Le origini della Provincia L`istituzione della Provincia, nella sua
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Le origini della Provincia L`istituzione della Provincia, nella sua
Le origini della Provincia L’istituzione della Provincia, nella sua concezione moderna, si può far risalire alle riforme introdotte dalla Rivoluzione francese e da Napoleone, in particolare alla creazione dei dipartimenti concepiti sia come circoscrizioni dell’amministrazione statale sia come enti autarchici con scopi propri. La reggenza è affidata al Prefetto, che riveste sia il ruolo di rappresentante del Governo che quello di capo dell’Amministrazione provinciale. La suddivisione del territorio in mandamenti, circondari, comuni e province viene formalizzata con la legge Rattazzi del 28 ottobre 1859, che ridisegna l’organizzazione territoriale del Regno di Sardegna. Le Province, rette da un governatore, si delineano come un consorzio permanente di Comuni e si compongono di un Consiglio provinciale, elettivo e deliberante, e di una Deputazione. Sarà il governo La Marmora a unificare amministrativamente il neo-costituito Regno d’Italia e a formulare il Testo Unico della legge comunale e provinciale. La rappresentatività della Provincia è affidata al Consiglio, retto da un presidente e da un vicepresidente, e alla Deputazione provinciale, guidata dal Prefetto e composta da consiglieri, organo esecutivo dell’Ente, che esercita funzioni di controllo su alcune deliberazioni comunali. Tale legge, inoltre, introduce funzioni facoltative e potestà di spesa che, per la prima volta, consentono alla Provincia di provvedere agli interessi degli amministrati. Il governo Crispi, con la legge 30 dicembre 1888, istituisce la Giunta provinciale amministrativa, che subentra alla Deputazione anche nei controlli delle deliberazioni comunali. Le funzioni che erano del Prefetto si trasferiscono al presidente, scelto dal Consiglio fra i propri componenti. In epoca giolittiana (1892-1911), a causa di un maggior rilievo dei Prefetti e di un minore potere di spesa, le funzioni dell’Ente risultano impoverite e le attività burocratizzate a favore del governo nazionale. Gli organi istituzionali locali diventano sono sempre più circuiti clientelari dei notabili piuttosto che rappresentative degli interessi delle comunità territoriali. Non risultano innovative Le successive riforme all’ordinamento della Provincia sancite dai testi unici del 1889, 1898 1908, e 1915 non apporteranno modifiche sostanziali. Il periodo fascista Lo stato di “umiliazione delle autonomie locali” è ribadito dalla scelta centralista del regime fascista, che ritiene pregiudizievole qualsiasi forma di decentramento istituzionale. A seguito di uno dei periodici dibattiti – promossi dall’opposizione parlamentare – sulla soppressione delle Province e a favore dell’istituzione di un Ente regionale, il governo Mussolini elabora una riforma articolata in varie leggi: il R.D. 30 dicembre 1923, n. 2839, che riscrive parte della legge comunale e provinciale; il R.D. 18 novembre 1923, n. 2538, sulle finanze locali; i RR.DD. 30 dicembre 1923, n. 2885 e 15 novembre 1923, n. 2506 che ampliano le funzioni in materia sanitaria e stradale. La riforma si completa con le leggi 18 giugno 1925, n. 1094, per la costituzione dei Consigli provinciali e della Giunta provinciale amministrativa (G.P.A.), organo giurisdizionale di controllo; 23 ottobre 1925, n. 2113, che istituisce il servizio ispettivo sui Comuni e sulle Province; 23 ottobre 1925, n. 2289, che riguarda le responsabilità degli amministratori dei Comuni e delle Province e l’approvazione dei conti di detti enti. La tradizionale tripartizione degli organi provinciali, in atto dal 1859, in Consiglio provinciale elettivo, Deputazione provinciale e presidente di quest’ultima, permane fino all’abolizione delle rappresentanze elettive operata dal regime fascista (sfociata nelle leggi 4 febbraio 1926, n. 237 e 13 settembre 1926, n. 1910, che introducono nei Comuni la riforma dei podestà; con la legge 27 dicembre 1928, n. 2962, oltre all’abolizione del Consiglio e della Deputazione provinciale, si affida l’amministrazione della Provincia ad un preside, avente i poteri della Deputazione, e del presidente della medesima ad un rettore, di nomina regia, con i poteri del soppresso Consiglio provinciale. Il nuovo ordinamento si completa con il nuovo testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con R.D. 3 marzo 1934, n. 383 che attribuisce