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IL FOGLIO
Redazione e Amministrazione: via Carroccio 12 – 20123 Milano. Tel 02/771295.1
ANNO XVII NUMERO 127
quotidiano
Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO
MERCOLEDÌ 30 MAGGIO 2012 - € 1,50
DIRETTORE GIULIANO FERRARA
ROVINE DI CAPANNONI E CHIESE
UN GIORNO DI TERRORE A MIRANDOLA, IN ATTESA DI SENTIRE ANCORA “LA VOCE”
Le sedici vittime, le migliaia di sfollati. Da anni il triangolo tra Modena e Ferrara è sismico, spiega il geologo. Una paura simile a quella “da terrorismo”
Mirandola, dal nostro inviato. Alle sette della sera l’unica voce che si sente nel
centro storico di Mirandola, provincia di
Modena, è quella del sindaco Maino Benatti che chiede alla popolazione di abbandonare le proprie case. La diffonde
un’auto della polizia municipale, in movimento costante tra il duomo e la chiesa
di San Francesco, completamente distrutte. L’area è transennata già da una settimana, ma in molti, anziani soprattutto, vogliono restare. Anche dopo le tre scosse
piu forti di ieri, oltre i cinque gradi Richter, quelle che hanno ucciso sedici persone ferendone quasi duecento. L’unico
campo organizzato per gli sfollati a Mirandola è nella zona delle piscine, e le
tende sono poche, e anche il cibo alla
mensa è poco. Qui è stata allestita la centrale operativa della Protezione civile, e
qui stanno convergendo tutti i ricercatori universitari per studiare il terremoto
da vicino, dall’epicentro. Da una settimana gli abitanti vivono con il terrore delle
scosse, che sono continue. Le tende di chi
ha preferito dormire fuori casa, nonostan-
te l’agibilità “con riserva” dei tecnici, cominciano a vedersi dal treno appena superata Crevalcore. Tutto il triangolo di
terra tra Modena e Ferrara adesso è a rischio sismico. “Lo è già da qualche tempo, sapevamo dei movimenti geologici di
quell’area”, dice al Foglio il ricercatore
del Cnr Marco Mucciarelli, “adesso bisogna affrontare l’emergenza, ma già da un
paio di anni la faglia aveva fatto diventare l’Emilia zona a rischio sismico. Anche
la liquefazione del terreno, di cui si parla con un’angoscia al limite del terrorismo psicologico, è invece un fenomeno
nella norma: quando il terremoto cessa, i
liquami smettono di fuoriuscire dal terreno”. Mucciarelli dice che le vittime dei
terremoti, per la Nato, fanno parte dello
stesso protocollo delle vittime di attentati terroristici: è ciò che contraddistingue
ogni terremoto, ma soprattutto questo
emiliano. Perché le persone avevano ricominciato a dormire, la notte tra domenica e lunedì, e ieri le scosse hanno come
risvegliato il terrore. La prima scossa alle 9 del mattino, (5,8 Richter). La seconda
ancora lunghissima alle 12.56 (5,3 gradi).
Come si convive con la terra che trema
ogni dieci minuti? Stanchezza è il termi-
ne che ripetono più spesso a Mirandola.
Chi racconta la propria storia, descrive il
terremoto sempre accompagnato dal ru-
more che viene dalle viscere della terra,
un rumore cupo, inquietante, che non fa
dormire nessuno la notte. Ogni scossa è
preceduta da quella che in Giappone
chiamano “la Voce”.
Poi, dai racconti, sale a poco a poco il
vero tormento, che è prima di tutto interno, nella mente. “Non c’entrano i finanziamenti, non ce ne frega niente dei soldi della parata del due giugno, noi vorremmo solo poter dormire, e questo certo non possiamo chiederlo a nessuno”, dice una donna stanchissima, alle prese con
le norme di buona condotta durante il
terremoto, che si era stampata da sola
“perché in ufficio ci hanno sempre fatto
fare le esercitazioni antincendio, mica
quelle per i terremoti”.
E poi c’è lo sciacallaggio ad aumentare la paura. Molte persone sono rientrate nelle case inagibili per portar via gli
oggetti di valore, perché ieri ci sono stati
vari allarmi nei comuni del modenese di
persone che si introducevano nelle abitazioni per razziare qualunque cosa. Addirittura nella sede della regione Emilia
Romagna, durante l’evacuazione della
mattina presto.
Alla stazione di Mirandola, alle sette di
sera, quando la terra continuava a tremare, gli sfollati erano diventati quasi 14 mila e le agenzie continuavano a riportare
notizie drammatiche come quella di un
parroco morto durante il crollo della sua
chiesa della Stazione di Novi, a Rovereto, nel Modenese, mentre stava tentando
di mettere in salvo una piccola statua di
una Madonna, molti cinesi aspettavano il
treno per Bologna: “Ho chiuso il negozio
e li ho dovuti portare qui”, ci dice il proprietario dell’esercizio commerciale, cinese anche lui, ma con un forte accento
modenese, “qualche sconsiderato gli ha
detto che stanotte tra le undici e mezzanotte ci sarà una nuova scossa forte, e vogliono andare via”. Molti immigrati invece si stanno muovendo proprio verso Mirandola, perché qui si mangia, poco ma si
mangia, mentre nei paesini attorno nessuno è arrivato e se non hai una macchina o una tenda devi dormire all’aperto.
Twitter @Giuliapompili
Castigo di Dio, madre natura tradisce e muore il prete che voleva salvare la Madonna
Non contiamo nulla, va bene. Ma hanno costruito mondi che durano nulla. Ricostruire com’era dov’era, per rispetto dei morti e consolazione dei vivi
Q
uando la scossa delle 9.02 mi ha svegliato (sì, alle 9.02 ero ancora a letto)
ho pensato che fosse l’eco del terremoto
che aveva fatto crollare San Pietro sui
DI
CAMILLO LANGONE
berretti dell’intera Curia Romana. Il segno che Dio si era definitivamente stancato dei corvi e degli avvoltoi e dei cuculi
vestiti di porpora, instancabili divoratori
del Corpo di Cristo. Alzatomi senza nessuna fretta, perché il bello del terremoto è
che non possiamo farci niente quindi tanto vale mostrarsi flemmatici, ho acceso Internet scoprendo che Bertone era ancora
vivo e che invece c’erano andati di mezzo, fra Rovereto sulla Secchia e Carpi, due
poveri parroci (uno morto, l’altro ferito).
Berlusconismo di sinistra
Alle 12.56 altra scossetta (il diminutivo è
riferito a Parma dove mi trovo, nella Bassa Modenese pare sia stata tremenda).
Giusto il tempo di un’Ave Maria recitato
nel vano della porta, pensando alle persone a cui la mia morte recherebbe disagi
o dispiaceri, ed eccomi a riflettere. Non
voglio rischiare di nominare il nome di
Dio invano, quindi d’ora in avanti mi farò
portavoce solo di Madre Natura, cercando
di spiegare quello che secondo me con
questo doppio terremoto ha voluto matrignamente dirci.
Che non contiamo un cazzo. Odio il turpiloquio (è una delle cose che mi dividono da Beppe Grillo) e perciò quello che ho
appena scritto non è farina del mio sacco
bensì del “Marchese del Grillo”, ossia di
Alberto Sordi che nel capolavoro monicelliano dice: “Mi dispiace, ma io so’ io e voi
non siete un…”. Un terremoto è una sanguinosa lezione di umiltà, ci ricorda la
brevità della vita e la vanità dell’agitarsi.
Tutto è davvero un inseguire il vento.
Che la cosiddetta spending review annunciata dal ministro Giarda potrà dirsi
buona e giusta solo se inconcludente la
soppressione delle 26 facoltà di architettura 26 fondate in Italia nell’ultimo disgraziato secolo. Come ha spiegato nel 2009 il
restauratore sommo Paolo Marconi sulla
rivista Il Covile, in queste cosiddette università i cosiddetti architetti “vengono appena (forse) preparati a progettare l’edilizia sparsa nelle nostre campagne e nelle
nostre periferie guastandone la residua
Bankitalia, ci vuole la svolta
bellezza e dunque non sono in grado di
progettare il recupero della bellezza di
una città come l’Aquila. Oppure sarebbero in grado – sempre che trovassero lo
sponsor adatto e ne avessero le necessarie
capacità poetiche – di far costruire agli ingegneri oggetti mirabolanti di design, realizzati con materiali ad alto consumo energetico e di breve durata come il Museo di
Bilbao”. Ricordando quanto siano laureati coloro (architetti, ingegneri civili, se non
è zuppa è pan bagnato) che hanno innalzato i capannoni crollati nella Bassa Modenese sulla testa degli operai, tagliando
in modo mirato le spese del Miur avremo
un’Italia più sicura e più bella. O quantomeno il suo imbruttimento non sarà più a
spese del contribuente.
Un piano in arrivo
Repubblica e il club dei Parla Visco, circola l’ipotesi di una filosofia anti-Bundesbank “Zero assistenzialismo”, è la
miliardari in politica.
filosofia del decreto-sviluppo
o stile è asciutto, essenziale, niente fron- spettive della nostra economia, con risultati
Forse è la volta buona Lzoli, come quello di Mario Draghi. Il me- positivi per gli investimenti e lo stesso one- Non solo tagli e Piano città: il ministro
todo di lavoro è collegiale, alla Carlo Azeglio re del debito pubblico”. Torna la programAria da Palasharp elettorale. Listoni
civici si propongono. Tendenza
moral-manettara. Giornale-partito
Mugugni e sorrisi nel Pd
Roma. A Largo Fochetti, nella redazione
di Repubblica, dicono che per Ezio Mauro
sia soprattutto un’operazione di marketing:
la fidelizzazione del lettore, la capacità di
farlo sentire parte di una comunità che condivide un pensiero e una linea politica. La
natura “chiesastica” del giornalone della sinistra è un pallino antico e persino vincente – si sa – del direttore. Ma
dicono pure che Carlo De
Benedetti, che di Repubblica è il padrone, la veda in
un altro modo dal suo attico romano di via Monserrato, che insomma per lui, ex
tessera numero uno (e delusa) del Pd, la festa di Repubblica, il prossimo 14
giugno a Bologna, sia il pri- C. DE BENEDETTI
mo passo per lanciare “il
partito di Giustizia e Libertà” altrimenti
detto “partito di Republica” o anche “lista
Saviano” a seconda dei punti di vista. Non
c’è più soltanto il molto citato editoriale del
Fondatore Eugenio Scalfari, quello in cui si
proponeva il “listone civico” da affiancare
al Pd; perché la proposta Scalfari è passata
e in termini estesi: ha prodotto emuli, cloni,
ha bucato le stesse file notoriamente permeabili del Pd, ha la simpatia di Walter Veltroni e dicono che il furbissimo Massimo
D’Alema osservi tutto questo movimento
con interesse. Il leader baffuto sa che si vota con il “porcellum”, difatti ha già avanzato la proposta delle primarie per scegliere
i deputati e considera il listone civico un
modo per limare le unghie (e le pretese) di
Vendola e Di Pietro. Il collateralismo intellettuale e civico è un treno già partito: c’è un
manifesto firmato da Flores d’Arcais, la “lista nazionale fuori dai partiti” di Elio Veltri e Marco Travaglio, l’agitazione dei vecchi
prodiani; a Firenze è nato il partito civico
dei girotondini di Paul Ginsborg, ci sono i
sindaci arruffapopolo di Napoli e Bari, e
nella nomenclatura del Pd tutto questo attivismo trova facce sorridenti (malgrado qualche muso duro). Bersani avrebbe dovuto delineare ieri l’architettura di una nuova
“gioiosa macchina da guerra”. Ma il diretti(segue a pagina quattro)
vo del Pd è saltato.
Ciampi. L’impianto dottrinario lo avvicina a
Tommaso Padoa-Schioppa. Il rapporto stretto con il governo richiama Guido Carli. Troppi maestri? Per la nuova generazione di governatori della Banca centrale è difficile
trovare un unico modello al quale fare riferimento. Tutto è così diverso: l’euro ha sottratto una componente essenziale della sovranità, come la moneta; la crisi ha portato
al collasso i grandi paradigmi teorici del
passato, liberismo, keynesismo, monetarismo. Dunque, Ignazio Visco per le sue prime considerazioni finali che leggerà domani all’assemblea della Banca d’Italia, ha
scelto un taglio eclettico e pragmatico. Con
un punto fermo che, probabilmente, diventerà la cifra dei prossimi anni: la produzione e il lavoro. Quanto alla finanza, “credo
che debba porsi come obiettivo quello di
aiutare la crescita dell’economia reale”, ha
detto recentemente. Senza dubbio un cambiamento, dopo Draghi, così inserito nel
sancta sanctorum internazionale; lo sottolineano i più attenti osservatori i quali si attendono indicazioni chiare sul che fare affinché la crescita non sia una vuota invocazione. Alcune tracce di questo percorso sono già state stampate sul terreno, attraverso
interventi ufficiali, ufficiosi e inusuali, come
un’intervista a Giovanni Minoli.
Prima di tutto, una questione di metodo.
“E’ cruciale definire un disegno complessivo, chiaro e credibile, nel quale si inseriscano gli interventi”, ha dichiarato il governatore parlando in Parlamento il 9 dicembre
scorso, a commento del decretone Monti.
Dunque, tagli e tasse non bastano, ma soprattutto vanno inquadrati. “Un approccio organico alla definizione delle misure per la crescita potrà migliorare la fiducia sulle pro-
mazione, il libro dei sogni di Antonio Giolitti e Giorgio Ruffolo? Pochi hanno ricordato
che un anno fa l’allora ministro Giulio Tremonti aveva affidato proprio a Visco il compito di elaborare un piano decennale per lo
sviluppo. Non esageriamo, ma senza dubbio
non basta un buon nocchiero, ci vuole una
rotta. Mario Monti si è rivolto al neo governatore quando è entrato a Palazzo Chigi. Più
che un disgelo, una svolta, dopo tensioni pluridecennali: tra Ciampi e Craxi, tra Prodi e
Fazio, poi tra Fazio e Tremonti, infine tra
Tremonti e Draghi. In fondo, è dal marzo
1979, quando Paolo Baffi venne attaccato da
una magistratura ispirata politicamente, che
tra governanti e banchieri centrali passa una
corrente di sfiducia reciproca. Con la Banca
d’Italia orgogliosa del proprio potere e della propria sapienza tecnica da una parte e
dall’altra ministri insofferenti per quel ditino che si alza ogni 31 maggio nel salone di
Palazzo Koch. Ciò non ha fatto bene all’Italia,
perché ha impedito una politica economica
coerente. Questa lunga fase è finita e Visco
tiene a sottolineare che considera quello in
carica “un governo politico di cui fanno parte persone che non sono politici di professione”. Dunque, nessuna concessione al primato della tèchne.
La cura somministrata il 6 dicembre era
inevitabile. Il governatore ne dà un giudizio
quasi da entomologo: “Le misure, volte a raggiungere il pareggio del bilancio nel 2013, determinano una correzione del saldo di 76 miliardi di euro tenendo conto degli interventi
adottati nell’estate 2011. Per due terzi sono
basati sulle entrate, portando la pressione fiscale al 45 per cento. Le misure hanno effetti restrittivi sul pil di mezzo punto nel prossimo biennio. L’impatto potrebbe essere compensato se il calo dei rendimenti si confermasse e si estendesse”. (segue a pagina quattro)
Esiste una seconda lettera inviata da Antonio Catricalà al
direttore di Repubblica Ezio
Mauro: “Caro Direttore, lei
stesso avrà potuto notarlo, non
mi sono sottratto al rito delle Forche caudine cui il suo giornale ha giustamente stabilito di sottopormi per la sventata iniziativa
mia. Ho chiesto scusa e chiarito, ma ribadisco, ora, che non c’era alcun intento aggressivo nei confronti dei magistrati, la ratio, anzi, essendo quella di rafforzarne l’immagine
e colgo l’occasione per ringraziare di nuovo
loro e lei. Ho moralmente pagato, dunque,
ma il giusto e solo moralmente. Quella delle Forche caudine, e cito: ‘Fu pena, oltreché
morale, fisica: infatti i Romani, consoli in testa, vennero tutti sodomizzati. L’episodio
sembra essere all’origine del modo di dire
che associa la fortuna alle dimensioni del
sedere. Chi aveva un grosso ano soffriva di
meno le violenze dei Sanniti ed era perciò
più fortunato degli altri’. E se quanto a culo me la cavo, certo è però questo: se, ad approntare le forche, lei mai avesse incaricato il vigoroso Bonini, invece della muliebre
Milella, sarei ora alle prese con meritati impacchi. Le resto debitore, suo Antonio”.
DI
STEFANO CINGOLANI
Clini propone sgravi fiscali (e verdi)
Roma. Riforme pro crescita da approvare in modo graduale ma continuo fino alla
fine della legislatura: è per rispettare questa tabella di marcia che da giorni alcuni
dei ministeri chiave del governo Monti sono
al lavoro su uno schema di decreto legge
per lo sviluppo. La forma legislativa a dire
il vero è ancora da decidere, e alla fine ci
potrebbe essere più d’un “pacchetto sviluppo”; quel che è certo è che entro la metà di
giugno altre misure – non solo il “Piano
città” anticipato dal Foglio la settimana
scorsa – arriveranno sul fronte critico della politica economica. Al fianco della spending review, s’intende, il cui obiettivo minimo resta quello di trovare risorse sufficienti a evitare un ulteriore aggravio dell’Iva.
Nel pool di ministri impegnati sulla tanto
citata “fase due” c’è anche Corrado Clini,
responsabile del dicastero dell’Ambiente:
“Nulla di strano – spiega il ministro in una
conversazione con il Foglio – in Europa
quello della crescita è il mestiere dei ministri dell’Ambiente da almeno dieci anni”.
La direzione per il lungo termine, tra l’altro, è stata “approvata politicamente” nel
dicembre 2011, quando i capi di governo
dell’Ue hanno ratificato la “Road map per
un’economia competitiva e a basse emissioni di carbonio”. A proposito di Bruxelles,
Clini ci tiene a soffermarsi almeno un momento sul dramma in corso in nord Italia:
“Questo secondo sisma in pochi giorni ha
aggravato i danni della scorsa settimana e
ha colpito una zona ancora più estesa, dilaniando un’area cruciale del nostro tessuto
produttivo. La situazione è straordinaria,
potrebbero servire maggiori risorse pubbliche per intervenire al più presto, e l’Europa non potrà non tenerne conto anche rispetto ai nostri obblighi sul pareggio di bilancio”. Ma questa è l’unica concessione
che lo stesso Clini fa a un potenziale ruolo
della “spesa pubblica” per sostenere il pil
del paese. Per il resto, l’obiettivo di fondo
è invece quello di “evitare misure assistenzialistiche” e mettere le imprese italiane
“in condizione di assumere lavoratori e poi
competere anche a livello globale”. Per
questo gli uffici del ministero dell’Ambiente hanno appena finito di lavorare a due
proposte che finiranno sul tavolo del ministro dello Sviluppo, Corrado Passera. “Abbiamo studiato in maniera preliminare quali sono i settori economici che creano più occupazione e valore aggiunto in Italia”, spie(Lo Prete segue a pagina quattro)
ga Clini.
Che abbiamo un governo di morti di
sonno. Come mai subito dopo la scossa del
20 maggio con epicentro Finale Emilia il
ministro Ornaghi non ha nominato commissario della ricostruzione Vittorio Sgarbi? Sto parlando del genius loci dell’Emilia estense e dell’intera Padanìa (scrivo
Padanìa con l’accento sull’ultima sillaba
perché così voleva il suo inventore, lo storico dell’arte Francesco Arcangeli: quel
somaro di Umberto Bossi non è nemmeno
stato capace di copiare, ha sbagliato pure
l’accento). Sgarbi non avrebbe potuto impedire i crolli, però avrebbe potuto (e potrà, se designato in futuro) garantire la ricostruzione “com’era dov’era”, per rispetto dei morti e consolazione dei vivi.
Che sprechiamo i nostri migliori talen-
ti. Guarda caso il più italiano degli architetti italiani è anch’egli nativo e cittadino
dell’Emilia ducale. Catturo Pier Carlo
Bontempi al telefono, in trasferta fra Volterra e Pienza: “No, per la ricostruzione
non mi ha interpellato nessuno. Però mi
hanno invitato alla Biennale di Architettura di Mosca e a fine giugno sarò a San
Pietroburgo al simposio su futuro delle
città e tradizione”.
Che gli ultimi saranno i primi. Al posto
di Sua Eminenza Bertone è morto, non
lontano dall’epicentro di Mirandola, l’umile prete don Ivan Martini, schiacciato
sotto le macerie della sua chiesa dov’era
rientrato per portare in salvo la statua
della Madonna. Uno slancio da onorare
ricostruendo.
