a confronto, mescolare i riferimenti culturali. L’incontro fra le culture e fra le religioni non dovrebbe essere visto (né da noi né dai nostri studenti) come qualcosa di astratto, solo teorizzato; sempre più deve rientrare nella pratica didattica, a piccoli passi. “La fede della Chiesa – scrive Benedetto XVI – si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esiste una vera analogia, in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 – certo le dissomiglianze sono infinitamente più 1 Per uno sviluppo di questi aspetti metodologici rimando a: M.Giusti, Pedagogia interculturale. Teorie, metodologie, laboratori, Laterza, Roma-Bari, 2009. 1 grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro e impenetrabile. Il Dio veramente divino è quello che si è mostrato come Logos e come Logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore”.2 La saggezza e l’apertura contenute in questa frase sono molto attuali e possono rappresentare un aiuto in un’epoca come l’attuale di nuovi e feroci fondamentalismi, che non sappiamo – al momento – in quale direzione potranno portare. Una parte dell’umanità sembra orientarsi a vivere in una religione/cultura chiusa e intransigente nei confronti delle altre, con la missione dichiarata della progressiva autoaffermazione a scapito degli altri con tutti i mezzi violenti e feroci di cui può disporre. 1.1. L’Altro, lo Straniero In tutte le epoche della storia gli Altri sono stati definiti in vari modi dai diversi popoli: barbari, selvaggi, pagani, infedeli.3 Il pensiero interculturale in educazione deve tentare di scoprire e accettare anche i valori dell’Altro, partendo dai parametri della propria cultura. Tuttavia, la cronaca truce e sanguinaria del nuovo fondamentalismo dell’epoca del web 2.0 (con le immagini delle decapitazioni dei nemici trasmesse attraverso brevi video sapientemente girati e attraverso i social e i canali della rete) è talmente invasiva e difficile da comprendere che talvolta gli insegnanti avvertono il loro compito come impari. Chi opera nelle istituzioni educative applica scelte pedagogiche e didattiche che indirizzano verso la convergenza, verso il dialogo, verso “l’amore del Dio-logos, per cui il verbo cristiano concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione” e del dialogo”.4 Gli allievi e gli studenti delle scuole italiane, anche grazie alla normativa esistente, sono educati e formati ad atteggiamenti di dialogo, curiosità, collaborazione, convergenza. Ma, obiettivamente, si tratta di un compito sempre più complesso e difficile in quanto i rapporti fra religioni sembrano diventare sempre più contraddittori e conflittuali. C’è ancora bisogno di formazione interculturale. C’è bisogno di abituarci a riconoscere l’Altro come occasione di crescita e come possibilità di conoscere meglio noi stessi attraverso la valorizzazione delle diversità. C’è bisogno di pazienza per acquisire una competenza empatica che ci consenta di usare il Logos. Ma questa competenza non è innata né naturale. Anzi: proprio coloro che svolgono professioni educative devono curare il suo sviluppo attraverso vari percorsi di apprendimento. I nuovi fondamentalismi sono fenomeni politici, sociali, religiosi, ma riguardano anche il mondo dell’educazione. Stiamo attraversando anni in cui una delle grandi religioni del Mediterraneo (l’Islam oltranzista) fornisce esempi, immagini, manifestazioni della forza (e della spada) che incidono in negativo sulle coscienze di tutti, in particolare sui più giovani. L’incontro fra le religioni è inevitabile, importante e urgente. Da educatori e da interculturalisti, sinceramente interessati all’incontro, possiamo agire in piccola misura almeno proponendo alcuni possibili percorsi di apprendimento che intendono seguire, con convinzione, l’auspicio e la prospettiva del dialogo. 