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PRIX GONCOURT DE LA NOUVELLE, 2012 GRAND PRIX DE LA FRANCOPHONIE DE L’ACADÉMIE FRANÇAISE, 2014 PRIX JEAN–GIONO, 2014 «Una toccante satira sociale. […] Bilanciato, distaccato, mai sentimentale, Fouad Laroui non dispensa insegnamenti, ma sceglie l’aneddoto, il dettaglio quotidiano per parlare di integrazione, colonialismo, identità. Ma Un anno con i francesi è allo stesso tempo un inno alla letteratura che fa cadere le barriere e alla lettura che salva da tutte le solitudini.» Lire «Fouad Laroui possiede un tono unico, una mescolanza di saggezza disillusa, ironia condiscendente e nervosismo mascherato.» Internazionale hanno scritto formelunghe 47 Fouad Laroui, Un anno con i francesi Titolo originale: Une année chez les Français Il presente progetto è finanziato con il sostegno della Commissione Europea EACEA (Education, Audiovisual and Culture Executive Agency). L’autore è il solo responsabile di questa pubblicazione e la Commissione declina ogni responsabilità sull’uso che potrà essere fatto delle informazioni in essa contenute Copyright © Éditions Julliard, Paris 2010 Copyright © Del Vecchio Editore, 2015 Editing: Ondina Granato Redazione: Carlo Alberto Montalto, Vittoria Rosati Tarulli Design. Illustrazioni. Logo: Maurizio Ceccato | IFIX www.delvecchioeditore.it www.twitter.com/DelVecchioEd www.senzazuccheroblog.it ISBN: 9788861101333 ISBN: 9788861101524 (ebook) «Il romanzo non è una verità rivelata o un dogma, ma un tentativo di dialogo.» — FOUAD LAROUI Fouad Laroui T R A D U Z I O N E CRISTINA VEZZARO Questo romanzo è un’opera di finzione 1 L’ENIGMA DELL’ARRIVO Al custode, che sonnecchiava nella sua guardiola seduto dietro una specie di bancone rialzato, parve di colpo di sentire delle voci. O meglio, una sola, esile e un po’ roca, udibile appena. – Chiedo scusa… Da dove proveniva quella voce? Setacciò con sguardo ancora assonnato le pareti e il soffitto del suo regno. Niente. Nessuno. Non c’era nessuno nella guardiola, nessuno tranne lui, Miloud, custode di Lyautey da lustri. Si stropicciò gli occhi, un po’ inquieto. Uno ginn al liceo francese di Casablanca? Hanno il permesso? – Chiedo scusa, signore… Ancora! Miloud, ormai sveglio del tutto, si sollevò pesantemente dalla sedia, si chinò oltre il bancone e scoprì un bimbetto (di nove, dieci anni?), un bimbetto minuscolo che cercava di alzarsi in punta di piedi per scorgere lui, Miloud, la prima linea di difesa del liceo. Non l’avevano visto entrare, quel folletto. Accanto a lui, posata a terra, una valigetta marrone con il manico bianco, un po’ ammaccata, attendeva il seguito degli eventi. Miloud, uomo di grande sagacia, ne dedusse che il folletto era in realtà un “convittore”: la valigia doveva contenere il “corredo” d’ordinanza: sei paia di calzini, sei paia di mu- 11 tande, due paia di pantaloni, sei fazzoletti, quattro camicie… I convittori disponevano di tutto quel weekend di inizio ottobre per far ritorno a scuola prima che riprendessero le lezioni, il lunedì mattina. Questo nuovo ne aveva, di fretta: era solo sabato pomeriggio. Alcuni degli anziani sarebbero arrivati la domenica sera, all’ultimo, poco prima dell’appello. I più vissuti avrebbero persino atteso il “silenzio” prima di fare il loro ingresso; spavaldi buontemponi, muniti comunque di giustificazione, avrebbero tamburellato alla porta del dormitorio… L’uomo e il bambino si osservarono, stupito il primo, pressoché terrorizzato il secondo, a giudicare dal viso minuto in cui due occhi immensi gridavano aiuto. C’era, in effetti, di che spaventarsi: la faccia rubiconda protesa verso di lui (l’occhio torvo, la bocca in parte sdentata) era quella di Pietro Gambadilegno, l’enorme gatto nero con l’aspetto da bruto che terrorizzava tutti, in Topolino. Che cosa ci faceva Pietro Gambadilegno al liceo Lyautey? Miloud fu il primo a tornare in sé. Brontolò in francese, con forte accento: – E tu che vuoi? Quindi, correggendosi: – Dove stanno i tuoi? Il bambino abbassò il capo senza rispondere. Forse non capiva quello che gli diceva? Miloud, sempre chino oltre il bancone, vide solo una chioma nera un po’ riccia che, a causa della prospettiva dall’alto, pareva spandersi a macchia d’olio sul pavimento. Quello era senza dubbio marocchino. Tutti i francesi erano biondi, Miloud lo sapeva, dopo 12 aver visto mille prove del contrario passargli davanti tutti i giorni, trotterellando, camminando, correndo. E poi, quella valigia logora, con il suo ridicolo manico bianco… Non era bagaglio da nasrani, quello! Tutti i francesi sono ricchi, è risaputo. No, quello non poteva che essere un bambino del posto. Riprese, in versione bilingue, con voce più tracotante: – Dove sono i tuoi genitori? Fine waldik? Ancora niente. Miloud, che aveva fatto la guerra d’Indocina sotto bandiera tricolore (ed era stato quello a valergli, una volta riformato, la sinecura al liceo di Casablanca), fece ciò che un soldato disciplinato fa in questo genere di situazione. Lesto, fece il giro del bancone, prese il bambino con una mano, la valigia con l’altra e… si