"CORRUPTION QUI SE PARE D`ILLUSIONS".

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"CORRUPTION QUI SE PARE D`ILLUSIONS".
XV edizione
I Colloqui Fiorentini – Nihil Alienum
Giuseppe Ungaretti. “Quel nulla d’inesauribile segreto”
Firenze, Palazzo dei Congressi
25 - 27 febbraio 2016
MENZIONE D’ONORE
SEZIONE TESINA BIENNIO
"CORRUPTION QUI SE PARE D'ILLUSIONS". IL MARE DEI RICORDI
Studenti: Irene Loperfido, Maria Rosaria Sivo
Classe I A
Scuola Liceo Scientifico "Galileo Galilei" Bitonto (BA)
Docente Referente Prof. Valerio Capasa
Motivazione: Un'analisi ricchissima e incalzante sul complesso gioco tra realtà, attese, illusioni e amore, messo
a fuoco dalle parole del poeta.
Un lavoro che non fa sconti a Ungaretti, né ai nostri moti interiori, prendendo entrambi davvero sul serio.
«In sé crede e nel vero chi dispera?»
(Fine, in Sentimento del Tempo, 1925).
Nella lettura di Vita d’un uomo ci ha colpito in particolare questa poesia: il mistero che la avvolge ci porta a
essere curiose e a chiederci cosa intenda dire il poeta con queste parole che rivelano un segreto e, al tempo
stesso, ne celano un altro. Ci siamo accorte che Ungaretti si è chiesto più volte se si possano evitare le
illusioni, rifugiandosi in se stessi e confidando soltanto nella realtà, che può essere interpretata come cura ai
mali delle illusioni. Infatti si domanda, in maniera retorica, se davvero l’uomo che soffre e si dispera creda
soltanto in se stesso e nella verità: quella verità tangibile che si può toccare con mano e vivere sulla propria
pelle, la verità della vita di ogni giorno. Profondo è anche l’interrogativo relativo alla ricerca da parte
dell’uomo della verità attraverso il vano proposito di non dare ascolto alla sua mente ingannevole, creatrice di
fragili e fugaci idilli ai quali vorrebbe strenuamente aggrapparsi, come ultima fonte di speranza, per tirarsi su e
salvarsi dall’estremo atto di annegamento nella malinconia più nera (lo vedremo leggendo, in particolare,
Danni con fantasia).
Attraverso la nostra ricerca abbiamo voluto capire se Ungaretti ci esorti a fuggire dalle illusioni o se ci spinga a
viverci dentro, fino a permettere loro di consumarci. È come se il poeta avvertisse la condanna dell’uomo a
vagare per sempre in un limbo tra la realtà e l’illusione, dalla quale non riuscirà mai a separarsi, in quanto
anche i ricordi sono una forma di illusione, forse proprio la più dolorosa.
Il poeta mette in campo accezioni complementari di illusione. A volte ci pone davanti agli aspetti negativi
dell’illudersi, quelli legati al tentativo di nascondersi alla realtà, e mette in guardia l’uomo sulle conseguenze
di questa vita surreale, che alla fine lo abbandonerà e lo porterà alla ricerca senza sosta di un nuovo
sentimento («L’ultimo caldo se ne andrà a momenti / E vagherai indistinto»), che gli bruci l’animo fino a
renderlo una «stanca ombra nella luce polverosa» (Ombra, in Sentimento del Tempo, 1927). Ungaretti si sente
chiuso, intrappolato, quasi soffocato dalla sua mortalità e dal fatto che prima o poi anche la sua esistenza
giungerà al termine. Questo accade perché da sempre ogni uomo costringe se stesso a credere nella sua
immortalità, per sfuggire alla realtà nella quale anche lui cesserà di esistere. L’immortalità di cui parla il poeta,
tuttavia, non è semplicemente un’illusione della mente, ma una vera e propria tendenza naturale, che forse
porta l’uomo a mentire inutilmente a se stesso, per sfuggire alla dolorosa verità della morte.