2 Benedetto XVI, Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni, 2006, in: L. Savarino (a cura di), Laicità della ragione, razionalità della fede? La lezione di Ratisbona e repliche, Claudiana, Torino, 2008, p. 29. 3 Oggi sentiamo pronunciata in modo fin troppo deciso la parola “miscredenti” nelle intercettazioni telefoniche di coloro che, dopo aver vissuto in Italia per anni, decidono di entrare nelle schiere del califfato dell’Isis e cercano di fare proseliti. 4 Benedetto XVI, Op. cit., p. 29. 2 1.2. Compassione verso i nemici Fin da epoche antichissime i mercanti e i mercenari greci iniziarono a percorrere le regioni mediorientali del Mediterraneo; incontravano popoli diversi, riportavano in patria notizie sulle terre e sui popoli nuovi. Nel Medio Oriente c’era l’usanza che i diversi gruppi di uomini tracciassero una linea fra sé stessi e gli altri definendo il proprio gruppo e situando gli altri all’esterno di esso. La distinzione fra amico e straniero era determinata dal sangue, ossia dai legami di consanguineità e da fattori che oggi verrebbero definiti “etnici”. Per indicare lo straniero i greci e gli ebrei avevano ideato definizioni diverse. Per i greci lo straniero era il barbaro (cioè: colui che balbetta, che non parla greco); per gli ebrei lo straniero era il gentile (ossia il non ebreo). Le differenze fra gruppi umani che questi due termini evidenziavano erano notevoli, ma non insuperabili, una novità enorme rispetto alle più radicali e primitive differenziazioni basate sul sangue e sulla nascita. C’erano sì differenze e barriere, ma potevano essere scavalcate o rimosse: nel primo caso, adottando la lingua e la cultura greca, nell’altro adottando la religione e le leggi ebraiche. Né greci né ebrei cercavano di fare proseliti, ma entrambi i popoli erano disposti ad accettare nuove persone al loro interno.5 Sappiamo dagli storici che all’inizio dell’era cristiana nelle città del Medio Oriente erano presenti tanti barbari ellenizzati e tanti gentili divenuti giudei. I greci sapevano esprimere sentimenti di compassione verso i nemici vinti, quasi a testimonianza del riconoscimento dell’esistenza e della verità di un’umanità comune in base alla quale si possono comprendere i drammi di un popolo nemico in quanto sono simili ai propri. Un esempio di questa capacità di esprimere compassione verso i nemici vinti lo possiamo trovare nella tragedia I Persiani di Eschilo († 456 a.C.), rappresentata per la prima volta nel 472 a.C. ad Atene, che affronta un argomento storico: la battaglia di Salamina, combattuta tra i persiani e un gruppo di poleis greche, otto anni prima (480 a.C.). È probabile che molti spettatori della tragedia (e forse anche lo stesso Eschilo) avessero preso parte a quella battaglia, per questo il grande autore la rivive lui stesso, mettendola in scena, e la fa rivivere agli spettatori, facendo emergere valori e disvalori: il dramma della sconfitta del re Serse († 465 a.C. ca), il coraggio dei cittadini di Atene e di altre città che, con una sapiente strategia, erano riusciti a respingere un esercito molto più grande e armato del loro, la tracotanza di un re dispotico e incapace di frenare la propria hybris; la capacità del popolo ateniese di prendere decisioni. È una grande vittoria quella delle città greche, ma non c’è mai il disprezzo del nemico, anzi: Eschilo traccia un ritratto pieno di compassione dei persiani sconfitti.6 Analoga attenzione e preoccupazione verso una popolazione nemica la troviamo anche nella Bibbia, per esempio nel Libro di Giona. Il Dio biblico è capace di osservare e giudicare i comportamenti degli uomini e di avere atteggiamenti benefici e di cura anche verso le popolazioni non ebree, nel caso specifico verso la popolazione assira della città nemica di Ninive.7 5 Ricordiamo il Libro di Rut nella Bibbia: la straniera Rut viene accolta dalla tribù e in seguito diventerà progenitrice di Davide. Cfr. Rut, in: La Bibbia, San Paolo, Milano, 2014, pp. 255-258. 