FRUSTE&PIUME
Sofferente e calmo. Anzi fermo
Il bestseller erotico per signore
sta gonfiando la bolla economica
dell’attrezzatura da bondage
C
inquanta ombre di grigio” è un bestseller erotico per signore, un “mommy
porn”: libro nato come fan fiction di Twilight, la saga sui vampiri, ha avuto un sucDI
ANNALENA
cesso clamoroso (lo pubblicherà Mondadori a giugno), e non soltanto perché ha
venduto una quantità imbarazzante di copie, più di dieci milioni solo negli Stati
Uniti, divise equamente fra e-book e carta. Non ci sono i vampiri, c’è molto sesso
visto con gli occhi di una ragazza ingenua
che si innamora di un dominatore, c’è una
stanza attrezzata per l’amore (e il dolore), che si chiama Red Room
of Pain. Le lettrici si sono
talmente stupite, divertite,
incuriosite, eccitate, che
hanno fatto aumentare
del trecentosettantacinque per cento le
vendite dell’attrezzatura da bondage
(lacci, imbragature, collari), oltre a
frustini, manette,
vibratori, piumini,
bende per gli occhi,
sfere vaginali. Accadde anche con il Rubbit, mostrato più volte in Sex and the City
e diventato subito il vibratore più famoso
del mondo. C’è un filo sottile che unisce
il sesso al piacere dello shopping, e pare
che questo romanzo paraletterario stia
gonfiando la bolla economica dei sex toys.
Tutte vogliono il giocattolo scoperto nella
loro scena preferita del libro: una frusta
di cuoio che alla fine ha una piuma, la
cercano on line oppure entrano nei sexy
shop, dicono: ho rubato questo libro a mia
sorella, vorrei comprare un po’ di roba
adesso. I venditori si commuovono, scrive
BusinessWeek, dicono che la loro fetta di
mercato sta esplodendo (ci sono anche le
dimostrazioni a domicilio, come quelle
per le pentole) e che ogni signora adesso
vuole costruirsi una personale Red Room
of Pain. “Niente di strano, la gente vuole
solo fare buon sesso”. Poiché la frenesia
da acquisti è una cosa seria, pare che stiano andando a ruba anche le camicie di
forza alla mago Houdini.
Questo numero è stato chiuso in redazione alle 21
Ratzinger nella bufera,
il “riformista immobile”
che piace ai progressisti
Gli attacchi? Dai conservatori delusi. La
sua chiesa? Una “minoranza creativa”.
La lenta uscita dal wojtylismo (forse)
Pesto connection per lo Ior?
Roma. Dice lo storico Alberto Melloni
che Vatileaks è figlia di un attacco “da destra” contro Papa Ratzinger: “Quando Joseph Ratzinger era il teologo più stimato da
Hans Küng, non era mai abbastanza künghiano per lo stesso Küng. Adesso che poteva apparire una specie di santo protettore del conservatorismo cattolico
non è abbastanza conservatore
per i conservatori”. Insomma,
secondo Melloni il Papa
avrebbe tradito le aspettative dei conservatori che
lo volevano puntuale
prosecutore delle battaglie wojtyliane di
una chiesa inserita
nell’agone pubblico e
per questo motivo
egli subisce dagli
stessi conservatori di
curia la tempesta denominata Vatileaks. Una tempesta che, tra
l’altro, ancora in queste ore si preannuncia ricca di colpi di scena. Ieri ci sarebbe
stata una colazione in Vaticano fra Tarcisio
Bertone, il manager ligure Giuseppe Profiti, e imprenditori anch’essi liguri al fine di
vagliare la proposta di acquisizione di una
banca straniera per consentire allo Ior di
operare estero su estero. Si parla di nuovi
interrogatori condotti dalla commissione
cardinalizia incaricata e parallelamente
dalla gendarmeria vaticana. Filtra la notizia della confessione di un laico che avrebbe ammesso di aver lavorato da dentro il
Vaticano per fare uscire documenti “al fine
di salvare il Papa da un piano massonico di
distruzione della chiesa”. Insomma, di tutto di più, fino alla notizia di quattro persone, funzionari laici della Santa Sede, che
sarebbero finite nel mirino della gendarmeria e che però, risiedendo in territorio
italiano, non potevano essere oggetto d’indagine e quindi per ora non possono essere arrestate.
Ma oltre le indagini, oltre le notizie certe
e le tante ancora da verificare e vagliare, c’è
il fatto, ineluttabile, di un Papa che sta trovando proprio nelle difficoltà il proprio passo più consono. (Rodari segue a pagina quattro)
ANNO XVII NUMERO 127 - PAG 2
L’OSSERVATRICE
ROMANA
di Barbara Palombelli
E’ più giovane. Più bello, decisamente. Ha i capelli tenuti in ordine da Roberto D’Antonio. Non è mai stato condannato penalmente. Viene dalla Sicilia, terra solare e intelligente. Fa più
ascolti, fa più ridere, ha un pubblico
trasversale e sterminato. Conosce anche lui e usa al meglio tutti i mezzi di
comunicazione. Ha una squadra di
amici che lavorano con lui e una bella
famiglia. Sua moglie è molto simpatica.
Ha ammesso in pubblico i suoi errori –
cocaina – ma è poi ripartito senza piangersi addosso e senza commerciare memoriali e autobiografie zuccherose. E’
fedele ai suoi maestri – Baudo e Costanzo – e li onora appena può. Aveva
onorato a nome di tutti noi Mike Bongiorno, al di là delle convenienze. Non
ha mai fatto campagne elettorali per i
politici o comparsate di comodo nelle
case giuste. E’ lui – non ho dubbi – il
personaggio da schierare alle prossime
politiche, amministrative, primarie e
secondarie. Come venne negli Usa il
tempo di Ronald Reagan, così è arrivato il tempo di Rosario Fiorello for president. L’unico in grado, qui a Roma, di
azzerare anche la sola minaccia di
Beppe Grillo. Non c’è partita: fiorellini contro grillini, dieci a zero.
Rosario ha i valori nazionali a posto,
non dice parolacce, sa come si vive in
modo semplice ma sa stare al mondo.
Non ha mai avuto barche, e questo è
ormai requisito essenziale per scendere in campo nella politica. Va in motorino, compra i giornali all’edicola,
mangia tutti i giorni nella stessa trattoria, Dante, 30 euro pesce e vino compresi. In un campo istituzionale che ha
fatto appassire edere, garofani, margherite, rose nel pugno, dove il sole
che ride ha smesso di farlo, c’è bisogno
di aria nuova. Anzi, erbe nuove: il fiore si può declinare in magnifici manifesti. Azalee, papaveri, peonie, rose
antiche e nuove, ortensie e orchidee
sono pronte ad affiancarlo. In sé, chiamarsi come la sublime preghiera alla
Madonna, il Rosario con cui i cattolici
nascono e muoiono, sarà certamente
una garanzia assoluta per oltretevere,
come scrivono i vaticanisti. E con un
cognome così, immagino che i pubblicitari e i comunicatori di tutto il pianeta potrebbero illuminare muri e televisioni con le loro fantasie. Se il grillo
era un brand forte, il fiore lo potrebbe
mettere ko. Per le primarie, tutte le
fiorerie nazionali – ambulanti compresi – darebbero uno spontaneo contributo h24. Amici di Facebook e di Twitter, svegliatevi! Forza Fiore!
PICCOLA POSTA
di Adriano Sofri
Quattro anni fa l’ambasciata
italiana in Grecia pubblicò
fuori commercio un volume sugli
ebrei italiani di “Salonicco, 1943”, curato da Jannis Chrisafis, Alessandra
Coppola e Antonio Ferrari, da cui si ricavò una mostra e uno spettacolo teatrale. A Salonicco, che aveva avuto per
secoli una maggioranza della popolazione di origine ebraica, e ancora allo
scoppio della guerra ne contava 55 mila, pressoché tutti sterminati, l’azione
di alcuni diplomatici italiani valse a
salvare quasi trecento cittadini ebrei
di nazionalità italiana. Fra questi diplomatici del regime fascista si distinse il console generale Guelfo Zamboni,
cui sarebbe andato il riconoscimento
di “Giusto fra le nazioni”. Dalla lettura di quei tragici documenti vorrei
estrarre un dettaglio lessicale: l’aggettivo “remissivo”, che il console impiega ripetutamente nei suoi dispacci al
ministero italiano. Gli ebrei italiani, a
suo “remissivo avviso”, andrebbero
sottratti alla conduzione delle autorità
tedesche. E’ probabilmente, per Zamboni, un sinonimo di “sommesso” o “rispettoso”, ma ha una sfumatura in più.
Dice molte cose diverse, quel “remissivo”, tutte dolorose. Ma soprattutto
che un’attitudine remissiva è la più
onorevole, quando serve a soccorrere
il prossimo.
PREGHIERA
di Camillo Langone
Che la smetta di sentirmi offeso, quando mi
dicono che scrivo bene.
Disprezzo i permalosi e non vorrei far
parte della categoria nemmeno per un
istante. I complimenti sulla scrittura
mi innervosiscono perché ci sento sempre un sottinteso: “Non mi piacciono le
tue idee ma come le esprimi”. Mentre
invece sono convinto di pensare stupendamente e di scrivere in modo migliorabile. Inoltre credo che lo stile, se
non corroborato dal senno, sia una colpa e non un merito, perché trascina i
lettori nell’errore molto più del non
stile. L’autobiografia postuma di Christopher Hitchens (“Hitch 22”, Einaudi)
è un fulgido esempio di bella scrittura
dissennata. Su religione e omosessualità il grande giornalista anglo-americano aveva pregiudizi adolescenziali,
cocciutamente reiterati fino agli ultimi
giorni di vita. Speravo di ricavare qualcosa almeno dalle pagine (439-442) dedicate all’alcol e invece ho trovato solo aneddoti blandi e il consiglio più
frusto e corrivo: “Non mescolare”.
Quando un cultore della materia è tenuto a sapere che l’ubriachezza deriva
solo dalla quantità totale di alcol ingerito, indipendentemente dalla sua provenienza. E adesso, siccome a pranzo
ho bevuto vino, vado a farmi una grappa. (Magari mi aiuta anche a scrivere
peggio).
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MERCOLEDÌ 30 MAGGIO 2012
Un incerto volo di “Falene” non rende giustizia alle storie di due grandi russi
Q
ualcuno mi aveva detto che il libro “Falene”, di Eugenio Baroncelli (237 vite
quasi perfette) valeva la pena di essere letto e quando l’ho visto, in libreria, l’ho preso
in mano, l’ho aperto a caso e ho visto un titolo “A Baden Baden, a Baden Baden!” che
mi ha fatto venire in mente il modo in cui Daniil Charms parlava di Turgenev in alcune
delle sue scene dalla vita di Puskin e di Tolstoj, queste:
“Turgenev, voleva essere coraggioso come
Lermontov, è andato a comprare una sciabola. Puskin, passava vicino al negozio, l’ha visto dalla finestra. Allora s’è messo a gridare,
apposta: – Guarda ve’, Gogol’ – (ma con lui Gogol’ non c’era). – Guarda ve’, c’è Turgenev che
compra una sciabola. Compriamo un fucile,
io e te –. Turgenev, s’è spaventato, quella
stessa notte è partito per Baden-Baden”.
“Lev Tolstoj e F. M. Dostoevskij avevan
scommesso su chi tra loro avrebbe scritto il
romanzo più bello. A far da giudice avevano
chiamato Turgenev. Tolstoj era corso a casa,
si era chiuso nello studio e aveva cominciato a scrivere. Di bambini, naturalmente (li
amava molto). Dostoevskij invece è a casa
sua che pensa: Turgenev è uno pauroso.
Adesso è a casa sua e pensa: Dostoevskij è
uno nervoso. Se dico che il suo romanzo è il
più brutto, è capace di ammazzarmi, perfino. Cosa mi sforzo a fare? (Questo lo pensa
Dostoevskij). Il romanzo lo scrivo male, apposta, la grana me la becco comunque (avevan
scommesso cento rubli). Nello stesso momento Turgenev è a casa sua e pensa: Dostoevskij è uno nervoso. Se dico che il suo ro-
manzo è il più brutto, è capace di ammazzarmi, perfino. D’altra parte Tostoj è un conte.
Anche con lui è meglio evitare polemiche.
Ma che vadano… E quella stessa notte, di nascosto, è partito per Baden-Baden”.
La biografia che c’è in “Falene” (pagg. 255256), quella che si intitola “A Baden Baden,
a Baden Baden!” è questa qua:
“E’ un’anima mite in un corpo da lottatore. E’ gentile, come quei musici di una volta che nei suoi romanzi intonano le loro rapsodie fino a tardi nelle notti estive, ma vorrebbe essere audace come gli eroi e coraggioso come Lermontov. Un giorno, entra in
un negozio scintillante di lame e chiede di
comprare una sciabola. Bello e sfrontato,
Puskin, che passa di lì per caso, lo vede attraverso la vetrina e si mette a gridare:
‘Guarda un po’, c’è Ivan Sergeevic che si
compra una sciabola. Compriamo piuttosto
un fucile, tu e io!’. Lui è così spaventato che
quella stessa notte parte per Baden Baden.
Un giorno, Tolstoj e Dostoevskij, che hanno
scommesso cento rubli su chi dei due scriverà il romanzo più bello, a far da giudice
chiamano lui. Tolstoj corre a casa, si chiude
nello studio e comincia a scrivere (di bambini, naturalmente). Anche Dostoevskij corre
a casa, ma invece che a scrivere (di demoni,
naturalmente, e nei “Demoni”, nel fatuo romanziere Karamzinov, avrebbe ritratto giusto lui) si mette a pensare. Pensa: ‘Quello è
un pavido, che in questo momento sta pensando: Dostoevskij è un fascio di nervi; se
boccio il suo romanzo, è capace di ammazzarmi’. Pensa: ‘Butto giù un romanzetto da
niente e mi becco la grana comunque’. Pressappoco in quei momenti, lui è a casa che
pensa: ‘Dostoevskij è un tipo nervoso. Se
boccio il suo romanzo è capace di ammazzarmi. E Tolstoj? Se boccio il romanzo suo,
magari non mi ammazza, ma è pur sempre
un conte. Meglio evitare guai anche con lui’.
Quella sera corre in gran segreto alla stazione Bielorussia e prende il primo treno per
Baden Baden. Scappò, con la geniale e spavalda Russia che gli sferragliava accanto
nelle sospirate tenebre della notte”.
Sciascia, in una nota alla fine del “Candido” (“Un sogno fatto in Sicilia”), cita quella frase di Montesquieu che dice che “un’opera originale ne fa quasi sempre nascere
cinque o seicento altre, queste servendosi
della prima all’incirca come i geometri si
servono delle loro formule”. Da un certo
punto di vista è anche bello che oggi, in Italia, dopo che da anni succede in Russia, le
opere di Charms comincino a diventare una
di quelle opere originali che servono come
le formule dei geometri; credo che a
Charms, che non è riuscito a vedere pubblicate le sue opere nel corso della sua vita, la
cosa farebbe piacere, e ancor più piacere,
forse, gli farebbe essere citato come fonte,
quando succede.
Baroncelli si occupa anche di un altro
grande russo dei primi del novecento, Velimir Chlebnikov e, citando Madel’stam, lo definisce “una specie di Einstein idiota”;
“scrisse versi immortali – scrive Baroncelli
– ma non si curava di pubblicarli”; “paragonò la vita a una travolgente onda di risac-
ca, ma era troppo idiota per correre a cercarsi un riparo”.
Il fatto che Chlebnikov non volesse pubblicare i propri versi è una leggenda diffusa, nel
1922, da un articolo di Majakovskij e confutata ormai da decenni: in una lettera a Brik,
che, insieme a Majakovskij, avrebbe dovuto
pubblicare le opere di Chlebnikov, alla redazione delle quali lo stesso Chlebnikov aveva
lavorato, nel 1919, con Roman Jakobson, in
una lettera a Brik del 1920 Chlebnikov scrive: “Avete pubblicato le mie opere, oppure
no? Ho molto paura che non le abbiate pubblicate”. E in una delle ultime poesie che
scrive, nel 1922, Chlebnikov fa un elenco dei
manoscritti che aveva consegnato a Majakovskij e che non gli sono mai stati restituiti e
in uno dei suoi poemi più conosciuti, “Zangezi”, Chlebnikov accusa apertamente
Majakovskij di plagio. Eppure oggi, in Italia,
leggiamo che Chlebnikov non si curava di
pubblicare perché era idiota. E se è vero che
Mandel’stam ha definito Chlebnikov “una
specie di Einstein idiota”, forse vale la pena
di specificare il modo in cui prosegue, l’articolo di Madel’stam su Chlebnikov. E prosegue così: “Idiota nel senso autentico, greco,
non offensivo del termine”. E, in greco, idiota significa privato. Una specie di Einstein
privato. Cioè sconosciuto. Sconosciuto per
via che nessuno pubblicava le sue opere. E
per giustificare il fatto che non le pubblicavano, si sono inventati che era lui, che non
le voleva pubblicare. E, sembra incredibile,
ancora oggi c’è qualcuno che ci crede.
Paolo Nori
Majakovskij e il rapporto tra poesia e rivoluzione spiegato in 720 versi
V
ladimir Majakovskij, si sa, fu un mito,
un mitomane e un beffardo, titanico e
roboante distruttore di miti. Fu un mito che
era impossibile non amare anche per i più
grandi poeti della sua generazione, la più
sbalorditiva generazione di geni poetici del
Novecento: annunciata da Aleksandr Blok
(1880-1921) e rappresentata da Velemir
Chlèbnikov (1885-1922), Anna Achmàtova
(1889-1966), Boris Pasternàk (1890-1960),
Osip Mandel’stam (1891-1938), Marina
Cvetàeva (1892-1941), Majakovskij (18931930), Sergèj Esènin (1895-1925).
Intorno a loro, in amicizia e collaborazione, il gruppo dei critici e teorici della letteratura noti come “formalisti”: Jakobson,
Brik, Tomasevskj, Ejchenbaum, Sklovskij.
Ora Remo Faccani, curando un’edizione
del più famoso poemetto giovanile di
Majakovskij, “La nuvola in calzoni” (uscito
in tre edizioni: 1915, 1916, 1918, titolo originario: “Il tredicesimo apostolo”), ci introduce di nuovo in quell’ambiente e nel clima esplosivo, delirante, apocalittico di
quegli anni. Lavoro eccezionale questo di
Faccani: traduzione, trenta pagine di introduzione e più di cinquanta di commento.
Poco più che ventenne, Majakovskij è già
pienamente se stesso. Al centro di se stesso, senza pudore. E spavaldamente al centro di un vecchio mondo che sta crollando
promettendo la nascita di un mondo nuovo.
Più di ogni altro, Majakovskij è il poeta della rivoluzione bolscevica, assetato di fede
in se stesso e di fede nel futuro. In una
“Lettera aperta agli operai” pubblicata nel
1918 in una rivista cubofuturista, scrive:
“Compagni, il duplice incendio della guerra e della rivoluzione ha devastato le nostre anime e le nostre città. I palazzi dello
sfarzo di ieri si ergono come scheletri arsi.
Le città sventrate aspettano i nuovi costruttori, il turbine della rivoluzione ha divelto
dalle anime le contorte radici della schiavitù. L’anima popolare aspira a una grande
semina (…) La rivoluzione del contenuto –
socialismo, anarchia – è inconcepibile senza la rivoluzione della forma, senza il futurismo. Afferrate avidamente i pezzi di sana giovane rozza arte che noi vi forniamo
(…) Per noi una cosa è chiara: la prima pagina della storia moderna dell’arte è stata
scritta da noi”.
Si parla di anima, per quanto in senso
carnale e terrestre, ma si parla soprattutto
di rivoluzione della forma necessaria alla
verità dei contenuti. La politica della rivoluzione al potere, però, dimenticherà e
schiaccerà anima e forme. Dopo una vita
dissipata di bohémien, dopo aver sposato
Isadora Duncan, il più giovane di questi
poeti, Sergèj Esènin si impiccò nel 1925.
Majakovskij, dopo aver scritto una poesia
in cui rimprovera all’amico il suicidio come una diserzione morale, si suicidò nel
1930 con un colpo di pistola al cuore.
Nell’opera di Majakovskij, “La nuvola in
calzoni”, poema di 720 versi in quattro parti, è ancora il prologo. L’entusiasmo inventivo è debordante. Egocentrismo, esibizionismo, gigantismo, sete d’amore e di distruzione, angoscia lacerante si confondono in
una forsennata espansione di giovinezza
che non accetta costrizioni e confini. Di disciplinato in un tale poeta c’è solo il proposito di essere il più abile operaio della
parola, il più entusiasmante produttore di
versi. Le sue poesie sembrano comizi autobiografici. L’audacia formale e metaforica
è sempre spinta all’estremo. Come dichiara fin dai primi versi, con la sua “voce possente”, il poeta vuole essere “impudente e
caustico”. Tutta la poesia di Majakovskij è
fondata sul personaggio dell’autore in sce-
na. Qui definisce se stesso “nuvola in calzoni” per la sua “tenerezza inappuntabile”.