al ministro dell’interno anziché al Re la nomina dei rettori. Si stabiliscono, inoltre, norme più restrittive e rigorose, in analogia a quelle definite per i Comuni, per i controlli amministrativi, non più circoscritti al solo esame di legittimità ma anche al merito. Le deliberazioni provinciali vengono così esaminate dalla Prefettura, dalla Giunta provinciale amministrativa e dal competente ministero. Alla caduta del fascismo viene emanato il R.D. 4 aprile 1944, n. 111 che – in attesa delle elezioni amministrative per la ricostituzione degli organi consiliari – detta norme transitorie per l’amministrazione dei Comuni e delle Province e abroga le disposizioni limitative stabilite dal Testo Unico del 1934. Il governo della Provincia è affidato provvisoriamente ad un presidente e l’amministrazione ad una Deputazione provinciale, entrambi nominati dal prefetto. Gli anni della Deputazione provinciale Il 21 aprile 1945, cessate le azioni di guerra, per Bologna, liberata dai nazifascisti, ricomincia un nuovo ed altrettanto difficile periodo della sua storia, quello della ricostruzione. La libertà, riconquistata con un grande tributo di sangue, ha lasciato ovunque un’enorme desolazione: strade dissestate, ingenti danni alle infrastrutture, al patrimonio scolastico, ai servizi e all’assetto economico di una delle province più attive del paese. In questo quadro, tutt’altro che incoraggiante, va a collocarsi l’opera dei nuovi amministratori provinciali. Il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) e l’AMG (Allied Military Government), applicando quanto prescritto dal R.D. (regio decreto) 4 aprile 1944, n.111, nominano la Deputazione provinciale, che si insedia il 22 giugno 1945. Presieduta dall’ingegner Giorgio Melloni, del Partito democratico cristiano, si compone di 12 esponenti dell’antifascismo bolognese e garantisce la rappresentanza paritetica di tutti i partiti politici. Tale rappresentanza, tuttavia, viene messa in discussione dagli stessi deputati quando, dopo le elezioni politiche della primavera del 1946, dando prova di grande sensibilità, essi presentano le dimissioni, ritenendo di non essere più rappresentativi della volontà popolare espressa dalle urne. Le dimissioni vengono comunque rifiutate dal Prefetto, che motiva la decisione con l’impossibilità dell’Assemblea di rappresentare, in ogni caso, la reale volontà popolare, essendo espressione di nomina e non di un pronunciamento elettorale. La ricostruzione è la maggiore preoccupazione dei nuovi amministratori, che proseguono nel loro impegno, nonostante l’inadeguatezza dei mezzi finanziari dell’Ente e la sua precaria organizzazione, particolarmente gravata dalla mancanza di personale. I pubblici amministratori lavorano in un clima difficile anche a causa dell’acceso dibattito costituzionale che propende, in taluni momenti per l’abolizione dell’ente Provincia, a vantaggio di una maggiore autonomia dei Comuni ed in vista dell’istituzione dell’ente Regione. I lavori della Deputazione si sviluppano comunque con un certo successo e conseguono importanti risultati: gli sforzi compiuti portano a varare iniziative di rilievo, spesso al di là delle strette competenze istituzionali (caratteristica questa che accompagnerà, negli anni, l’attività della Provincia di Bologna). 1951: le prime elezioni provinciali Con il testo unico emanato con il decreto 5 aprile 1951, n. 203, il legislatore approva le norme per la composizione ed elezione dei Consigli provinciali, ripristinando con denominazioni differenti gli organi – Consiglio provinciale, Giunta provinciale e presidente della giunta – presenti prima de 1928. Il 27 maggio si svolgono le prime elezioni provinciali mediante un sistema elettorale misto, proporzionale e maggioritario. Inoltre con le leggi 18 maggio 1951, n. 328 e 16 ottobre 1951, n. 1168, si emanano norme sulle attribuzioni e il funzionamento degli organi dell’Amministrazione provinciale (ripristinandosi le norme del Testo Unico del 1915, n. 148, modificato con R.D. del 1923, n. 2839). Con la L. 10 settembre 1960, n. 962, il legislatore opta per un sistema elettorale di tipo proporzionale puro. I campi di intervento All’insediamento della Deputazione, l’Ente si impegna anche nel risanamento del proprio patrimonio immobiliare e realizza, nell’arco di sei anni, una serie di lavori pubblici destinati al recupero e al ripristino dei principali servizi necessari alla “normale” ripresa della vita dopo la guerra. Vengono ricostruiti gli