6 È il personaggio dell’araldo che, nella sua prima entrata in scena, inizia a far capire ai presenti l’esito della battaglia e la pietà per i soldati dell’esercito abbattuto: “O voi, città dell’Asia tutte, o terra di Persia, porto di ricchezza immenso, come ad un colpo solo andò distrutta la gran felicità, come dei Persi cade il fiore e si perde!” (I Persiani, Atto primo). 7 Ricordiamo che Giona, all’inizio del libro, riceve da Dio l’incarico di recarsi nella grande città di Ninive per proclamare agli abitanti che la loro malvagità è arrivata a livelli altissimi. Ma la sua paura lo spinge a fuggire. Dopo varie avventure, Giona capisce il suo errore. Il libro termina con un colloquio formativo fra Giona e Dio: come dire che se la divinità è in grado di avere compassione verso i nemici, altrettanto devono farlo gli uomini. “Il Signore soggiunse 3 2. Due religioni, due universi I greci avevano sviluppato il principio di cittadinanza: col sorgere e lo sviluppo delle poleis l’individuo era membro di una società, aveva diritto a partecipare alla formazione e alla conduzione del governo. In seguito, i romani portarono avanti il principio di inclusione: all’inizio la cittadinanza romana era limitata ai cittadini originari delle città e ai loro discendenti, e il massimo grado a cui uno straniero poteva aspirare era quello di straniero residente. In seguito la cittadinanza romana fu estesa gradualmente a tutti gli abitanti delle province dell’Impero, divenuto sempre più vasto. Era possibile accedere alla cultura greca, alla religione ebraica e alla società romana: ciò contribuì a preparare la strada al sorgere e alla diffusione del Cristianesimo, una religione che fin dai suoi primi anni cominciò a essere diffusa attraverso la parola degli apostoli, che avevano proprio il compito di muoversi verso altre terre, verso altri popoli e annunciare a tutta l’umanità la verità rivelata da Gesù († 36 d.C. ca). Alcuni secoli più tardi sorse nel deserto arabico una religione, l’Islam, predicata dal profeta Muhammad († 632 d.C.), con contenuti e metodi diversi da quella cristiana, che ispirò ai fedeli la missione di doversi espandere e diffondere. Due religioni e due universi geografici e culturali che, oggi come allora, rappresentano una caratteristica del Mediterraneo: hanno alcune convinzioni e precetti che si assomigliano e altri molto diversi; hanno entrambe la stessa ambizione e la stessa missione di comunicare sé stesse, di espandersi attraverso la parola; sono nate una accanto all’altra nella stessa regione e, a un certo punto della storia, diversi secoli dopo la loro nascita arrivarono a scontrarsi violentemente. Le vicende dell’oggi fra l’auto-proclamato califfato islamico e tutte le terre a nord del Mediterraneo fanno presumere purtroppo che la storia debba ripetersi ancora. Eppure, nel nostro tentativo di aiutare la riflessione e la formazione dei futuri educatori e insegnanti a una competenza interculturale, dobbiamo ricordare che la comunicazione culturale (non solo il conflitto) è alla base delle società mediterranee: i prestiti e gli scambi hanno caratterizzato per tanti secoli le rive del Mediterraneo, luoghi fertili dove le culture sono cresciute e si sono sviluppate e dove l’Occidente ha elaborato il pensiero religioso, filosofico, scientifico, ha scritto letteratura, ha prodotto arte. Credo che il Discorso di Ratisbona fornisca l’indicazione di distaccarci dalla cronaca degli ultimi anni e osservare il Mediterraneo come spazio di incontri e mediazione, che può riaprire al dialogo, che induce a ricercare le comunanze che hanno legato per secoli le culture e le religioni fra loro e con l’Europa. Dobbiamo cercare valori comuni trasmessi dalle narrazioni che hanno transitato attraverso le due sponde di questo mare chiuso, iniziando da molto indietro nel tempo. In questa nostra epoca difficile, nella quale il califfato dell’Isis miete vittime e influenza in negativo le coscienze dei ragazzi e dei giovani e li