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PRIX GONCOURT DE LA NOUVELLE, 2012
GRAND PRIX DE LA FRANCOPHONIE DE L’ACADÉMIE
FRANÇAISE, 2014
PRIX JEAN–GIONO, 2014
«Una toccante satira sociale. […] Bilanciato,
distaccato, mai sentimentale, Fouad Laroui non
dispensa insegnamenti, ma sceglie l’aneddoto, il
dettaglio quotidiano per parlare di integrazione,
colonialismo, identità. Ma Un anno con i francesi è allo
stesso tempo un inno alla letteratura che fa cadere le
barriere e alla lettura che salva da tutte le solitudini.»
Lire
«Fouad Laroui possiede un tono unico, una
mescolanza di saggezza disillusa, ironia
condiscendente e nervosismo mascherato.»
Internazionale
hanno scritto
formelunghe
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Fouad Laroui, Un anno con i francesi
Titolo originale: Une année chez les Français
Il presente progetto è finanziato con il sostegno della Commissione
Europea EACEA (Education, Audiovisual and Culture Executive Agency).
L’autore è il solo responsabile di questa pubblicazione e la Commissione
declina ogni responsabilità sull’uso che potrà essere fatto delle
informazioni in essa contenute
Copyright © Éditions Julliard, Paris 2010
Copyright © Del Vecchio Editore, 2015
Editing: Ondina Granato
Redazione: Carlo Alberto Montalto, Vittoria Rosati Tarulli
Design. Illustrazioni. Logo: Maurizio Ceccato | IFIX
www.delvecchioeditore.it
www.twitter.com/DelVecchioEd
www.senzazuccheroblog.it
ISBN: 9788861101333
ISBN: 9788861101524 (ebook)
«Il romanzo non è una verità rivelata
o un dogma, ma un tentativo di dialogo.»
—
FOUAD LAROUI
Fouad Laroui
T R A D U Z I O N E CRISTINA VEZZARO
Questo romanzo è un’opera di finzione
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L’ENIGMA DELL’ARRIVO
Al custode, che sonnecchiava nella sua guardiola seduto
dietro una specie di bancone rialzato, parve di colpo di
sentire delle voci. O meglio, una sola, esile e un po’ roca,
udibile appena.
– Chiedo scusa…
Da dove proveniva quella voce? Setacciò con sguardo
ancora assonnato le pareti e il soffitto del suo regno. Niente. Nessuno. Non c’era nessuno nella guardiola, nessuno
tranne lui, Miloud, custode di Lyautey da lustri. Si stropicciò gli occhi, un po’ inquieto. Uno ginn al liceo francese di Casablanca? Hanno il permesso?
– Chiedo scusa, signore…
Ancora! Miloud, ormai sveglio del tutto, si sollevò pesantemente dalla sedia, si chinò oltre il bancone e scoprì
un bimbetto (di nove, dieci anni?), un bimbetto minuscolo che cercava di alzarsi in punta di piedi per scorgere lui,
Miloud, la prima linea di difesa del liceo.
Non l’avevano visto entrare, quel folletto. Accanto a lui,
posata a terra, una valigetta marrone con il manico bianco, un po’ ammaccata, attendeva il seguito degli eventi.
Miloud, uomo di grande sagacia, ne dedusse che il folletto
era in realtà un “convittore”: la valigia doveva contenere
il “corredo” d’ordinanza: sei paia di calzini, sei paia di mu-
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tande, due paia di pantaloni, sei fazzoletti, quattro camicie… I convittori disponevano di tutto quel weekend di inizio ottobre per far ritorno a scuola prima che riprendessero le lezioni, il lunedì mattina. Questo nuovo ne aveva, di
fretta: era solo sabato pomeriggio. Alcuni degli anziani sarebbero arrivati la domenica sera, all’ultimo, poco prima
dell’appello. I più vissuti avrebbero persino atteso il “silenzio” prima di fare il loro ingresso; spavaldi buontemponi,
muniti comunque di giustificazione, avrebbero tamburellato alla porta del dormitorio…
L’uomo e il bambino si osservarono, stupito il primo, pressoché terrorizzato il secondo, a giudicare dal viso minuto
in cui due occhi immensi gridavano aiuto. C’era, in effetti, di che spaventarsi: la faccia rubiconda protesa verso di
lui (l’occhio torvo, la bocca in parte sdentata) era quella di
Pietro Gambadilegno, l’enorme gatto nero con l’aspetto da
bruto che terrorizzava tutti, in Topolino. Che cosa ci faceva Pietro Gambadilegno al liceo Lyautey?
Miloud fu il primo a tornare in sé. Brontolò in francese,
con forte accento:
– E tu che vuoi?
Quindi, correggendosi:
– Dove stanno i tuoi?
Il bambino abbassò il capo senza rispondere. Forse non
capiva quello che gli diceva? Miloud, sempre chino oltre
il bancone, vide solo una chioma nera un po’ riccia che, a
causa della prospettiva dall’alto, pareva spandersi a macchia d’olio sul pavimento. Quello era senza dubbio marocchino. Tutti i francesi erano biondi, Miloud lo sapeva, dopo
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aver visto mille prove del contrario passargli davanti tutti i
giorni, trotterellando, camminando, correndo. E poi, quella valigia logora, con il suo ridicolo manico bianco… Non
era bagaglio da nasrani, quello! Tutti i francesi sono ricchi,
è risaputo. No, quello non poteva che essere un bambino
del posto.
Riprese, in versione bilingue, con voce più tracotante:
– Dove sono i tuoi genitori? Fine waldik?
Ancora niente. Miloud, che aveva fatto la guerra d’Indocina sotto bandiera tricolore (ed era stato quello a valergli,
una volta riformato, la sinecura al liceo di Casablanca), fece ciò che un soldato disciplinato fa in questo genere di situazione. Lesto, fece il giro del bancone, prese il bambino
con una mano, la valigia con l’altra e… si bloccò, sbigottito. Sulla soglia della guardiola due tacchini, legati l’uno
all’altro per le zampe e distesi su un fianco, lo fissavano con
sguardo leggermente allarmato. Sgranò gli occhi, quindi batté le palpebre e scosse la testa per scacciare l’assurda visione. Fatica sprecata. Uno dei due tacchini gloglottò. L’altro
doveva essere altrettanto reale.