Molti altri titolo sono più espliciti. La sua
prima raccolta di versi si intitola “Io”. Subito dopo scrive la tragedia “Vladimir
Majakovskij”. Nel 1920 esce la raccolta
“Amo”, poi l’autobiografia letteraria “Io in
persona”. Nel 1930, anno del suicidio, scrive la poesia “Morte di un poeta”.
Nel 1926 attraversò la Russia e per cinque mesi fece più di duecento letture pubbliche. Caparbiamente rivoluzionario a
modo suo, non si iscrisse mai al Partito comunista. Il pittore Jurij Annenkov, suo amico, così descrive un loro incontro a Nizza
nel 1929: “Majakovskij mi domandò fra l’altro quando sarei tornato a Mosca. Risposi
che non ci pensavo nemmeno più, perché
volevo rimanere un artista. Majakovskij mi
batté su una spalla e, rabbuiandosi di colpo, articolò con voce arrochita: ‘E io, io ci
ritorno… perché ho smesso ormai di essere
un poeta’”.
Il rapporto fra poesia e rivoluzione si era
concluso anche per lui: “La poesia – tutta
– è una corsa nell’ignoto”. Ma i bolscevichi
volevano governare l’ignoto.
Alfonso Berardinelli
La germanofobia. Le ragioni culturali di questa brezza antitedesca
I
n Europa spira un vento antitedesco. Si
diffonde fra gli Europei l’antipatia per il
teutonico primo della classe, che pare voler
schiacciare gli altri con la supremazia economica e il rigore morale. Si rinnova un’antica,
ed in realtà mai sopita, diffidenza per coloro che (ancora una volta?) vogliono dominare in Europa. Uber alles? E allora vadano al
diavolo con i loro conti in ordine, i loro bund
bene di rifugio con interessi pari allo zero,
la disoccupazione minima, le esportazioni
che non conoscono problemi, le loro automobili perfette che sfondano sui mercati.
La brezza di malevolenza rischia di trasformarsi in un vento impetuoso nella Grecia
tramortita dal debito, umiliata nella sua economia e nella sua identità. Una umiliazione
che, divenendo psicologica e morale, si sta
trasformando in odio. Angela Merkel raffigurata con la divisa nazista sulle pagine dei
quotidiani. Le bandiere tedesche bruciate
davanti al Parlamento di Atene. Gli intellettuali e gli storici che riaprono una questione che pareva dimenticata ricordando, non
appena possono, che la Grecia, a cui oggi si
chiede di pagare debiti ed interessi insopportabili, non è mai stata risarcita dalla Germania per i danni di guerra. Segnali ovvi e,
in fin dei conti, non preoccupanti di fronte
a una crisi che ha messo in ginocchio un pae-
se? Non per i tedeschi che, a quanto pare,
stanno rinunciando alle vacanze al caldo e al
sole delle isole dell’Egeo e dello Ionio. O per
senso di colpa o per timore preferiscono non
rischiare e cercare lidi più sicuri.
Il robusto vento antitedesco attraversando
lo Ionio, è arrivato nel resto d’Europa scuotendo quella convivenza del Vecchio continente fondata su una tollerante e noncurante consapevolezza delle identità che lo compongono. I caratteri nazionali, tanti e contrastanti, non avevano provocato negli ultimi
decenni sentimenti di antipatia o risentimenti. Certo l’Europa dell’euro e di Maastricht non ha mai emozionato nessuno. I trattati internazionali, le tante grigie riunioni di
Bruxelles o Strasburgo non hanno mai provocato nei popoli del Vecchio continente
sentimenti identitari. Ma non avevano neppure intaccato un senso di appartenenza comune che, per quanto non entusiasticamente o retoricamente proclamato, (non ci siamo
mai sentiti gli Stati Uniti d’Europa) si avvertiva in una diffusa reciproca simpatia e nella divertita pazienza per gli altrui difetti. Ora
ci si accorge del cambiamento perfino nel disponibile popolo italiano. Se ne è accorto
qualche mese fa anche Mario Monti che in
una intervista alla Die Welt aveva avvertito
del rischio che già si profilava di una prote-
sta contro l’Europa e, anzitutto, contro la
Germania che risulta – affermava il premier
– “il promotore dell’intransigenza europea”.
Può sembrare poco ma lo spirito con cui in
molti hanno tifato per gli inglesi e sono stati contenti della loro vittoria nella partita del
Chelsea contro il Bayern Monaco per la finale della Champions League era alimentato
dal veleno dell’antipatia antitedesca Non dichiarata ma reale. Era la gioia per la sconfitta di un paese che stava vincendo troppo.
Viene da chiedersi quanti italiani che hanno
reagito sdegnosamente a quel “culona” elargito senza troppo finezza da Berlusconi alla
Merkel oggi non pensino alla Frau tedesca
con sentimenti altrettanto antipatizzanti. E’
difficile comunque che dimentichino quel titolo sugli “Italiani codardi” apparso sullo
Der Spiegel dopo la tragedia della Concordia. Come è difficile che i Greci dimentichino la copertina della rivista tedesca Focus
dove la Venere di Milo che, come è noto, è
priva di un braccio, viene fornita con un fotomontaggio dell’arto mancante ma nell’atto
di chiedere l’elemosina. Un anno fa, la stessa rivista aveva pubblicato la stessa Venere
sullo sfondo della crisi greca con il dito medio alzato e con il titolo “Imbrogliati all’interno della famiglia dell’euro”.
Soffiando forte il vento del risentimento è
arrivato anche sul suolo francese. Si sa che
nella storia i rapporti fra Francia e Germania sono sempre stati, a dir poco, complessi
anche in tempi di pace, ma negli ultimi anni ci eravamo abituati al duopolio franco tedesco, a un rapporto privilegiato fra i due
paesi . Il clima è cambiato se lo stesso Le
monde parla di “germanophobie” cioè “un
sentimento antitedesco, un misto di insofferenza ai diktat di Berlino e alle lezioni di
morale della Merkel su debito e politica monetaria, che comincia ad esprimersi senza
più tabù”. E allora quanto ha influenzato la
vittoria di Hollande l’odio per la dominatrice Frau Merkel, quanto si è trattato di un voto antitedesco? Sui giornali francesi non è
ancora apparsa la cancelliera in divisa nazista, ma qualcuno ci pensa. Intanto Hollande
evita di incontrarla in privato e di farsi fotografare insieme a lei nei vertici internazionali. I tempi in cui i francesi e i tedeschi si
commuovevano vedendo la foto di Mitterrand e Kohl che si tenevano la mano di fronte all’ossario di Fort Douaumont o a quella
di Chirac e Schröder che celebravano insieme nel 2004 l’anniversario dello sbarco in
Normandia sono molto lontani nella memoria. Fanno parte di una storia che sta cambiando direzione.
Ritanna Armeni
Storia di un pellegrinaggio ipocondriaco tra i culti più strani di Roma
A
d averci i soldi, tanti soldi, correrei a
comprare i diritti cinematografici di
un libro appena uscito. State a sentire che
bella favola: c’era una volta un trentenne
ipocondriaco, rimuginante sull’infinita vanità del tutto, che si mise a bussare alla
porta delle religioni più varie in cerca di
salvezza e di consolazione. “Ma questo film
l’abbiamo già visto!”, diranno i miei lettori. “E’ quello dove Woody Allen, convinto
di avere un tumore al cervello, prova a farsi cattolico (senza fortuna), poi Hare Krishna, attratto dall’idea della reincarnazione,
ma vuole garanzie che non tornerà in terra come alce o armadillo”. E invece no che
non l’avete visto: è un altro film. Scordatevi Allen, e fate conto che a compiere il giro di consultazioni spirituali sia il buon avvocato della “Signorina Felicita” di Gozzano, anzi il suo capovolgimento perfetto: lì
c’era uno spirito corroso dallo spleen che
vedeva come un miraggio irraggiungibile
la dolcezza della vita semplice; qui c’è un
timido eroe che alle felicità crepuscolari
pare predestinato per natura e per indole,
se non fosse che si è messo in testa che deve fare il letterato, e che il letterato ha da
essere inquieto: per lui, il gozzaniano
“quello che fingo d’essere e non sono” funziona esattamente alla rovescia. La sua
saggia Signorina Felicita, capace di domare le chimere letterarie prima che lo sbranino, l’ha pure trovata, e sposata. Com’è finito allora a fare il giro delle sette chiese,
anzi settanta volte sette? Cosa lo ha spinto
a setacciare tutta Roma in cerca di santi,
santini e santoni? Perché tutti (o quasi) li
ha provati. Gli Hare Krishna (non quelli di
Central Park, quelli di piazza Navona), che
gli hanno dato la sensazione inebriante di
essere “uno splendido, puro, inoffensivo
deficiente”; dei neopagani in odore di tradizionalismo evoliano, da cui si defila alquanto turbato; dei cordialissimi raeliani,
il cui simbolo, che infrange tutte le sacre
tavole del marketing (una svastica inscritta nella stella di David), testimonia se non
altro una cristallina buonafede; dei liberi
pensatori paranoici, più settari dei settari; degli evangelici sospettamente pragmatici.
Risposte non ne trova, o ne trova troppe, ma è certo che lungo il tragitto inciampa in alcune verità tutt’altro che ovvie: che
una religione la si combatte solo con un’al-
BORDIN LINE
di Massimo Bordin
Fra i tanti libri usciti per il ventennale delle stragi di mafia,
quello di Enrico Deaglio, malgrado il titolo da feuilleton – “Il vile agguato. Una storia di orrore e menzogna” – deve essere fra
quelli scritti meglio. Deaglio sa raccontare. Ho cominciato a sfogliarlo e un particolare mi ha subito inquietato. I mafiosi che
svuotano il covo da dove è uscito latitante
per l’ultima volta Riina. A pag. 61 si scrive della “cassaforte divelta”, come anche
altri avevano scritto in precedenza. A me
tra religione uguale e contraria; che Roma,
la Roma dei papi, è la città più atea e
strafottente del mondo; che l’idea per cui
la morte è la fine di tutto è quasi consolante, se paragonata alle angosce di cui deve
farsi carico il credente in articulo mortis.
D’altro canto, la scintilla originaria di questo reportage-confessione è proprio qui: il
nostro “pellegrino ipocondriaco”, prima di
mettersi in viaggio, ha smesso di fumare, e
questo, a farla breve, lo ha costretto a riaprire il dossier delle cose ultime, morte e
immortalità. Detta così suona balorda, ma
aspettate: si era fatto fumatore come altri
si fanno francescani, per sequela e imitazione di un modello venerabile: nel suo caso, Francis Scott Fitzgerald, apparsogli da
adolescente su una copertina di “L’età del
jazz”: “Avevo creduto, a torto o a ragione,
questa cosa ha sempre divertito e lasciato perplesso. Che bisogno c’era di svellere dal muro la cassaforte? Non bastava
portarsi via il contenuto? Riina era forse
contornato da idioti? Oppure la cassaforte era una sorta di sacro Graal della mafia? Fa ridere. Infatti la cassaforte sta ancora lì, la si poteva vedere in tv la settimana scorsa durante la bella intervista di Felice Cavallaro a Rosaria Schifani trasmessa da RaiTre. Come dire, c’è la prova televisiva. Del libro occorrerà riparlare, ma è
certo che di balle, anche se scritte bene,
l’antimafia non dovrebbe aver bisogno.
che l’anima fosse proprio il fumo, quel ricciolo azzurro che gli guarniva come un
anello le dita, lì in foto; e quell’immagine,
mi dissi, sì, quell’immagine di un morto
partecipava a qualcosa di eterno” (già immagino la scena del mio film: il nostro eroe
se ne sta lì ad ammirare la copertina del libro attraverso una vetrina, campo-controcampo, come Belmondo davanti al manifesto di Bogart in “Fino all’ultimo respiro”).
Tolte le sigarette-feticcio, svelato l’inganno: “Se fossi solo uno spirito semplice,
che si è voluto complicare a forza!”. Questo si legge a pag. 79, e il recensore, con l’aria di chi la sa lunga, sta lì pronto a chiosare: ma questo era il tema del primo romanzo del nostro eroe ipocondriaco, “Piccola serenata notturna” (Marsilio), su un
sempliciotto abruzzese sballottato tra le
avanguardie del primo Novecento, trascinato a Praga controvoglia perché sperimenti un’angoscia kafkiana che proprio
gli è estranea… A pagina 80, però, l’autore se lo dice da solo, perché è – Croce lo diceva proprio di Gozzano – il miglior critico di se stesso. E dunque ci lascia senza altre parole, se non queste: il libro si chiama “L’eternità stanca”, lo ha pubblicato
Laterza. E i dialoghi suonano così naturali che ad averci i soldi – sempre lì si torna – per la parte della saggia moglie Claudia scrittureremmo la saggia moglie Claudia; e per la parte dell’autore e protagonista, Errico Buonanno, scrittureremmo Errico Buonanno.
Guido Vitiello
Molti tituli
Politici alla gogna, un viaggio
nell’Isola dei prigionieri, l’amabile
zitella vintage Patricia Brent
“La gogna”, Maurizio Tortorella (Boroli,
174 pp., 14 euro)
“Come i processi mediatici e di piazza
hanno ucciso il garantismo in Italia”: è il
sottotitolo del libro ed è anche il filo conduttore che tiene assieme i tanti casi, alcuni dei quali non ancora del tutto scritti, di
cui parla il giornalista Maurizio Tortorella, non senza prima ripercorrere l’avvio
cruento del cosiddetto “giustizialismo” ai
tempi di Mani pulite (con flashback al
1989: Tortorella intervista Antonio Di Pietro, e ne esce perplesso, dal momento che
il pm non ancora star spiega già “con ampi gesti” la sua filosofia dello “sbattere
dentro” gli indagati noti, anche per pochi
giorni, per poi lasciar fare il resto ai giornali, e lasciarli punire comunque “per
quanto si poteva ragionevolmente ipotizzare avessero fatto”). La presunzione di
colpevolezza, l’intercettazione sbattuta in
prima pagina, la foto degli arrestati messa in circolo nonostante i divieti di legge,
la custodia cautelare che diventa di fatto
condanna di primo grado, l’inesistente riparazione sugli organi di stampa per gli innocenti incarcerati al volo: è un malcostume giuridico che dal 1993 si allunga fino
ai nostri giorni, come dimostrano, tra le altre narrate da Tortorella, le vicende emblematiche di Calogero Mannino, il ministro definito “mafioso”, messo alla gogna
per vent’anni e poi scagionato senza risarcimento mediatico, e di Silvio Scaglia,
l’imprenditore messo al centro di un presunto e mai provato giallo internazionale
con frode colossale forse inesistente, e di
Ottaviano Del Turco, distrutto anche nell’immagine per una presunta tangente di
cui, scrive Tortorella, ancora non c’è traccia.
“Più alto del mare”, di Francesca Melandri (Rizzoli, 235 pp., 17 euro)
“L’aria speziata no, quella non se l’aspettavano”. Arrivati nell’Isola – non è mai
nominata ma si tratta dell’Asinara, perché
i protagonisti sono lì in visita a due prigionieri di un carcere di massima sicurezza,
alla fine degli anni Settanta – Paolo e Luisa si stupiscono, ognuno chiuso nel proprio silenzio, di quel regalo della natura,
quasi incongruo in un luogo intestato alla
pena. Paolo, ex professore di Filosofia, è il
padre di un giovane terrorista assassino;
Luisa è una contadina, moglie di un altro
detenuto omicida, il padre dei suoi cinque
figli. Paolo e Luisa provengono da mondi,
materialmente ed emotivamente, lontanissimi. Il primo non ha mai smesso di tormentarsi e di chiedersi che cosa sia andato storto nella sua famiglia, al punto da
mettergli di fronte un figlio incomprensibile nelle sue scelte violente; la seconda
ha sempre accettato la vita per quello che
è, senza recriminare o scoraggiarsi: non ne
ha avuto tempo. I due estranei si trovano
a condividere – oltre alla trafila dei controlli e delle perquisizioni – lo spazio di un
tempo corsaro, regalato da un maestrale
furioso che impedisce loro di ripartire dall’Isola per tornarsene nelle rispettive
città. Un giorno e una notte in più, rubati
al dolore, ai rimpianti, alla rassegnazione,
un appuntamento che l’Isola ha voluto preparare per loro, perché possano capire
qualcosa di importante. Con Paolo e Luisa,
involontari compagni di avventura, c’è il
riluttante angelo custode incaricato di non
perderli mai d’occhio. L’agente carcerario
Pierfrancesco Nitti, a sua volta prigioniero dell’Isola – e di un ricordo violento e inconfessabile – con la sua giovane sposa
Maria Caterina, maestra nella scuoletta
per i figli del personale del carcere. Alla
cattività degli umani – detenuti, carcerieri, parenti – l’Isola contrappone l’assoluta
libertà degli animali selvatici, dell’aria
profumata, della vegetazione lussureggiante. Alla cronaca di quel giorno e di
quella notte in più sull’Isola, che cambierà
la vita di tutti, si accompagnano i ricordi
che visitano Paolo e Luisa, e che si intrecciano con la storia di anni difficili e violenti, raccontati senza ombra di retorica.
“Patricia Brent, zitella”, di Herbert G.
Jenkins (elliot, 256 pp., 15 euro)
Non c’è niente di peggio, per una zitella, che sentirsi zitella. E’ per questo che la
giovane e graziosa Patricia Brent – orgogliosa della propria indipendenza, anche
se per mantenersi fa la segretaria di un
politico inetto che le detta frasi come “i
suini rappresentano la potente salvezza
dell’Impero” – decide di inventarsi un fidanzato. Solo così i suoi indiscreti compagni di tavolo alla pensione Galvin, piccolo e pretenzioso microcosmo popolato da
una buffa fauna umana, la smetteranno di
compatirla. Siamo a Londra in piena Prima guerra mondiale, ed evidentemente la
paura delle bombe è meno forte del timore di essere vista come una che non ha
“nessuno che le chieda di uscire”. Patricia annuncia agli abitanti della pensione
di avere un invito a cena, ma non sa che
alcuni di loro la seguiranno nell’elegante
albergo dove lei già pensava di cenare da
sola, decisi a verificare di persona. Un
giovane ufficiale, lord Peter Bowen, la salva dall’imbarazzo. Da quel momento in
poi Patricia dovrà presentarlo come il suo
fidanzato. Il bello è che a crederci sul serio è lui, rapito dalle grazie della fanciulla, ma non lei, che lo tratta con inspiegabile freddezza. Prende così il via una classica commedia degli equivoci, fitta di malintesi esilaranti e di dialoghi degni di
Wodhouse. Patricia fugge e il povero Peter
la insegue, nel totale disorientamento degli abitanti della pensione Galvin, fino al
felice epilogo. Pubblicato in Inghilterra
nel 1918, questo romanzo di Jenkins – di
ininterrotta fortuna presso il pubblico britannico – dimostra che la formula “ragazza indipendente trova marito proprio perché non lo cerca” funziona sempre. Almeno nella fiction.
ANNO XVII NUMERO 127 - PAG 3
EDITORIALI
Che fare con il regime di Damasco
I piccolissimi cadaveri e il sospetto che Houla sia la Srebrenica siriana
U
n’esecuzione. Quella di Houla, dice
l’ufficio dell’Alto commissario per i
diritti umani dell’Onu, è stata un’esecuzione. Quasi cento morti, molti bambini,
moltissimi ragazzini, uccisi nelle loro case, uccisi contro un muro, trascinati nei
cortili e uccisi. Uno via l’altro, in varie
parti della cittadina nella provincia di
Homs, in Siria. I singhiozzi del padre con
il cadavere del figlio in braccio hanno
sollevato il velo dell’ipocrisia dell’occidente, umanitario a seconda dei casi, attento agli interessi in gioco, in tempo di
crisi poi. Quelle file di sacchi chiusi, piccoli e piccolissimi, sono il “tipping
point”, dicono commentatori e leader politici: non si può tollerare oltre. E allora
ieri molti paesi occidentali – compresa
l’Italia – hanno espulso i diplomatici siriani. E allora il neo presidente francese,
François Hollande, ha denunciato la
“follia assassina” del regime di Damasco
e assieme all’inglese Cameron ha convocato “Gli amici della Siria” a Parigi, non
si sa bene per quale data. E allora il filosofo umanitario Bernard-Henri Lévy
ha chiesto a Hollande se ha intenzione di
fare sul serio, come si è fatto in Libia con
il suo predecessore Sarkozy (predecessore molto entusiasta della campagna libica che pure ha assistito a un anno di carneficine in Siria senza fare nulla); e Hollande ieri, sul tema, è stato piuttosto
chiaro, sostenendo che non si può escludere un intervento militare se ci fosse il
via libera del Consiglio di sicurezza dell’Onu. E allora i russi si sono agitati, ché
Damasco è affare loro, e hanno chiesto
all’Onu un’inchiesta sul massacro di
Houla, un’inchiesta che guardi anche alle responsabilità dei ribelli, perché anche loro hanno le loro colpe. E allora Kofi Annan, inviato dell’Onu e della Lega
araba in Siria, ha parlato “francamente”
al rais Bashar el Assad, occhi negli occhi
gli ha detto: rispetta il mio piano di pace! Rispetta quei sei punti che da marzo
tengono sospesa la diplomazia internazionale, quei sei punti che chiedono il
cessate il fuoco e che sono stati accettati dalle parti con cortesia, e poi disattesi. Annan “ha portato il suo punto di vista in termini molto franchi davanti al
presidente Assad – ha detto il portavoce
dell’ex segretario generale dell’Onu – Gli
ha detto che il piano in sei punti non può
funzionare senza passi decisi per fermare la violenza e rilasciare i detenuti, e ha
stressato l’importanza di una completa
implementazione del piano”.