vorrebbe indirizzare verso una direzione di odio, mancanza di fiducia, di paura, il compito della scuola e dell’educazione è di trasmettere saperi e valori che possano far intuire ai giovani delle comunanze possibili, che possano essere capiti e condivisi, che non “abbiano bisogno della spada”. Saperi e valori si influenzano reciprocamente attraverso il Logos, il racconto, il ragionamento, la narrazione. Nelle classi si osserva che gli studenti più in difficoltà, che stentano a padroneggiare l’italiano, che si trovano in una situazione d’inferiorità nella comunicazione verbale e scritta cedono più facilmente ad [rivolgendosi a Giona]: «Tu hai compassione della pianta di ricino per la quale non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto crescere, che in una notte è spuntata e in una notte è seccata. E io non dovevo avere pietà della grande città di Ninive, nella quale ci sono più di centoventimila esseri umani, che non distinguono la destra dalla sinistra e tanti animali?»” (Cfr. Libro di Giona, 4, 10-11). 4 atteggiamenti di violenza fisica, emarginazione, separatezza rispetto al gruppo e agli insegnanti; analogamente gli allievi che provengono da altri Paesi ma che hanno acquisito i valori della cittadinanza e riescono a condividere (o almeno a comprendere) i valori dei compagni hanno le valutazioni migliori. Il problema è che sempre di più gli studenti, soprattutto delle scuole superiori, hanno sistemi di riferimento che gli insegnanti non conoscono: non è più soltanto la moschea o la scuola coranica frequentata il sabato mattina (come accadeva fino a due o tre anni fa); oggi la loro formazione arriva anche attraverso il messaggio dei siti web che trovano autonomamente sui media, dai quali possono cogliere e apprendere i valori e i disvalori più diversi, perfino complottisti e fondamentalisti. Il sistema scolastico italiano (come probabilmente i sistemi degli altri paesi europei) si trova quasi – paradossalmente – in una situazione di competizione con una sorta di dimensione parallela virtuale ma altrettanto presente. 3. Valori comuni fra mondi diversi Possono esistere valori laici comuni fra mondi così diversi (occidentale, islamico, ebraico)? Valori ai quali riferirsi, senza il timore di tradire la propria appartenenza. Se andiamo all’origine della convivenza fra le religioni nel Mediterraneo, troviamo che lo scambio di valori, narrazioni, storie, figure/modello è fondamentale. Perché dunque oggi è rimasto solo il conflitto? Dopo la predicazione di Muhammad, nei racconti arabi ci sono molti riferimenti alla Bibbia. Il Corano afferma che l’Islam è la religione di Abramo e di Gesù, formulata e completata da Dio per gli arabi, rivelata al profeta arabo Muhammad. È una tesi documentata nel Corano con molte narrazioni derivate dalla Bibbia, dalla letteratura ebraica postbiblica e dai Vangeli apocrifi. Muhammad vedeva anticipata la propria missione nelle figure di Abramo e Salomone. Una delle narrazioni presenti nel Corano e derivate dalla Bibbia è la storia di Giuseppe, figlio di Giacobbe, la cui vicenda, sempre a metà fra l’umano e il divino, ha avuto in passato e può avere ancora oggi un grande significato esemplare per le tre grandi religioni dell’area etnografica mediterranea – ebraica, cristiana, islamica. Si tratta di una storia di vita fra le più note dell’Antico Testamento. In entrambe le versioni (coranica e biblica) è messo in evidenza che Giuseppe era il figlio prediletto dal padre Giacobbe. I suoi fratelli lo odiavano a tal punto che vollero sbarazzarsi di lui. Con uno stratagemma riuscirono a venderlo a una tribù di beduini che lo portarono in Egitto, dove a loro volta lo vendettero a un uomo potente, che nella Bibbia è chiamato Potifar (Putifarre): “divenne suo servitore personale; anzi quegli lo nominò suo maggiordomo e gli diede in mano tutti i suoi averi […] egli lasciò tutti i suoi averi nelle mani di Giuseppe e non gli domandava