L`azione di adempimento entra nel processo amministrativo
Transcript
L`azione di adempimento entra nel processo amministrativo
L’azione di adempimento entra nel processo amministrativo Cons. Alberto Di Mario, Magistrato presso il TAR Lombardia Tanto tuonò che piovve. Dopo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 23 marzo 2011, n. 3 che aveva aperto la strada all’azione di adempimento ecco che arriva la prima sentenza in materia. Come tutte le pronunce che aprono un nuovo orientamento, la sentenza si concentra sui profili di legittimità della scelta, che sono propedeutici alla soluzione di tutti gli altri problemi processuali e di sistema che tale scelta comporta. La Redazione ha quindi ritenuto che essa meritasse un’analisi specifica al fine di aprire un dibattito in materia. Per questa ragione cercherò di porre sul tavolo di lavoro alcuni dei problemi che tale pronuncia pone, nella speranza che ne segua un dibattito proficuo, senza nulla togliere allo spessore della pronuncia ed al coraggio dei colleghi. L’ammissibilità dell’azione di adempimento. Come dicevo questa è la parte più forte della sentenza. Essa ripercorre i passaggi essenziali dell’evoluzione del rapporto tra la sentenza del giudice e la successiva attività dell’amministrazione al capo V della motivazione, riassumendolo come “un percorso che ha visto lungamente confrontarsi, da un lato, la visione che concepisce il giudizio amministrativo come strumento di garanzia della legalità della azione amministrativa (e, conseguentemente, intende l’interesse legittimo come “regola di coesistenza”, volta a conciliare l’interesse privato con quello pubblico); dall’altro, l’idea di una giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali”. L’approdo, realizzato dal Codice del processo amministrativo, sarebbe il superamento di “ogni residuo della concezione oggettiva del giudizio amministrativo di annullamento, che ne faceva principalmente uno strumento di controllo dell’azione amministrativa, a favore di una concezione soggettiva ove assume centralità la soddisfazione della pretesa del ricorrente, attraverso un giudizio sul rapporto ed uno scrutinio della fondatezza della pretesa sostanziale azionata, sancito dal superamento della vecchia regola della salvezza del riesercizio del potere amministrativo”. In merito mi domando se effettivamente questo passaggio sia così completo da eliminare “ogni residuo della concezione oggettiva del giudizio amministrativo di annullamento”. In realtà l’art. 30, comma 3, del codice nella parte in cui dispone, al secondo periodo, che, nel determinare il risarcimento, “il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti” è letto dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 23 marzo 2011, n. 3 come un’applicazione dell’art. 1227, comma 2, del codice civile, cioè di un obbligo di attivare tutti gli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento “alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza. E tanto in una logica che vede l'omessa impugnazione non più come preclusione di rito ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile”. 1 La norma, così come autorevolmente interpretata, costituisce una limitazione della concezione soggettiva del processo amministrativo, in quanto “invita” il ricorrente ad attivare tutti i rimedi giurisdizionali esistenti, limitandone la libertà di scelta. Sebbene la scelta possa comunque giustificarsi con la possibilità dello Stato di stabilire regole di priorità tra tutela in forma specifica e per equivalente, probabilmente un sistema che avesse ammesso la libera proposizione dell’azione risarcitoria da parte del privato, senza onere di altre azioni, ed avesse poi desunto dal riconoscimento dell’illegittimità dell’azione amministrativa, contenuto nella sentenza di condanna al risarcimento del danno, l’obbligo dell’amministrazione di ritirare l’atto illegittimo sarebbe stata più aderente (o coerente) alla concezione soggettiva del processo amministrativo. L’altra aspetto importante è l’apparato motivazionale che regge l’ammissibilità dell’azione di adempimento. La pronuncia sposa la tesi del “sistema aperto di tutele”, corroborato dal riconoscimento da parte della dottrina processualcivilistica, dal superamento di un sistema rigido di rimedi tipici. In particolare contrappone le azioni nominate (artt. 29 – 31) all’atipicità delle pronunce (art. 34), dando la prevalenza alle seconde e spezzando il nesso tra i due elementi del processo affermando che non sarebbe convincente “l’assunto per cui il tipo di pronuncia che il giudice può adottare ai sensi dell’art. 34 debba essere “supportata” da una corrispondente azione prevista negli articoli precedenti” e che “i rimedi … sono tuttavia di pertinenza del diritto sostanziale”. Anche questo è un passaggio di non poco momento, che merita un approfondimento, visto che la prevalente dottrina favorevole all’ammissibilità dell’azione di adempimento ha preferito percorrere la via della sussunzione di questa azione in quella di condanna prevista dall’art. 30 del Codice, ritenendo che l’azione di adempimento possa considerarsi una species dell’azione di condanna. L’azione di adempimento si applica anche ai provvedimenti