Miloud serrò la mascella e chiese con voce sorda, senza
togliere gli occhi di dosso agli animali:
– Dialek bibi?
Il bambino negò con tutte le proprie forze, senza emettere il benché minimo suono. Miloud lasciò piano piano
bambino e valigia; avanzò con passo agile, schiena ricurva,
braccia tese; e abbassandosi, con un guizzo, catturò i due
intrusi. Si raddrizzò ed esaminò attentamente le prede. Le
creste, le penne, il chiocciare che riprendeva più di pri-
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ma… Non c’era dubbio: era proprio una coppia di tacchini. Che cosa ci facevano, in un liceo della Missione Universitaria e Culturale Francese? Indubbiamente la giornata si annunciava ricca di peripezie. Tornò a prendere la valigia, l’infilò sotto il braccio sinistro, afferrò il bambino e
andò con passo fermo a consegnare il tutto al suo superiore gerarchico: il sorvegliante generale.
L’ufficio di quest’ultimo si trovava di fronte alla guardiola.
Miloud posò a terra la valigia e i tacchini e bussò leggermente, con due dita rispettose. Gli fu urlato di entrare. Aprì la
porta, gonfiò il petto, abbozzò una specie di saluto militare;
quindi diede una manata al bambino, che si ritrovò catapultato nella stanza, con gli occhi fuori dalle orbite. Gambadilegno spinse con piede impaziente davanti a sé valigia e
pollame. Si mise sull’attenti e proferì, con voce stentorea:
– Ecco!
L’uomo che gli stava di fronte, seduto alla scrivania con
una matita in mano, aggrottò le sopracciglia. Lo sguardo
si spostò dall’uno all’altro dei protagonisti della scenetta.
– Ecco? Ecco cosa?
Miloud esitò un attimo, quindi sbraitò da far tremare
i muri:
– Un pitchoun, due ticchini e una faligia!
Salutò di nuovo, fece dietrofront e lasciò l’ufficio a passo
di carica. Aveva consegnato i prigionieri alle autorità competenti. La questione non lo riguardava più. La guardiola lo
attendeva.
Monsieur Lombard, il sorvegliante generale, era un uomo di media statura, un po’ in carne, dai capelli radi. Il suo
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viso esprimeva un insieme di autorità e benevolenza. Era
appena rientrato in ufficio dopo un pranzo frugale nell’appartamentino che occupava, con la moglie e le due figlie,
nel complesso stesso del liceo. Se aveva consumato sbrigativamente la sacrosanta cerimonia del pranzo, se aveva bevuto solo un bicchiere di Chaudsoleil e fumato una sola Casa–Sport, era perché si considerava quasi mobilitato, durante il weekend del rientro dei convittori. Ci teneva a essere al suo posto, a stare “all’erta”, come diceva lui, a ricevere con bonarietà le famiglie, a scherzare con tono burbero con gli studenti anziani, a consultare gli elenchi e rassicurare con autorità le madri inquiete («Andrà tutto bene, signora, sono vent’anni che faccio questo mestiere!»). A Mehdi fece la stessa domanda che gli aveva fatto il portiere, ma
con tono più affabile:
– Dove sono i tuoi genitori, piccolino?
Nell’istante stesso in cui il sorvegliante generale terminava la frase, un leone spuntò nell’ufficio, si gettò su di lui e
gli strappò la testa con un sol colpo d’artigli. La belva gli
affondò quindi le fauci nella gola, la quale pareva un vulcano che sputava sangue, e si mise a lappare il denso liquido
rosso mugugnando di soddisfazione. Apparve uno squalo
fluttuante nell’aria che inghiottì il corpo decapitato. Il leone e lo squalo si guardarono, piuttosto stupiti di ritrovarsi
insieme. Delle iene…
Contrariato (perché quel bambino non diceva nulla?), Monsieur Lombard gli rivolse di nuovo la domanda:
– Dove sono i tuoi genitori?
Il bambino rispose, con voce pressoché impercettibile:
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– Mica ci sono.
Monsieur Lombard sgranò gli occhi, senza nemmeno provare a mascherare il proprio stupore, quindi riprese:
– “Mica ci sono”? Bisogna formare delle frasi, figliolo!
Oramai sei nel migliore liceo francese fuori dalla Francia.
Non dimenticarlo mai! Qui si parla correttamente. Si dice:
“I miei genitori non ci sono”.
Il bambino, sconcertato, farfugliò:
– Non ci sono.
Fissava ostinato il pavimento. Il sor–gén fece un sospiro.
– Va bene, cominciamo dall’inizio. Io sono Monsieur Lombard, il sorvegliante generale. Stai tranquillo, non mangio
i bambini. Soprattutto se sono tutti pelle e ossa… – Abbozzò un sorriso. – Poiché sei un convittore, avrai a che fare soprattutto con me. Come ti chiami?
– Mehdi Khatib.
– E i tacchini?
– Mica so come si chiamano, – rispose Mehdi Khatib con
voce appena udibile.
Monsieur Lombard scoppiò a ridere.
– Sciocchino! Non ti ho chiesto come si chiamano, ti chiedo cosa ci fanno qui. Sono tuoi?
Miei? Certo che no, è stato Mokhtar a comprarli. È stato lui
a pagarli. Io non c’entro niente in questa storia. Non li ho nemmeno toccati. Odio tutti gli animali da cortile. Fanno la cacca ovunque e fanno rumori strani.
Mormorò, con voce chiara ma un po’ tremula:
– No.