bloccò, sbigottito. Sulla soglia della guardiola due tacchini, legati l’uno all’altro per le zampe e distesi su un fianco, lo fissavano con sguardo leggermente allarmato. Sgranò gli occhi, quindi batté le palpebre e scosse la testa per scacciare l’assurda visione. Fatica sprecata. Uno dei due tacchini gloglottò. L’altro doveva essere altrettanto reale. Miloud serrò la mascella e chiese con voce sorda, senza togliere gli occhi di dosso agli animali: – Dialek bibi? Il bambino negò con tutte le proprie forze, senza emettere il benché minimo suono. Miloud lasciò piano piano bambino e valigia; avanzò con passo agile, schiena ricurva, braccia tese; e abbassandosi, con un guizzo, catturò i due intrusi. Si raddrizzò ed esaminò attentamente le prede. Le creste, le penne, il chiocciare che riprendeva più di pri- 13 ma… Non c’era dubbio: era proprio una coppia di tacchini. Che cosa ci facevano, in un liceo della Missione Universitaria e Culturale Francese? Indubbiamente la giornata si annunciava ricca di peripezie. Tornò a prendere la valigia, l’infilò sotto il braccio sinistro, afferrò il bambino e andò con passo fermo a consegnare il tutto al suo superiore gerarchico: il sorvegliante generale. L’ufficio di quest’ultimo si trovava di fronte alla guardiola. Miloud posò a terra la valigia e i tacchini e bussò leggermente, con due dita rispettose. Gli fu urlato di entrare. Aprì la porta, gonfiò il petto, abbozzò una specie di saluto militare; quindi diede una manata al bambino, che si ritrovò catapultato nella stanza, con gli occhi fuori dalle orbite. Gambadilegno spinse con piede impaziente davanti a sé valigia e pollame. Si mise sull’attenti e proferì, con voce stentorea: – Ecco! L’uomo che gli stava di fronte, seduto alla scrivania con una matita in mano, aggrottò le sopracciglia. Lo sguardo si spostò dall’uno all’altro dei protagonisti della scenetta. – Ecco? Ecco cosa? Miloud esitò un attimo, quindi sbraitò da far tremare i muri: – Un pitchoun, due ticchini e una faligia! Salutò di nuovo, fece dietrofront e lasciò l’ufficio a passo di carica. Aveva consegnato i prigionieri alle autorità competenti. La questione non lo riguardava più. La guardiola lo attendeva. Monsieur Lombard, il sorvegliante generale, era un uomo di media statura, un po’ in carne, dai capelli radi. Il suo 14 viso esprimeva un insieme di autorità e benevolenza. Era appena rientrato in ufficio dopo un pranzo frugale nell’appartamentino che occupava, con la moglie e le due figlie, nel complesso stesso del liceo. Se aveva consumato sbrigativamente la sacrosanta cerimonia del pranzo, se aveva bevuto solo un bicchiere di Chaudsoleil e fumato una sola Casa–Sport, era perché si considerava quasi mobilitato, durante il weekend del rientro dei convittori. Ci teneva a essere al suo posto, a stare “all’erta”, come diceva lui, a ricevere con bonarietà le famiglie, a scherzare con tono burbero con gli studenti anziani, a consultare gli elenchi e rassicurare con autorità le madri inquiete («Andrà tutto bene, signora, sono vent’anni che faccio questo mestiere!»). A Mehdi fece la stessa domanda che gli aveva fatto il portiere, ma con tono più affabile: – Dove sono i tuoi genitori, piccolino? Nell’istante stesso in cui il sorvegliante generale terminava la frase, un leone spuntò nell’ufficio, si gettò su di lui e gli strappò la testa con un sol colpo d’artigli. La belva gli affondò quindi le fauci nella gola, la quale pareva un vulcano che sputava sangue, e si mise a lappare il denso liquido rosso mugugnando di soddisfazione. Apparve uno squalo fluttuante nell’aria che inghiottì il corpo decapitato. Il leone e lo squalo si guardarono, piuttosto stupiti di ritrovarsi insieme. Delle iene… Contrariato (perché quel bambino non diceva nulla?), Monsieur Lombard gli rivolse di nuovo la domanda: – Dove sono i tuoi genitori? Il bambino rispose, con voce pressoché impercettibile: 15 – Mica ci sono. Monsieur Lombard sgranò gli occhi, senza nemmeno provare a mascherare il proprio stupore, quindi riprese: – “Mica ci sono”? Bisogna formare delle frasi, figliolo! Oramai sei nel migliore liceo francese fuori dalla Francia. Non dimenticarlo mai! Qui si parla correttamente. Si dice: “I miei genitori non ci sono”. Il bambino, sconcertato, farfugliò: – Non ci sono. Fissava ostinato il pavimento. Il sor–gén fece un sospiro. – Va bene, cominciamo dall’inizio. Io sono Monsieur Lombard, il sorvegliante generale. Stai tranquillo, non mangio i bambini. Soprattutto se sono tutti pelle e ossa… – Abbozzò un sorriso. – Poiché sei un convittore, avrai a che fare soprattutto con me. Come ti chiami? – Mehdi Khatib. – E i tacchini? – Mica so come si chiamano, – rispose Mehdi Khatib con voce appena udibile. Monsieur Lombard scoppiò a ridere. – Sciocchino! Non ti ho chiesto come si chiamano, ti chiedo cosa ci fanno qui. Sono tuoi? Miei? Certo che no, è stato Mokhtar a comprarli. È stato lui a pagarli. Io non c’entro niente in questa storia. Non li ho nemmeno toccati. Odio tutti gli animali da cortile. Fanno la cacca ovunque e fanno rumori strani. Mormorò, con voce chiara ma un po’ tremula: – No. Monsieur Lombard si alzò, girò attorno alla scrivania e 16 uscì dalla stanza facendo cenno al bambino di non muoversi. Qualche istante più tardi tornò, con aria dubbiosa, e si piazzò davanti a Mehdi, che non osava più alzare gli occhi. – Curioso. Il portiere afferma che sei stato tu a portare questi due… questi due… Indicò con dito imperioso i gallinacei. – Mica sono miei. – Mhmm… Bisognerà chiarire questa storia. Si strinse nelle spalle e tornò a sedersi dietro la scrivania. Nella stanza risuonò all’improvviso uno stridente chiocciare: gli animali protestavano, per ogni evenienza. I due esseri umani attesero stoicamente che passasse la crisi. Quando tornò a regnare il silenzio, il sorvegliante generale prese un foglio di carta su cui figurava un elenco di nomi, si sistemò gli occhiali e lo esaminò. Con l’indice percorse il foglio, che tremava leggermente. – Torniamo a pesce, per così dire. Se continuiamo così, tra un po’ ci ritroveremo su un’arca di Noè… Ah, sì! Khatib, Mehdi! Entri in prima media. E sei quindi un convittore. Benvenuto a Lyautey, giovanotto. Vieni dalla scuola elementare di Béni–Mellal, vero? – Sì. – Ah, ma… adesso ricordo! Sei, in un certo senso, il piccolo protetto di Monsieur Bernard, il direttore di quella scuola? Ha smosso mari e monti, quel brav’uomo, per procurarti una borsa, perché potessi proseguire gli studi qui da noi. Ha bombardato di lettere l’ambasciata di Francia, è venuto qui a parlare con il preside. Ha cantato le tue 17 lodi ovunque… ma si è dimenticato di dirci che eri quasi muto! Monsieur Lombard sfoggiava ora un sorriso benevolo. Dopo aver dato di nuovo un’occhiata al foglio, aggiunse con tono divertito: – Dieci anni! Devi essere il borsista più giovane del governo francese… E non sei nemmeno orfano di guerra… Cose mai viste! Gli devi accendere un cero, a Monsieur Bernard. Mi auguro che i tuoi genitori lo abbiano ringraziato come si deve. Gli avranno regalato una pecora, pensò Mehdi, colto da improvvisa vergogna retroattiva. Monsieur Lombard riprese un tono più ufficiale, ma sempre amichevole: – Hai il tuo corredo? Mehdi indicò la valigia. Il sorvegliante la guardò, un po’ perplesso. Era piuttosto piccola per contenere tutti gli effetti personali richiesti ai convittori all’inizio dell’anno. “Sei paia di calzini, …”. – Va bene. Tutto questo però non spiega… Non sarai venuto da solo da Béni–Mellal, no? Chi ti ha accompagnato? – È… È stato Mokhtar. – Mokhtar? – Il sorvegliante generale pronunciò: Mok– tar. – E chi è questo signore? È il tuo corrispondente? E non è qui? Perché se n’è andato? Mehdi abbassò la testa, avvilito. Come raccontare tutto quello che gli era capitato da ieri? Da dove cominciare? Doveva parlare del barbiere sadico? Del gatto sulla terrazza? 18 Della camionetta? Del guasto? Degli indiani Jivaros? Degli spiedini? Della g’naza? Monsieur Lombard riprese, con aria infastidita: – Senti, figliolo, se non rispondi alle domande che ti vengono rivolte non facciamo progressi. Posso anche dare un colpo di spugna all’apparizione miracolosa di due volatili nel mio ufficio, ma per quanto riguarda te, ho bisogno di saperne di più. Mehdi avrebbe anche voluto rispondere, ma non ricordava più la domanda. Per non sbagliare, finì per mormorare: – Vengo da Béni–Mellal. Monsieur Lombard esitò un istante. – Va bene, non se ne esce. Suvvia, l’importante è che tu sia qui. Chiarirò la faccenda un altro giorno. Per ora, vai in lavanderia e mostra il tuo corredo a Madame Benarroch. Vedi quella scala, all’ingresso, laggiù? Sali al quarto piano e ti ritroverai davanti a una grande porta: quella è la lavanderia. Poi torna giù e rimani in cortile. Ci sono delle panchine un po’ ovunque. Il refettorio apre alle sette di sera. Lo troverai facilmente, occupa un intero lato del cortile e sarà illuminato a giorno1. Se ciò nonostante non dovessi trovarlo, basterà che ti lasci guidare dal profumo dell’hachis Parmentier. Il profumo di… che? Sollevato di essersi finalmente liberato dei tacchini, Mehdi si diresse verso l’ingresso che gli aveva indicato Monsieur Lombard trascinandosi dietro la valigia. Si mise a sa- 19 lire lentamente gli scalini. L’interruttore a tempo lo obbligava ad accendere la luce ogni volta che arrivava a un pianerottolo. Si spegneva mentre si trovava tra due piani ed era costretto a proseguire la sua arrampicata al buio, con la paura che, a ogni passo, Gambadilegno potesse tramortirlo. Finì per ritrovarsi davanti alla porta della lavanderia. Che fare? Aspettare che uscisse qualcuno? Pazientò alcuni secondi; quindi, poiché non accadeva nulla, si decise a bussare. Nessuna reazione. Bussò più forte. A quel punto la porta si aprì e una forma gigantesca si stagliò in controluce. La luce si spense. La forma indietreggiò. Si riusciva a distinguerla meglio. Era, così pareva, una donna: una donna grandissima, grossissima, con la faccia gonfia, il triplo mento, il petto a forma di scudo brandito, i capelli neri raccolti a crocchia; una donna, certo, contenuta a stento in una tunica bianca che minacciava di esplodere da tutti i lati. Persino dalla faccia si riusciva a vedere che quel gigante possedeva un didietro immenso, monumentale, perfettamente in grado di spappolare i più piccini se solo gli fosse capitato di sedercisi sopra. Portava degli occhiali piccoli con lenti molto spesse, dei veri fondi di bottiglia che sembravano fatti di un’infinità di cerchi concentrici. Mehdi non aveva mai visto nulla di simile. Era un’orchessa! L’orchessa gridò con tono allegro: – Ecco il primo! Si parte! Lo avrebbe divorato. Poi: – Su, entra. Non abbiamo tutto il giorno. 