Questa concertazione è l’azione più
importante e coordinata che è stata fatta contro il regime siriano, assieme a varie risoluzioni di condanna e a molte
sanzioni che però non riescono a rinsecchire Damasco. Intanto sono morte 13
mila persone, molte città sono sotto assedio, Teheran manda truppe (l’Iran non
ha vincoli multilaterali, si sa) “per mantenere la calma”. E aspettando il “tourning point” il Wall Street Journal, mai
molto tenero con l’attendismo internazionale, dice che questa è la “Srebrenica di Siria”.
Calciatori, banchieri e società civile
I fatti spiegano che la politica non è un mondo peggiore e separato
L
a versione per cui ci sarebbe una casta politica corrotta in contrasto con
la società civile onesta subisce dure
smentite ora che sono stati arrestati – con
l’accusa di associazione a delinquere finalizzata a truffa e frode sportiva nel calcioscommesse – diciannove esponenti del
maggiore sport nazionale. E’ un gotha di
giocatori, presidenti, esponenti di squadre importanti, mentre si allunga la lista
degli indagati illustri. Il calcio è uno dei
“valori condivisi” della nostra società. E’
in fondo uno specchio in cui volentieri si
riflette la nostra società civile. L’etica
sportiva, persino in un gioco “da gentiluomini giocato da delinquenti” (il calcio secondo Oscar Wilde), è considerata un valore educativo per i giovani e additata come esemplare per tutti. Tanto che anche
i magistrati non disdegnano di gareggiare
come dilettanti contro squadre di attori
e cantanti. Ma barcolla anche un’altra
classe, assai meno pop, della società civile: quella dei banchieri che sempre più
offrono tecnici non contaminati alla politica politicante, a governi ed enti pubblici. Massimo Ponzellini, ex presidente della Popolare di Milano, in precedenza direttore generale di Nomisma, società di
studi di economisti dell’Università di Bo-
logna partecipata da Bnl, poi direttore
generale della Banca europea di ricostruzione e sviluppo, quindi amministratore delegato della Banca europea per gli
investimenti e ad di Patrimonio spa e dell’Istituto Poligrafico e della Zecca, è stato posto agli arresti domiciliari come indagato per appropriazione indebita, corruzione privata e associazione a delinquere. Merita tutte le garanzie, anche morali, che la presunzione di innocenza deve (dovrebbe) riservare a ogni cittadino, e
persino a calciatori e banchieri. Quel che
forse – e non è ovviamente una soddisfazione – meriterebbe di essere messo in
mora, una volta per tutte, è il postulato
mai provato che la società civile e la classe politica siano eticamente diverse. Lo
ha ricordato ieri, e non ha sbagliato, anche il premier Mario Monti, certo miglior
conoscitore del mondo dei banchieri che
di quello dei calciatori. Politica e società
civile fanno parte del medesimo consorzio umano, che è imperfetto ma funziona
in base a regole condivise, non sempre e
da tutti rispettate, a leggi amministrate
da giudici, anche essi umani, e soprattutto grazie alla ricerca di un lecito utile
personale e collettivo. Niente divisioni
antropologiche.
I conti in tasca alla Lagarde
La vita esentasse dei super burocrati e i furbetti di Bretton Woods
Q
uando i tempi si fanno duri è fatale
che cresca l’attenzione verso i pulpiti da cui arrivano certe prediche, a prescindere dalla loro indubbia fondatezza.
Christine Lagarde, direttrice del Fondo
monetario internazionale, intervistata
dal Guardian il 25 maggio aveva detto,
forse troppo bruscamente, qualcosa che
è difficile non condividere, e cioè che i
greci, per cominciare a darsi una mano
da soli, dovrebbero imparare a pagare
le tasse, tutti. Avrà messo in conto qualche reazione risentita – il socialista Venizelos l’ha accusata di aver voluto umiliare il popolo greco, il leader della sinistra radicale, Alexis Tsipras, le ha
mandato a dire che i lavoratori hanno
sempre pagato – ma nemmeno sette gelide righe di precisazione su Facebook
le hanno risparmiato un po’ di conti in
tasca da parte dei blogger di mezzo mondo. E c’è voluto poco a scoprire che, in
quanto funzionario di un’istituzione internazionale, Christine Lagarde non deve pagare un centesimo di tasse sullo stipendio (467.940 dollari annui più altri
83.760 di benefit, soggetti per contratto a
un aumento annuale per i cinque anni
del mandato: più di quanto guadagna il
presidente americano Obama, che però
le tasse sul suo compenso le paga).
Niente di personale: l’ex ministro
delle Finanze francese, anche se volesse “incominciare ad aiutare se
stessa”cosa di cui non si dubita, quelle
tasse non potrebbe pagarle. A proteggerla (e a proteggere tutti i funzionari
incaricati di missioni diplomatiche internazionali) dalle noie fiscali che affliggono i comuni mortali, c’è la Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, firmata nel 1961 da 187 nazioni. Il
testo è chiaro: “L’agente diplomatico è
esente da ogni imposta e tassa personale o reale, nazionale, regionale o comunale”. Pagherà solo le imposte indirette,
le tasse di successione e altre tasse su
imprese commerciali private, su investimenti personali o su redditi diversi da
quelli legati alla sua missione. Durante
la conferenza di Bretton Woods, nel
1944, quando fu creato il Fondo monetario internazionale, erano stati i delegati americani, contro quelli britannici,
a proporre quel vantaggioso status per
le buste paga dei burocrati senza frontiere. L’economista John Maynard Keynes definì “mostruosa” la proposta americana, ma non lo ascoltarono. Che sia
il caso di ripensarci?
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MERCOLEDÌ 30 MAGGIO 2012
L’antirivoluzionario Egitto va sul lettino psico-geopolitico di Doha
Milano. La primavera araba è finita sul
lettino della psicoanalisi geopolitica riunita a Doha per il summit organizzato dalla
Brookings Institution, lo Us-Islamic World
Forum. Quattro giorni di analisi e interventi, per capire dove andrà a finire la grande
rivolta del mondo arabo che dal dicembre
del 2010 sta cambiando un’intera regione.
La domanda più sconcertante riguarda
l’Egitto, l’esito elettorale che ha dimostrato
cha piazza Tahrir, il fulcro della rivoluzione simbolo di lotta per molti altri paesi che
hanno cercato di copiare la grande svolta
egiziana, è stata dimenticata. Non c’è più.
Com’è stato possibile? Neppure gli egiziani
sanno darsi una spiegazione – o forse sarebbe meglio dire i cairoti – e bruciano il
quartiere generale dell’ex premier del
rais, Hosni Mubarak, quell’Ahmed Shafik
che è uno dei due sfidanti del ballottaggio
previsto per il 16 e 17 giugno in quota “feloul”, il termine con cui in Egitto indicano
quel che resta del passato, del regime. L’avversario è l’ingegnere Mohammed Morsy,
rappresentante dei Fratelli musulmani re-
cuperato alla fine quando il primo candidato della Fratellanza è stato eliminato
dalla corsa. L’ascesa di Morsy era prevedibile, per quanto ci siamo illusi che il “moderato” Farouk fuoriuscito dalla Fratellanza (ma era stato in galera con Zawahiri,
nientemeno) potesse avere più consensi.
Ma la presenza al ballottaggio di Shafik è
quasi irriverente: non soltanto la società civile, i candidati spendibili in occidente à la
Amr Moussa, sono scomparsi, ma s’è imposto l’ultimo primo ministro di Mubarak.
Com’è possibile che un paese ristabilisca
democraticamente un regime?
Non c’era bisogno di andare fino a Doha
per sapere che la rivoluzione di Tahrir è rimasta probabilmente nei pressi della piazza e che le grandi aree rurali sono rimaste
legate a una cultura, a leader e a finanziamenti connessi all’ex regime. La rete clientelare creatasi in trent’anni di Mubarak
non è finita con la cacciata del rais, soprattutto in quelle zone in cui si conosce solo
il proprietario delle terre o i personaggi legati alla Fratellanza, che come si sa hanno
una rete sul territorio di welfare di fatto
molto attiva e capillare.
La paura per l’ascesa islamista ha fatto
il resto, assieme al grande terrore di tutto
l’Egitto, che è quello del collasso economico. Come ha spiegato Fouad Ajami sul Wall
Street Journal (la sua delusione si poteva
leggere assieme alle parole), la stabilità è
tutto per gli egiziani, perché garantisce
soldi dall’estero e turismo, e per molti egiziani la stabilità significa regime. Sconcertato, a Doha, era ieri anche Hossam Bahgat, uno dei volti più noti (e più belli, cinguettavano le donne presenti al summit)
della difesa dei diritti umani in Egitto che
cercava di spiegare che un ritorno al passato così forte era davvero imprevedibile
– e non c’è da prendersela con i copti che,
per paura dell’avanzata islamista, hanno
sostenuto l’unica alternativa credibile,
cioè il regime.
L’unico ad avere un tono molto gagliardo è stato il cofondatore di Ennahda, il partito degli islamisti di Tunisia che ha conquistato il potere dopo la caduta del regi-
me, Rachid Ghannouchi. Ha parlato della
transizione riuscita a Tunisi, del ruolo moderato del suo islamismo nella politica,
della necessità di investimenti e del dibattito fuori luogo sul’imposizione della sharia. Le cose, nel sud della Tunisia, non vanno proprio bene su questo fronte – quello
è il mondo dell’islamismo più duro – ma anche nella capitale in molti ambienti si registra ansia sul futuro e sulla capacità di
questa nuova compagine di governo di concludere la transizione in modo da portare
più benessere. Perché il punto di caduta è
lì: gli stati falliti hanno bisogno dell’aiuto
esterno, quindi è meglio non dover dipendere da fuori o al limite dotarsi di questuanti credibili. La Tunisia, per quanto in
bilico su se stessa e sulla sua identità, ha
scelto per ora la prima strada, e Ghannouchi l’ha ribadita con toni quasi paradossali: ma se il confronto è l’Egitto, l’Egitto uscito dalle ultime urne, è facile sembrare i
primi della classe della primavera araba.
Per di più, gli interlocutori erano pur sempre gli americani, invisi certo, ma ricchi.
Compianto dell’uomo curiale, fu tutto e ora è inutile corvo
FELPATO E LENTO REGNO DEI SEGNI, DOVE L’UMANO SOPRAVVIVEVA AL DIVINO. ORA LA CURIA È SOLTANTO UNA BUROCRAZIA
Roma. Fatta la tara su Dio – che certo non
è poca cosa far la tara su Dio, ma del resto
è Dio troppa cosa per simili faccende – forse la necessità della curia (dove “ci si diletDI
STEFANO DI MICHELE
ta anche bevendo aceto”, diceva il carmelitano Marziale), non meno del buono che
può venire da un ragionato atteggiamento
curiale, si può più facilmente comprendere.
Luogo di penombre, dove la realtà si esprime per metà: mezze parole, mezzi gesti,
mezzi sorrisi. Il “sì sì, no no” sarà pure
evangelico, ma è soprattutto un lusso e un
danno – sia il vostro sì anche il vostro no, e
il vostro no possa pure intendersi quale sì.
La mano anellata che si protende molliccia
al bacio, il lieve inchino, quel frusciare di
tonache che si perde lungo infiniti corridoi
– rumore di passi che la suggestione evoca
secolari, e magari sono solo piedi stanchi e
callosi di stanchi minutanti. E’ il regno dei
segni, quello che idealmente dovrebbe rappresentarsi come anticamera del regno di
Dio: chi a quella messa c’è (e su quella recente di Pentecoste, e su certe assenze prima che su certe presenze, è un sordo rumoreggiare tellurico negli anfratti dei Sacri
Palazzi), chi lo sguardo del cardinal segretario ha cercato, quale faccia il Santo Padre
ha provato a evitare. Un piccolo regno di
maschi in parte evanescenti e vanitosi – a
contrastare la stessa etimologia del luogo:
“Co-viria”, adunanza di uomini virili, pensa tu – sospettosi e ambiziosi, chi di sicura
sapienza e chi d’incerta infarinatura. La curia, prima dello scatenarsi degli ultimi mesi, era barca sospesa nei secoli della bonaccia, di rito in rito, di avanzamento in avanzamento. Una sorta di teologia ministeriale
dava un po’ di fiacco vento nelle vele – ma
nessuno di più ne chiedeva e di più non ne
abbisognava: era la barca di Pietro, che da
millenni va (e nonostante tutto va: diceva
quel cardinale a Napoleone che minacciava di distruggere la chiesa: “Si figuri, Maestà, se non ci siamo riusciti noi…”), mica natante da ospitata formigoniana (dove, si dice, c’era pure un altarino: Nostro Signore
dal Golgota a Formentera?). Il sopravvivere lento della e nella curia – gli stessi occhi, le stesse facce, gli stessi riti, antipatie
che passavano da Papa a Papa, e nemmeno
a ogni morte di Papa venivano a cessare. Esserci, ma non troppo. Mostrare il potere, ma
apparire ad esso sfuggente. Avere ambizione, ma l’ambizione con modestia di sguardo negare. Stare in alto, mostrando di desiderare il basso. E’ un filo sottile da tela di
ragno, e tagliente da bisturi chirurgico, il
camminamento che ogni curiale di rango
deve saper percorrere: un equilibrio che il
semplice peso di un’ostia può far precipitare. Far intendere di essere molto diverso
dalla massa, ma nella massa confondersi e
immedesimarsi. Apparire defilati, e intanto
stare in mostra. Spiegava così il cardinale
Ciriaci il suo faticoso sottrarsi: “Ho sempre
amato fare le cose a tempo e luogo, mai per
mettermi in mostra come sovente accade
qui in curia, dove la burocrazia schiaccia la
personalità, tende a costruire gli uomini su
moduli consueti e monotoni”.
C
i voleva uno storico del leninismo come Alain Besançon, grande esperto
delle sue origini e della sua fine, per parlare apertis verbis della Russia di Putin
e del corteo di menzogne e involuzioni
che l’avvolge. Quella che è una delle menti più lucide dell’intellighenzia europea,
fra le non molte ancora in circolazione,
prende le cose da lontano. Cita un saggio
di Karl Marx del 1857, dove l’autore del
Manifesto comunista nota il fascino esercitato dalla Russia in Europa e lo scetticismo “che la segue come la sua ombra,
unendo la nota leggera dell’ironia alle
grida dei popoli agonizzanti, prendendosi
gioco della vera grandezza della potenza
russa come di un atteggiamento preso da
un istrione per colpire e ingannare”. La
Russia, spiega Marx lungimirante, è l’unico esempio nella storia di un immenso
impero che, dopo aver conseguito risultati su scala mondiale, continui a essere
considerata una questione di fede. Il fatto è, chiosa Besançon senza indulgenza,
che l’occidente è sempre stato attratto
dalla Russia, ma ne ha sempre avuto paura. Ha cercato di farla entrare nel suo
mondo e ha tentato di espellerla, ma nei
due casi ha fallito. Per capire perché, bisogna allora cercare di spiegare cosa significhi essere russi, qual è il destino della Russia nella storia universale. Questione non banale, da Puskin a Solgenitsin assilla la letteratura russa, e dopo il crollo
del bolscevismo continua ad animare i
Era la monotonia una delle forze della
curia. La noia, la ripetizione compulsiva, i
soliti sospetti, un’immobilità di pietra quasi a volersi confondere con la Pietra su cui
tutto si regge – elementi che per un mal-
presentò così il Vaticano ai suoi parenti,
“saturo di grandi pensieri e di piccoli pettegolezzi”), da tanti cardinali, da semplici
preti sotto ogni latitudine (“Vedo una corte di intrighi”, ha detto don Vinicio Albane-
Luogo di penombre, dove la realtà si esprime per metà. Luogo di qualche
peccato, di molte eccellenze, di alcune miscredenze. Stessi riti, antipatie
che passavano da Papa a Papa. Ma oggi servirebbe un quaresimalista a
“raccomandare la velocità nell’udire e la tardanza nel parlare”
pensante potrebbero avere il peso delle cose morte, e per un disciplinato fedele quello dell’eternità. E magari inaspettatamente qualcosa succede, “nella curia molte cose possono accadere tra bocche e bocconi”,
un sospiroso stupore di fondo – un
eminentissimo scambiato per un eccellentissimo, oh Signore! – per poi far nuovamente calare il sipario, e un guizzo
ancora per quel tale
monsignore a sorpresa
nominato
“protonotario apostolico soprannumerario”. Tanto,
come diceva il
cardinal Tardini,
“in Vaticano si
muore solo di indigestione”. E il
ritmo identico
riprende, e il
sussurro si rifà
inascoltabile,
e un velo a coprire
gli
sguardi. Disse Paolo VI
ai giornalisti:
“Noi siamo
difficili. Ma
voi
dovete
leggerci. Dovete penetrare questo alfabeto poco noto,
così come bisogna leggere i geroglifici per capire
una piramide egizia…”. Era il Papa che parlava così – e della sua chiesa parlava. Figurarsi la curia, i
malfermi rematori che dovrebbero tenere
a galla l’apostolico naviglio. Recita il decreto “Christus Dominus”, approvato dal
Concilio, che “nell’esercizio della sua suprema, piena e immediata podestà sopra
tutta la Chiesa, il romano Pontefice si avvale dei dicasteri della Curia romana, che
perciò compiono il loro lavoro nel suo nome e nella sua autorità, a vantaggio delle
Chiese e dei sacri pastori” – e a leggere le
cronache odierne, viene da pensare che sta
messo bene, il sant’uomo. La Curia romana
– pur guardata con sospetti da non pochi
Papi (sempre Paolo VI, appena eletto rap-
LIBRI
Alain Besançon
SAINTE RUSSIE
Editions de Fallois, 164 pp., 17 euro
centri di ricerca americani. A essa se ne
aggiunge un’altra che riguarda più direttamente la Francia e i prismi deformanti
che i francesi dall’epoca della gauche giacobina hanno sempre proiettato sulla
Russia. Qui lo storico del bolscevismo ritrova le passioni che per decenni hanno
intrattenuto l’inganno, alimentando un
abbaglio imposto con la stessa complicità
dei russi. “L’art du mensonge”, infatti, è
consustanziale alla grande Russia, ricorda Besançon con Jules Michelet, lettore
di Custine, il primo denunciatore dei finti villaggi eretti dagli zar per ingannare
l’occidentale. La verità è che i russi nascondono il fallimento mentendo anche a
se stessi, oltreché agli stranieri. Poi compensano con la purezza, l’ortodossia, la
spiritualità, la grande anima russa, disprezzando vieppiù l’Europa, materialista
e meschina. Il comunismo, in questo senso, è stata solo l’ultima variazione della
menzogna classica dei russi, estesa all’u-
si), ha per secoli svolto il suo compito – di
sala macchine, si potrebbe dire, della parola di Dio: un po’ macchinisti e un po’ teologi, un po’ vivandieri e un po’ spirituali, chi
magari faceva la cresta sul carburante del
celeste manufatto e chi donava ai poveri ciò che
possedeva. Nel suo miscuglio, nel suo prolungato
silenzio,
nella sua esasperante lentezza –
aveva una grandezza che l’ha
preservata nei
secoli. Che ne ha
fatto un luogo di
qualche peccato,
di molte eccellenze, di alcune miscredenze.
Tutto si sommava
e si teneva, il grosso
scandalo e i piccoli
vizi, la pericolosa
eresia e la vanità
ciarliera di un
monsignore, le
antipatie e gli
odi con bell’ipocrisia sfumati
e sterilizzati.
Come
la
“Pleasantville” del
film, tutto
pareva tenue
e
sfumato,
rassicurante
bianco e nero –
poi, come al cinema, una crepa si apre,
un’altra, un’altra ancora, irrompono
voci e colori e (qualche) verità: ché ovviamente non necessita la curia di verità, considerando bastevole quella iniziale, tutto il
resto trova accomodamento. Persa la sua
sacralità – il corvo al posto della bianca colomba, il maggiordomo invece del filosofo
marxista, quelle lettere a Ratzinger che sono per buona parte eccellenti pettegolezzi:
che magari si fosse trattato solo dell’anticristo! – finita sulla bocca di tutti, e da molti irrisa, la curia rischia di perdere adesso
ogni sua funzione.