Monsieur Lombard si alzò, girò attorno alla scrivania e
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uscì dalla stanza facendo cenno al bambino di non muoversi. Qualche istante più tardi tornò, con aria dubbiosa,
e si piazzò davanti a Mehdi, che non osava più alzare gli
occhi.
– Curioso. Il portiere afferma che sei stato tu a portare
questi due… questi due…
Indicò con dito imperioso i gallinacei.
– Mica sono miei.
– Mhmm… Bisognerà chiarire questa storia.
Si strinse nelle spalle e tornò a sedersi dietro la scrivania.
Nella stanza risuonò all’improvviso uno stridente chiocciare: gli animali protestavano, per ogni evenienza. I due esseri umani attesero stoicamente che passasse la crisi. Quando tornò a regnare il silenzio, il sorvegliante generale prese
un foglio di carta su cui figurava un elenco di nomi, si sistemò gli occhiali e lo esaminò. Con l’indice percorse il foglio, che tremava leggermente.
– Torniamo a pesce, per così dire. Se continuiamo così,
tra un po’ ci ritroveremo su un’arca di Noè… Ah, sì! Khatib, Mehdi! Entri in prima media. E sei quindi un convittore. Benvenuto a Lyautey, giovanotto. Vieni dalla scuola
elementare di Béni–Mellal, vero?
– Sì.
– Ah, ma… adesso ricordo! Sei, in un certo senso, il
piccolo protetto di Monsieur Bernard, il direttore di quella scuola? Ha smosso mari e monti, quel brav’uomo, per
procurarti una borsa, perché potessi proseguire gli studi
qui da noi. Ha bombardato di lettere l’ambasciata di Francia, è venuto qui a parlare con il preside. Ha cantato le tue
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lodi ovunque… ma si è dimenticato di dirci che eri quasi
muto!
Monsieur Lombard sfoggiava ora un sorriso benevolo.
Dopo aver dato di nuovo un’occhiata al foglio, aggiunse
con tono divertito:
– Dieci anni! Devi essere il borsista più giovane del governo francese… E non sei nemmeno orfano di guerra…
Cose mai viste! Gli devi accendere un cero, a Monsieur Bernard. Mi auguro che i tuoi genitori lo abbiano ringraziato
come si deve.
Gli avranno regalato una pecora, pensò Mehdi, colto da
improvvisa vergogna retroattiva.
Monsieur Lombard riprese un tono più ufficiale, ma sempre amichevole:
– Hai il tuo corredo?
Mehdi indicò la valigia. Il sorvegliante la guardò, un po’
perplesso. Era piuttosto piccola per contenere tutti gli effetti personali richiesti ai convittori all’inizio dell’anno. “Sei
paia di calzini, …”.
– Va bene. Tutto questo però non spiega… Non sarai
venuto da solo da Béni–Mellal, no? Chi ti ha accompagnato?
– È… È stato Mokhtar.
– Mokhtar? – Il sorvegliante generale pronunciò: Mok–
tar. – E chi è questo signore? È il tuo corrispondente? E
non è qui? Perché se n’è andato?
Mehdi abbassò la testa, avvilito. Come raccontare tutto
quello che gli era capitato da ieri? Da dove cominciare? Doveva parlare del barbiere sadico? Del gatto sulla terrazza?
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Della camionetta? Del guasto? Degli indiani Jivaros? Degli spiedini? Della g’naza?
Monsieur Lombard riprese, con aria infastidita:
– Senti, figliolo, se non rispondi alle domande che ti vengono rivolte non facciamo progressi. Posso anche dare un
colpo di spugna all’apparizione miracolosa di due volatili
nel mio ufficio, ma per quanto riguarda te, ho bisogno di
saperne di più.
Mehdi avrebbe anche voluto rispondere, ma non ricordava più la domanda.
Per non sbagliare, finì per mormorare:
– Vengo da Béni–Mellal.
Monsieur Lombard esitò un istante.
– Va bene, non se ne esce. Suvvia, l’importante è che tu
sia qui. Chiarirò la faccenda un altro giorno. Per ora, vai in
lavanderia e mostra il tuo corredo a Madame Benarroch.
Vedi quella scala, all’ingresso, laggiù? Sali al quarto piano
e ti ritroverai davanti a una grande porta: quella è la lavanderia. Poi torna giù e rimani in cortile. Ci sono delle panchine un po’ ovunque. Il refettorio apre alle sette di sera. Lo
troverai facilmente, occupa un intero lato del cortile e sarà illuminato a giorno1. Se ciò nonostante non dovessi trovarlo, basterà che ti lasci guidare dal profumo dell’hachis
Parmentier.
Il profumo di… che?
Sollevato di essersi finalmente liberato dei tacchini, Mehdi si diresse verso l’ingresso che gli aveva indicato Monsieur Lombard trascinandosi dietro la valigia. Si mise a sa-
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lire lentamente gli scalini. L’interruttore a tempo lo obbligava ad accendere la luce ogni volta che arrivava a un pianerottolo. Si spegneva mentre si trovava tra due piani ed
era costretto a proseguire la sua arrampicata al buio, con
la paura che, a ogni passo, Gambadilegno potesse tramortirlo. Finì per ritrovarsi davanti alla porta della lavanderia.
Che fare? Aspettare che uscisse qualcuno? Pazientò alcuni secondi; quindi, poiché non accadeva nulla, si decise a
bussare. Nessuna reazione. Bussò più forte. A quel punto
la porta si aprì e una forma gigantesca si stagliò in controluce. La luce si spense. La forma indietreggiò. Si riusciva a
distinguerla meglio. Era, così pareva, una donna: una donna grandissima, grossissima, con la faccia gonfia, il triplo
mento, il petto a forma di scudo brandito, i capelli neri raccolti a crocchia; una donna, certo, contenuta a stento in
una tunica bianca che minacciava di esplodere da tutti i
lati. Persino dalla faccia si riusciva a vedere che quel gigante possedeva un didietro immenso, monumentale, perfettamente in grado di spappolare i più piccini se solo gli fosse capitato di sedercisi sopra. Portava degli occhiali piccoli
con lenti molto spesse, dei veri fondi di bottiglia che sembravano fatti di un’infinità di cerchi concentrici. Mehdi
non aveva mai visto nulla di simile.