conto di nulla, se non del cibo che mangiava. Ora Giuseppe era bello di forma e avvenente di aspetto”.8 Nel Corano il signore che comprò Giuseppe e “lo portò nell’harem” non ha nome, è semplicemente chiamato alaziz (il potente).9 Le narrazioni esaltano gli stessi valori che Giuseppe incarna: egli è l’eroe predestinato in virtù delle sue qualità superiori rispetto a quelle dell’uomo comune, ma tuttavia umane. È un esempio da seguire in quanto riesce a superare l’odio indirizzato verso di lui fidando sempre in altri valori positivi. Sono valori laici che appartengono a entrambe le religioni, su cui gli insegnanti possono fare perno, per trasmettere agli studenti che le differenze esistono ma anche 8 9 Genesi 39, 5-6. Sura XII, 3-5. 5 punti di partenza positivi che accomunano. Giuseppe è un modello da seguire, su cui portare l’attenzione degli studenti in quanto è propriamente una figura di contatto fra l’Islam, il mondo ebraico e quello cristiano. I valori che la sua vicenda umana testimonia e insegna sono i seguenti: l’onestà completa nei confronti di chi ha avuto fiducia in lui, l’obbedienza incondizionata, il profondo senso del dovere nei confronti del datore di lavoro, la responsabilità verso il ruolo ricoperto, la capacità di perdonare chi gli ha fatto del male (fino al punto di volerlo uccidere). Le due narrazioni, biblica e coranica, presentano la figura pedagogicamente forte di un giovane uomo adulto, il cui sentire e il cui agire sono vicini all’esperienza di chiunque. È significativo il fatto che in nessun punto dei racconti Giuseppe appare come una figura sovrumana, che si può solamente ammirare, ma alla quale si sa di non poter mai giungere. Nella Bibbia è evidenziato un altro valore: il rispetto nei confronti della donna. Giuseppe ha la capacità di non offendere con un rifiuto brusco e altezzoso la femminilità messa allo scoperto di una donna più grande di lui, che gli si era offerta impudicamente. Giuseppe sa trovare il dialogo con lei, non usa parole che feriscono, risponde usando un intercalare tipico di chi vuol far comprendere qualcosa, ma non in modo brusco né tanto meno offensivo: il lettore incontra un “vedi” iniziale che lascia intuire anche il suo desiderio, la sua volontà di corrispondere, ma che è allo stesso tempo un modo per anteporre l’impegno a non tradire la fiducia che il suo padrone aveva riposto in lui. È un rifiuto che gli costa molto, è evidente, e lo si comprende da quanto a lungo viene argomentato: “[…] La moglie del padrone gettò gli occhi su Giuseppe e gli disse: «Unisciti a me!» Ma egli rifiutò e disse alla moglie del suo padrone: «Vedi, il mio signore non mi domanda conto di quanto è nella sua casa e mi ha dato in mano tutti i suoi averi. Lui stesso non conta più di me in questa casa; non mi ha proibito nulla, se non te, perché sei sua moglie. E come potrei fare questo grande male e peccare contro Dio?». E, benché ogni giorno essa ne parlasse a Giuseppe, egli non acconsentì di unirsi, di darsi a lei. Ora un giorno egli entrò in casa per fare il suo lavoro, mentre non c’era nessuno dei domestici. Essa lo afferrò per la veste, dicendo: «Unisciti a me!». Ma egli le lasciò tra le mani la veste, fuggì e uscì. Allora essa, vedendo ch’egli le aveva lasciato tra le mani la veste ed era fuggito fuori, chiamò i suoi domestici e disse loro: «Guardate, ci ha condotto in casa un ebreo per scherzare con noi! Mi si è accostato per unirsi a me, ma io ho gridato a gran voce. Egli, appena ha sentito che alzavo la voce e chiamavo, ha lasciato la veste accanto a me, è fuggito ed è uscito»”.10 Anche nel Corano la moglie di Putifarre (Zulaika) restò affascinata dalla bellezza e dai modi eccezionali di Giuseppe; tentò di sedurlo con ogni mezzo e, ai suoi rifiuti, lo accusò di averla offesa e lo fece imprigionare. Giuseppe, che possedeva arti divinatorie, in prigione iniziò a interpretare i sogni dei suoi compagni di cella; la sua fama si diffuse e fu chiamato a interpretare anche i sogni del Faraone. Proprio la sua capacità divinatoria consentì di salvare l’Egitto da una carestia e gli consentì di diventare un personaggio importante. Molti anni dopo, Giuseppe ricevette i fratelli giunti dalla Palestina e seppe aiutarli, nonostante il male che gli avevano fatto: si fece riconoscere dai fratelli dicendo loro: “Io sono Giuseppe, vive ancora mio padre?”