Era un piccolo mondo antico che ha trovato consacrazione in tanti libri – con malizia da sacrestia, il più delle volte, umorismo da dopo oratorio, oppure in certi volutopia realizzata e alla pseudorealtà dell’ideologia, volendo fare credere nel successo della crescita e della prosperità, senza vedere che il progetto sovietico non era
affatto economico. Crollato il comunismo,
la Russia ha ritrovato l’esercito, la bandiera, ha ricostruito chiese, monasteri,
palazzi reali, diversamente dalla Francia
che li ha lasciati andare in rovina. Perché
la Francia ha accettato la rivoluzione e la
nuova società fondata sulla libertà e l’eguaglianza nata con essa, mentre la Russia nulla ha potuto salvare dell’utopia
realizzata, visto che la rivoluzione si è risolta in un’immensa tabula rasa, insiste
Besançon, riprendendo la tesi di
François Furet. In compenso, però, si è
aperta al rock, all’arte concettuale, alla
psicoanalisi, alla moda, per darsi un volto occidentale. Solo che, con tutte queste
aggiunte, la menzogna, anziché scomparire, si è fatta solo più profonda e inestricabile. Nasce da qui, per Besançon, l’inattendibilità del regime di Putin, che vuol
fare credere di essere patriottico, di aver
fede in Dio, di volere un paese libero e
prospero, di legittimarsi col suffragio universale e con lo stato di diritto. Mentre i
russi sanno benissimo che questo è solo
il linguaggio strumentale dei nuovi padroni, degli “siloviki”, detentori della forza,
che per non esserlo avrebbero dovuto favorire la damnatio memoriae dell’idea
comunista, accettando di essere “born
again”, come i tedeschi dopo il nazismo.
mi dove il veleno pareva correre più del
vin santo – e in particolare in quel capolavoro che sono i diari di Benny Lai, “Il mio
Vaticano”: dove per centinaia e centinaia
di pagine è la vita quotidiana a scorrere
lungo i decenni, rancori e sofferenze, stupidità e grandezze, miserie e comicità. “I
monsignori romani amano le disquisizioni
eleganti come amano le pantofole, le une e
le altre segno di tranquillità”. Un curiale
soffre di cose di cui nessun altro al mondo
soffrirebbe mai – in un mondo di segni, l’assenza di quei segni turba e fa smarrire l’orizzonte. “Qui di maldicenze ne abbiamo a
bizzeffe”. Un vuoto abbaiare alla luna,
troppe volte. “I monsignori curiali, soprattutto quelli chiamati ‘turiferari d’ufficio’,
hanno la vocazione delle mezze parole e
dello sguardo furtivo. Se si pongono loro
domande precise e dirette tolgono il saluto”. In pieno Concilio, i vescovi stessi cominciarono (cristianamente) a mirare sul
quartier generale: “Il potere della curia deve finire. Il mondo s’avvia verso la democrazia e la nostra vita è regolata ancora su
concetti di assolutismo, di dipendenza…”.
Come dicevano i prelati conservatori dopo
le innovazioni liturgiche di Papa Paolo –
che dalla curia bandì orpelli spagnoleggianti, guardie nobili, residuati vari – e come forse adesso è più vero che mai, “il toro gira impazzito nell’arena”, fosse pure
corvo, stavolta. Qui chissà se si salva il papato, figurarsi se il problema è la sopravvivenza della curia – che il dirne male, in fondo, è un genere letterario secoli prima di
Dan Brown. E’ pure la “Roma senza papa”
di Guido Morselli (dove un monsignore dà
perfetta descrizione della curia, “finendo
di essere una corte per ridursi a una burocrazia, la Santa Sede ha perso in splendore senza guadagnare in precisione”), l’invocazione pasoliniana al pontefice perché vada “a sistemarsi in clergyman, coi suoi collaboratori, in qualche scantinato di Tormarancia o del Tuscolano”. Un quaresimalista
perenne, servirebbe. Sarà duro risalire agli
antichi stupori, con la curia che pareva immensa da fuori e poi piccola da dentro – e
ora piccola e maldicente appare vista da
dentro, e forse ancor più vista da fuori,
smarrita dell’antico insegnamento del panegirista Danelli, “il raccomandare la velocità nell’udire e la tardanza nel parlare”. I
silenzi parevano sfiorare l’eternità – beghina, credulona: sia pure; lo scrivere, il parlare, il trafficare la cronaca, persino nera.
La grandezza della razza curiale forse è andata perduta per sempre. Fuori dalla cittadella alabardata di guardie svizzere, non se
ne trova più traccia: della curialità grandiosa e micidiale dei democristiani, nella
curialità grandiosa e micidiale dei vecchi
comunisti. In una sgangherata estetica che
va dalla Sistina a certa mobilia orrenda anni Settanta, poltroncine in similpelle, croste devozionali alle pareti. E gendarmeria
e celle e sospetti. Troppo umani, così hanno smesso di essere buoni curiali – smesso
sapienza e cinismo e misura. Una gran perdita: come passare da Letta a Catricalà. E
Dio, si diceva, è troppo per entrare in così
poco.
IL FOGLIO
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ANNO XVII NUMERO 127 - PAG 4
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MERCOLEDÌ 30 MAGGIO 2012
La Giornata Benedetto XVI, un Papa indispensabile anche oltre sé stesso
* * *
In Italia
ANCORA TERREMOTO IN EMILIA.
QUINDICI MORTI E DODICI DISPERSI.
Nuove scosse ieri: prima alle 9 del mattino
con epicentro nella provincia di Modena,
poi ancora alle 12 e 56 e alle 13 e 01, queste avvertite a Milano, Firenze e Genova. Il
conto delle vittime è in continuo aggiornamento: dodici al momento in cui questo
giornale va in stampa, quindici i dispersi,
circa 14 mila gli sfollati. Gravi danni alle
infrastrutture industriali e civili. E’ crollato il duomo di Mirandola. Il premier Monti ha garantito “soccorsi da subito” e ha attivato la ricerca urgente di fondi straordinari per le zone colpite. Indetto il lutto nazionale per il 4 di giugno.
* * *
Arrestato Massimo Ponzellini, ex presidente Bpm. Contestate mazzette per 5,7 milioni di euro. Coinvolto Marco Milanese, deputato Pdl, ex collaboratore di Tremonti.
Editoriale a pagina tre
* * *
Monti suggerisce di fermare il calcio. Il
premier ha commentato lo scandalo che ha
portato a diciannove arresti: “Andrebbe
fermato il campionato per due o tre anni”.
Articoli nell’inserto I
* * *
Borsa di Milano. FtseMib +0,3 per cento.
Differenziale Btp-Bund a 441 punti. L’euro
ha chiuso in ribasso 1,2 sul dollaro.
Nel mondo
ESPULSI DIPLOMATICI SIRIANI DA
MOLTI PAESI OCCIDENTALI. Italia, Stati
Uniti, Francia, Regno Unito, Francia, Germania, Australia, Spagna, Canada hanno
espulso i diplomatici siriani sul loro territorio come condanna per la strage di Houla. L’inviato dell’Onu e della Lega araba,
Kofi Annan, ha avuto un colloquio con il
rais siriano Assad, riferendo la grande
preoccupazione internazionale, l’indignazione sul recente massacro e chiedendo
“passi decisi” nell’applicare il piano di pace a sei punti voluto da Annan.
Editoriale a pagina tre
* * *
Ucciso leader di al Qaida in Afghanistan.
In un attacco aereo avvenuto domenica nella provincia orientale di Kunar è stato ucciso dalle forze della Nato Sakhr al Taifi,
comandante responsabile degli attacchi alle forze della Nato.
* * *
Primo viaggio all’estero per Suu Kyi. Per
la prima volta in 24 anni, la neoeletta nel
Parlamento birmano e premio Nobel Aung
San Suu Kyi è uscita dal suo paese. E’ arrivata ieri in Thailandia.
CDB politics
Vi piacerebbe Zagrebelsky alla
Giustizia? “No” dai duri del giro
di Bersani. E poi il solito Saviano
(segue dalla prima pagina)
Dunque grande successo di pubblico dentro il Pd, malgrado il rottamatore fiorentino
Matteo Renzi dica che “così il Pd abdica alla sua vocazione che è maggioritaria”, e malgrado i cosiddetti “giovani turchi” diessini, i
solidi socialdemocratici come Stefano Fassina e Matteo Orfini, siano pronti a fare le barricate alla sola idea di candidare Gustavo Zagrebelsky al ministero della Giustizia, Umberto Eco alla cultura, Roberto Saviano agli
Interni: il governo delle élite che – come teorizzano a Largo Fochetti – devono ritrovare il
senso della loro responsabilità e smetterla di
esitare. “Candidare Zagrebelsky non sarebbe diverso dal candidare Iva Zanicchi”, dice
Orfini, insomma: se c’è da prendere forze dal
mondo intellettuale di sinistra, lo faccia il Pd
medesimo rinnovando la sua rappresentanza senza delegare questa scelta a un grande
gruppo editoriale (una specie di partitoazienda berlusconiano, ma di sinistra). E poi
un dubbio che avvelena: che succederebbe
se il listone dovesse raccogliere più voti del
Pd o del segretario? I più scettici non ci vogliono nemmeno pensare. Ad addensare nubi e sospetti c’è anche il fatto che Bersani
non sarebbe affatto contrario a una galassia
della società civile che riunisca tutte, ma
proprio tutte (persino i comunisti di Paolo
Ferrero?) le anime della sinistra, una cosa
che possa riproporre il grande schema della
(sfortunata, ma forse solo perché c’era Silvio
Berlusconi) gioiosa macchina da guerra di
Achille Occhetto: tutti dentro, compresi Vendola e Di Pietro. Nessun nemico a sinistra e
nessun nemico in procura, come nella migliore tradizione del polo riformista. Eppure Bersani avrebbe qualcosa da temere, se è
vero, come forse è vero, che la simpatia veltroniana per il listone di De Benedetti non
deriva soltanto dall’amicizia personale di
Veltroni (che fa anche il vicepresidente impegnato dell’Antimafia) per il giovane scrittore-idolo Roberto Saviano, ma anche dall’idea che l’autore del romanzo docu-fiction Gomorra, campione di ascolti televisivi e unto
del sacro olio della legalità, non avrebbe alcuna difficoltà a far apparire stravecchi Bersani, il suo mezzo sigaro e la sua grisaglia da
segretario di partito.
Al direttore - Due giugno… Intanto, attestiamoci sul giorno per giorno.
Maurizio Crippa
Al direttore - No, stavolta no… Non sono
d’accordo con lei: il Papa è Papa fino alla
morte e tale deve restare, altrimenti verrebbe
meno la sua fiducia nello Spirito Santo, quello Spirito che lo ha scelto al timone della barca di Pietro e che lo sostiene e lo sosterrà lungo tutto il suo magistero. Gli strumenti del cristiano non sono quelli del mondo: il cristiano
combatte con le armi di Gesù, che è “mite e
umile di cuore” e con quelle deve “vincere il
mondo”. Cosa dobbiamo chiedere di diverso al
Papa, che è il dolce Cristo in Terra? Benedetto XVI è stato scelto (e non dall’uomo) per
questo tempo di lotta ed è stato scelto così, per
quello che è sempre stato e per quello che è
ora, nella sua vecchiaia: i motivi di Dio non
sono i nostri e non è detto che dobbiamo per
forza capirli o condividerli. Karol il Grande è
rimasto tale nella malattia, Benedetto il Mite
resterà grande sul Soglio, fino alla fine, senza
cedere al timore di quelle “nubi minacciose”,
che fin dal principio egli ha visto all’orizzonte, accettando tuttavia l’incarico senza tirarsi indietro e rinunciando al sogno dell’eremo,
che da tempo accarezzava (almeno così si dice). Questo egli deve ai suoi fedeli, per mante-
nere salda la loro fede e per permettere loro di
continuare a credere, malgrado gli eventi, che,
davvero, le tenebre non prevarranno.
Silvia Simonotto
Il Papa in persona ha dichiarato a Peter
Seewald in un libro recente, Luce del mondo, che non è solo diritto ma anche dovere di un Pontefice, in certi casi riguardanti la sua condizione fisica o spirituale, considerare la rinuncia. Nessuno è più papista di me, con tutta la modestia minima
del ruolo, e il mio sogno ha un senso solo
come metafora amichevole di un sogno
tutto e solo ratzingeriano. Sono anche papocentrico, e credo che l’abiura, la successione, la convivenza di due carismi in un
tempo come questo, sarebbero l’unica
riforma e modernizzazione possibile per
una chiesa cattolica la cui salute mi sta
Alta Società
Gran party sull’Appia antica per il
compleanno della contessa Marina Cicogna. Cinema, arte, politica, giornalismo: il meglio del meglio. Cin cin e
auguri.
molto a cuore. Quando Giovanni Paolo II
gemeva, scrissi il contrario, ma quello era
un gemito corale, una testimonianza spirituale fortissima; ora è diverso, ora si deve
chiudere quel pertugio attraverso il quale penetra quel famoso fumo. E solo il Papa può farlo credibilmente con un atto di
coraggio e una fuga in avanti che sono tipici del suo stile e, secondo me, del suo desiderio profondo. Partorire un papato più
forte contro le porte degli inferi: la grande
sorpresa papale.
Al direttore - Ho ascoltato il suo sogno o suggerimento riguardo al Papa. Il sogno di un Papa forte, sanguigno come fu Giovanni Paolo II.
Mentre Benedetto XVI appare un uomo timido di fronte ai venti contrastanti che scuotono le faccende pratiche dello stato Vaticano.
Ma, come anche lei sa bene, questo Papa è di
una forza e intelligenza culturale e religiosa
che ha pochi uguali. Perciò a me pare giusto
che i suoi discorsi e le sue lettere, di estrema
importanza per la società e la cultura attuale, vengano scritte da Papa. Non mi importa
niente se il Vaticano è pieno di spie; forse lo
sarà sempre. Mi importa che il Papa sia una
guida spirituale di spessore immenso come
questo Papa.
Paolo Tamborini
Se è per l’amore e la stima di Benedetto
XVI, sono io che abiuro ogni cosa, altro che.
Al direttore - Adesso però non si creda che
a Rignano non ci siano streghe e indemoniati. Tali in effetti erano, e molti di loro sono ancora, tutti i soci della delirante congrega che
ha scatenato il caso. Ossia tutti i denunciatori, accusatori e persecutori della sinistra vicenda, tutti poveri ossessi decisi ad affibbiare a
quelle povere maestre il compito di realizzare
le proprie perverse e triviali fantasie di paranoici affetti da inconscia pedofilia.
Ruggero Guarini
Torneremo ad occuparcene sabato con la
fatica del magnifico Claudio Cerasa. Non
credo saremo altrettanto freudianamente
cattivi quanto lei è, caro Guarini. Sta di fatto che mi è difficile darle torto. Ho ancora
in mente l’eco di assemblee da sabba delle streghe, di cacce all’uomo nella più dispiegata fantasia, di relazioni e testimonianze anche televisive di esperti che venivano a Otto e mezzo a prosternarsi di
fronte alla dea della Fama pubblica, in
perfetta sintonia da esperti psicologi e consulenti di giustizia con il paese della diceria e della calunnia. Ma faccio anche il nome: Luigi Cancrini.
Samaras richiama persino l’odiata Dora pur di compattare la destra greca
C
e la deve fare, in queste elezioni del 17
giugno, il leader di Nuova democrazia
(centrodestra) Antonis Samaras. Ce la deve fare a diventare premier, altrimenti la
sua leadership subirà un duro colpo. Già
una volta, all’indomani della batosta delle elezioni di maggio, l’ha scampata bella.
Ora è la resa dei conti. Per farcela, infatti,
Samaras ha aperto le porte del suo partito verso tutti i dissidenti dell’area di centrodestra. Ed è arrivato al punto di accogliere di nuovo nelle sue file la sua grande rivale, in lite perenne fin dal lontano
1992, Dora Bakoyannis, esponente di punta della dinastia cretese dei Mitsotakis, ex
ministra degli Esteri negli ultimi governi
di centrodestra. La Bakoyannis, assolutamente non amata dall’elettorato di centrodestra, a maggio non è riuscita a far entrare in Parlamento il suo partito, chiamato
Alleanza democratica. L’offerta di Samaras è per lei manna dal cielo. Ma per Samaras è stata un’umiliazione. Tanto più
che con la Bakoyannis, oltre ai contrasti
personali, ci sono serie divergenze politiche. Alleanza democratica è infatti espressione di punta della corrente liberista del
centrodestra e ha sempre sostenuto le mi-
sure di austerità della troika.
Egualmente problematico è stato l’allargamento di Nuova democrazia verso il partito di estrema destra Laos, anche questo
rimasto fuori dal Parlamento. In questo caso ci sono stati drammi familiari. L’ex deputato di Laos Athanasios Plevris (assieme
con altri tre ex deputati) ha aderito al partito di Samaras, provocando la furiosa reazione del leader di Laos, Georgios Karatzaferis. Il quale, per tutta risposta, ha candidato il padre di Athanasios, Kostas Plevris,
l’ex delegato dei colonnelli ai rapporti con
l’estrema destra italiana all’epoca dello
stragismo, autore di opere apologetiche di
Hitler e di libelli antisemiti. L’uomo giusto
quindi per ribadire la natura neofascista
del partito e frenare l’emorragia di voti
verso Alba dorata.
In questa campagna elettorale, Samaras
ha dovuto per la prima volta scontrarsi non
con gli avversari di sempre, i socialisti del
Pasok, ma con la Sinistra Radicale di Syriza. Ha scelto di puntare su due cavalli di
battaglia, entrambi deboli. Il primo era
quello di attaccare frontalmente Syriza: sono “incompetenti”, sono “irresponsabili”,
sono al servizio del “partito della dracma”.
Il leader di centrodestra ha perfino rispolverato la vecchia retorica anticomunista,
considerata universalmente di cattivo gusto. Il risultato è stato un boomerang: più
Samaras attaccava Alexis Tsipras, più il
leader di Syriza guadagnava voti. Finora
tutti i sondaggi danno una differenza che
rientra nell’ambito del possibile errore
statistico: si lotterà fino all’ultimo voto. Alla fine persino il giornale conservatore
Kathimerini ha sentito il bisogno di segnalare al leader del centrodestra di cambiare tattica.
Il secondo cavallo di battaglia era quello di puntare sulla “serietà” e la “credibilità” della sua leadership. Ma anche qui
l’effetto boomerang stava in agguato: Samaras fin dal 2010 si era opposto strenuamente alle misure di austerità, salvo convertirsi alle “esigenze superiori” nell’ottobre scorso, ponendo (a malavoglia) la sua
firma sotto il memorandum 2, ancora più
duro del primo. Queste piroette non gli
hanno certo fatto guardagnare credibilità
tra i leader europei, costretti a scegliere
tra il male minore.
In favore di Samaras gioca il fatto che
lui aveva da sempre sostenuto la necessità
di rinegoziare i memorandum imposti dai
creditori della Grecia, suscitando a suo
tempo i commenti ironici dell’ex premier
socialista Papandreou, convinto che non
ci fosse alcuno spazio di contrattazione (e
infatti, lui non ci ha neanche provato a
trattare, come si è scoperto soltanto di recente).
Nel caso in cui le urne diano la vittoria
a Nuova democrazia, ci sarà sicuramente
una rinegoziazione seria con la troika, anche se Samaras non ha voluto specificare
quali saranno i punti su cui insisterà maggiormente. Il suo sarà un governo di coalizione, nel quale è certa la partecipazione
del Pasok (“Qualunque sarà il nuovo governo, noi saremo dentro”, ha assicurato il
leader socialista Evangelos Venizelos) e
forse anche dei dissidenti ora raggruppati
nei Greci indipendenti. Queste due formazioni avranno il compito di moderare le
spinte liberiste dentro Nuova democrazia
e aiutare il nuovo premier a imporre il suo
profilo di una destra “rinnovata” e di “ispirazione popolare”. E salvare così agli occhi dei greci l’onore perduto del vecchio
bipartitismo.
Dimitri Deliolanes
La fine dell’euro è certa, ecco una guida per far sopravvivere l’Europa
I
n ogni crisi economica arriva il momento della chiarezza. In Europa presto milioni di persone si sveglieranno e realizzeranno che l’euro per come lo si conosceva
DI
TRA VIRGOLETTE
PETER BOONE E SIMON JOHNSON*
è finito. Il caos economico li aspetta” (…).
“Alcuni politici europei adesso ci dicono
che un’uscita ordinata della Grecia dall’euro è fattibile alle condizioni attuali, e
la Grecia sarà l’unica ad andarsene. Sbagliano. L’uscita di Atene è solo un altro
passaggio in una catena di eventi che porta a una caotica dissoluzione dell’Eurozona. Se la Grecia abbandonerà l’euro nei
prossimi mesi, il suo governo non potrà ripagare circa 300 miliardi di euro in obbligazioni detenute all’estero, inclusi circa
187 miliardi di euro prestati dal Fondo monetario internazionale e dalla European
Financial Stability Facility (Efsf)”. Ma soprattutto (…) “Atene farà default su 155 miliardi di euro di bond direttamente dovuti al sistema dell’euro (compresa la Banca
centrale europea e 17 Banche centrali dell’Eurozona)”.