Era un’orchessa!
L’orchessa gridò con tono allegro:
– Ecco il primo! Si parte!
Lo avrebbe divorato.
Poi:
– Su, entra. Non abbiamo tutto il giorno.
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Mehdi, spaventato, entrò senza fiatare. La lavandaia diede
un’occhiata dietro di lui, sul pianerottolo. Stupita, chiese:
– Dove sono i tuoi genitori?
Non rispose. Guardava l’immenso locale con le pareti nascoste da grandi armadi a muro, alcuni aperti e altri chiusi
a chiave. Alte pile di lenzuola bianche, alternate a monticelli di asciugamani di tutti i colori, occupavano tutto un
lato della stanza. Ne proveniva un odore di sapone, o di bucato, piuttosto piacevole. Al centro del locale, un grande tavolo era ricoperto da ritagli di tessuto. L’orchessa andò con
passo pesante a sedersi su un enorme sgabello. Sospirò rumorosamente.
– Allora, piccolino, hai il tuo corredo?
Mehdi posò la valigia ai piedi dell’orchessa, che l’aprì e
iniziò a contare, con dito vivace, i calzini e le mutande. Dopo qualche istante, si accigliò e bofonchiò:
– Ma i conti non tornano! Hai solo tre paia di calzini! Ce
ne volevano sei! E i fazzoletti? Dove sono i fazzoletti?
Rovistò nella valigia, quindi mormorò, scoraggiata.
– Non hai nemmeno un pigiama! E come dormi? In mutande? Ma non è affatto igienico! Come si fa a dimenticarsi il pigiama? Tanto più che ce ne vogliono due!
Prese una camicia a caso, ne rivoltò il colletto e avvicinò
gli occhiali al tessuto fino a toccarlo con il naso.
– Ma… non c’è niente! – Tuonò. – Non c’è niente! Dov’è
il tuo nome? È stato detto ai genitori che bisognava cucire
il nome dell’alunno sul colletto delle camicie, all’interno!
Era scritto chiaramente nella lettera che abbiamo spedito
già a giugno! Il patronimico cucito sul colletto! Altrimenti
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come faccio a restituirti le camicie dopo averle lavate? Un
patronimico ce l’avrai, no?
Mehdi guardava il pavimento (che cos’era, un patro nemico?). L’orchessa tirò su con il naso, si sistemò gli occhiali e
si chinò su di lui, tremando con tutta la sua massa, quasi
fosse l’inizio di una frana.
– Che storia è questa? Sei il primo ad arrivare e già iniziano i problemi… Forza, sciò!, vai da Monsieur Lombard.
No, la valigia lasciala!
Mehdi ridiscese le scale, lentamente, deciso a scappare
di lì al più presto. Ma dove poteva andare? Si sarebbe perso per forza, in quell’immensa Casablanca che gli faceva
paura. E poi, avevano preso la sua valigia in ostaggio.
Sull’orlo delle lacrime, a cuore stretto, si diresse a piccoli
passi verso l’ufficio del sorvegliante. Alla fine ci arrivò. La
porta era aperta. Entrò senza bussare, lo sguardo abbassato. Monsieur Lombard, seduto dietro la scrivania, sollevò
gli occhi dal piccolo taccuino che stava consultando. I ticchini erano spariti.
– To’, eccoti di ritorno! Cosa succede? Madame Benarroch non c’è?
– Sì, – mormorò Mehdi.
– Miracolo! Parla! – Lo guardava con beffarda benevolenza. – E allora, perché vieni da me? Ti ho detto di rimanere in cortile fino alle sette di sera.
– Madame… Benarroch… dice che… mi mancano dei
calzini.
– Ma guarda un po’! – Assunse una voce cavernosa, come se annunciasse un film dell’orrore. – La vicenda dei
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calzini mancanti! Piomba qui con dei volatili ma senza calzini… C’è una logica che mi sfugge. Di’ un po’, sarà il caso di riordinare le priorità, ragazzo mio! Forza, spiègati un
po’! Tutti i genitori degli alunni, o meglio i genitori dei
convittori, hanno ricevuto una lettera nel mese di giugno.
Il corredo era indicato nel dettaglio. I tuoi genitori l’hanno ricevuta?
Sull’orlo delle lacrime:
– Sì, credo di sì.
– Ah, credi… E allora? Cos’è successo?
Squillò il telefono. Monsieur Lombard sollevò la cornetta e si mise a parlare a spizzichi e bocconi.
– Ah, è lei… giust’appunto, parlavamo di lei, signora
Benarroch… Sì, sì, è qui, davanti a me… No, no, è davvero un convittore, uno nuovo… Come? Nemmeno un pigiama? Mhmm, ora vedo cosa possa fare.
Riagganciò, le sopracciglia aggrottate. In quel momento
un ragazzo bruno, alto e magro, entrò nella stanza con una
piccola borsa blu buttata sulla spalla. Portava dei jeans slavati, una camicia a quadretti e scarpe da tennis malridotte. Sorrise e si mise per gioco sull’attenti, tenendo la borsa
con la mano sinistra e portandosi la destra alla fronte, a
mo’ di visiera.
– Morel a rapporto! Ho appena recuperato le chiavi della mia camera da Charlie e vengo a prendere le consegne.
Charlie? Consegne?
Monsieur Lombard sorrise cercando al tempo stesso di
assumere un’aria severa.
– Buongiorno, Morel. Le ho già chiesto di chiamare Mi-
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loud per nome. Lei ha una bella “faccia tosta”, come si suol
dire. C’è mancato poco che quel poveretto ci lasciasse la
pelle, in Indocina, battendosi per la Francia, e lei gli affibbia il soprannome dei Vietcong!