Per Ungaretti, quello del non morire mai non è un concetto astratto: considera infatti l’immortalità
come un vero e proprio stato di esistenza. Lo si evince dalla poesia La madre, nei cui versi «In ginocchio,
decisa, / sarai una statua davanti all’Eterno» ci fa intendere come la madre, non più viva nel corpo, lo attenda
inginocchiata davanti al Dio dell’eternità. Perché questo sia possibile, l’immortalità in cui lui crede
fermamente deve essere vera e non solo una speranza che si perde nel nulla. Ma questa certezza si realizza
solo con la conversione del 1928, e quindi a partire da Sentimento del Tempo. Fin quando rimangono slanci
umani, le illusioni, nonostante sembrino immortali e infinite, sono destinate a finire, ed è proprio al loro
termine che il dolore dell’uomo diventa tale da indurlo a porsi domande esistenziali decisive: dinanzi alla
morte, dove tutto ha una fine, incluse le cose che possono sembrarci immortali, perché continuo a rifugiarmi
in Dio, che sembra così distante e freddo? perché dinanzi alla morte continuo a bramare la vita? perché mi
rifugio nella speranza che Lui possa proteggermi da un destino di morte? perché cerco di barare con la grande
moira? Io so che finirò, allora perché continuo a sperare che Dio mi salvi e mi dia l’immortalità del Paradiso
eterno?
Chiuso fra cose mortali
(Anche il cielo stellato finirà)
Perché bramo Dio?
(Dannazione, in L’Allegria)
Come commenta Leone Piccioni,
«è come una dichiarazione di profondo e radicato ateismo nei primi due versi, percossa
all’improvviso da questa interna, incancellabile contraddizione, che si determina solo
interrogativamente. So di essere mortale, vivendo in mezzo a cose tutte destinate a perire; non
credo all’eternità, al punto da poter affermare con sicurezza che anche il cielo, anche le stelle
finiranno: tutto è destinato alla distruzione. Se sono convinto di questo, se credo in questo, perché
– mi domando – «bramo Dio?»
(LEONE PICCIONI, Ungarettiana, p. 26).
L’eternità è vera oppure no? Ungaretti allude a un’eternità solo ipotetica prima di convertirsi al cristianesimo.
L’uomo, infatti, per sua natura vuole l’eternità: questa non è un’illusione ma un’esigenza del suo cuore. Non
c’è niente da fare; puoi vedere un compagno morire, puoi essere certo di morire, ma quell’esigenza non si
spegne. Egli non è capace di darsi l’eternità, e per questo spesso crolla, e crede che la sua esigenza sia
soltanto un’illusione, una fantasia. Incarnandosi, morendo e risorgendo Dio ha mostrato all’uomo che il dolore
ha senso, e che l’ultima parola sulla vita non è la morte: che quell’esigenza di eternità è vera, non è
un’illusione. Ma questa è la scoperta dell’Ungaretti convertito di Sentimento del Tempo, quello del 1928,
quello che scrive La madre o La Pietà: l’Ungaretti dell’Allegria, quello di Dannazione, è uno che sente affiorare
nel suo cuore questo bisogno di vivere in eterno.
In Sentimento del Tempo, nella poesia Danni con fantasia, il poeta si domanda il motivo per cui l’illusione non
sia eterna e capisce che essa è sfuggente e crudele, in quanto al suo posto lascia soltanto pene e sofferenze.
In un secondo momento sembra prendersela con se stesso, additandosi la colpa di dare ascolto alla «mente»
che, sadica, lo induce nell’illusione, per poi distruggerla subito dopo («Perché crei, mente, corrompendo?»). Si
chiede quale sia il segreto ammaliante che lo induce a illudersi ancora e ancora e a non abbandonare la
ricerca, quasi ossessiva, di una nuova fantasia che possa saziare il suo cuore. «Perché le apparenze non
durano?»: l’incipit drammatico pone l’interrogativo sulla fragilità e brevità delle cose. È come se si chiedesse:
perché la realtà è solo apparenza, è solo illusione? perché questo idillio non può durare per sempre? perché
con il tuo gelarti, cadere, svanire, mi leghi ad altri dolori? perché il sentimento che provo vivendoti non dura
nel tempo?
Quale segreto eterno
Mi farà sempre gola in te?
T’inseguo, ti ricerco,
Rinnovo la salita, non riposo,
E ancora, non mai stanca, in tempesta
O a illanguidire scogli,
Danni con fantasia.