istituti delle scuole medie superiori, le ferrovie locali e le tramvie date in concessione alla Provincia e sono resi più regolari gli auto-servizi provinciali. Negli anni dal 1945 al 1951 in particolare si realizzano: l’istituzione di un consorzio per l’allacciamento ferroviario Bologna-La Spezia; il progetto stradale Verona-Bologna-Firenze-Roma (parzialmente), nel quale vengono coinvolte anche le Deputazioni delle altre Province; la costruzione del Cavo Napoleonico, necessario per limitare al massimo le conseguenze delle piene del Reno. È ripristinato il traffico su tutte le strade provinciali, con corposi interventi su 280 Km, effettuati tutti con mezzi propri; si provvede anche al ripristino e al potenziamento dei servizi per la viabilità, come lo sgombero neve. Si istituisce il servizio di Polizia Stradale. In tema di sicurezza, si ricorda che dal 1945 al 1951 sono rimesse in funzione le caserme di Carabinieri del territorio provinciale, distrutte o saccheggiate durante la guerra. Sempre in quegli anni, è restaurata la residenza provinciale di palazzo Malvezzi. Nelle attività produttive è notevole l’impegno per la rivitalizzazione e il potenziamento dell’agricoltura: la Deputazione avvia nel 1947 lo sviluppo di nuovi impianti arborei, favorendo il ripristino della fertilità del suolo con l’utilizzo delle falde idriche sotterranee per l’irrigazione e finanziando le prime ristrutturazioni delle case rurali. Il grande sforzo che viene compiuto anche nell’area dell’assistenza sociale mette in evidenza aspetti peculiari dell’identità di questa Amministrazione: la psichiatria ad esempio, uno dei compiti storici della Provincia, riceve notevole e nuova attenzione. Gli ospedali psichiatrici “Roncati” di Bologna e “Lolli” di Imola sono rimessi pienamente in funzione: ampliati ed arredati i padiglioni, rifornite le scorte e migliorato il vitto dei degenti; inoltre, per specifico interessamento del vicepresidente della Deputazione, Roberto Vighi, viene dato un importante sostegno anche all’Istituto medico psico-pedagogico di Imola. Un forte impegno viene espresso anche a favore dell’infanzia, soprattutto grazie all’Istituto provinciale per l’infanzia e la maternità (Ipim). Data l’importanza dei servizi che questa struttura fornisce alle gestanti nubili e ai bambini abbandonati, la Provincia la dota di una sede più adeguata in via d’Azeglio, in cu vengono istituiti anche i primi consultori ostetrico-ginecologici e pediatrici. Per ultimo, la sanità e l’igiene, attraverso soprattutto l’attività del Laboratorio di igiene e profilassi: sono ripristinati arredi e strumentazione e rimessi in funzione i Dispensari antitubercolari. Viene istituito il Consorzio provinciale antitubercolare che, dotato di un centro schermografico, gestisce anche una colonia alpina a Dobbiaco, per assicurare efficaci soggiorni ai bambini con problemi tubercolari e respiratori. Sul piano politico, per impulso della Deputazione di Bologna, si giunge alla costituzione dell’Unione regionale delle Province emiliane, organismo che intende promuovere attività efficaci per l’intera regione. Prove di decentramento Già prima degli anni ’60 i temi del decentramento e della programmazione, unitamente alle iniziative tendenti a favorire la nascita della Regione, impegnano la Provincia di Bologna. Si ricorda, quale iniziativa di decentramento della fine degli anni ’50, l’appoggio della Provincia per la costituzione dei Consigli di Valle, iniziativa non realizzatasi per la mancata approvazione delle deliberazioni adottate dai Comuni interessati. Ma è soprattutto a partire dal 1960, dopo le elezioni di novembre, che si sviluppa una consistente attività della Provincia nella pianificazione territoriale intercomunale, che determinerà la nascita del Comprensorio del PIC (Piano intercomunale di Bologna) e di Imola, nonché i Comprensori di pianura e di montagna. Create nell’interesse dello Stato centrale, molte Province tentano progressivamente di emanciparsi attraverso un esercizio “espansivo” delle funzioni facoltative. I primi decenni della Repubblica sono contraddistinti dalla mancata attuazione dei principi autonomistici e policentrici riconosciuti dagli artt. 5, 114 e 128 della Costituzione e dalla sovraordinazione gerarchica dello Stato rispetto alle autonomie territoriali, esercitata attraverso poteri di indirizzo e di controllo ed il ricorso alla finanza derivata. Le politiche nazionali di settore si proiettano sul territorio riducendo lo spazio