20 Mehdi, spaventato, entrò senza fiatare. La lavandaia diede un’occhiata dietro di lui, sul pianerottolo. Stupita, chiese: – Dove sono i tuoi genitori? Non rispose. Guardava l’immenso locale con le pareti nascoste da grandi armadi a muro, alcuni aperti e altri chiusi a chiave. Alte pile di lenzuola bianche, alternate a monticelli di asciugamani di tutti i colori, occupavano tutto un lato della stanza. Ne proveniva un odore di sapone, o di bucato, piuttosto piacevole. Al centro del locale, un grande tavolo era ricoperto da ritagli di tessuto. L’orchessa andò con passo pesante a sedersi su un enorme sgabello. Sospirò rumorosamente. – Allora, piccolino, hai il tuo corredo? Mehdi posò la valigia ai piedi dell’orchessa, che l’aprì e iniziò a contare, con dito vivace, i calzini e le mutande. Dopo qualche istante, si accigliò e bofonchiò: – Ma i conti non tornano! Hai solo tre paia di calzini! Ce ne volevano sei! E i fazzoletti? Dove sono i fazzoletti? Rovistò nella valigia, quindi mormorò, scoraggiata. – Non hai nemmeno un pigiama! E come dormi? In mutande? Ma non è affatto igienico! Come si fa a dimenticarsi il pigiama? Tanto più che ce ne vogliono due! Prese una camicia a caso, ne rivoltò il colletto e avvicinò gli occhiali al tessuto fino a toccarlo con il naso. – Ma… non c’è niente! – Tuonò. – Non c’è niente! Dov’è il tuo nome? È stato detto ai genitori che bisognava cucire il nome dell’alunno sul colletto delle camicie, all’interno! Era scritto chiaramente nella lettera che abbiamo spedito già a giugno! Il patronimico cucito sul colletto! Altrimenti 21 come faccio a restituirti le camicie dopo averle lavate? Un patronimico ce l’avrai, no? Mehdi guardava il pavimento (che cos’era, un patro nemico?). L’orchessa tirò su con il naso, si sistemò gli occhiali e si chinò su di lui, tremando con tutta la sua massa, quasi fosse l’inizio di una frana. – Che storia è questa? Sei il primo ad arrivare e già iniziano i problemi… Forza, sciò!, vai da Monsieur Lombard. No, la valigia lasciala! Mehdi ridiscese le scale, lentamente, deciso a scappare di lì al più presto. Ma dove poteva andare? Si sarebbe perso per forza, in quell’immensa Casablanca che gli faceva paura. E poi, avevano preso la sua valigia in ostaggio. Sull’orlo delle lacrime, a cuore stretto, si diresse a piccoli passi verso l’ufficio del sorvegliante. Alla fine ci arrivò. La porta era aperta. Entrò senza bussare, lo sguardo abbassato. Monsieur Lombard, seduto dietro la scrivania, sollevò gli occhi dal piccolo taccuino che stava consultando. I ticchini erano spariti. – To’, eccoti di ritorno! Cosa succede? Madame Benarroch non c’è? – Sì, – mormorò Mehdi. – Miracolo! Parla! – Lo guardava con beffarda benevolenza. – E allora, perché vieni da me? Ti ho detto di rimanere in cortile fino alle sette di sera. – Madame… Benarroch… dice che… mi mancano dei calzini. – Ma guarda un po’! – Assunse una voce cavernosa, come se annunciasse un film dell’orrore. – La vicenda dei 22 calzini mancanti! Piomba qui con dei volatili ma senza calzini… C’è una logica che mi sfugge. Di’ un po’, sarà il caso di riordinare le priorità, ragazzo mio! Forza, spiègati un po’! Tutti i genitori degli alunni, o meglio i genitori dei convittori, hanno ricevuto una lettera nel mese di giugno. Il corredo era indicato nel dettaglio. I tuoi genitori l’hanno ricevuta? Sull’orlo delle lacrime: – Sì, credo di sì. – Ah, credi… E allora? Cos’è successo? Squillò il telefono. Monsieur Lombard sollevò la cornetta e si mise a parlare a spizzichi e bocconi. – Ah, è lei… giust’appunto, parlavamo di lei, signora Benarroch… Sì, sì, è qui, davanti a me… No, no, è davvero un convittore, uno nuovo… Come? Nemmeno un pigiama? Mhmm, ora vedo cosa possa fare. Riagganciò, le sopracciglia aggrottate. In quel momento un ragazzo bruno, alto e magro, entrò nella stanza con una piccola borsa blu buttata sulla spalla. Portava dei jeans slavati, una camicia a quadretti e scarpe da tennis malridotte. Sorrise e si mise per gioco sull’attenti, tenendo la borsa con la mano sinistra e portandosi la destra alla fronte, a mo’ di visiera. – Morel a rapporto! Ho appena recuperato le chiavi della mia camera da Charlie e vengo a prendere le consegne. Charlie? Consegne? Monsieur Lombard sorrise cercando al tempo stesso di assumere un’aria severa. – Buongiorno, Morel. Le ho già chiesto di chiamare Mi- 23 loud per nome. Lei ha una bella “faccia tosta”, come si suol dire. C’è mancato poco che quel poveretto ci lasciasse la pelle, in Indocina, battendosi per la Francia, e lei gli affibbia il soprannome