Il ragazzo brandì il braccio destro, strinse il pugno e
strombazzò:
– Charlie, Miloud, una sola battaglia!
– Ma insomma, era a Dien Bien Phu! Dalla nostra parte!
– Ah, ah! Allora è stato lui a farci perdere l’Indocina? È
quello che dicevo: Charlie, Miloud, una sola battaglia!
Monsieur Lombard scrollò il capo, fingendosi affranto.
– No, appunto, non è lo stesso…
– La battaglia2!
– Senta un po’! Lei e le sue citazioni! Insomma… Non
ha bagagli? Solo quella borsa?
Il giovane assunse un’aria misteriosa per sillabare con
enfasi:
– L’intendance suivra3!
Monsieur Lombard scosse la testa, ilare.
– Ecco, adesso si prende per de Gaulle! Non le bastava essere Morel?
Riassunse quindi un tono serio per dire:
– Casca bene, signor sorvegliante del convitto, ecco la
prima delle sue gregarie.
Indicò Mehdi che, non conoscendo l’ultima parola pronunciata dal sorvegliante generale, fu vagamente preoccupato di sentirsi dare della greg’avia. Cosa poteva mai essere? Una specie d’uccello? E perché parlavano di lui al femminile? Morel considerò con finta perplessità, il mento tra
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il pollice e l’indice, il bambino in via di liquefazione che
ingombrava un angolo della stanza.
Monsieur Lombard riprese a rivolgersi alla greg’avia:
– Ascolta, figliolo, non so cosa stia succedendo, ma non
va affatto bene. Il tuo corredo è incompleto. Se almeno ci
fossero stati i tuoi genitori, avremmo potuto intenderci.
Morel intervenne:
– Che cosa gli manca?
– Gli manca… gli manca metà delle cose! Calzini, fazzoletti…
– Fosse mai un monco che non si raffredda?
Monsieur Lombard represse un sorriso.
– Ah, ah, molto divertente… E bravo, l’hai anche detto
in alessandrino, tra l’altro… Ma bando alle ciance: il nostro amico non ha nemmeno un pigiama!
– Che dorma in mutande, come me. Come i veri uomini!
Morel finse di imitare un gorilla infliggendosi grandi colpi sul petto e cacciando un lungo grido. Mehdi impallidì
(lo avrebbero morso). Monsieur Lombard alzò le spalle.
– Dormire in mutande? Suvvia, non è igienico.
(Proprio quello che aveva detto la lavandaia! Era un complotto).
Morel:
– Da dove viene, questo zulù?
– Da Béni–Mellal. È il ragazzetto, ehm… il giovanotto
che ha ottenuto la famosa borsa…
Morel l’interruppe:
– Magari non portano il pigiama, da quelle parti, a Béni–Mellal? Manco sanno cos’è… Dormono avvolti in pel-
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li di fiere… Allorché con i figli vestiti di pelli di fiere/ Scarmigliato, livido nel pieno di tempeste…4
Mehdi arrossì per la vergogna. Tutte quelle parole, quella caterva di parole proferite con tono faceto, gli bucherellavano il cuore. Monsieur Lombard assunse un’aria corrucciata.
– Basta così, Morel, lo abbiamo capito che lei viene dalla città! Ci sono persone dignitose e civilizzate anche in
montagna. Dovrebbe andare a farsi un giro sull’Atlante invece di starsene bello a casa, sulla Corniche5. Incontrerebbe delle persone straordinarie. La aiuterebbe a riordinare
le idee.
Guardando Mehdi, prese a tamburellare con le dita sul
mento. (Che gesti erano quelli? Il mento tra il pollice e l’indice, poco fa; il picchiettio, ora… Cosa volevano dire?).
– Va bene, torna da Madame Benarroch e dille da parte mia che “va bene così”. Ti darà lei un pigiama, ne ha
qualcuno di riserva.
– Ah sì? – s’intromise distratto Morel. – Come mai?
– Non lo sa? Eppure è sorvegliante del convitto… Ci sono dei convittori, tra i più piccoli, che possono avere qualche “incidente”, durante la notte, se capisce cosa intendo.
Ci vuole un cambio, per le emergenze…
Morel sorrise, guardando Mehdi con aria ironica. Quest’ultimo sentì di colpo il basso ventre farsi umido e caldo.
L’incidente non aveva aspettato la notte… Tutte le emozioni della giornata, di una giornata che non finiva di portare con sé contrarietà e catastrofi, si stavano esprimendo in
quel filino di urina che non era riuscito a trattenere e che
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ora lo riempiva di vergogna. Fortunatamente i due uomini continuavano a discorrere allegri. Non si erano resi conto di niente.
Quando il bambino si presentò di nuovo dalla lavandaia, questa, probabilmente avvisata per telefono, aveva già
messo alcuni pigiami sul tavolo. Ne prese uno, il più piccolo, di colore rosa, lo incollò al corpo mingherlino che si
reggeva in piedi davanti a lei, quindi scrollò la testa.
– Sei proprio minuscolo. Be’, dovrai arrangiarti con questo. In quanto ai calzini e al resto, porterai quello che manca la settimana prossima, dopo il weekend. Non te lo dimentichi vero?
Lo disse porgendogli il pigiama rosa. Mehdi scosse la testa. No, non se lo sarebbe dimenticato. Ma a cosa serviva
ricordarselo? Sapeva bene che non sarebbe tornato tanto
presto a Béni–Mellal.
Non era stata data alcuna disposizione in tal senso, e
Mokhtar se n’era andato senza salutarlo.
Sul vano della porta comparve Morel, senza la sua borsa. Gridò con tono allegro, senza rivolgersi a nessuno in
particolare:
– Dov’è la lavandaia più bella del mondo?
Madame Benarroch si mise a ridere, si strinse nelle spalle e
si sistemò gli occhiali sul naso cercando di scorgere, nell’immagine sfocata della porta, l’oggetto della sua ilarità.
– Se questo non è l’uomo più bugiardo del mondo…
Morel si fece avanti abbozzando un passo di danza.