Descrive poi, in maniera puntuale, come la frenesia e i dubbi ci avvolgano, mentre noi siamo vittime
consenzienti delle fantasie nelle quali ci nascondiamo. Si rende conto, però, che la loro «luce» non è reale: le
emozioni che si provano nelle illusioni sono anch’esse fantasie intoccabili, ed è per questo che non
“illuminano” realmente, ma danno una parvenza di sollievo nel buio accecante della realtà: «La vostra, lo so,
non è vera luce». Danni con fantasia si conclude con un’altra questione aperta: «Ma avremmo vita senza il tuo
variare, / Felice colpa?». Questa «felice colpa» è la tendenza dell’uomo a illudersi costantemente, e proprio le
illusioni permettono alla realtà di variare, imprimono cioè una variazione alla monotonia: guardo due occhi,
che mi suscitano delle illusioni e cambiano la giornata: ma sarebbe una «colpa» illudersi che quei due occhi mi
diano davvero la felicità che cerco. La felicità dell’uomo, quindi, dipende dalle illusioni? «Dove non muove
foglia più la luce», ossia dove la luce non muove più foglia, dove le foglie non cadono, dove la luce non è
illusoria, dove la luce non varia col buio, dove c’è sempre luce e c’è sempre foglia. Il paradiso, insomma:
questa è la felicità, un inizio che non sia schiavo delle illusioni, ossia del tempo che va, del «sentimento del
tempo». La foglia rappresenta l’uomo che, vivendo alla luce dell’illusione, non “muore” mai e si ritrova in
questo “paradiso” di felicità.
Da questa domanda abbiamo voluto analizzare una seconda accezione di illusione. Infatti l’animo umano
necessita di illusioni, nonostante feriscano nella caduta, talvolta anche portando alla morte, «come allodole
assetate / sul miraggio». In Agonia Ungaretti cerca di spiegare che non bisogna vivere la vita con lamento e
rimpianto, come il cardellino, perché per un uomo al fronte come lui, che combatte contro la morte
quotidianamente, la vita è troppo preziosa per essere sprecata in quel modo: o si muore cercando di vivere a
pieno la vita, come l’allodola, oppure si decide di continuare a vivere essendone spettatore, perché stanco di
rialzarsi dopo ogni caduta, come la quaglia. Se si nota l’amarezza della vita, vuol dire che già non ci si sente
intrappolati in essa. Dovremmo vivere come l’allodola, cioè nell’illusione, aspettando che questa ci corroda e
ci consumi? Qui Ungaretti fa capo alle sue esperienze e cerca di farci capire quale scelta possa essere la più
efficace per essere felici.
Quale illusione è più grande dell’illusione dell’amore? È con Fase d’Oriente, sempre appartenente all’Allegria,
che Ungaretti ci spiega come si diventi vittime dell’amore. Infatti, facendo riferimento a una sua esperienza
personale, dice che «nel molle giro di un sorriso / ci sentiamo legare da un turbine / di germogli di desiderio».
Ma quel «sorriso» potrebbe essere sostituito da qualsiasi altro movente di illusione, che porta l’animo umano
a innamorarsi dell’illusione stessa e a desiderarla con ardore. Con il verso «ci vendemmia il sole» ci trasmette
tutta la gioia e la passione che l’illusione amorosa infonde nell’animo umano: gioia e passione che
solleveranno l’animo stesso da ogni preoccupazione e lo renderanno talmente leggero da non far sentire il
peso al corpo («corpo / che ora troppo ci pesa»). Se nel primo verso della poesia sostituissimo quel fatidico
«sorriso» con “sguardo”, verremmo catapultati nella lontana raccolta Dialogo, precisamente nel Lampo della
bocca, dove Ungaretti capisce che all’amore non si può sfuggire, in quanto imprevedibile e fatale, appunto
come un «lampo». L’illusione d’amore non sarà quella che allevierà le nostre pene, ma se la persona amata ci
degnasse anche solo di uno sguardo, dimenticheremmo «che brucia la ferita». È il caso anche dell’Ortis
foscoliano, il quale si costringeva a disinnamorarsi di Teresa per sfuggire alla consapevolezza che i suoi veri
sentimenti non sarebbero mai stati ricambiati, perché lei era promessa sposa a un altro. Ma appena la vedeva,
tutti i tentativi fatti per celare i suoi veri sentimenti si dissolvevano come per magia.