“Il ministro delle Finanze polacco, Jacek
Rostowski, recentemente ha ammonito che
la tragedia di un default greco sfocerà probabilmente in una fuga dalle banche e dal
debito sovrano degli stati periferici, e ciò –
per evitare ulteriori tragedie – richiede che
a tutti gli altri membri siano assicurati fondi illimitati per almeno 18 mesi. Rostowsky
avverte peraltro che la Bce non è pronta a
mettere in atto un tale firewall, e non c’è altro ente che abbia la capacità né la legittimità di fare ciò” (…). “Siamo d’accordo: una
volta che sarà chiaro che la Bce ha già assunto troppi rischi, è molto improbabile
che essa cominci a conferire fondi illimitati a tutti i governi che si trovino sotto pressione sul mercato dei bond. Lo schema greco di austerità-caos-default si ripeterà probabilmente altrove” (…).
“La fine dell’euro andrà così: la periferia
dovrà patire recessioni anche peggiori –
mancando gli obiettivi della troika – e i
suoi debiti diventeranno ancor più evidentemente ingestibili. L’euro scenderà significativamente rispetto alle altre valute, ma
in un modo che non renderà l’Europa più
attrattiva per gli investimenti”. Altre conseguenze: “Si capirà che la Bce ha perso il
controllo della politica monetaria; il mondo non riterrà più l’euro una moneta sicura; gli investitori piuttosto scapperanno dai
bond dell’intera regione, e persino la Germania avrà difficoltà a finanziarsi a tassi
ragionevoli. Infine, i contribuenti tedeschi
si accolleranno un’inflazione inaccettabile
e apparentemente incontrollabile” (…).
“La soluzione più semplice per la Germania sarà di abbandonare lei stessa l’euro, portando gli altri paesi a seguirla. La responsabilità tedesca dei passati conflitti e
il timore di perdere i benefici di 60 anni di
integrazione europea rimanderanno certamente l’inevitabile”. Ma rimandando l’inevitabile “le conseguenze saranno molto più
devastanti dato che i debiti saranno più ingenti e l’antagonismo più intenso. Un
break-up disordinato dell’Eurozona sarà
molto più dannoso per l’economia globale
della crisi del 2008. Il ricco mercato finanziario e bancario europeo che include 185
trilioni di dollari in derivati denominati in
euro, finirà nel caos e ci sarà una vasta fuga di capitali verso gli Stati Uniti e l’Asia”.
(…) “E’ quasi scontato che un vasto numero di pensionati e proprietari di case perderanno direttamente i risparmi di una vita o se li ritroveranno erosi dall’inflazione”. “Quando le nazioni entrano in crisi,
inizia lo scaricabarile delle responsabilità” (…). “L’euro genera disoccupazione e
recessione in Italia, Grecia, Portogallo, e
Spagna. Non possiamo accusare i politici
greci corrotti di tutto questo. E’ tempo per
i rappresentanti europei e del Fondo monetario internazionale (…) di lavorare allo
smantellamento dell’Eurozona (…)”. Servo-
no piani concreti: “Introduzione di nuove
monete, gestione dei default multipli, ricapitalizzazione delle banche e dei gruppi assicurativi”.
Le grandi conquiste da salvare
Soprattutto, “l’Europa ha bisogno di salvare le sue grandi conquiste, tra cui il libero movimento di persone, capitali e lavoro
nel continente, ma contemporaneamente
uscire dal colossale errore della moneta
unica. Sfortunatamente per tutti noi, i nostri politici rifiutano di fare ciò – odiano
ammettere i loro errori e la loro incompetenza passata, e in ogni caso il lavoro di
coordinare diciassette nazioni alle prese
con il crollo di questo sistema valutario è
forse fuori dalla loro portata. Dimentichiamoci di un salvataggio sotto forma di G20,
G8, G7, di un nuovo Tesoro europeo, dell’emissione di Eurobond, di un piano di condivisione dei debiti sovrani, o altre favole
della buonanotte”. Adesso, “siamo ognuno
per conto proprio”.
*Simon H. Johnson è professore di Economia al Mit di Boston. E’ stato capo economista al Fondo monetario internazionale. Peter Boone insegna alla London
School of Economics. L’articolo, tradotto
da Michele Masneri, è tratto dal blog “The
Baseline Scenario”.
Visco ha un approccio “laburista” alla crescita. Quanto oserà sulla Bce?
(segue dalla prima pagina)
Ebbene, la speranza non si è realizzata.
Lo spread è sceso dai 575 punti base della
seconda settimana di novembre a 278 nel
marzo scorso, per risalire poi a quota 400.
Ciò significa tassi sui prestiti al 6 per cento e oltre. Con una recessione peggiore del
previsto, lo stesso pareggio del bilancio diventa incerto. Tutto questo al netto della
bomba greca. Se dopo le elezioni del mese
prossimo davvero la Repubblica ellenica
dovesse lasciare l’euro (e forse la stessa
Unione) l’effetto domino sarebbe disastroso. Come è avvenuto con Lehman Brothers.
E la Ue non ha porte tagliafuoco abbastanza efficaci. Lo ha ricordato ieri Marco Onado sul Sole 24 Ore: “Pochi giorni fa Draghi
ha chiesto alla politica europea di fare un
coraggioso balzo in avanti. Il contrasto con
i risultati ottenuti è imbarazzante”.
Ciò indurrà Visco a spingere il piede sulla fase due. Chi voglia sapere come, deve rileggere quel che ha detto il 7 marzo durante un convegno sulle donne: “Il mantenimento del livello di vita raggiunto nel no-
stro paese, richiede che si innalzi l’intensità del capitale umano e riprenda a crescere la produttività totale dei fattori. Non
può non richiedere che si lavori di più, in
più e più a lungo. Non si tratta di uno slogan, ma di un percorso inevitabile, da affrontare con determinazione, anche se con
la gradualità necessaria”. Le riforme del
mercato del lavoro sono primi passi. Il governatore ne sottolinea l’impatto doloroso,
soprattutto per il drastico taglio alle pensioni. Ma si deve andare più avanti, riducendo le resistenze degli anziani e dei garantiti per aprire spazio ai giovani e per assicurare una continuità nella propria vita
lavorativa. Se arriva una nuova tempesta
l’Italia si salva solo con un balzo in avanti.
Nel giudizio sulla crisi, Visco rifiuta i
luoghi comuni. “In realtà si scopre che non
sono gli hedge fund, ma le banche a causare la crisi – ha detto a Minoli – E si scopre che la crisi non nasce in America, ma
dalle banche tedesche che investono nei
mutui subprime. Tra finanza e politica non
credo che abbia vinto la finanza. I danni ci
sono stati e sono dovuti al fatto che c’è un
cambiamento straordinario”. E ancora:
“La finanza non ha mai contato più dei popoli. I re d’Inghilterra si finanziavano dai
banchieri fiorentini: loro ci sono ancora,
gli altri non più”. Tuttavia, la frattura con
la produzione di merci a mezzo di merci va
colmata e questa ricomposizione passa attraverso le banche. “Il sistema italiano è
solido – ha spiegato il governatore – Per le
nostre maggiori banche il rapporto tra il
totale delle attività di bilancio e il patrimonio di base è inferiore a 20 a fronte di
una media di 33 per i principali gruppi europei”. Ma il panorama è tutt’altro che roseo. Molte delle fusioni realizzate negli anni scorsi non hanno funzionato o si sono rivelate un disastro, vedi Monte dei Paschi
e Antonveneta. I capitali sono ancora troppo pochi. Il rapporto con i clienti era migliore ai tempi degli Strozzi. Le banche acquistano tanti titoli di stato e ciò spiazza il
credito a imprese e famiglie. La stretta esiste, lo ha dichiarato anche Visco il quale
ammette che “c’è una insofferenza e biso-
gna tenerne conto”. Il governatore incoraggerà, naturalmente, le innovazioni monetarie di Draghi che hanno salvato le banche.
Arriverà fino al punto da chiedere che la
Bce diventi a tutti gli effetti un prestatore
di ultima istanza per i governi? “Stiamo
imparando anche sul campo a fare i banchieri centrali”, ammette Visco. E oggi l’analisi specifica della situazione specifica,
richiede di abbandonare antiche ossessioni e dogmi senza più fondamento. C’è una
massa di moneta liquida incontrollabile, i
derivati superano di sette volte quel che
produce in un anno il mondo intero. Quando scatta l’attacco, nessuno è immune. Ma
il dollaro è un superbombardiere, l’euro
un drone disarmato. Sarebbe importante
se la Banca d’Italia offrisse con chiarezza
il proprio contributo nel costruire un nuovo paradigma monetario. La Bundesbank
non ha paura di sventolare la bandiera
dell’ortodossia. Perché un economista di
alto rango come Visco non dovrebbe issare
il vessillo riformatore?
Stefano Cingolani
to del costo lavoro del primo anno e fino al
20 per cento del secondo anno”. Il tutto richiede una copertura di 840 milioni di euro
per tre anni, stimando 60 mila posti di lavoro “incentivati”: “Ma entro tre anni, tra maggiori contributi versati e valore aggiunto
complessivo per il comparto – dice Clini – i
costi per lo stato sarebbero azzerati”.
Al ministero dell’Ambiente, inoltre, già
circola una bozza di credito d’imposta mirato per “le attività di ricerca e sviluppo svolte nell’ambito dei settori ambientali con
particolare riferimento a chimica verde, ac-
cumulatori di carica elettrica e impiantistica/componenti per le fonti energetiche rinnovabili, per l’efficienza energetica”. L’occasione per far approvare questa seconda misura dovrebbe essere la riorganizzazione
più complessiva di tutti gli incentivi alle imprese, dossier sul quale Monti ha chiamato
a collaborare anche Francesco Giavazzi,
bocconiano ed editorialista del Corriere
della Sera. Il rapporto di Giavazzi dovrà arrivare entro la fine di giugno, ma per allora
Clini avrà già presentato la sua proposta,
ispirata a una filosofia condivisa da tutto l’e-
secutivo: “I soldi pubblici alle imprese non
vanno erogati con procedure infinite e discrezionali”. Il tempo dell’“assistenzialismo” è finito, non solo per necessità di spesa ma anche per conclamata inefficacia:
“Meglio seguire quanto accade nei paesi
driver della crescita mondiale, come la Cina
che investirà 50 miliardi di euro l’anno per
i prossimi quattro anni nelle energie pulite
– conclude Clini – Gli imprenditori italiani
devono poter partecipare a questa evoluzione dei mercati globali”.
Marco Valerio Lo Prete
INNAMORATO FISSO
di Maurizio Milani
(segue dalla prima pagina)
Come lavoro depuro i cani. Mi
portano il cane nel weekend. Gli do fisso acqua e foglie di menta. Tisana completa. Il cane viene depurato. Lo consegno smagrito (appunto come un cane) al
lunedì. Costo del trattamento 10 euro.
Depuro otto cani a weekend. Costo del
mantenimento 0,0005 centesimi a cane.
Con una foglia di menta depuro 100 cani. Sono contento. Spero non si presenti qualcuno a chiedere una tangente.
Risultato: la “Green economy” negli ultimi tre anni ha dimostrato rispetto ad altri
settori produttivi una maggiore propensione
a offrire lavoro agli under 30 e un’esigenza
di soggetti laureati più che doppia (20 per
cento contro una media del 10). Per questo
la prima proposta che Clini presenterà domani al Greening Camp della Luiss è quella di un incentivo per nuove assunzioni nel
settore verde, una “dote contributiva”, la
chiama il ministro, riconosciuta ai giovani
neo assunti e che copra “fino al 40 per cen-
B-XVI nella bufera
Nella crisi, per i dossettiani
Melloni e don Nicolini, il Papa
sta attuando la sua riforma
(segue dalla prima pagina)
Un Papa attaccato da destra, come sostiene Melloni, che “sta mostrando il proprio
più genuino carattere, un Pontefice troppo
prematuramente considerato, fin dai tempi
in cui guidava l’ex Sant’Uffizio, il rottweiler
di Dio”. A emergere sarebbe, secondo questa vulgata, il vero volto “spirituale” del successore del più “politico” Giovanni Paolo II.
Martiniano doc, mantovano, assiduo frequentatore di Giuseppe Dossetti fino alla
fondazione della comunità “Famiglie della
Visitazione”, don Giovanni Nicolini spiega
al Foglio che è in queste ore “che sta uscendo il vero Ratzinger”. Spiega: “Benedetto
XVI lo ricordo da cardinale tenere una conferenza a Bologna. La sua idea di chiesa era
di minoranza, una chiesa di piccoli gruppi
che vivesse di semplicità e del solo annuncio evangelico. Non a caso, anche da Pontefice, ha parlato di ‘minoranza creativa’. Alle tempeste di questi giorni egli non risponde con potenti programmi di governo, con
contro-evangelizzazioni che sposterebbero
l’attenzione dal marciume interno alla battaglia in campo aperto. No, egli soffre come
soffriamo noi tutti, ma nello stesso tempo accetta la realtà. La chiesa, la sua e la nostra
chiesa, è anche questa melma. Ma è anche
fatta di piccole comunità che vivono semplicemente in una società che non è più cristiana, una società nella quale occorre inserirsi con discrezione abbandonando l’inutilità
delle crociate. Minoranza creativa significa
essere piccole realtà che si fanno forti soltanto del proprio annuncio, senza imposizioni o inutili proselitismi”.
Don Nicolini è cresciuto negli anni del
dopo Concilio Vaticano II. La sua idea di
chiesa è maturata sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, un pontificato col quale evidentemente non era (eufemismo) in una piena sintonia. Alle battaglie di Karol Wojtyla
in difesa della dottrina e dei princìpi egli
avrebbe preferito “una grande riflessione
dentro e fuori la chiesa”. Su cosa? “Sull’idea stessa di chiesa, su cosa significa essere cristiani in un mondo che non è più tale”.
Dice ancora: “E’ finita la cristianità come
coincidenza di chiesa e stato, chiesa e cultura, chiesa e dimensione etica dei singoli.
Del resto sono i fatti, drammatici e grotteschi, di queste ore a imporre questa evidenza. Anche a me dispiace, ad esempio, vedere che il terremoto ha distrutto le chiese intorno a Bologna, ma nello stesso tempo sono consapevole che sotto la distruzione c’è
ancora una comunità che vive. Il Papa sembra inerme rispetto alla distruzione del Vaticano e comunque senz’altro se ne dispiace.
Ma in realtà la sua arrendevolezza è voluta.
Rimane fermo, quasi immobile, perché è
consapevole che la chiesa non è ciò che appare, la chiesa sono i fedeli che questo venerdì andrà a incontrare a Milano, i fedeli
che attendono il suo annuncio, la chiesa intesa come comunità, non come istituzione”.
Insomma, dopo le fasi “mediatiche” e
“aristocratiche” del pontificato di Wojtyla,
Benedetto XVI ha di fatto aperto un nuovo
capitolo? “Tutti i tratti del ‘wojtylismo pubblico’ sono stati abbandonati senza inutili
esplicitazioni polemiche”. Un concetto che
ha scritto bene anche Melloni nel suo “L’inizio di Papa Ratzinger”: “I viaggi sono cambiati. La visibilità televisiva è sfumata”. Anche perché “il credito intellettuale dell’uomo è tale da consentirgli le mosse più attese: fare le riforme dell’istituzione ecclesiastica centrale, soprattutto in senso sinodale,
che un candidato della politica italiana
avrebbe senz’altro trascurato e che un candidato d’apertura non avrebbe forse osato
imporre”. Che abbia fatto o abbia ancora voglia fare le riforme, un dato emerge: Benedetto XVI, votato in conclave dall’ala conservatrice del collegio cardinalizio – i progressisti, non è un mistero per nessuno, gli
preferirono prima Carlo Maria Martini e poi
il gesuita argentino Jorge Bergoglio – sembra oggi la sponda più salda a cui possono
guardare i cosiddetti conciliaristi. Nel cinquantesimo anniversario dell’apertura di
quel Vaticano II di cui Ratzinger fu perito –
per molti di orientamento progressista – Benedetto XVI trova a sinistra i principali e
più convinti sostenitori della sua mite azione riformatrice: vedono in lui l’antidoto al
centralismo del “partito romano”, a quel papocentrismo che ha fatto grande il suo predecessore. All’opposto, c’è chi ritiene che gli
auto proclamatisi ratzingeriani doc, suoi
elettori in conclave, siano diventati per lui
la principale zavorra alla sua stessa idea di
chiesa e insieme al suo operato di purificazione. Sembra essere questa, almeno osservata dall’ottica del progressismo più fedele
alla propria tradizione, la nemesi più evidente e clamorosa che Vatileaks consegna
agli annali della storia ecclesiastica. Di certo, c’è un fatto: ancora una volta Ratzinger
si dimostra irriducibile agli stereotipi che
cercano di imbrigliarlo.
Paolo Rodari
Twitter @PaoloRodari
IL RIEMPITIVO
di Pietrangelo Buttafuoco
Semipresidenzialismo e doppio
turno. “Possiamo farcela entro fine anno”,
così dice Angelino Alfano scrivendo al
Corriere della Sera. Ed è un concetto bellissimo. Non solo il “semipresidenzialismo” ma pure il “doppio turno”. Ed è una
cosa così bella il sapere di potercela fare
entro fine anno che già l’estate alle porte
sembra tutto tempo perso. Avere, infatti, il
semipresidenzialismo a portata di mano
ci fa sentire elettrici, pronti ad affrontare
la crisi, l’emergenza, le tasse da pagare e
subito subito perciò urge organizzare un
doppio turno di mobilitazione tra tutti i
supporter, i simpatizzanti, gli attivisti e i
militanti di quel che resta del Pdl per non
fare mancare i fischi e i piriti (o veramente si sono persi gli scecchi e se ne devono
andare a cercare le carrube?).
ANNO XVII NUMERO 127 - PAG I
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MERCOLEDÌ 30 MAGGIO 2012
Dopo la democrazia, sospendere il calcio. Monti esagera ma un po’ ci prende
Roma. Ci erano rimasti quei novanta minuti, e
adesso ci stanno togliendo pure quelli. Il calcio come il wrestling, dove tutto è spettacolo fine a se stesso, dove la maglia indossata dall’atleta non è simbolo di appartenenza (o almeno di una storia) ma costume carnevalesco. Ci erano rimasti quei novanta minuti: quando allo stadio l’arbitro fischia l’inizio della partita tutto il resto scompare di colpo. Le polemiche in conferenza stampa del giorno prima, le dichiarazioni dei giocatori, gli editoriali dei giornali sportivi. Resta l’odore dell’erba, l’urlo della folla, la grinta necessaria ad arrivare sul pallone prima dell’avversario. Fuori da quei novanta minuti il tifoso ha
sempre saputo, o almeno intuito, che è tutto farlocco, dalle amicizie tra calciatori alle frasi sull’attaccamento alla maglia. Chiunque abbia giocato a calcio
sa che a fine stagione molti risultati sono figli di (più
o meno) taciti accordi tra capitani, sguardi silenziosi tra difensori e attaccanti. Il “non facciamoci del
male” però è diventato qualcosa di più.
Il pallone specchio del paese, e viceversa. Non tutto il marcio è nella politica, la società civile ha la sua
parte, come ha detto ieri Mario Monti parlando del
calcioscommesse: “E’ così facile per i cittadini italiani non impegnati in attività politiche localizzare tutti i mali dell’Italia nella politica. E’ un errore. Ci sono gravi difetti nella politica, ma in un paese non esiste tra politica e società civile quella separatezza che
a volte si trova comodo pensare che esista”. Quando
i tifosi del Bari hanno scoperto che i giocatori della
loro squadra truccavano le partite per scommetterci
sopra, non hanno denunciato la cosa, né sono andati
a menarli: si sono messi a scommettere pure loro.
Quando succede una cosa del genere, c’è ben poco da
salvare. Un anno fa avevamo avuto l’impressione che
la vicenda del calcioscommesse avesse come protagonisti vecchi scarponi delle serie minori, calciatori
falliti o mai esplosi, tutt’al più qualche ex campione
con il vizio del gioco. Così non è, e se anche è vero che
nella pesca a strascico dei magistrati è stato preso
qualche pesce che non c’entra nulla, l’impianto dell’accusa sembra reggere. E svela uno spettacolo avvilente. A partire dai giocatori che, beccati a scommettere dalle forze dell’ordine, ora provano a trascinare nel baratro altri colleghi, in un cortocircuito che
rischia di diventare più un regolamento di conti che
un aiuto a cercare la verità dei fatti. Fino alle società,
pare anche loro molto implicate (l’accusa a Massimo
Mezzaroma, presidente del Siena, di scommettere
contro la propria squadra, fa spavento).