decisionale delle amministrazioni locali, che cercano di ovviare a ciò attraverso l’esercizio delle funzioni facoltative. Le ragioni dell’avversione verso l’istituzione provinciale si fondano, da parte degli “statalisti”, sul presupposto di non creare contraltari all’autorità del prefetto, che rappresenta il Governo nel territorio, e da parte dei “localisti” sulla presunta incompatibilità con la Regione, ritenuta maggiormente in grado di guidare i processi territoriali. Le voci favorevoli all’abolizione della Provincia si accentuano negli anni ’70, sostenendosi sempre sull’affermazione del suo carattere artificiale e sulla inutilità della sua conservazione con l’istituzione della Regione. 1970 nasce la Regione, la Provincia si ridefinisce Il 1970 vede l’insediamento a palazzo Malvezzi della prima Amministrazione regionale dell’Emilia-Romagna. In tutta la prima fase di avvio del sistema regionale, dal 1970 al 1975, avviene un graduale trasferimento di funzioni e risorse dallo Stato alle Regioni, attuato, oltre che con gli undici decreti delegati del 1972, con la successiva e ben più importante legge delega del 1975(16). Ma gli Enti locali non sono toccati da questo processo e la Provincia, in particolare, ottiene ben poco, rispetto al Comune, da quel trasferimento certo non consistente di funzioni pervenute dallo Stato, in via diretta o attraverso la Regione. Il riordino della legislazione degli Enti locali dovrebbe razionalmente compiersi contestualmente a questo processo di regionalizzazione: invece la legislazione fondamentale degli Enti locali rimane quella del T.U. della legge comunale e provinciale del 1934, salvo qualche modificazione(17). Tale mancato tempestivo riordino degli Enti locali non consente l’attuazione di un effettivo processo di trasferimento di funzioni e poteri a tutti i livelli di governo (Stato, Regioni, Province e Comuni), inficiando per anni il rapporto tra Enti locali e Regione, anche sotto l’aspetto del ruolo programmatorio e/o gestionale (e, se anche gestionale, quale) della Regione, nonché sotto l’aspetto della determinazione delle modalità, dei tempi, della consistenza e dei caratteri delle deleghe di funzioni. Di ciò risente anche, e forse in modo particolare, la Provincia di Bologna che, pressoché per tutti gli anni Settanta, riceve deleghe piuttosto frammentate e non inserite in un contesto organico di funzioni e attribuzioni. In più, per le funzioni sovracomunali, intermedie tra livello comunale e regionale, la Regione tende a identificare altre strutture di collegamento per la programmazione socioeconomica ed urbanistica quali le associazioni dei Comuni, i consorzi e i Comprensori. Con il D.P.R. 616/77, assorbe funzioni che la configurano come “ente di governo” di tutta l’amministrazione locale, mentre i Comuni e le Province sono chiamati ad operare secondo gli indirizzi e le direttive dell’ente maggiore. Sembrano preannunciare il ridimensionamento della Provincia l’istituzione delle Comunità Montane, con la legge del 1971, n. 1102 che rinvia alla successiva legislazione regionale per la minuta disciplina, e la creazione dei comprensori (generalmente configurati come organi della Regione, ma qualche volta come Enti locali di tipo consortile). Il fallimento, in particolare, sul piano della programmazione di tali esiti inducono le stesse Regioni a ripensare, in misura sempre crescente, alle Province quale destinatarie di deleghe, in particolare nei settori di cosiddetta area vasta. L’autonomia come processo La divaricazione progressiva fra sviluppo economico e staticità istituzionale, fra complessità sociale e monolitismo delle amministrazioni, attestate su modelli strutturali e funzionali d’anteguerra, rivela l’inadeguatezza della concezione centralista vigente del cosiddetto big government, rispetto a modelli di governo più snelli e dinamici. Il sistema locale, per la sua contiguità e capacità di interazione diretta con i cittadini, appare il più idoneo. Come preannunciato dalla Convenzione europea relativa alla Carta delle autonomie locali, sottoscritta a Strasburgo il 15 ottobre 1985 (e ratificata dall’Italia con la legge 30 dicembre 1989, n. 439), con la legge 8 giugno 1990, n. 142, riparte il processo di rilancio delle autonomie. Tale legge assegna alla Provincia funzioni proprie ma settorializzate e frammentate (in materia di assistenza e beneficenza; istruzione e assistenza scolastica; viabilità e lavori pubblici; inquinamenti ambientali e difesa del suolo) e