Ungaretti matura il suo pensiero sull’illusione dell’amore, rendendosi conto che la persona amata era ormai
diventata tutto per lui («universo e vivere / In te mi si svelarono», Soliloquio, in Nuove, 1969) e vivendo
un’esperienza d’amore totalizzante molto simile a quella evocata da Ugo Foscolo quando scrive che «vicino a
lei, io sono sì pieno di vita, che appena sento di vivere». Nel giorno in cui il poeta Ungaretti ha scoperto
l’amore è stato felice davvero, ma proprio «il giubilo del cuore» lo avvertiva dell’insaziabilità di quel
sentimento. Quell’avvertimento sarebbe divenuto pericolo concreto in seguito, quando, «logoro dal delirio»,
si sarebbe sentito sbagliato per quell’amore e sarebbe stato deluso da tutto e da tutti («Non torna più che
finto / il miracolo»). Fulmineamente viene accecato dall’improvvisa realtà che gli si presenta davanti e lascia
andare via quell’amore, ormai stanco e disinnamorato del sentimento provato. Tale concezione riecheggia
ancora nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo: «Le nostre passioni non sono in fin dei conti che gli
effetti delle nostre illusioni».
Questo ci porta a pensare che ormai l’amore sia diventato narcisista, come del resto l’epoca in cui viviamo.
Forse la gente non si innamora più della persona per quella che è, bensì del sentimento che questa ci fa
provare. Poi, quando tutto questo finisce, si “lascia” la persona con cui abbiamo condiviso queste emozioni e
si va via con il freddo pretesto del “non c’era più sentimento”, che è una palese scusa, un’illusione appunto,
con cui inganniamo noi stessi, per non ammettere che noi del vero amore non sappiamo proprio niente.
Questo modo di amare è sintomo di corruzione per l’animo umano, che riveste i veri sentimenti con il velo
delle illusioni che li simulano, fino credere che possano trasformarsi, prima o poi, in realtà: proprio di questo
parla la poesia Vie, dei Derniers Jours, che ci spiega in un versicolo come la vita di un uomo sia composta da
questa “corruzione che si adorna di illusione” («corruption qui se pare d’illusions»).
Tutti vorremmo fuggire dalle illusioni per non dover più soffrire ed essere corrotti, ma è anche vero che senza
di esse la vita non avrebbe quel quid di reale ed emozionante da suscitare la pelle d’oca a ogni respiro. Le
nostre fantasie sono un po’ come bolle di sapone: belle da morire ma fragilissime, lo specchio dei nostri sogni,
ma impossibili da toccare e raggiungere; sono simili alle foglie verdi e rigogliose, solo che poi con il passare del
tempo le foglie rinsecchiscono e volano via al primo alito di vento. Sono anche come le stelle che brillano nel
firmamento, alle quali, ingenuamente, affidiamo le nostre fantasie e i nostri sogni affinché li custodiscano.
Però anche le stelle cadono e questo ci fa pensare al fatto che i nostri progetti non saranno mai realtà.
In Stella, nella raccolta Dialogo, in cui Ungaretti ci parla dell’amore e del fatto che, come scrive nelle Note,
«può non estinguersi che con la morte», l’illusione d’amore illumina la sua notte, così come le stelle
illuminano il cielo scuro. Questa luce, però, non illumina davvero, ma anzi, ci fa capire di essere nel buio e
quindi acuisce il senso di disperazione in noi. Questi astri sono delle false ancore, alle quali ci aggrappiamo per
sfuggire alle illusioni che noi stessi creiamo e che ci trascinano nell’oblio.
Noi uomini, però, siamo talmente tenaci e determinati a far sì che realtà e sogno diventino un unicum, da
essere convinti del fatto che, anche durante la loro discesa sul nostro mondo, le stelle sfavillanti possano
essere custodi delle nostre fantasie. In tal modo, mentre queste «favole ardenti» passano dinanzi ai nostri
occhi, tracciando scie luminose, affidiamo a loro i desideri più reconditi, sperando che prima o poi possano
avverarsi. Crediamo anche che, caduta una stella, subito un’altra favola ardente nascerà al suo posto e che
quindi «ritornerà scintillamento nuovo», ed ecco perché nasceranno nuove illusioni da affidare ad esso:
questo è il significato di Stelle (in Sentimento del Tempo).