Adesso tutto il calcio italiano ha paura. L’allenatore della squadra campione d’Italia indagato è anche un avvertimento a tutti: non guardiamo in faccia
nessuno. Il problema sarà la fretta. Entro poche settimane bisognerà consegnare all’Uefa l’elenco delle
squadre che parteciperanno alle coppe europee il
prossimo anno, bisognerà stilare i calendari e rico-
minciare con le amichevoli estive. La giustizia dovrà
quindi andare di corsa, con la certezza di sbagliare,
di non risolvere nulla, di colpire sommariamente. Ma
è il calcio che deve capire che è il momento di darsi
una regolata, che se si è arrivati a una situazione del
genere parte della colpa forse è anche di chi, tra Lega calcio, Figc e società stesse, non ha vigilato abbastanza, ha permesso che il calcio negli anni diventasse interesse economico prima che evento sportivo,
approfittando delle tante zone grigie del sistema. Abbiamo le telecamere negli spogliatoi, e con esse l’illusione di sapere tutto quello che succede, ma le partite sono finte. Difficile uscirne: l’idea che basti la
magistratura a ripulire l’ambiente (e in poco tempo)
è già stata smentita più volte dalla storia; ma anche
la soluzione “tecnica” proposta dal premier Monti ieri è impraticabile: fermare il calcio per un paio d’anni, azzerare tutto e ricominciare da capo. Dopo la democrazia, sospendere il calcio? Fare un’inchiesta se-
ria, approfondita, con processi giusti e non frettolosi
è impossibile. Il danno economico, sportivo e umano
di uno stop forzato sarebbe insostenibile.
Il sistema che usava i giocatori corrotti è mastodontico: parte dall’Asia, striscia in Europa, si infila
negli armadietti dei giocatori di Lega pro e rimbalza sotto ai tacchetti dei campioni di serie A. Chissà se
i tifosi manderanno giù anche questa. Ci hanno fatto
innamorare talmente tanto di questo sport che violenteremmo i nostri pensieri per convincerci che sì,
forse le partite sotto indagine sono state truccate, ma
quella di domani no, impossibile. C’è da ricostruire il
tessuto umano che dà vita al calcio, non avere fretta
di dire “abbiamo finito, ecco il giocattolo ripulito”,
aumentare i controlli ed evitare la giustizia-spettacolo. Poi, forse, prendere meno sul serio il circo pallonaro. La cosa più difficile.
Piero Vietti
Twitter @pierovietti
IL CALCIO COME LA SOCIETA’ CIVILE
Dal tè di Paoloni agli arresti show di lunedì. Così il mondo del pallone ha distrutto se stesso
rovate Paoloni. Sì, Marco Paoloni. E’
con lui che comincia tutto. Con una bottiglia avvelenata preparata nello spogliatoio dello stadio Zini di Cremona prima di
Cremonese-Paganese. Il piccolo portiere e
il grande chimico: infila il Minias, un sonnifero, nell’acqua e nel tè che i suoi compagni della Cremonese stanno per bere. Vuole che giochino male, vuole che perdano,
vuole che siano stanchi. La Cremo vince,
invece. Due a zero. Però, poi. Sì, però, qualcosa succede lo stesso: il difensore della
Cremonese, Carlo Gervasoni, sbanda con
l’auto tornando a casa dopo la partita. Tampona una macchina che lo precede, va fuo-
in serie A, nel 2010-2011, sospette. C’è tutto
e c’è anche l’inimmaginabile. Masiello organizza: ha amici factotum che lo mettono
in contatto con il resto del gruppo. Si sa,
nell’ambiente. Lui è uno che si sa muovere. Allora si vende da solo il derby BariLecce. Cioè accetta 230 mila euro per far sì
che il Lecce vinca. Per essere sicuro fa autogol. Non se ne accorge nessuno, in diretta. Dicono: guarda quello. Invece è tutto
studiato. Lo dice lui ai magistrati che lo arrestano ad aprile. L’inchiesta che sembrava andare scemando si rinfiamma: Masiello è l’emblema dell’infame: c’è di più della vergogna di vendersi una partita. Fare
autogol per soldi in un derby significa essere al di là anche del male. Siamo oltre le
peggiori intenzioni. Perché c’è solo una co-
Trovate Marco Paoloni. E’
con lui che comincia tutto. Con
una bottiglia avvelenata prima
di Cremonese-Paganese
Non solo gli ultras: a Bari
c’erano avvocati, commercianti,
ristoratori e altri che giocavano
contro la propria squadra
ri strada, prende una botta, poi esce dall’auto: stordito e assonnato. Qualche giorno
dopo parla con i compagni: tre, quattro di
loro hanno avuto gli stessi sintomi. Diranno: intossicazione alimentare che ha provocato sonnolenza e malessere generale. Non
regge, sta storia. Forse qualcuno che ha visto Paoloni armeggiare con quelle bottiglie
e lo conosce parla col direttore sportivo
della Cremonese, Turotti. Lui parla con la
Federcalcio, poi con la procura della Repubblica di Cremona. Quella carambola in
auto di Gervasoni non è un incidente: è il
velo dietro cui si nasconde un intreccio di
scommesse, corruzione, minacce, affari,
giochi sporchi, soldi, truffe, cialtroni, malavitosi, altri soldi, giocatori, ancora altri soldi. Paoloni è l’inizio. I magistrati indagano
su di lui: lo intercettano, lo seguono, lo
ascoltano. Controllano i conti correnti: meno ventimila, meno cinquantamila. Ma come: un portiere di serie C guadagna setteottomila euro al mese. Perché è sempre così in rosso? Scommette. E per rifarsi si vende. Semplice: io sono il portiere, li faccio
segnare e posso gestire i risultati. Faccio
scommettere e incasso il denaro. La follia
di uno è la porta che spalanca l’inizio dello scandalo. Paoloni ha giocato nelle giovanili della Roma, poi ha girato nei campi di
C, conosce un po’ di gente. C’è un dentista
di Ancona, si chiama Pirani: ha un bel po’
di soldi e la sua stessa passione per le
scommesse. Il medico è a sua volta amico
di un gestore di una ricevitoria a Pescara,
Erodiani. Altri amici, poi amici di amici,
amici di amici di amici: è l’Italia marcia,
dentro ci sono personaggi legati al pallone
e gente che non c’entra. Le scommesse sono una malattia trasversale. Paoloni è uno:
sa che supera i valori dello sport ed è il valore della rivalità: perdere apposta la partita col peggior avversario dei tuoi tifosi e
della tua città significa insultare due volte
la gente. Masiello è finito, ma non è finita
la vergogna. Perché i tifosi non sono vittime. Ci stanno. Sono anche loro parte del
meccanismo: tre capi ultras del Bari sanno
che i giocatori si stanno vendendo e chiedono di entrare nel business. Vogliono che
perdano due partite perché così loro ci
guadagnano un sacco di soldi. Serve altro
per parlare della degenerazione? Chi si
scandalizza per la politica corrotta, non ha
fatto i conti con il resto dell’umanità. Non
basta dire: quelli sono ultras, sono feccia.
Perché scoperchiando questa storia scopri
che altri tifosi sapevano: a Bari c’era coda.
Avvocati, notai, commercialisti, professionisti vari, commercianti, ristoratori che giocavano contro la propria squadra e la propria città. L’inchiesta sulle scommesse rivela al mondo la dignità perduta di una comunità: a Bari, come altrove. A Genova le
ultime foto raccontano i meeting tra organizzatori di scommesse, giocatori e ultras.
Non significano nulla, certo. Ma vogliono
dire un’altra sovrapposizione culturale.
L’assenza del confine tra giusto e sbagliato. E’ così che s’arriva all’ultimo capitolo:
Mauri della Lazio e Milanetto del Genoa,
compreso l’indagato Conte e gli altri. C’è
differenza tra mettersi d’accordo per un
pareggio che non faccia male a nessuno e
lucrare sulle partite con le scommesse. Qui
l’inchiesta deve togliersi le vesti da spettacolo e mettere bene in fila le cose. Però c’è
troppo che puzza. Le società? Sono vittime,
forse. O forse no. Alcune sapevano, secondo i magistrati qualcuna addirittura incen-
di Beppe Di Corrado
T
Si parte, anzi si è già partiti: i
magistrati ascoltano tutto. Le
partite da taroccare sono
soprattutto in C, poi arriva la B
bravo ragazzo, dicono tutti. Però con quel
vizio. Se lo trascina ovunque vada: cambia
città, non abitudini. Il conto vuoto e il giro
che s’allarga: Pirani ed Erodiani hanno altri contatti: c’è Beppe Signori, ex campione di Lazio, Bologna e Nazionale, i commercialisti del bomber, poi altri ex giocatori, come Bellavista del Bari, Bressan, Parlato, il direttore sportivo del Ravenna,
Buffone. Ognuno di loro ha altri amici, ragazzi del sottobosco pallonaro, sparsi tra B
e C: sono le cimici e gli emissari dentro gli
spogliatoi. Sono quelli che possono essere
contattati per aggiustare le partite.
Si parte, anzi si è già partiti: i magistrati ascoltano tutto. Le partite da taroccare
sono soprattutto in C, poi arriva la B. C’è
Atalanta-Piacenza, soprattutto. Torna Carlo Gervasoni. Quello che aveva rischiato di
Nella mattinata di lunedì le forze dell’ordine hanno arrestato 19 persone coinvolte nel calcioscommesse. Tra questi anche diversi calciatori, molti di serie A (foto Lapresse)
morire perché il compagno lo aveva avvelenato, ora diventa complice. Perché così
funziona: se ci si può guadagnare, conviene provarci. Gervasoni ha cambiato aria: è
andato a Mantova, poi a Piacenza. Ha capito come funziona il giro. Ora c’è anche lui.
E quel giorno, gli amici delle scommesse,
sanno che s’è messo d’accordo con Cristiano Doni, capitano dell’Atalanta: la partita
deve essere già sul tre a zero nel primo
tempo, in modo che gli scommettitori possano puntare sull’over (più di tre gol) e guadagnare forte. Gervasoni ha coinvolto un
po’ di compagni, tra cui il portiere del Piacenza, Cassano. Il segnale dell’accordo, tutti sanno, è una pacca sulla spalla di Gervasoni da parte di Doni. Eccola, durante i saluti dei giocatori. Vai: scommettono tutti, le
giocate si impennano. Alla fine del primo
tempo è tre a zero per l’Atalanta.
I magistrati prendono nota, ancora. Gli
serviva proprio questo. Poi un giorno, vanno. Cremona non è una procura abituata a
inchieste grosse. Qui c’è il calcio, ci sono i
trucchi, c’è un ex grande nome del pallone
e poi c’è un altro ex nazionale, cioè Doni,
l’Atalanta che è appena salita in A. C’è tutto per dare un po’ di spettacolo. I fatti li
aiutano: le immagini che accompagnano i
fascicoli di indagine mostrano Cassano che
praticamente si fa gol da solo, fanno vedere che in quel maledetto Atalanta-Piacenza Gervasoni fa un fallo da rigore clamoroso e insensato: Doni va a battere e il portiere gli indica dove si butterà. La palla va
dalla parte opposta: gol. Prima c’era già stato un fallo di mano in area del Piacenza. Rigore: gol. E all’ultimo minuto del secondo
tempo, il Portiere del Piace si butta dentro
la porta per lasciarla spalancata e far segnare il terzo gol. Follie che viste dal vivo
in diretta, non dicono nulla, ma che viste
mentre scorri le pagine dell’inchiesta sembrano come gli incontri di wrestling, dove
sai che è tutto concordato, è tutto finto, è
tutto già scritto. L’indagine è in forno, a
questo punto. E’ il primo giugno 2011. Otto
meno dieci di mattina: la polizia entra a casa di 16 giocatori con 610 pagine di ordinan-
za sulla nuova inchiesta del calcio malato.
Scommesse, maledette scommesse; soldi,
maledetti soldi; inciuci, maledetti inciuci.
Un caos, l’ennesimo. Una botta alla fiducia
della gente, alle certezze dei tifosi: partite
aggiustate, risultati addomesticati, gol regalati. Le intercettazioni parlano di un linguaggio volgare e da criminalità: minacce a
chi non si adegua. E’ roba di basso livello,
sfide di serie C, di serie B, qualcosa di A.
Però c’è Beppe Signori: l’ex campione della Lazio, uno conosciuto, amato, pagato.
Uno per cui una volta scese in piazza mezza Roma: “Chi vende Signori non merita il
nostro tifo”. Sergio Cragnotti rinunciò a 25
miliardi di lire e Signori restò. Quel primo
giugno sono andati a prenderlo a casa, Beppe. E lì l’hanno lasciato agli arresti domiciliari. Ha risposto al telefono a un giornalista dell’Ansa: “Ma non avete pietà in questa situazione? Abbiate pietà”. Risuoneranno spesso le sue parole in quella giornata. Fanno male. Pietà? Per chi? Per che cosa? In quelle pagine c’è la storia di un uomo che ha tradito se stesso oltre che la gente. Ricordi i suoi gol e pure i suoi errori,
adesso. Non puoi non chiedertelo: era vero allora? Una giornata così lascia poche
certezze. A Bologna, a Cremona, a Benevento, a Bergamo, in tutte le città coinvolte nell’ennesimo capitolo del calcioscommesse all’italiana. Lì guardi i nomi e dici:
ok, sono giocatori di seconda fascia e avidi
e vigliacchi. I magistrati parlano, felici di
poter fare il loro spettacolo: “E’ un fenomeno molto più ampio, l’inchiesta si allargherà”.
Cambieranno le classifiche e i destini di
alcune squadre e con loro quelli dei tifosi.
Allora te lo chiedi: che calcio è questo?
Calciopoli avrebbe dovuto essere il punto
di non ritorno. Il pallone pulito, dicevano.
Sembra, invece, che rotoli nel fango come
prima. Forse di più. I calciatori che si vendono, gli ex giocatori che si trasformano in
allibratori senza scrupoli, il mondo del pallone minore che si muove lontano, in un cono d’ombra che avvolge partite e classifiche. Perché? E’ questa la domanda. E’ la
base di tutte le altre: perché lo fanno? Perché ci tradiscono? Perché non si rendono
conto che ci tolgono le nostre passioni? I
calciatori che smazzano le carte delle
scommesse dimostrano che sono incapaci
di essere uomini: i soldi, dicono. Hanno fame di ricchezza nonostante i privilegi. Hanno bisogno di sostenere uno stile di vita che
era quello dei loro sogni: s’immaginavano
campioni e si sono trovati nel sottobosco
del calcio. Il ragionamento funziona per alcuni, ma non per altri. Non per Signori, per
esempio. Per lui c’è altro: la condanna all’avidità del fortunato che vede il guadagno
facile e lo vuole ancora più facile. Sarà vero e sarà così, ma non spiega tutto. Perché
la profezia dei magistrati diventa una verità. Certo, a loro fa comodo che sia così:
più squadre coinvolte ci sono, più giocatori ci vanno di mezzo, meglio è. Allora cominciano a uscire indiscrezioni, nomi veri
e presunti: le intercettazioni date ai giornali senza controllo. Paoloni parla del capitano della giallorossa: tutti scrivono di Totti. Lui minaccia querele. Allora si buttano
su De Rossi. Lui minaccia a sua volta altre
querele. E’ il caos, ma si capisce che dentro
a quel caos c’è ancora tanta melma. Sono le
triangolazioni che distruggono il mondo
del pallone: io conosco A che conosce B
che conosce C. Il domino funziona verso
l’alto e verso il basso: verso i campioni e
verso i farabutti. E’ così che entrano in scena “gli zingari”. Sono un gruppo di slavi
pronti a corrompere i calciatori che ci stanno: da 8 mila euro in su, fino a trecentomila, per i giocatori che si vendono e facendo
realizzare risultati esatti fanno vincere milioni agli scommettitori. Ovvero agli stessi
zingari. E’ un investimento perfetto, no? Un
moltiplicatore di denaro. Il nome che gira
a questo punto è Almir Gegic. E’ slovacco
ma sta a Chiasso, dove avrebbe conosciuto
Bressan. La triangolazione lo porta dentro,
anzi forse è l’origine di tutto: da lui agli altri e con lui altri. Sembra un gioco di parole, è una catena infinita. Compare l’uomo
del denaro: Ilievski. E’ lui che investe per
avere ritorni. Tutti dentro: clan, fazioni, gio-
catori, professionisti. Alto e basso, come
sempre. E’ una realtà parallela, un mondo
che corre accanto al pallone degli illusi. I
protagonisti parlano al telefono come dei
banditi: camuffano le voci, si chiamano per
soprannomi assurdi. Per stare nel giro bisogna trovare contatti per taroccare le partite: tra verità e millantato credito nelle
carte spunta la serie A. C’è chi dice di essere certo di poter aggiustare Inter-Lecce
o Milan-Bari o altre partite. I magistrati
hanno ascoltato e cominciano a interrogare. Qualcuno parla, perché mica ce la fa a
reggere. Le scommesse si mescolano alla
consuetudine di finali di campionato con
risultati scontati. Si sa: una squadra retrocessa mica va a rompere le scatole a una
che deve andare in Champions. O una squadra già salva, non si mette di traverso a una
che deve salvarsi. Le variabili sono diverse, però: se una squadra è rivale di una mia
amica, allora si gioca davvero. Altrimenti
no. Lo sanno tutti, avviene da sempre: immorale eppure conveniente. Ecco un altro
specchio del paese, della società civile,
quella che va in piazza per difendere i diritti dei lavoratori e dei precari, ma poi paga a nero la colf.
I piani che si mescolano rivelano un’altra pista. Quella che porta a Bari. Quindi alla A. Perché l’anno scorso il Bari era retrocesso già a gennaio ed era perfetta. Era il
boccone giusto per gli zingari e per gli altri.
Bellavista dice a tutti che ci pensa lui. Da lì
i magistrati partono: quelli di Cremona e
poi quelli di Bari. Perché a questo punto il
piatto è gustoso e la giustizia show può anche lottare: chi indaga? Il nord o il sud? Chi
ha cominciato o chi sarebbe il titolare territoriale? Masiello è il nome. Si capisce in
fretta. Andrea Masiello, uno di 25 anni, uno
con un futuro, uno forte. Qui non si parla
di giocatori a fine carriera, ma di ragazzi
che possono ancora sognare. Masiello è l’anello di congiunzione di tutto, perché sta
con gli zingari, accetta le combine e poi decide anche di mettersi in proprio. Gestisce
lui. I giocatori che rubano il posto ai criminali. Perfetto. Risultano 5 partite del Bari
C’è differenza tra mettersi
d’accordo per un pareggio che
non faccia male a nessuno e
lucrare con le scommesse
tivava. E’ una cloaca che si riempie delle
bassezze collettive. Non si salvano in molti: i giocatori, i presidenti, gli allenatori, i
tifosi. Pure i magistrati che se trovano un
nome buono, alimentano il loro lavoro anche al di là del necessario. C’è molto dentro questa storia. C’è troppo per starne fuori e però anche per avere la certezza che
sia tutto marcio: quando butti ogni cosa in
una pentola il minestrone copre ogni odore. Non fa differenza, mentre qui il gioco
delle differenze è fondamentale. Non c’è
ora, forse ci sarà quando la giustizia sportiva comincerà i suoi processi. Sommari
per definizione e per necessità. Non troveremo la verità, ma avremo una realtà verosimile che ci racconterà il grande marcio
che c’è in noi, nel nostro calcio, nelle nostre teste. Ci vergogniamo, più di un po’.
ANNO XVII NUMERO 127 - PAG II
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MERCOLEDÌ 30 MAGGIO 2012
Ipotesi di eccezionalismo americano nella dialettica Jefferson-Hamilton
E
sistono due vie per spiegare la storia economica degli Stati Uniti e scandagliare la sua correlazione con l’assetto generale del potere americano.
La prima è incastonata nella visione agricola e competitiva di Thomas Jefferson, padre fondatore e presidente americano che interpretava l’unione americana come una giustapposizione di attori competitivi avvolti da uno stato centrale impalpabile. Dall’individualismo concorrenziale che albergava nello
spirito dei coloni, diceva Jefferson, sarebbe derivata la prosperità del popolo americano. La visione opposta è quella federalista di Alexander Hamilton,
imperniata su un assunto tanto semplice quanto gravido di conseguenze: per fare un grande paese servono grandi istituzioni, una struttura politica solida
che regoli gli aspetti fondamentali del vivere comu-
ne e dei rapporti con l’esterno, dalla politica economica alla forza militare. Il governo federale era, nella visione di Hamilton, il collante istituzionale che
avrebbe tenuto insieme colonie altrimenti incapaci
di fare sistema. Nel lungo periodo è la visione federalista che ha modellato la struttura del potere americano, ma qualunque uomo di potere, a prescindere dal partito al quale era affiliato, ha dovuto prendere posizione rispetto allo scontro fra il mondo di
Jefferson e quello di Hamilton, dialettica che attraversa in modo obliquo la storia politica ed economica d’America.