dei Vietcong! Il ragazzo brandì il braccio destro, strinse il pugno e strombazzò: – Charlie, Miloud, una sola battaglia! – Ma insomma, era a Dien Bien Phu! Dalla nostra parte! – Ah, ah! Allora è stato lui a farci perdere l’Indocina? È quello che dicevo: Charlie, Miloud, una sola battaglia! Monsieur Lombard scrollò il capo, fingendosi affranto. – No, appunto, non è lo stesso… – La battaglia2! – Senta un po’! Lei e le sue citazioni! Insomma… Non ha bagagli? Solo quella borsa? Il giovane assunse un’aria misteriosa per sillabare con enfasi: – L’intendance suivra3! Monsieur Lombard scosse la testa, ilare. – Ecco, adesso si prende per de Gaulle! Non le bastava essere Morel? Riassunse quindi un tono serio per dire: – Casca bene, signor sorvegliante del convitto, ecco la prima delle sue gregarie. Indicò Mehdi che, non conoscendo l’ultima parola pronunciata dal sorvegliante generale, fu vagamente preoccupato di sentirsi dare della greg’avia. Cosa poteva mai essere? Una specie d’uccello? E perché parlavano di lui al femminile? Morel considerò con finta perplessità, il mento tra 24 il pollice e l’indice, il bambino in via di liquefazione che ingombrava un angolo della stanza. Monsieur Lombard riprese a rivolgersi alla greg’avia: – Ascolta, figliolo, non so cosa stia succedendo, ma non va affatto bene. Il tuo corredo è incompleto. Se almeno ci fossero stati i tuoi genitori, avremmo potuto intenderci. Morel intervenne: – Che cosa gli manca? – Gli manca… gli manca metà delle cose! Calzini, fazzoletti… – Fosse mai un monco che non si raffredda? Monsieur Lombard represse un sorriso. – Ah, ah, molto divertente… E bravo, l’hai anche detto in alessandrino, tra l’altro… Ma bando alle ciance: il nostro amico non ha nemmeno un pigiama! – Che dorma in mutande, come me. Come i veri uomini! Morel finse di imitare un gorilla infliggendosi grandi colpi sul petto e cacciando un lungo grido. Mehdi impallidì (lo avrebbero morso). Monsieur Lombard alzò le spalle. – Dormire in mutande? Suvvia, non è igienico. (Proprio quello che aveva detto la lavandaia! Era un complotto). Morel: – Da dove viene, questo zulù? – Da Béni–Mellal. È il ragazzetto, ehm… il giovanotto che ha ottenuto la famosa borsa… Morel l’interruppe: – Magari non portano il pigiama, da quelle parti, a Béni–Mellal? Manco sanno cos’è… Dormono avvolti in pel- 25 li di fiere… Allorché con i figli vestiti di pelli di fiere/ Scarmigliato, livido nel pieno di tempeste…4 Mehdi arrossì per la vergogna. Tutte quelle parole, quella caterva di parole proferite con tono faceto, gli bucherellavano il cuore. Monsieur Lombard assunse un’aria corrucciata. – Basta così, Morel, lo abbiamo capito che lei viene dalla città! Ci sono persone dignitose e civilizzate anche in montagna. Dovrebbe andare a farsi un giro sull’Atlante invece di starsene bello a casa, sulla Corniche5. Incontrerebbe delle persone straordinarie. La aiuterebbe a riordinare le idee. Guardando Mehdi, prese a tamburellare con le dita sul mento. (Che gesti erano quelli? Il mento tra il pollice e l’indice, poco fa; il picchiettio, ora… Cosa volevano dire?). – Va bene, torna da Madame Benarroch e dille da parte mia che “va bene così”. Ti darà lei un pigiama, ne ha qualcuno di riserva. – Ah sì? – s’intromise distratto Morel. – Come mai? – Non lo sa? Eppure è sorvegliante del convitto… Ci sono dei convittori, tra i più piccoli, che possono avere qualche “incidente”, durante la notte, se capisce cosa intendo. Ci vuole un cambio, per le emergenze… Morel sorrise, guardando Mehdi con aria ironica. Quest’ultimo sentì di colpo il basso ventre farsi umido e caldo. L’incidente non aveva aspettato la notte… Tutte le emozioni della giornata, di una giornata che non finiva di portare con sé contrarietà e catastrofi, si stavano esprimendo in quel filino di urina che non era riuscito a trattenere e che 26 ora lo riempiva di vergogna. Fortunatamente i due uomini continuavano a discorrere allegri. Non si erano resi conto di niente. Quando il bambino si presentò di nuovo dalla lavandaia, questa, probabilmente avvisata per telefono, aveva già messo alcuni pigiami sul tavolo. Ne prese uno, il più piccolo, di colore rosa, lo incollò al corpo mingherlino che si reggeva in piedi davanti a lei, quindi scrollò la testa. – Sei proprio minuscolo. Be’, dovrai arrangiarti con questo. In quanto ai calzini e al resto, porterai quello che manca la settimana prossima, dopo il weekend. Non te lo dimentichi vero? Lo disse porgendogli il pigiama rosa. Mehdi scosse la testa. No, non se lo sarebbe dimenticato. Ma a cosa serviva ricordarselo? Sapeva bene che non sarebbe tornato tanto presto a Béni–Mellal. Non era stata data alcuna disposizione in tal senso, e Mokhtar se n’era andato senza salutarlo. Sul vano della porta comparve Morel, senza la sua borsa. Gridò con tono allegro, senza rivolgersi a nessuno in particolare: – Dov’è la lavandaia più bella del mondo? Madame Benarroch si mise a ridere, si strinse nelle spalle e si sistemò gli occhiali sul naso cercando di scorgere, nell’immagine sfocata della porta, l’oggetto della sua ilarità. – Se questo non è l’uomo più bugiardo del mondo… Morel si fece avanti abbozzando un passo di danza. – Mi offende, Angèle! Non crede ai miei sentimenti? 