di programmazione (concorso ai programmi regionali, predisposizione del piano territoriale di coordinamento, coordinamento e approvazione degli strumenti di pianificazione territoriale dei Comuni). Particolarmente innovativa risulta la previsione sulla “Città Metropolitana”, intesa come livello di governo integrato e razionalizzato (fra i vari comuni) cui demandare funzioni di pianificazione, di coordinamento, di gestione di servizi e opere. La L. n. 142/1990 riconosce inoltre forme di partecipazione, rinforzate poi anche dalla L. n. 241/1990. Seppure conservi sistemi elettorali e finanziari tradizionali, la legge interviene radicalmente sulla ripartizione delle competenze tra la Giunta, che amplia i propri ambiti operativi, e il Consiglio, organo di mero indirizzo e controllo politico-amministrativo con competenze tassativamente elencate e non più generali. Altre trasformazioni riguardano la nomina del presidente della Giunta da parte del Consiglio sulla base del documento programmatico; il vincolo della stabilità della Giunta al meccanismo della sfiducia costruttiva; la preminenza del presidente, al quale spetta la revoca del singolo assessore e il coordinamento dell’attività di Giunta; la distinzione tra attività politicoamministrativa e attività gestionali (il cui ruolo viene rimarcato dal d.lgs. n. 29/1993, la c.d. disciplina di privatizzazione del pubblico impiego), in base alla quale queste ultime vengono trasferite in capo ai dirigenti. L’assestamento e l’interiorizzazione della L. n. 142/1990 non sono né rapidi né lineari, data la narcosi istituzionale indotta negli enti locali per decenni. Un’altra accelerazione l’imprimono l’emergere di diffusi fenomeni di malcostume politico che inducono il legislatore a migliorare l’efficienza politicoistituzionale della componente istituzionale dell’ente. La Provincia presidenziale e l’ampliamento delle competenze Il rimedio si ravvisa nella L. 25 marzo 1993 n. 81, che introduce una forma di governo dell’ente tendenzialmente presidenziale. Con l’elezione diretta del presidente della Provincia il Consiglio perde ogni potere nella costituzione degli organi esecutivi. Diventano incompatibili le cariche di consigliere ed assessore, è possibile istituire commissioni d’indagine e il mandato amministrativo viene ridotto a quattro anni. L’autonomia degli enti locali enunciata dall’art. 5 della Costituzione come esigenza cui adeguare i principi e i metodi della legislazione, articolata nel Titolo V della Costituzione, cadenzata nel suo percorso attuativo dalle disposizioni transitorie e finali VIII e IX, si trasforma da astratto valore costituzionale in processo di organizzazione e razionalizzazione istituzionale con la L. n. 59/97 e con il D.lgs. n. 112/98 e i decreti delegati susseguenti. A Costituzione invariata, con la L. 15 maggio 1997, n. 59 si conferiscono alle Regioni e agli Enti locali tutte le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi in atto nei rispettivi territori, esercitati da qualunque organo o amministrazione dello Stato, centrale o periferico. Le funzioni che debbono rimanere allo Stato vengono tassativamente elencate, le altre sono individuate direttamente con decreti legislativi ovvero dalle Regioni (se riconducibili alle materie dell’art. 117 della Costituzione), con la previsione di poteri sostitutivi dello Stato e delle Regioni in caso di inadempienza o ritardo. Le stesse Regioni devono conferire agli Enti locali tutte le funzioni proprie che non richiedono l’unitario esercizio a livello regionale. Con la L. n. 59/1997 si inverte radicalmente il ruolo tra Stato e autonomie: allo Stato resta la competenza in affari esteri, difesa, tutela dei beni culturali, ordine pubblico, giustizia, sistema previdenziale e ricerca scientifica mentre gli Enti territoriali assumono una competenza amministrativa generale. La redistribuzione dei poteri è attuata secondo i principi direttivi di sussidiarietà, efficienza ed economicità, responsabilità ed unicità dell’amministrazione operante, adeguatezza (idoneità dell’amministrazione a garantire l’esercizio delle funzioni), differenziazione nell’allocazione in relazione alle diverse caratteristiche. Per la Provincia significa il superamento del cosiddetto sistema binario incentrato sulla coesistenza/compresenza di competenze e strutture periferiche dello Stato su materie di intervento proprio. Tale ripartizione degli ambiti funzionali viene dettagliata con il d.lgs. n. 112/1998 e, in Emilia-Romagna, con