– Mi offende, Angèle! Non crede ai miei sentimenti?
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– No. E le ho detto mille volte che mi chiamo Chochana.
– Angèle è più bello.
– È da vedere.
– Non c’è niente da vedere. E poi “Angèle” le somiglia.
Le è ormai davanti e, con arroganza, ignora il bambino
dei tacchini.
– E poi, Angèle è il nome della moglie del fornaio che
fece impazzire tutto un paese…
La lavandaia gli fece una smorfia prima di scoppiare a
ridere:
– La moglie del fornaio (se allude, almeno, al film di Pagnol6) si chiamava Aurélie. Il signorino So–tutto–io non
sa poi tutto…
Morel s’incaponì:
– Angèle, ne sono certo!
Abbassò gli occhi e scorse Mehdi, che aveva l’impressione di essere alto un centimetro e di pesare un grammo. Morel sbraitò:
– Tu, borsista meritevole! Allora, meritatelo un po’! Come si chiama la moglie del fornaio?
Mehdi, in preda al panico, si sforzò di riflettere. Aveva
visto una o due volte il fornaio, a Béni–Mellal. Era un uomo burbero, vestito con una semplice camicia e dei pantaloncini; infornava nel ferrane ardente, senza fiatare, il pane che gli portavano le famiglie del quartiere. Non sapeva
nemmeno come si chiamasse (lo chiamavano moul’ ferrane, “il proprietario del forno”), come faceva a sapere come
si chiamava sua moglie? Che poi, ne aveva una? A Béni–
Mellal, gli uomini di solito, le mogli, le chiudevano in ca-
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sa… Trafitto dallo sguardo di Morel, in attesa di risposta,
ebbe l’idea d’inventare il nome più probabile.
– Fatima! – gridò.
I due adulti si guardarono, sconcertati, quindi scoppiarono a ridere, lui in singhiozzi e lei in risolini; Mehdi, tra
loro, si augurava che morissero di morte violenta.
La lavandaia fu la prima a riprendersi.
– Raimu che fa lo sciopero del pane perché Fatima l’ha
lasciato… Sarebbe stato divertente, una volta tanto! Bene, bene, ma ora ho del lavoro da sbrigare. Che cosa vuole, Romeo?
– La sua mano, Angèle, voglio la sua mano! Quando potrò indossare i miei guanti bianchi? Quando potrò parlare
al suo onorato padre, gettarmi ai suoi piedi?
La donna si mise di nuovo a ridere.
– Mio padre? Pover’uomo… Vuole la sua morte? Sono
ebrea e lei è cattolico, lo sa bene.
Si raddrizzò, la mano incollata al petto, gli occhi alzati
al cielo.
– Abiuro! Non conosco più il papa! Rinnego Paolo VI!
Tutto quello che vorrete! Mi metto una kippah in testa, mi
starà benissimo, tra l’altro, e vado da suo padre…
– E poi, certo non è che un dettaglio, ma sono già sposata.
– Nobody’s perfect!
Madame Benarroch scosse la testa sorridendo.
– E a parte questo, cos’altro vuole?
Morel emise un sospiro che risuonò come il muggito di
un toro indispettito. Quindi puntò il dito su Mehdi.
29
Questi, ancora mortificato per lo scoppio di risa che aveva accolto il suo unico contributo alla discussione, si chiedeva perché quell’uomo tanto bello perdesse il proprio tempo a fare la corte a un’orchessa. Era forse cieco?
– Devo accompagnare questo vecchio crumiro al dormitorio, – proclamò il cieco.
Crumiro? Vecchio crumiro?
– Forza, vieni, va’! Dammi la tua valigia, Fatima. E prenditi il tuo bel pigiama, non sarà poi così pesante, – scoppiò
a ridere, molto orgoglioso della sua battuta. – Forza, seguimi, sbrìgati! Arrivederci, Angèle, mi ha spezzato il cuore.
Come sempre. Ma tornerò! Come diceva il generale MacArthur: I shall return!
E, pronunciando queste ultime parole, fece con superbia un saluto militare. Uscì quindi dalla lavanderia e scese
le scale a quattro a quattro, premendo a ogni pianerottolo
con dito impaziente il pulsante dell’interruttore a tempo,
quasi intendesse scavare un buco nel muro, anche quando
la luce non si era ancora spenta. Fischiava a squarciagola un
motivo in voga (Johnny? Sheila? Antoine?). Mehdi gli trotterellava dietro sforzandosi di non perderlo di vista. Quando furono arrivati al primo piano, il sorvegliante spinse una
porta di vetro e si scostò per far passare il bambino. Poi fece un ampio gesto con il braccio, come per far ammirare il
proprio regno:
– Voilà! Visto che sei stato il primo ad arrivare, Fatima,
puoi sceglierti da solo il tuo letto. Un consiglio: prendine
uno in fondo, sarai meno disturbato dall’andirivieni dei
tuoi amichetti.
30
Indeciso, Mehdi rimase in piedi sulla soglia. Morel lo
guardò con tanto d’occhi. Quindi sbraitò:
– Forza, muoviti ragazzo, muoviti!
Obbedendo, Mehdi si mosse di qualche centimetro poi
s’immobilizzò. Morel si prese la testa fra le mani e fece una
smorfia comica.
– Porca miseria, non ci credo, che cosa ci hanno mandato quest’anno?
Un gigantesco martello nero e lucente, alto almeno quattro metri, apparve sopra Morel e si abbatté con un colpo,
patapam!, sul suo cranio, che scoppiò in mille pezzi. Il sangue schizzò sui muri e si mise a gocciolare a lunghe strisce
scarlatte. Pezzi di cervello giallo sporco si erano appiccicati
al soffitto come stalattiti di oro imbrattato. Pipistrelli…
Morel agguantò il bambino con una mano e la valigia
con l’altra, proprio come aveva fatto Miloud, e li trascinò
verso il fondo del dormitorio. Lì entrò nell’alcova di sinistra, dove si fronteggiavano due letti a castello: lo spazio per
quattro convittori, con due armadi per i loro vestiti.