27 – No. E le ho detto mille volte che mi chiamo Chochana. – Angèle è più bello. – È da vedere. – Non c’è niente da vedere. E poi “Angèle” le somiglia. Le è ormai davanti e, con arroganza, ignora il bambino dei tacchini. – E poi, Angèle è il nome della moglie del fornaio che fece impazzire tutto un paese… La lavandaia gli fece una smorfia prima di scoppiare a ridere: – La moglie del fornaio (se allude, almeno, al film di Pagnol6) si chiamava Aurélie. Il signorino So–tutto–io non sa poi tutto… Morel s’incaponì: – Angèle, ne sono certo! Abbassò gli occhi e scorse Mehdi, che aveva l’impressione di essere alto un centimetro e di pesare un grammo. Morel sbraitò: – Tu, borsista meritevole! Allora, meritatelo un po’! Come si chiama la moglie del fornaio? Mehdi, in preda al panico, si sforzò di riflettere. Aveva visto una o due volte il fornaio, a Béni–Mellal. Era un uomo burbero, vestito con una semplice camicia e dei pantaloncini; infornava nel ferrane ardente, senza fiatare, il pane che gli portavano le famiglie del quartiere. Non sapeva nemmeno come si chiamasse (lo chiamavano moul’ ferrane, “il proprietario del forno”), come faceva a sapere come si chiamava sua moglie? Che poi, ne aveva una? A Béni– Mellal, gli uomini di solito, le mogli, le chiudevano in ca- 28 sa… Trafitto dallo sguardo di Morel, in attesa di risposta, ebbe l’idea d’inventare il nome più probabile. – Fatima! – gridò. I due adulti si guardarono, sconcertati, quindi scoppiarono a ridere, lui in singhiozzi e lei in risolini; Mehdi, tra loro, si augurava che morissero di morte violenta. La lavandaia fu la prima a riprendersi. – Raimu che fa lo sciopero del pane perché Fatima l’ha lasciato… Sarebbe stato divertente, una volta tanto! Bene, bene, ma ora ho del lavoro da sbrigare. Che cosa vuole, Romeo? – La sua mano, Angèle, voglio la sua mano! Quando potrò indossare i miei guanti bianchi? Quando potrò parlare al suo onorato padre, gettarmi ai suoi piedi? La donna si mise di nuovo a ridere. – Mio padre? Pover’uomo… Vuole la sua morte? Sono ebrea e lei è cattolico, lo sa bene. Si raddrizzò, la mano incollata al petto, gli occhi alzati al cielo. – Abiuro! Non conosco più il papa! Rinnego Paolo VI! Tutto quello che vorrete! Mi metto una kippah in testa, mi starà benissimo, tra l’altro, e vado da suo padre… – E poi, certo non è che un dettaglio, ma sono già sposata. – Nobody’s perfect! Madame Benarroch scosse la testa sorridendo. – E a parte questo, cos’altro vuole? Morel emise un sospiro che risuonò come il muggito di un toro indispettito. Quindi puntò il dito su Mehdi. 29 Questi, ancora mortificato per lo scoppio di risa che aveva accolto il suo unico contributo alla discussione, si chiedeva perché quell’uomo tanto bello perdesse il proprio tempo a fare la corte a un’orchessa. Era forse cieco? – Devo accompagnare questo vecchio crumiro al dormitorio, – proclamò il cieco. Crumiro? Vecchio crumiro? – Forza, vieni, va’! Dammi la tua valigia, Fatima. E prenditi il tuo bel pigiama, non sarà poi così pesante, – scoppiò a ridere, molto orgoglioso della sua battuta. – Forza, seguimi, sbrìgati! Arrivederci, Angèle, mi ha spezzato il cuore. Come sempre. Ma tornerò! Come diceva il generale MacArthur: I shall return! E, pronunciando queste ultime parole, fece con superbia un saluto militare. Uscì quindi dalla lavanderia e scese le scale a quattro a quattro, premendo a ogni pianerottolo con dito impaziente il pulsante dell’interruttore a tempo, quasi intendesse scavare un buco nel muro, anche quando la luce non si era ancora spenta. Fischiava a squarciagola un motivo in voga (Johnny? Sheila? Antoine?). Mehdi gli trotterellava dietro sforzandosi di non perderlo di vista. Quando furono arrivati al primo piano, il sorvegliante spinse una porta di vetro e si scostò per far passare il bambino. Poi fece un ampio gesto con il braccio, come per far ammirare il proprio regno: – Voilà! Visto che sei stato il primo ad arrivare, Fatima, puoi sceglierti da solo il tuo letto. Un consiglio: prendine uno in fondo, sarai meno disturbato dall’andirivieni dei tuoi amichetti. 30 Indeciso, Mehdi rimase in piedi sulla soglia. Morel lo guardò con tanto d’occhi. Quindi sbraitò: – Forza, muoviti ragazzo, muoviti! Obbedendo, Mehdi si mosse di qualche centimetro poi s’immobilizzò. Morel si prese la testa fra le mani e fece una smorfia comica. – Porca miseria, non ci credo, che cosa ci hanno mandato quest’anno? Un gigantesco martello nero e lucente, alto almeno quattro metri, apparve sopra Morel e si abbatté con un colpo, patapam!, sul suo cranio, che scoppiò in mille pezzi. Il sangue schizzò sui muri e si mise a gocciolare a lunghe strisce scarlatte. Pezzi di cervello giallo sporco si erano appiccicati al soffitto come stalattiti di oro imbrattato. Pipistrelli… Morel agguantò il bambino con una mano e la valigia con l’altra, proprio come aveva fatto Miloud, e li trascinò verso il fondo del dormitorio. Lì entrò nell’alcova di sinistra, dove si fronteggiavano due letti a castello: lo spazio per quattro convittori, con due armadi per i loro vestiti. – Preferisci sopra o sotto? Mehdi guardò sotto, somigliava a un letto a baldacchino. Non ne aveva mai visto uno dal vivo. Fu al tempo stesso incantato all’idea di dormire in quel bozzolo protettivo e un po’ inquieto: era profondo come una tomba. E sia, moriamo: lo indicò con il dito. Morel batté le mani, come un faccendone che “qua la mano”. – Bene, la faccenda è risolta! Ecco quindi il tuo regno per tutto l’anno prossimo. Metti la tua roba nell’armadio e scendi in cortile. E attento: occupa solo metà armadio. 