.11 Giuseppe è una figura esemplare che incarna e insegna molti valori: è tenace, non si perde d’animo; è un uomo che sa perdonare chi gli ha fatto del male; è un figlio che non dimentica suo padre e continua ad amarlo e a onorarlo per tutta la vita. Secondo André Chouraqui († 2007)12 10 Cfr. Genesi 7-15. Cfr. Genesi 37-48. 12 A. Chouraqui, I dieci comandamenti. I doveri dell’uomo nelle tre religioni di Abramo, Mondadori, Milano, 2001. 11 6 la lettura dei Dieci Comandamenti dovrebbe essere fatta tenendo presente quanto di essi insegnano la Torah, il Nuovo Testamento, il Corano e altri testi fecondi provenienti da altri universi culturali. Il messaggio essenziale è costituito dal dovere di amare, che è un dovere uguale sia che si tratti di amore paterno, filiale, fraterno o coniugale. Come si diceva, la storia di Giuseppe, ripresa in seguito dalle letterature occidentali e orientali, è contenuta nel Corano con alcune varianti. È Muhammad stesso che inizia il racconto del capitolo coranico, facendo pronunciare ad Allah queste parole: “Istorieremo per te nei minimi particolari il racconto più bello...”.13 È una delle leggende più dettagliate del Corano, è una storia drammatica, che narra una vicenda umana che tocca tanti aspetti della vita degli uomini: l’amore di un padre verso un figlio, la gelosia fra fratelli, l’invidia, il desiderio, l’amore, l’odio, la castità, il perdono. È probabile che Muhammad fosse venuto a contatto con leggende e tradizioni ebraiche e cristiane attraverso le due rispettive comunità presenti in Arabia, al tempo della sua predicazione. Gli informatori di Muhammad conoscevano racconti presenti nei libri canonici e apocrifi dell’Antico Testamento e la letteratura della tradizione ebraica, molto diffusa all’epoca della nascita dell’Islam. I commentatori musulmani del Corano hanno ampliato i racconti biblici aggiungendovi particolari e differenze, prodotti dall’immaginazione orientale.14 Un’altra figura che insegna valori importanti, presente e nel Corano è Salomone, il grande re d’Israele, figlio di Davide. Nel testo sacro degli arabi è ricordato come il sovrano saggio e potente per eccellenza. Salomone conosceva le lingue degli animali, aveva eserciti di spiriti, uomini, uccelli e parlava con le formiche. Alcuni valori che trasmette ai lettori della Bibbia e del Corano sono la saggezza, la giustizia, l’equità. Tante leggende ebraiche su Salomone sono passate nei commenti del Corano e nella novellistica araba e musulmana; ma anche nella Bibbia sono presenti materiali narrativi appartenenti alla saggezza delle tribù arabe. Nel Libro dei Proverbi, nell’Antico Testamento, ad esempio, due interi capitoli contengono sentenze arabe, a testimonianza evidentemente che la letteratura sapienziale è aperta ed ecumenica, non si chiude all’Altro, accetta gli scambi. In uno dei due capitoli dei Proverbi, è il re di una tribù nomade araba, Agur, che parla. Egli si presenta come “uno che non sa”: un modo canonico, questo, che i saggi adoperano, pur appartenendo a culture diverse e lontane, per definire la propria umiltà, l’umiltà di chi conosce bene i limiti della sua intelligenza rispetto ai misteri del mondo. Così dice Socrate († 399 a.C.) nella Grecia classica, così Siddhartha Gautama († 420/380 a.C. ca) nella tradizione buddista. Così dice il “santo lama” nel suo primo presentarsi a Kim: “voi che siete fanciulli ne sapete quanto me che sono vecchio”.15 Quali sono dunque i precetti del saggio arabo Agur, raccolti e ripresi nel libro ebraico