Oltre a essere custodi di sentimenti e sogni, le stelle sono l’elemento portante della magia notturna, dei cui
benefici Ungaretti è consapevole. Secondo lui, infatti, l’imbrunire risveglia illusioni e ricordi, come «oasi / al
nomade d’amore», in chi non riesce a trovar pace a causa dell’amore (Tramonto, in L’Allegria, 1916). Il
tramonto è come un segnale, che mette in guardia l’uomo sul fatto che di lì a poco non avrà più controllo sulla
sua mente, che verrà inondata dai ricordi che lo porteranno a crearsi nuove illusioni, ma anche a ricostruire
quelle che credeva andate in frantumi. Il poeta ci vuole far capire che, seppure di giorno saremo in grado di
tenere dolori e sofferenze a bada in un angolino della nostra mente, di notte ci è impossibile, perché essa ci
vuole far rivivere tutti i momenti che vorremmo solo cancellare, cercando di farci comprendere che, se
fingiamo di non rammentare, non potremmo mai essere felici. La misteriosa notte sa, come il poeta, che non
dimenticheremo mai certi momenti: quelli che, seppur dolorosi e tristi, ci hanno insegnato a vivere davvero. E
anche se avessimo la possibilità di dimenticare tutto ciò che ci ha fatto soffrire, saremmo davvero felici come
crediamo? Per sapere di essere naufrago devi aver provato l’ebbrezza del viaggio.
Nella poesia La notte bella Ungaretti ci racconta di una serata estiva passata al fronte, durante la quale si è
levato un canto gioioso da tutta la trincea: è stato un evento talmente raro che ai soldati è sembrato che le
stelle splendessero di più e che il cuore scoppiasse di gioia per un regalo così bello. «Sono stato in uno stagno
di buio» scrive il poeta, lasciando intendere che la guerra aveva portato solo tenebre e dolore nel suo cuore,
ma ora che quell’attimo di gioia lo stava vivendo davvero, si sentiva talmente vivo da potersi nutrire delle
bellezze della vita. Si sente inebriato dal senso di libertà che quel canto ispira e finalmente riesce a respirare a
pieni polmoni l’affiorare dell’essere. È talmente felice e in pace con se stesso da definirsi «ubriaco
d’universo», e non c’è niente di più bello di questa sensazione: quando la tua vita è appesa a un filo e tu non
potresti sentirti più vivo che in quell’attimo di luce.
Il ricordo di questo attimo di idillio verrà serbato da Ungaretti per sempre e questo suo pensiero lo porterà poi
a riflettere sull’inestimabile valore dei ricordi, che possono alleviare i dolori dell’animo in qualsiasi momento.
Il frutto delle sue intuizioni si concentra in Universo:
Col mare
mi sono fatto
una bara
di freschezza
Qui l’«universo» dei ricordi viene paragonato al mare che, con la sua «freschezza», dà sollievo dai dolori della
vita, paragonati al caldo afoso delle giornate estive. Con questo «mare» Ungaretti si è creato un rifugio sicuro
nel quale nascondersi da un caldo metaforico, riscoprendo e riassaporando i momenti in cui era inebriato
dalla voglia di vivere e la sentiva scorrere nelle vene, come se fosse la sua stessa linfa vitale. Per lui i ricordi
sono strumenti talmente preziosi da poter alleviare persino i dolori della morte. È certo che le sue memorie lo
aiuteranno a non pensare alla sua fine, quando essa sopraggiungerà e gli permetteranno, soprattutto, di
andarsene con il sorriso sul volto, nascondendo il suo spirito felice in questa «bara» costituita dai suoi ricordi.