31 L’altra metà è del tuo amichetto, quello che prenderà il letto in alto. Bene, ciao. Mehdi aprì l’armadio. Era composto da quattro cassettini, uno sopra l’altro, da un piccolo guardaroba e da un grande scaffale che sovrastava il tutto. Indeciso, prese tutti i suoi vestiti e li ficcò nei due cassetti più bassi. Attraversò quindi il dormitorio vuoto, scese le scale e se ne andò a spasso per l’immenso cortile attorno a cui si ergevano gli edifici del liceo. Vide una grande buca della sabbia lungo la quale correva una trave. Alcuni campi sportivi (pallamano, pallavolo) occupavano buona parte della superficie del cortile. Tutt’attorno alla buca erano disposti degli attrezzi. Una corda a nodi e una corda liscia pendevano nel vuoto, oscillando debolmente. Mehdi si mise a gironzolare per il cortile, indeciso. Per la prima volta in vita sua non aveva un libro a portata di mano e non sapeva come occupare il tempo. A proposito di libri… Ricordò con nostalgia il terremoto che aveva colpito Béni–Mellal l’anno prima. 32 LA SCATOLA NERA DEL TRADUTTORE Quando ero piccola, c’erano cose che in italiano non capivo. Ricordo i versi della canzone Vacanze romane: «L’oro e l’argento/ le sale da tè». A Bolzano di sale da tè non ce n’erano, e io avevo liberamente interpretato la strofa: «l’è sale da te», come a dire: «farina del tuo sacco». Qualche anno più in là, quando studiavo a Ginevra e ancora non sapevo cosa significasse essere “sotto l’egida/ l’égide”, mentre invece conoscevo già André Gide, avevo tranquillamente trascritto, nei miei appunti, «sous le gide de l’ONU». Forse è per questo che il piccolo Mehdi mi è stato subito simpatico. La distanza tra Bolzano e Roma non è poi così diversa da quella tra Béni–Mellal e Casablanca. Chi proviene da una madre lingua un po’ piatta, poco dialettale, ricca di interferenze come quella del capoluogo altoatesino, ben può comprendere lo spaesamento del bambino catapultato in una grande città, dove le parole assumono sotto i suoi occhi una tridimensionalità prima costretta tra le righe dei molti libri letti, significanti senza significato. «I limiti del tuo linguaggio sono i limiti del tuo mondo», diceva Wittgenstein. Ecco allora che per il piccolo protagonista marocchino al Lycée français, capire le parole di quel mondo significa capire quel mondo. E allora forza, avanti tutta! Senza timore di prendere Roma per toma, il piccolo Mehdi si lancia con grande corag- 305 gio in territori inesplorati, come un bambinetto che inizia a parlare, come un ragazzino che apprende una lingua nuova in un Paese straniero: così Mehdi ascolta e ripete diligentemente tutto ciò che sente, senza capire sempre cosa significhi, ma con il desiderio di coglierlo, di definirlo, di addomesticarlo, quel mondo ignoto. Che è poi quello che fa il traduttore. In Un anno con i francesi, ciò che può essere un incubo per lingue molto lontane dal francese (si narra di traduttori che avrebbero desistito…), per il fortunato traduttore italiano diventa un vero piacere: tanti e tali spunti linguistici, giochi di parole… Un piacere sottile che uno scrittore e il suo traduttore condividono, consapevoli del potere di una semplice sequenza di fonemi, in grado di rappresentare tutto un mondo, oltre che rifugio per eccellenza. I calembours incalzano, le parole si rincorrono capitolo dopo capitolo, i registri dei diversi protagonisti dialogano tra loro come righi di una partitura: alla fine ti guardi indietro e ti senti un po’ una sopravvissuta, una che ha avuto un bel po’ di fortuna. Una che, insieme al piccolo protagonista, è cresciuta; e proprio come lui, dal sentirsi a ogni piè sospinto un’impostora, poco a poco riesce a credere in ciò che si è guadagnata riga dopo riga. Tradurre il primo libro di Laroui è stato un privilegio. Tradurre questo secondo, un enorme piacere. Cristina Vezzaro 306 Cristina Vezzaro vive e lavora a Torino. Dal 2005 traduce narrativa e poesia francese, tedesca e inglese per diverse case editrici (ISBN, Del Vecchio Editore, Sonzogno, De Agostini). Ha pubblicato racconti in Italia (in Lingua Madre, Novel), mentre a Parigi sono uscite sue poesie (in The Bastille). Cura un portale dedicato al genere “flash fiction” e un sito in cui chiede a traduttori e autori di parlare di traduzione letteraria (Authors & Translators). Oltre a Fouad Laroui, ha particolarmente amato tradurre Ulrich Peltzer, Kathrin Röggla, Nigel Farndale e François Vallejo. Attualmente sta