la L.R. n. 3/1999. Il D.lgs. n. 112/98, che pur redistribuisce per accumulazione, descrive compiti che vanno da quelli autorizzatori a quelli di prevenzione, da quelli di assistenza a quelli di controllo e vigilanza; da quelli di progettazione, di costruzione e manutenzione di opere a quelli di tenuta di albi. Si rafforza così il carattere bicefalo della Provincia, intesa come amministrazione tecnico-amministrativa e come ente di programmazione subrergionale e sovracomunale, rendendo effettivo l’autogoverno (condizionato però dal trasferimento di beni, del personale e delle risorse finanziarie). Al di là del riassetto delle competenze e della disciplina dei rapporti tra i diversi livelli di governo, i principi sanciti dalla L. n. 59/1997 sono destinati a indirizzare l’ordinamento sia che questo adotti la forma federale, sia che scelga quella decentrata, integrando e garantendo comunque tutti i livelli istituzionali attraverso i principi della solidarietà e della cooperazione. Avanza il processo riformatore Preceduto dalla L. 30 aprile 1999 n. 120, che porta il mandato a cinque anni, il processo riformatore avanza ulteriormente con la L. 3 agosto 1999, n. 265: vengono sottolineati il rapporto di equa ordinazione fra i soggetti istituzionali che compongono l’ordinamento generale, la sussidiarietà verticale nei confronti dei cittadini e delle loro forme di organizzazione, l’attribuzione di autonomia statutaria, normativa, organizzativa, impositiva e finanziaria. Mediante l’art. 31 della L. n. 265/99 il legislatore incaricava il Governo di elaborare una legge generale che riunisse coerentemente tutte le disposizioni in materia. Il recente d.lgs. n. 267/2000 rappresenta il risultato di questa ricognizione, analisi, riformulazione e coordinamento delle varie fonti legislative. I testi legislativi selezionati non sono meramente compilati, ma innovati nei termini necessari a facilitare l’applicazione delle leggi preesistenti, eliminando duplicazioni, sovrapposizioni, contraddizioni. Inoltre, tiene conto delle sentenze della Corte costituzionale e degli orientamenti della giurisprudenza ordinaria e amministrativa su aspetti particolarmente problematici. E’ un intervento normativo che per complessità e ampiezza è assimilabile a quello svolto per i testi unici del 1915 e del 1934; una legge generale della Repubblica posta a garanzia, più che a limitazione, dell’autonomia locale. Si compone di duecentosettantasette articoli e di quattro parti: la prima, in cui si recepiscono molte norme della L. n. 142/90 coordinate con la L. n. 59/97 e il d.lgs. n. 112/98, delinea un federalismo amministrativo tendente alla valorizzazione delle varie forme di autonomia riconosciute agli Enti locali; la seconda, sull’ordinamento finanziario e contabile, eredita parte delle disposizioni del d.lgs. 77/95; la terza disciplina le forme associative; la quarta contiene le norme e l’elenco delle leggi espunte in tutto o in parte dall’ordinamento. Relativamente agli statuti – che stabiliscono i principi ispiratori e descrivono il “carattere” dell’autonomia dei singoli Enti – questi potranno estendersi alle forme di partecipazione amministrativa e alla vita pubblica locale anche dei cittadini della U.E. e degli stranieri regolarmente soggiornanti; ai criteri generali in materia di organizzazione; alla più chiara separazione dei compiti tra organi politici e organi gestionali; alle modalità reticolari dei rapporti con gli altri enti territoriali. Indicativi, sul tema, gli artt. 4 e 33 del T.U., incentrati rispettivamente sul sistema regionale delle autonomie locali (e sui principi, gli strumenti e le procedure di coordinamento, collaborazione e cooperazione) e sull’esercizio associato di funzioni e servizi da parte dei Comuni di minore dimensione demografica. A tale processo di riorganizzazione concorre la Città Metropolitana (artt. 2226), non più configurabile come “variante” della Provincia ma come ente associativo di Comuni (tali indirizzi, come avvenuto per la semplificazione amministrativa, costituiscono una vera e propria politica istituzionale per la Provincia di Bologna). In questa transizione, gli Enti locali si attivano e si attrezzano oltre che nelle sedi di rappresentanza istituzionale (Conferenza unificata Stato-Regioni, Stato-Città e Autonomie locali) anche sul piano aziendale, per un governo più evoluto, rafforzando la propria capacità propositiva e la propria influenza sulle dinamiche dell’ambiente istituzionale e non.