dei Proverbi? Agur parla della giusta moderazione nelle scelte di vita (un precetto che sarà centrale anche nella predicazione di Gesù e di Muhammad), denuncia una società che ha sovvertito i valori, che non rispetta gli anziani, che pratica l’ingiustizia. Le sue parole di sovrano di una tribù nomade del deserto vengono accolte nel libro sacro del Dio di Israele. È lui, Agur, che riporta i “proverbi numerici” di origine araba, dove le sentenze sono ritmate sul gioco dei numeri e in cui domina il numero quattro. Se vogliamo essere più precisi, l’espressione ricorrente è quella di “tre, anzi quattro”, e dà vita a una pagina bellissima sul mistero della realtà esemplificato nel volo dell’aquila, nello strisciare del serpente, nel procedere della nave, nell’innamoramento e nell’attrazione fra i 13 Sura XII, 3 Cfr. G.Weill, Il racconto più bello del Corano, Sellerio, Palermo, 1990. 15 Cfr. R. Kipling, Kim, Barion, Milano, 1929. 14 7 sessi, tutte cose che restano misteriose agli occhi del sapiente. “Dice il saggio re arabo Agur: «tre cose mi sono difficili, anzi quattro non le capisco: il sentiero dell’aquila nell’aria, il sentiero del serpente sulla roccia, il sentiero della nave in alto mare, il sentiero dell’uomo in una ragazza. Misteriosa è la condotta della donna adultera: mangia e si pulisce la bocca e dice: non ho fatto niente di male»”.16 Nello stesso capitolo Agur consiglia agli uomini di prendere lezioni da alcuni piccoli animali, da molti considerati insignificanti: le formiche, gli iraci (piccole marmotte), le cavallette e le lucertole: “Quattro esseri sono fra le cose più piccole della terra, eppure sono i più saggi dei saggi: le formiche, popolo senza forza che si provvedono di cibo durante l’estate; gli iraci, popolo imbelle, ma che hanno la tana sulle rupi; le cavallette che non hanno un re, eppure marciano tutte insieme; la lucertola che si può prendere con le mani, ma penetra anche nei palazzi del re”.17 La sapienza dei “figli d’Oriente” era rinomata e accolta senza pregiudizi nel libro sacro d’Israele. Anche le parole di Lemuel, re di un’altra tribù araba, quella di Massa, sono considerate degne di entrare in un testo sapienziale e, dunque, troviamo elencati nei Proverbi una serie di consigli che Lemuel ha raccolto da sua madre e che ha fatto suoi. Leggiamo questi versi e sembra che i millenni non siano passati: notiamo, infatti, da un lato l’insistenza sui pericoli del vino, una delle particolarità della morale del deserto; dall’altro l’obbligo di chi comanda (il re, in questo caso) di mettersi dalla parte degli ultimi, dei più deboli, di prendere la parola per difendere chi non può parlare: “Non conviene ai re, Lemuel, non conviene ai re bere il vino, né ai principi bramare bevande inebrianti, per paura che, bevendo, dimentichino i loro decreti e tradiscano il diritto di tutti gli afflitti. Date bevande inebrianti a chi sta per perire e il vino a chi ha l’amarezza nel cuore, beva e dimentichi la sua povertà e non si ricordi più delle sue pene. Apri la bocca in favore del muto in difesa di tutti gli sventurati. Apri la bocca e giudica con equità e rendi giustizia all’infelice e al povero”.18 *Mariangela Giusti (19--) è professore associato di pedagogia interculturale all’Università degli Studi di Milano Bicocca. Tra i maggiori specialisti italiani di pedagogia interculturale, ha consacrato diversi lavori e ricerche alle tematiche dell’intercultura, degli scambi tra individui e culture diverse, dell’educazione interculturale. È inoltre membro del Comitato di redazione della rivista Encyclopaideia (fondata da Pierino Bertolini), ideatrice e direttrice scientifica del festival “Il Diritto di Essere Bambini” sulla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, la cui quinta edizione si è svolta lo scorso settembre, a Milano, in occasione di Expo 2015. 16 Cfr. Proverbi, 30, 18-20. Cfr. Proverbi, 30, 24-28. 18 Cfr. Proverbi, 31, 4-9. 17 8