Ma siamo sicuri che i ricordi siano tutti felici? Ungaretti definisce l’insieme di essi come «inutile infinito»,
facendo intendere ai lettori che quell’infinito corrisponde alle “immagini” degli istanti di vita che sono passati
e rimangono conservati in un angolo recondito del nostro cuore. L’aggettivo «inutile» sta a significare che
spesso i ricordi tristi, che vorremmo soltanto cancellare, rimangono con noi per sempre, e questa inutilità è
data dal fatto che il poeta ritenga superfluo questo tipo memorie, che tormentano soltanto l’animo umano,
non donandogli neanche un attimo di tregua e refrigerio. L’uomo, però, non si rende conto che privandosi del
ricordo, doloroso o gioioso che sia, non riuscirebbe a sentirsi vivo, perché sono le esperienze e i ricordi di esse
che forgiano l’essere di ogni individuo. Quando cominciano ad affiorare nella mente i ricordi, quasi contro la
nostra volontà, spesso immaginiamo di essere seduti in riva al mare, perché, nell’inconscio comune, il mare è
l’archetipo del “pozzo dei ricordi”, nel quale l’uomo conserva i momenti cruciali della sua vita e, a furia di
sporgersi per rivederli, ci cade dentro e vi rimane intrappolato.
«Sì, perché il deserto era il primo segno che muoveva familiarmente il mio sentimento e la mia fantasia.
Circonda, si sa, insieme al mare, Alessandria d’Egitto, la mia città natale. Là, deserto e mare sono in continuo
contatto e contrasto: l’uno è statico e pare immutabile, l’altro è in agitazione perpetua; il primo rappresenta,
senza che uno possa avvedersene ciò che va deteriorandosi senza posa; l’altro, senza sosta, manifesta
furiosamente il rinnovamento. Sono la mia prima visione della realtà» (Intervista con F. Camon, 1965, in Saggi
e interventi, p. 836)
Allo stesso modo del pozzo, il mare è un locus amoenus, ma allo stesso tempo un locus horridus. È amoenus
quando l’uomo affida sogni, speranze e sofferenze alle onde del mare, sperando che esse le conservino per
sempre e che le riportino a riva confortando il suo cuore, quando ne avrà bisogno. Nel momento in cui
lasciamo andare i nostri dolori alle onde del mare e li vediamo andare via con loro («Il mare, / Voce di una
grandezza libera, / Ma innocenza nemica dei ricordi, / Rapido a cancellare le orme dolci / D’un pensiero
fedele...»), ci illudiamo per un attimo che siano persi per sempre; ma poi ci rendiamo conto che, come
tornano a riva i ricordi belli, torneranno anche le pene più amare e sarà ancora più doloroso per noi doverle
affrontare. Questa è la rappresentazione del locus horridus, che con il suo moto sinuoso illude l’uomo di aver
riconquistato la libertà, smarrita con l’arrivo del dolore. Il solo fatto di liberarci di questi ricordi ci farà star
meglio, perché ci sembrerà di esserci sfogati con qualcuno a noi vicino e di confidare i nostri tormenti a un
vecchio saggio («I ricordi, / Il riversarsi vano / Di sabbia che si muove / Senza pesare sulla sabbia, / Echi brevi
protratti, / Senza voce echi degli addii / A minuti che parvero felici...). Questo qualcuno è proprio il mare, che
con il suo religioso silenzio ci ascolta e ci offre rifugio, rendendo suo il nostro dolore. Le bellissime riflessioni di
Ungaretti sono racchiuse nella poesia I ricordi, nella raccolta Il dolore.
Abbiamo la certezza che il mare sia effettivamente qualcuno nella poesia Finale, dove si vuole
paragonare il mare all’uomo, che con i suoi sentimenti ricorda, gioisce, soffre, vive e muore.
Più non muggisce, più non sussurra il mare,
Il mare.
Senza sogni, incolore campo è il mare,
Il mare.
Fa pietà anche il mare,
Il mare.
Muovono nuvole irriflesse il mare,
Il mare.
A fiumi tristi cedé il letto il mare,
Il mare.
Morto è anche lui, vedi, il mare,
Il mare.