– Preferisci sopra o sotto?
Mehdi guardò sotto, somigliava a un letto a baldacchino.
Non ne aveva mai visto uno dal vivo. Fu al tempo stesso
incantato all’idea di dormire in quel bozzolo protettivo e
un po’ inquieto: era profondo come una tomba. E sia, moriamo: lo indicò con il dito. Morel batté le mani, come un
faccendone che “qua la mano”.
– Bene, la faccenda è risolta! Ecco quindi il tuo regno
per tutto l’anno prossimo. Metti la tua roba nell’armadio
e scendi in cortile. E attento: occupa solo metà armadio.
31
L’altra metà è del tuo amichetto, quello che prenderà il
letto in alto. Bene, ciao.
Mehdi aprì l’armadio. Era composto da quattro cassettini, uno sopra l’altro, da un piccolo guardaroba e da un
grande scaffale che sovrastava il tutto. Indeciso, prese tutti
i suoi vestiti e li ficcò nei due cassetti più bassi. Attraversò
quindi il dormitorio vuoto, scese le scale e se ne andò a spasso per l’immenso cortile attorno a cui si ergevano gli edifici del liceo.
Vide una grande buca della sabbia lungo la quale correva una trave. Alcuni campi sportivi (pallamano, pallavolo)
occupavano buona parte della superficie del cortile. Tutt’attorno alla buca erano disposti degli attrezzi. Una corda
a nodi e una corda liscia pendevano nel vuoto, oscillando
debolmente. Mehdi si mise a gironzolare per il cortile, indeciso. Per la prima volta in vita sua non aveva un libro a
portata di mano e non sapeva come occupare il tempo. A
proposito di libri… Ricordò con nostalgia il terremoto che
aveva colpito Béni–Mellal l’anno prima.
32
LA SCATOLA NERA DEL TRADUTTORE
Quando ero piccola, c’erano cose che in italiano non capivo.
Ricordo i versi della canzone Vacanze romane: «L’oro e l’argento/ le sale da tè». A Bolzano di sale da tè non ce n’erano, e io
avevo liberamente interpretato la strofa: «l’è sale da te», come
a dire: «farina del tuo sacco». Qualche anno più in là, quando
studiavo a Ginevra e ancora non sapevo cosa significasse essere
“sotto l’egida/ l’égide”, mentre invece conoscevo già André Gide, avevo tranquillamente trascritto, nei miei appunti, «sous le
gide de l’ONU».
Forse è per questo che il piccolo Mehdi mi è stato subito simpatico. La distanza tra Bolzano e Roma non è poi così diversa
da quella tra Béni–Mellal e Casablanca. Chi proviene da una
madre lingua un po’ piatta, poco dialettale, ricca di interferenze
come quella del capoluogo altoatesino, ben può comprendere
lo spaesamento del bambino catapultato in una grande città,
dove le parole assumono sotto i suoi occhi una tridimensionalità prima costretta tra le righe dei molti libri letti, significanti
senza significato. «I limiti del tuo linguaggio sono i limiti del
tuo mondo», diceva Wittgenstein.
Ecco allora che per il piccolo protagonista marocchino al Lycée français, capire le parole di quel mondo significa capire quel
mondo. E allora forza, avanti tutta! Senza timore di prendere
Roma per toma, il piccolo Mehdi si lancia con grande corag-
305
gio in territori inesplorati, come un bambinetto che inizia a
parlare, come un ragazzino che apprende una lingua nuova in
un Paese straniero: così Mehdi ascolta e ripete diligentemente
tutto ciò che sente, senza capire sempre cosa significhi, ma con
il desiderio di coglierlo, di definirlo, di addomesticarlo, quel
mondo ignoto. Che è poi quello che fa il traduttore.
In Un anno con i francesi, ciò che può essere un incubo per
lingue molto lontane dal francese (si narra di traduttori che
avrebbero desistito…), per il fortunato traduttore italiano diventa un vero piacere: tanti e tali spunti linguistici, giochi di
parole… Un piacere sottile che uno scrittore e il suo traduttore
condividono, consapevoli del potere di una semplice sequenza
di fonemi, in grado di rappresentare tutto un mondo, oltre che
rifugio per eccellenza.
I calembours incalzano, le parole si rincorrono capitolo dopo capitolo, i registri dei diversi protagonisti dialogano tra loro come
righi di una partitura: alla fine ti guardi indietro e ti senti un
po’ una sopravvissuta, una che ha avuto un bel po’ di fortuna.
Una che, insieme al piccolo protagonista, è cresciuta; e proprio
come lui, dal sentirsi a ogni piè sospinto un’impostora, poco a
poco riesce a credere in ciò che si è guadagnata riga dopo riga.
Tradurre il primo libro di Laroui è stato un privilegio.
Tradurre questo secondo, un enorme piacere.
Cristina Vezzaro
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Cristina Vezzaro vive e lavora a Torino. Dal 2005 traduce narrativa e poesia francese, tedesca e inglese per diverse case editrici (ISBN, Del Vecchio Editore, Sonzogno, De Agostini). Ha
pubblicato racconti in Italia (in Lingua Madre, Novel), mentre
a Parigi sono uscite sue poesie (in The Bastille). Cura un portale dedicato al genere “flash fiction” e un sito in cui chiede a
traduttori e autori di parlare di traduzione letteraria (Authors
& Translators). Oltre a Fouad Laroui, ha particolarmente amato tradurre Ulrich Peltzer, Kathrin Röggla, Nigel Farndale e
François Vallejo. Attualmente sta imparando l’ungherese.