discrezionali. La sentenza in commento condanna l’amministrazione a provvedere nell’ambito di un procedimento discrezionale. L’art. 55 comma 4 del DPR 24/04/1982 n. 335 infatti prevede che “il trasferimento ad altra sede può essere disposto anche in soprannumero all'organico dell'ufficio o reparto quando la permanenza del dipendente nella sede nuoccia al prestigio dell'Amministrazione o si sia determinata una situazione oggettiva di rilevante pericolo per il dipendente stesso, o per gravissime ed eccezionali situazioni personali”. Il caso in questione si riferiva ad una domanda di trasferimento per gravissime ed eccezionali situazioni personali alla quale l’amministrazione aveva dato risposta negativa. La norma inserisce nello stesso comma il trasferimento d’ufficio per interesse dell’amministrazione e del dipendente e quello a domanda per gravissime ed eccezionali situazioni personali. Se ne deve desumere la sostanziale equiparazione delle situazioni, con la conseguenza che l’esercizio del potere di trasferimento da parte dell’amministrazione presenta aspetti discrezionali connessi alle esigenze di servizio limitati dalla necessaria valutazione comparativa delle esigenze del 2 dipendente (per un caso di trasferimento d’ufficio contenuto nello stesso comma: Cons. Stato, IV, 5 luglio 1999 n. 1179). Il Collegio, ritenendo in sostanza che l’azione di adempimento in caso di diniego abbia gli stessi limiti di quella prefigurata per il caso di silenzio – ove il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità – ha ritenuto che la discrezionalità dell’amministrazione si fosse prosciugata a seguito dell’ insufficiente risposta al riesame disposto dal Tribunale con una sospensiva propulsiva. La tesi è ardita in quanto equipara gli effetti dell’ordinanza cautelare a quelli della sentenza e ritiene che con il primo provvedimento che integra la motivazione originaria, l’amministrazione abbia consumato il suo potere discrezionale. Ritiene poi che dalla consumazione del potere (per reiterazione del provvedimento negativo) non derivi la possibilità di esperire ricorso in ottemperanza, come affermato in precedenza dalla giurisprudenza (Cons. Stato, V, 6 febbraio 1999 n. 134), quanto la possibilità di emanare, nel primo giudizio, sentenza di adempimento. In merito la giurisprudenza a volte ha affermato che il potere discrezionale dell’amministrazione può essere esercitato in modo tale da integrare la motivazione originaria solo in occasione del primo provvedimento successivo alla sentenza. Ove anche detto provvedimento, emanato non in carenza di potere (nuovo diniego per motivi diversi da quelli valutati illegittimi dal giudice), venga annullato in sede di legittimità, l’amministrazione avrà consumato il suo potere discrezionale di valutare l’interesse pubblico modificando la motivazione ed un nuovo provvedimento negativo diversamente motivato sarà nullo. Di qui la possibilità di esperire il ricorso di ottemperanza (Caringella, Corso di diritto amministrativo, , Milano, 2003, 1189). Occorre quindi verificare se gli effetti dell’ordinanza propulsiva, stante la sua provvisorietà, possano concorrere (assieme alla sentenza di merito) a prosciugare la discrezionalità e se l’eliminazione della salvezza degli ulteriori atti dell’autorità amministrativa (artt. 45 R.D. 1054/1924 e 26 L. 1043/1971), operata dal Codice, possa “accorciare” il meccanismo giurisprudenziale di prosciugamento della discrezionalità. Il problema della prova della fondatezza della pretesa. La tesi della consumazione del potere spinge il Collegio a scaricare sull’amministrazione l’onere della prova della fondatezza della pretesa del privato. In merito la pronuncia afferma “acclarata la fondatezza della pretesa del ricorrente ad ottenere il trasferimento di riavvicinamento (non essendo stata evidenziata nel corso del procedimento e del successivo processo alcuna valida causa ostativa)”. A ciò si aggiunge che la fondatezza della pretesa non viene dedotta dalla piena prova di essa quanto dalla mancanza di prova contraria da parte dell’amministrazione. In effetti si tratta di due passaggi forti e controvertibili. L’accertamento pieno da parte del giudice della fondatezza della pretesa e l’onere della prova in capo al ricorrente di tale elemento sembrano infatti requisiti indispensabili dell’azione di adempimento. 3 In quest’ottica il meccanismo di consumazione del potere di fonte giurisprudenziale al quale il Collegio si richiama, con il suo sbocco naturale nel giudizio di ottemperanza, dà garanzie migliori in merito alla verifica piena della fondatezza della pretesa. In merito all’onere della prova la sentenza alla fine corregge il tiro affermando che “circa i profili istruttori, la cognizione estesa ai profili dell’esercizio del potere che, non avendo costituito oggetto del provvedimento, non hanno potuto essere censurati nel ricorso, sarà possibile sempre che il ricorrente abbia allegato in giudizio gli elementi di fatto atti a dimostrare la fondatezza della pretesa”. In ogni caso la via per la soddisfazione diretta e non più “ in seconda battuta”, come dice la sentenza, degli interessi pretesivi è aperta, occorre approfondirne gli strumenti. Luglio 2011 4