(Finale, in La Terra Promessa)
La prima cosa che notiamo nella poesia è l’anafora, a chiudere ogni distico, dell’espressione «il mare»,
attraverso la quale il poeta vuole dare l’impressione del movimento delle onde per “trasportare” il lettore
proprio in riva al mare, in modo che possa fondersi con esso, fino a diventare un unico essere. La
personificazione del mare rende più concreta la fusione e permette al lettore di immaginare il mare come
essere e non come oggetto inanimato. Questo pseudo-uomo incarna la parte che soffre dell’animo umano e
ne rispecchia tutte le caratteristiche: non parla, non sussurra, non si lamenta nemmeno più, si è
completamente abbandonato al dolore, perché esso l’ha sfinito. È nell’oblio che ora si trova e nell’oblio non
c’è pace, non c’è luce; senza luce non si vede e si perde la speranza. Si può continuare a sognare senza la
speranza che il sogno si avveri? No. Ecco perché nemmeno il mare sogna più e senza sognare diventa
trasparente, come un «incolore campo». Essendo incolore, perde la sua personalità e diventa il riflesso di
qualcun altro, in questo caso il cielo. E «fa pietà» il mare, perché senza personalità non si è più individui, ma
parte di una massa; non si ha un’identità personale, se ne ha una collettiva, e quindi si diventa un “nessuno”
in un mare di “tutti”. Alla fine il mare, afflitto, sconsolato, privato di speranze, sogni e identità, cede il posto a
chi davvero sente che la vita vale la pena di essere vissuta, e muore, proprio come un uomo che, come tanti,
non facendo più parte della vita stessa, sente il suo peso gravare sulle spalle e si lascia schiacciare da esso,
fino a spegnersi completamente.
Ma le immagini del «superstite lupo di mare» di Allegria di naufragi, e come quelle del «porto sepolto» e del
«naufragio», hanno molto a che fare con l’idea dell’«allegria», che forse è il colore dell’illusione. E ci riportano
a un’osservazione di Giacomo Leopardi:
«Quantunque chi non ha provato la sventura non sappia nulla, è certo che l’immaginazione e
anche la sensibilità malinconica non ha forza senza un’aura di prosperità e senza un vigor
d’animo che non può stare senza un crepuscolo, un raggio, un barlume d’allegrezza»
(Zibaldone, 24 giugno 1820).
Illusione e ricordo, quindi, sono fondamentali per essere non per esistere soltanto. Enorme è la differenza tra
questi due termini: “essere” vuol dire mettersi in gioco e affrontare la vita come viene; è sinonimo di vivere,
nel senso pieno della parola: provare emozioni belle o brutte, cadere, combattere per ciò che si ama, rialzarsi
ogni volta pieni di cicatrici, ma più forti di prima, riuscire a cogliere ogni attimo, perché la vita è una sola e
bisogna viverla a pieno, senza rimpianti: sentirla scorrere nelle vene e nutrirsi di essa. «Ubriachi di universo»,
insomma, come nel finale della Notte bella, e sentire che noi di questo universo facciamo davvero parte, e
possiamo vivere le avventure e raccontarle agli altri. Illusioni e ricordi sono ingredienti base per la ricetta della
vita vera, perché sono proprio quelli che la rendono speciale e saporita. E anche se soffriremo, ne sarà valsa la
pena, perché avremo provato sentimenti puri, che determineranno il nostro essere persona. E poi ci sarà
sempre il momento in cui capiremo che senza quella sofferenza, non avremmo mai potuto scoprire cosa sia la
vera felicità. “Esistere”, invece, significa essere spettatore di tutto questo, senza potervi e senza volervi
partecipare. Esistere vuol dire, perciò, non avere esperienze da raccontare o da vivere e per questo non avere
sentimenti veri, ma solo parvenze di essi. Chi vive in questo modo non ama la vita e non potrà mai fare poesia,
perché essa è la massima espressione dell’amore per il vivere in tutte le sue sfaccettature.
Le poesie sono misteriose, in quanto celano sentimenti nati da esperienze sconosciute, ma raccontate in un
certo modo attraverso il quale rimangono attuali e riescono a colpire l’animo di chi legge. Raccontare
un’esperienza di vita vissuta è bello, ma far capire che tu l’hai vissuta sulla tua pelle, ma non riguarda solo la
tua pelle, è ancora meglio, in quanto il mistero attira e abbraccia l’animo del lettore. Non è forse questo il
segreto della vera poesia? Non è quello di racchiudere illusioni e ricordi in dei semplici versi che dicono tutto e
«un nulla / d’inesauribile segreto»? Non è quello di esprimere sentimenti che rimangono veri per sempre?
Non è sentirsi vivi anche solo per un attimo? Non è la poesia, sinonimo di «eterno»?