imparando l’ungherese. INDICE UN ANNO CON I FRANCESI pag. 7 1. L’enigma dell’arrivo pag. 11 2. Nella berlina del generale pag. 33 3. Che ci faccio qui? pag. 36 4. In cammino verso i francesi! pag. 42 5. Il monumento ai caduti pag. 61 6. L’illustre Morel pag. 85 7. La ragazza di Chamayrac pag. 98 8. Mehdi impara a suonare lo xilofono pag. 104 9. I proletari non hanno patria pag. 110 10. Quel che per te è Aquilone pag. 129 11. I tre volti della paura pag. 137 12. Mehdi e il grande Tespi pag. 148 13. Una giornata al mare pag. 165 14. Un weekend con i francesi pag. 173 15. La nuova famiglia di Mehdi pag. 196 16. Il leone travestito da asino pag. 204 17. I tredici dolci di Natale pag. 212 18. Una gita al mare pag. 224 19. Van Gogh è marocchino pag. 232 20. Il matrimonio del pompiere pag. 244 21. Linus contro Charlie Brown pag. 263 22. Mehdi vince la partita pag. 271 23. La cerimonia di premiazione pag. 281 NOTE pag. 295 GLOSSARIO pag. 301 LA SCATOLA NERA DEL TRADUTTORE pag. 305 in uscita «Se l’occasione c’è, è possibile tirare le fila della narrazione da qualunque punto. Per rimanere nella metafora: arrivo da una qualsiasi presa di corrente, da ogni spina, alla cabina elettrica. Fa tutto parte dell’argomento, la si può chiamare “elettricità” o “Dio”, tutto è collegato e fa parte della storia.» — LUTZ SEILER formelunghe K RUSO di Lutz Seiler traduzione di Paola Del Zoppo nella stessa collana 1. Nato di sabato di Ray Banks 2. Confessioni di una giocatrice d’azzardo di Rayda Jacobs 3. L’ebbrezza degli dei di Laurent Martin 4. Un’indagine senza importanza di Robert Hültner 5. Sweet Sixteen di Birgit Vanderbeke 6. Sale e miele di Candy Miller 7. Senza via d’uscita di Val McDermid 8. Saloon di Aude Walker 9. Il trucco della morte di Astrid Paprotta 10. Fiamma abbagliante di Barry Levy 11. Alle spalle di Birgit Vanderbeke 12. Colazione con Mick Jagger di Nathalie Kuperman 13. La dea madrina di Robert Hültner 14. L’assassino di Banconi di Moussa Konaté 15. Quindici giorni di novembre di José Luis Correa 16. La bambina che imparò a non parlare di Yasmine Ghata 17. Morte in aprile di José Luis Correa 18. Il sole è una donna di Félix de Belloy 19. L’imperatore della Cina di Tilman Rammstedt 20. L’onore dei Kéita di Moussa Konaté 21. La straordinaria carriera della signora Choi di Birgit Vanderbeke 22. Le sorelle Brelan di François Vallejo 23. Apostoloff di Sibylle Lewitscharoff 24. L’ispettore Kajetan e gli impostori di Robert Hültner 25. L’impronta della volpe di Moussa Konaté 26. A portata di mano di Tilman Rammstedt 27. Si può fare di Birgit Vanderbeke 28. La traccia della sirena di José Luis Correa 29. La tempesta di neve di Robert Hültner 30. Blumenberg di Sibylle Lewitscharoff 31. Concerto per mio padre di Yasmine Ghata 32. Cosa vuoi fare da grande di Ivan Baio, Angelo Orlando Meloni 33. Exchange Place, Belfast di Ciaran Carson 34. Quasi mai di Daniel Sada 35. Il silenzio di Max Frisch 36. I passanti di Laurent Mauvignier 37. Gli innocenti di Burhan Sönmez 38. Verità imperfette di Aa. Vv 39. Johanna di Felicitas Hoppe 40. Esilio di Çiler İlhan 41. L’ultimo minuto di Marcelo Backes 42. Il gatto di Schrödinger di Philippe Forest 43. Arcano 21 di Luca Ragagnin 44. Il linguaggio del gioco di Daniel Sada 45. Perché non sono un sasso di Gianni Agostinelli 46. Il viaggiatore oscuro di Josephine W. Johnson UACoF Istruzioni per l’uso Q uesta lampada, ideata da Fouad Laroui nel 2010, è chiamata nel linguaggio comune anche romanzo. Contiene un gas nobile (non necessariamente neon), e spesso vapori di minerali, oltre che, ovviamente un materiale fluorescente. È costituita da un parallelepipedo di vetro curiosamente lineare, che si può variamente sagomare. Il materiale fluorescente, investito dalle radiazioni, emette a sua volta una radiazione visibile all’occhio umano. La radiazione visibile, avendo lunghezza d’onda più ampia di quella ultravioletta, trasporterà solo una parte dell’energia dell’onda: l’energia restante si trasforma in calore, che va a riscaldare il romanzo. Una differente composizione del Si possono produrre così: nel contenitore, la cui superficie interna è rivestita di materiale fluorescente dall’aspetto di polvere bianca, si ottiene un vuoto, poi si introducono un gas nobile a bassa pressione e una piccola quantità di minerale possibilmente anche quello riflettente, che in parte evapora mescolandosi al gas. A ognuna delle due estremità del tubo è presente un elettrodo. Il passaggio della corrente sollecita i gas a emettere radiazioni. materiale fluorescente permetterebbe di produrre una luce più calda, oppure una luce più fredda. Questo tipo di lampade ha una vita media maggiore rispetto ad altri tipi, ma la loro durata può essere fortemente influenzata dal numero di accensioni e spegnimenti, a meno che non si usi un pilotaggio sistematico. Ognuna di queste operazioni, infatti, riduce la vita della lampada, a causa dell’usura subita per il maggior numero di preriscaldamenti richiesti. Finito di stampare nell’Aprile 2015 presso la tipografia Printì di Saulino Ivana Manocalzati (Avellino)