Michael Lind, uno dei fondatori del think tank liberal New America Foundation, ha da poco pubblicato un libro intitolato “Land of Promise” che ambisce a rileggere la storia economica degli Stati Uni-
ti secondo i paradigmi opposti di Hamilton e Jefferson, illuminando con una enorme mole di dati storici le questioni fondamentali dell’America di oggi.
Quale ruolo deve avere lo stato federale? Deve esserre un big government che tutto controlla e regola, oppure scomparire alle spalle delle istituzioni locali, lasciando che un normale processo di mercato
regoli il resto? Come ha osservato David Brooks sul
New York Times, Lind tende a fare di Hamilton un
progressista ante litteram, un antenato diretto del
New Deal di Franklin Delano Roosevelt e della
Great Society di Lyndon Johnson, i processi di
espansione del ruolo dello stato che hanno trasformato l’America in profondità, mentre Hamilton era
in primo luogo un nazionalista che ambiva al modello federativo per ricavarne un esercito all’altezza
delle grandi potenze europee. Far discendere da Hamilton la centrale Hoover Dam, il sistema autostradale nazionale, l’Erie Canal, la General Motors, il
Medicare e il Medicaid implica inevitabilmente una
forzatura del pensiero del padre fondatore, trasformato frettolosamente in un moderno liberal. Ma a
prescindere dalla correttezza delle attribuzioni, la
divisione rimane, e nello schema di “Land of Promise” la sfida politica di oggi è fra jeffersoniani repubblicani e hamiltoniani democratici. I primi vogliono
ridurre il peso del governo e uscire dalla crisi riducendo la spesa federale; i secondi sostengono che l’unico modo per tornare alla prosperità è un intervento dello stato nell’economia e nella vita pubblica. In
molti casi si tratta anche di interventi più profondi
di quelli che ha intrapreso il prudente Barack Oba-
ma. “Le cose buone dell’economia americana – scrive Lind – sono il risultato della tradizione hamiltoniana, mentre quelle cattive di quella jeffersoniana”. Al manicheismo di Lind sfuggono tuttavia figure come Dwight Eisenhower e George W. Bush, portatori di “cose cattive”, a suo dire, che però hanno
governato attingendo dalla lezione di Hamilton; sfugge anche il motivo per cui l’America sia diventata
un’enorme potenza quando la mentalità dominante
era quella di Jefferson. Quello che non sfugge è l’idea che il successo dell’America, il suo carattere eccezionale e la sua prosperità, si esprimano nella dialettica sul ruolo del governo, questione che attanagliava Jefferson e Hamilton, ma anche Reagan, come
si legge qui sotto, e Obama, come si vede là fuori.
Mattia Ferraresi
CARO PRESIDENTE REAGAN
I consigli degli economisti (e che economisti) al presidente eletto nel 1980 sono utili ancora oggi
Pubblichiamo alcuni estratti di un memo del 16 novembre del 1980 che il Coordinating Committee on Economic Policy
consegnò al presidente Ronald Reagan,
eletto dodici giorni prima. Il titolo era:
“Strategia economica per l’Amministrazione Reagan”. In calce trovate i nomi dei
membri della commissione. Il Wall Street
Journal ha ricevuto il documento dal coordinatore della commissione, George Shultz,
e lo ha pubblicato in quanto contiene consigli utili anche per l’Amministrazione
Obama (e per l’Europa, aggiungiamo noi).
Su www.ilfoglio.it è disponibile la versione
completa del testo.
no per i prossimi cinque anni, periodo nel
quale, secondo le stime dell’agenzia, l’inflazione sarà eliminata. Molti membri influenti di importanti commissioni del Congresso hanno già fatto pressioni sulla Fed
in passato perché specifichi questi obiettivi di lungo periodo;
- Assicurare alla Fed che lei si batterà
per ottenere politiche fiscali compatibili
con l’eliminazione dell’inflazione;
- Migliorare le procedure per coordinare
la politica monetaria della Fed con le politiche economiche dell’Amministrazione e
del Congresso, per sostenere gli sforzi del
Congresso nel controllare le performance
della Fed in modo da raccomandare cambiamenti nelle procedure che possono migliorare le performance.
E’
assolutamente necessario un profondo cambiamento nell’attuale politica economica. L’inflazione e la crescita
lenta, l’abbassamento della qualità della
vita, la produttività declinante, le alte
spese dello stato ma con un flusso inadeguato di risorse per la difesa, una lista infinita di malattie economiche, piccole e
grandi, sono problemi gravi, ma non sono
senza cura. Poiché sono stati prodotti da
una certa politica del governo, possono
essere migliorati da un cambiamento della politica.
Lei (il presidente Reagan, ndr) ha iden-
Mantenere una rotta chiara
Il punto finale è quello più importante. Il
successo della sua politica economica sarà
un riflesso diretto della sua abilità nel
mantenere una direzione stabile in tutto il
primo mandato. Arriveranno tempi duri e
le crisi di ogni tipo, piccole e grandi. Sforzi sostenuti attraverso questi tempi di test
signficano che la comprensione e il sostegno dell’opinione pubblica sono essenziali.
Di eguale importanza sono la comprensio-
Non bisogna fare piccole cose
in modo pragmatico, ma avere
una visione complessiva alla quale
uniformare tutta la strategia
tificato durante la campagna elettorale le
questioni-chiave e le linee guida necessarie per restaurare la speranza e la fiducia
in un futuro economico migliore:
- Ridare stabilità al potere d’acquisto del
dollaro;
- Raggiungere un benessere a tutti i livelli attraverso una crescita reale dell’occupazione, degli investimenti e della produttività;
- Dedicare le risorse necessarie a una difesa forte, e ottenere il risultato di rilasciare forze creative di imprenditorialità, management e lavoro attraverso: la riduzione
delle spese pubbliche; la riduzione del livello della tassazione; una politica monetaria stabile, diretta a governare ed eliminare l’inflazione.
Principi guida
L’essenza di una buona politica è una
buona strategia. Alcuni principi strategici
possono governare la sua Amministrazione
mentre delinea il percorso da seguire:
- La necessità di un punto di vista a lungo
termine è essenziale per tenere conto del tempo, della coerenza e della prevedibilità così necessari per avere successo. Questa visione di
lungo termine è importante sia per risolvere i problemi quotidiani sia per prendere
decisioni di più ampio respiro. Molte decisioni sono prese dal governo per rispondere a esigenze del momento, ma il pericolo
è che spegnere incendi quotidianamente
può portare i policy-maker molto lontani
dai loro obiettivi. Molti fallimenti possono
essere ricondotti al tentativo di risolvere
problemi in modo frammentario. Il patchwork di soluzioni ad hoc rende molto più
difficile raggiungere risultati come il consolidamento della forza militare, la stabilità dei prezzi, la crescita.
- I problemi centrali che la sua Amministrazione deve affrontare sono legati alla
sostanza e alle loro cause originarie. Le misure adottate per risolvere un problema
avranno effetti su altri problemi. E’ importante riconoscere questa interrelazione
tanto quanto riconoscere i problemi individualmente.
- La coerenza è essenziale per essere efficaci. Gli individui e le aziende fanno piani ad
ampio raggio. Hanno bisogno di un ambiente nel quale fare affari con fiducia.
- L’Amministrazione deve essere trasparente con il pubblico. Non deve fare troppe
promesse, specialmente rispettando la velocità con cui le politiche adottate possono
raggiungere i risultati attesi.
La Fed va stimolata e resa
responsabile delle sue azioni, così
anche il Congresso. Tasse e spese
vanno tagliate
Il premio Nobel Milton Friedman, qui assieme al presidente Reagan, è stato il più lucido ispiratore della politica economica presidenziale, nonché co-autore del memo pubblicato in questa pagina.
Budget
La sua preoccupazione più immediata nell’assumere il ruolo di presidente sarà quella di convincere i mercati finanziari e l’opinione pubblica che la sua politica anti inflazione non è solo retorica. Il pubblico, soprattutto la comunità finanziaria, è scettico
e ha bisogno di una impressionante dimostrazione di determinazione. Ci sono molte
domande sulla sua credibilità in termini di
taglio del bilancio. Piani di budget credibili per il 1981 e il 1982 creeranno una risposta positiva nei mercati e possono creare così una piattaforma per contrastare con successo l’inflazione e il crollo dei tassi sui mutui e d’interesse. Il budget in sé non è tutta
la storia, ma è molto visibile e importante.
Finanziamenti fuori dal budget e garanzie
statali fanno crescere ed espandere i programmi attraverso l’utilizzo dell’indebitamento, succhiando risorse alla nazione senza che ci siano voci corrispondenti nei registri ufficiali. Gli sforzi per controllare le
spese devono essere comprensivi, altrimenti un buon lavoro fatto in un’area sarà annullato in un’altra. E questi sforzi devono
far parte dello sviluppo da parte dell’Amministrazione di una strategia a lungo termine per determinare una forma di budget
per i prossimi quattro o più anni di governo.
Politica fiscale
Le tasse sono un ambito che riguarda il
suo segretario al Tesoro. La scelta di questa figura dovrebbe avere una grande priorità. La Walker Task Force (quella che si
occupa delle tasse, ndr) le fornisce tutto il
materiale necessario per presentare le
questioni in forma concreta e tradurre le
sue decisioni in una proposta al Congresso. Questa proposta dovrebbe essere presentata presto insieme con altri elementi
cruciali del programma economico. Dovrebbe incarnare il senso di tutta la politica sulle tasse, non soltanto per il 1981, ma
per tutto il primo mandato. Gli ingredienti
principali, secondo noi, dovrebbero essere
le proposte sul taglio Kemp-Roth (il piano
di detassazione firmato dal deputato Jack
Kemp e dal senatore William Roth, ndr) sui
redditi; semplificazione e liberalizzazione
della svalutazione e il taglio nelle tasse sui
capital gains. In coerenza con i suoi propositi di inizio anno, la data d’inizio di queste riduzioni dovrebbe essere il primo gennaio 1981. Altre proposte riguardano gli incentivi fiscali, creare zone industriali nelle
periferie delle città, riduzione delle tasse
sull’istruzione, riduzione delle tasse sui
profitti inaspettati, sulle tasse di successione e sulle tasse per gli americani all’estero e il ripristino delle stock options che sono state ridotte.
Regulation
L’attuale sovraccarico di regolamentazioni deve essere rimosso dall’economia.
Di uguale importanza è anche limitare drasticamente l’ondata di nuove e onerose regole che le agenzie stanno pianificando. La
Weidenbaum Task Force (quella che si occupa di regulation, ndr) stabilisce il modello richiesto per la selezione del personale,
per un’immediata azione amministrativa e
legislativa. Ancora, la chiave per agire è la
presenza di una persona molto competente e determinata in grado di sviluppare una
strategia coordinata e di formare un team
che porti avanti i vari dossier. Questa nomina deve essere fatta tempestivamente, nella prospettiva che chi guida la transizione
la possa lavorare nell’Amministrazione almeno per un anno. Questa persona e il suo
team dovrebbero essere inclusi nell’ufficio
esecutivo del presidente.
Molti dei nostri problemi economici derivano dalla sempre più grande proporzione di decisioni economiche prese attraverso i processi politici invece che attraverso
i processi di mercato. Un passo importan-
te per dimostrare la sua determinazione
nell’affidarsi ai mercati potrebbe essere
eliminare immediatamente le linee guida
su salari e prezzi e la soppressione del
Council on Wage and Price Stability. Per
portare avanti l’intero sforzo regolatorio –
sia per galvanizzare il sostegno dell’opinione pubblica e per rafforzare la posizione
degli uomini dell’Amministrazione – la
sproniamo a mandare un mesaggio sulla
riforma delle regolamentazioni in tandem
con il messaggio sul budget e sulle tasse.
Energia
La battaglia tra le regole del governo e
il mercato è palese nel settore energetico,
dove il mercato ha un vantaggio comparativo decisivo. Le intrusioni del governo nella produzione e nell’utilizzo dell’energia
fornisce un chiaro esempio di quanto ci costa la regolamentazione. Negli Stati Uniti
esistono alternative all’importazione di petrolio. Come sottolinea la Halbouty Task
Force (quella che si occupa di politica
energetica, ndr), i prezzi di mercato e gli incentivi del mercato accelereranno lo sviluppo di queste alternative tanto quanto le
regolamentazioni attuali e la politicizzazione di questo settore le inibirà. Le raccomandazioni della task force e le questioni
che pone per una revisione attenta e completa del settore energetico devono essere
prese molto sul serio.
Le raccomandiamo anche di esercitare
immediatamente il potere discrezionale
che le spetta per rimuovere il controllo del
prezzo sul petrolio grezzo e sui prodotti petroliferi, piuttosto che continuare con il calendario attuale che procrastina la rimozione dei controlli all’ottobre del 1981.
Un’azione decisa in questo senso eliminerebbe in un colpo solo l’apparato regolatore che amministra questi programmi e scoraggerebbe le iniziative degli interessi speciali in gioco, che vogliono prevenire o ral-
lentare la deregolamentazione. Inoltre, il
Natural Gas Policy Act del 1978 dovrebbe
essere abrogato, in modo da togliere i controlli anche sui prezzi del gas naturale.
Queste misure sono particolarmente urgenti perché l’incertezza sull’offerta di petrolio del medio oriente, resa ulteriormente
più drammatica dalla guerra tra Iran e
Iraq, rende ancora più necessario ottenere
il prima possibile l’effetto stimolante di un
prezzo stabilito dal mercato.
Politica monetaria
Un tasso stabile e moderato di crescita
monetaria è un requisito essenziale per
controllare l’inflazione e fornire un ambiente sano per la crescita economica. Non
abbiamo mai avuto una politica di questo
tipo. Il tasso di crescita monetaria è crollato in modo corposo nei primi mesi del 1980
ed è risalito rapidamente negli ultimi mesi. Queste ampie fluttuazioni stanno influenzando in modo negativo le condizioni
economiche e potrebbero continuare a farlo nel 1981.
La McCracken Task Force (incaricata di
occuparsi della politica monetaria, ndr)
sottolinea che la realizzazione di una buona politica monetaria merita la massima
priorità e che questa politica deve essere
ottenuta attraverso l’uso efficace della Fed
e dei poteri esistenti. La Task Force fa
emergere anche la relazione tra la politica
monetaria, quella del budget e le altre politiche economiche.
La Fed è un’agenzia indipendente. Ma
l’indipendenza non significa che non debba rispondere di ciò che fa. In pratica, l’indipendenza non vuol dire che la Fed è immune dall’influenza del presidente e del
Congresso. Il problema è come responsabilizzarla preservandone l’indipendenza. Le
consigliamo di:
- Chiedere alla Fed di stabilire gli obiettivi per la crescita monetaria anno per an-
Tanti piccoli gesti (quasi) reaganiani del governo dei prof.
Roma. “Non ho mai cercato di essere la
Thatcher dell’Italia, quindi non ho obiezioni se ritirate quel titolo”. Parola del presidente del Consiglio Mario Monti che, ad
aprile, rispondeva così al Wall Street Journal, quotidiano statunitense che prima lo
aveva paragonato alla Lady di Ferro, salvo poi denunciare qualche giorno dopo la
“resa all’italiana” sulla riforma del mercato del lavoro. L’ex preside della Bocconi
non vorrà essere un Thatcher, eppure è indubbio che dal suo esecutivo siano arrivati gesti, dichiarazioni e (ogni tanto) riforme
pro mercato considerate quasi uno “choc”
liberista per gli standard del dibattito pubblico italiano, tutto immobilismo e solidarismo.
Si prenda la riforma del mercato del lavoro. Oggi il testo del ddl Monti-Fornero,
approvato dalla commissione Lavoro del
Senato, è all’attenzione dell’Aula e – di
fronte ai 600 emendamenti presentati dai
partiti – il governo fa capire che potrebbe
mettere la fiducia per accelerare i tempi.
Qualcuno già grida alla “forzatura”, ma è
indubbio che se i consiglieri di Ronald
Reagan (vedi articolo sopra) fossero ancora tra noi non potrebbero che consigliare
all’esecutivo dei tecnici di tirare dritto sulla strada delle riforme. D’altronde il dibattito sul mercato del lavoro – uno dei più imbalsamati in tutto il pianeta – era già iniziato, per volontà dello stesso Monti, con
un confronto pubblico costruttivo ma tosto.
Il premier per esempio, durante un programma televisivo di febbraio, si rivolse
così ai telespettatori, soprattutto i più giovani: “L’idea di un posto fisso per tutta la
vita? Che monotonia!”. Il finimondo polemico del giorno dopo era atteso, e tale fu.
L’esecutivo però disse chiaramente di non
voler schivare un dibattito che, per forza di
cose, sarebbe stato anche culturale e non
solo tecnico-legislativo. In questo senso il
ministro del Lavoro, Elsa Fornero, non si
è mai tirato indietro: “Uno degli scopi di
questo governo è spalmare le tutele su tutti, non dare a tutti un posto fisso a vita –
ha spiegato una volta – E chi oggi promette un posto fisso a vita promette facili illusioni”. Questa dichiarazione non passerà
alla storia come lo slogan reaganiano “Mr.
Gorbachev, tear down this wall!” (1987), ma
per una società come la nostra – in cui i
giuslavoristi riformisti vivono ancora sotto
scorta per il solo fatto di predicare flessibilità in uscita e uguaglianza di opportunità tra insider ultragarantiti e outsider
precari – nemmeno le parole di Fornero
sono da buttare via. Anzi. Specie se argomenti simili sono condivisi un po’ da tutto
il governo, come dimostrano le dichiarazioni del ministro dell’Interno, la solitamente diplomatica Anna Maria Cancellieri:
“Noi italiani siamo fermi al posto fisso nella stessa città di fianco a mamma e papà”.
Sulla riforma delle pensioni, poi, il governo Monti è stato reaganiano nei fatti
prim’ancora che nelle parole: il passaggio
al metodo contributivo e l’innalzamento
dell’età pensionabile sono stati decisi in
maniera così rapida da non lasciare il tempo ai sindacati di protestare. Da manuale
liberista e riformatore. Oggi, non a caso, si
trascina la sola polemica sugli “esodati”,
ovvero su quanti lasciarono il posto di lavoro in anticipo (d’accordo con le aziende)
sapendo di arrivare presto alla pensione e
per i quali invece la pensione si allontana:
Fornero ancora ieri assicurava un decreto
con risorse per 65 mila esodati (“il governo non è né cieco né sordo”), salvo vedersi contestata sui numeri da un’inedita alleanza tra sindacati e Inps. Oggi, proprio
mentre saranno rese note le raccomandazioni della Commissione Ue per la politica economica del nostro paese, sarà bene
tenere a mente le raccomandazioni liberiste e riformatrici che Friedman & Co. inviarono al presidente Reagan. Con la consapevolezza che all’Unione europea, di
Reagan, ne servirebbero 27. (mvlp)
ne e il sostegno del Congresso.
Quest’ultimo compito – ottenere il sostegno e la comprensione del Congresso – è di
cruciale importanza. Dal risultato elettorale dello scorso 4 novembre, il 97esimo Congresso, siamo convinti, sarà più cooperativo nelle questioni economiche e finanziarie. Questa cooperazione aumenterà se, durante la transizione, il segretario al Tesoro
designato si consulterà intensivamente con
i membri chiave del Congresso con l’obiettivo di disegnare e implementare le sue
(del presidente) politiche economiche.
Lei ha sottolineato durante la campagna
elettorale la strategia stabilita in questo
documento. Nell’implementarla, lei dovrà
fare quel che gli elettori le hanno chiesto
votandola. Ogni sforzo deve essere fatto per
mantenere e allargare la sua base di sostegno migliorando la comprensione pubblica grazie anche a una più stretta collaborazione con il Congresso. I membri del governo e gli altri dell’Amministrazione possono aiutare in questo senso: la loro abilità
nello svolgere questo compito dovrà essere un importante criterio nella selezione.
Alla fine, comunque, il peso della leadership è sulle sue spalle: la leadership
per tracciare una direzione; la leadership
per convincere che la sua direzione è quella giusta da prendere; la leadership per
mantenere quella direzione, qualsiasi siano i venti politici che tirano. Attraverso la
difesa efficace dei grandi cambiamenti di
cui abbiamo bisogno, la sua leadership ci
ha portato a questa opportunità che aspettavamo da tempo in questo momento critico per la nazione. La sua leadership può sostenere queste posizioni nel modo convincente che è necessario per raggiungere risultati di successo.
Arthur F. Burns
Milton Friedman
Alan Greenspan
Michel T. Halbouty
The Honorable Jack Kemp
James T. Lynn
Paul McCracken
William E. Simon
Charles E. Walker
Murray L. Weidenbaum
Caspar W. Weinberger
Walter B. Wriston
George P. Shultz, Chairman
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per gentile concessione di MF/Milano Finanza