INDICE
UN ANNO CON I FRANCESI
pag. 7
1. L’enigma dell’arrivo
pag. 11
2. Nella berlina del generale
pag. 33
3. Che ci faccio qui?
pag. 36
4. In cammino verso i francesi!
pag. 42
5. Il monumento ai caduti
pag. 61
6. L’illustre Morel
pag. 85
7. La ragazza di Chamayrac
pag. 98
8. Mehdi impara a suonare lo xilofono
pag. 104
9. I proletari non hanno patria
pag. 110
10. Quel che per te è Aquilone
pag. 129
11. I tre volti della paura
pag. 137
12. Mehdi e il grande Tespi
pag. 148
13. Una giornata al mare
pag. 165
14. Un weekend con i francesi
pag. 173
15. La nuova famiglia di Mehdi
pag. 196
16. Il leone travestito da asino
pag. 204
17. I tredici dolci di Natale
pag. 212
18. Una gita al mare
pag. 224
19. Van Gogh è marocchino
pag. 232
20. Il matrimonio del pompiere
pag. 244
21. Linus contro Charlie Brown
pag. 263
22. Mehdi vince la partita
pag. 271
23. La cerimonia di premiazione
pag. 281
NOTE
pag. 295
GLOSSARIO
pag. 301
LA SCATOLA NERA DEL TRADUTTORE
pag. 305
in uscita
«Se l’occasione c’è, è possibile tirare le fila della narrazione
da qualunque punto. Per rimanere nella metafora: arrivo
da una qualsiasi presa di corrente, da ogni spina, alla cabina
elettrica. Fa tutto parte dell’argomento, la si può chiamare
“elettricità” o “Dio”, tutto è collegato e fa parte della storia.»
—
LUTZ SEILER
formelunghe
K RUSO
di Lutz Seiler
traduzione di Paola Del Zoppo
nella stessa collana
1. Nato di sabato di Ray Banks
2. Confessioni di una giocatrice d’azzardo di Rayda Jacobs
3. L’ebbrezza degli dei di Laurent Martin
4. Un’indagine senza importanza di Robert Hültner
5. Sweet Sixteen di Birgit Vanderbeke
6. Sale e miele di Candy Miller
7. Senza via d’uscita di Val McDermid
8. Saloon di Aude Walker
9. Il trucco della morte di Astrid Paprotta
10. Fiamma abbagliante di Barry Levy
11. Alle spalle di Birgit Vanderbeke
12. Colazione con Mick Jagger di Nathalie Kuperman
13. La dea madrina di Robert Hültner
14. L’assassino di Banconi di Moussa Konaté
15. Quindici giorni di novembre di José Luis Correa
16. La bambina che imparò a non parlare di Yasmine Ghata
17. Morte in aprile di José Luis Correa
18. Il sole è una donna di Félix de Belloy
19. L’imperatore della Cina di Tilman Rammstedt
20. L’onore dei Kéita di Moussa Konaté
21. La straordinaria carriera della signora Choi
di Birgit Vanderbeke
22. Le sorelle Brelan di François Vallejo
23. Apostoloff di Sibylle Lewitscharoff
24. L’ispettore Kajetan e gli impostori di Robert Hültner
25. L’impronta della volpe di Moussa Konaté
26. A portata di mano di Tilman Rammstedt
27. Si può fare di Birgit Vanderbeke
28. La traccia della sirena di José Luis Correa
29. La tempesta di neve di Robert Hültner
30. Blumenberg di Sibylle Lewitscharoff
31. Concerto per mio padre di Yasmine Ghata
32. Cosa vuoi fare da grande di Ivan Baio, Angelo Orlando Meloni
33. Exchange Place, Belfast di Ciaran Carson
34. Quasi mai di Daniel Sada
35. Il silenzio di Max Frisch
36. I passanti di Laurent Mauvignier
37. Gli innocenti di Burhan Sönmez
38. Verità imperfette di Aa. Vv
39. Johanna di Felicitas Hoppe
40. Esilio di Çiler İlhan
41. L’ultimo minuto di Marcelo Backes
42. Il gatto di Schrödinger di Philippe Forest
43. Arcano 21 di Luca Ragagnin
44. Il linguaggio del gioco di Daniel Sada
45. Perché non sono un sasso di Gianni Agostinelli
46. Il viaggiatore oscuro di Josephine W. Johnson
UACoF
Istruzioni per l’uso
Q
uesta lampada, ideata da
Fouad Laroui nel 2010, è
chiamata nel linguaggio comune anche romanzo. Contiene un
gas nobile (non necessariamente neon), e spesso vapori di minerali, oltre che, ovviamente un
materiale fluorescente. È costituita da un parallelepipedo di vetro curiosamente lineare, che si
può variamente sagomare.
Il materiale fluorescente, investito dalle radiazioni, emette a
sua volta una radiazione visibile
all’occhio umano. La radiazione
visibile, avendo lunghezza d’onda più ampia di quella ultravioletta, trasporterà solo una parte
dell’energia dell’onda: l’energia
restante si trasforma in calore,
che va a riscaldare il romanzo.
Una differente composizione del
Si possono produrre così: nel
contenitore, la cui superficie interna è rivestita di materiale fluorescente dall’aspetto di polvere
bianca, si ottiene un vuoto, poi
si introducono un gas nobile a
bassa pressione e una piccola
quantità di minerale possibilmente anche quello riflettente,
che in parte evapora mescolandosi al gas. A ognuna delle
due estremità del tubo è presente un elettrodo. Il passaggio
della corrente sollecita i gas a
emettere radiazioni.
materiale fluorescente permetterebbe di produrre una luce più
calda, oppure una luce più fredda. Questo tipo di lampade ha
una vita media maggiore rispetto ad altri tipi, ma la loro durata
può essere fortemente influenzata dal numero di accensioni
e spegnimenti, a meno che non
si usi un pilotaggio sistematico.
Ognuna di queste operazioni, infatti, riduce la vita della lampada, a causa dell’usura subita per
il maggior numero di preriscaldamenti richiesti.
Finito di stampare nell’Aprile 2015
presso la tipografia Printì di Saulino Ivana
Manocalzati (Avellino)