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Luigi Ferrajoli, Un partito nuovo? Introduzione alla discussione sul documento di
Fabrizio Barca, Roma, Fondazione Basso, 6.6.2013
1. Penso che tutti noi, che in vario modo facciamo parte della Fondazione Basso,
siamo vivamente interessati alla discussione di oggi con Fabrizio Barca, a partire
dalla sua memoria “Un partito nuovo per un buon governo”.
Il nostro interesse di cittadini, ancor prima che di persone di sinistra, è legato
alla crisi della politica e conseguentemente della democrazia nel nostro paese.
Proprio il partito politico è oggi in Italia l’istituzione più screditata. Anche a non
tener conto dell’astensionismo, la maggioranza dell’elettorato si è espressa in
favore di due forze antiparlamentari, antipartitiche e populiste: da un lato, la destra
berlusconiana, con la sua concezione personalistica, padronale e plebiscitaria della
rappresentanza politica identificata con il capo, al punto da farla gridare al golpe e
al tradimento degli elettori – lo abbiamo sentito tutti, in passato, in televisione –
ogni volta che si manifestavano dissensi nella vecchia maggioranza e la possibilità
di normali crisi parlamentari; dall’altro, il Movimento 5 stelle, che certamente ha
espresso una rabbia sociale più che giustificata contro l’attuale politica, ma il cui
capo ha teorizzato apertamente la soppressione del divieto del mandato imperativo,
cioè del fondamento stesso della democrazia parlamentare.
Resta il Partito democratico, che non è solo il maggior partito della sinistra ma
anche il solo residuo del vecchio arco costituzionale, il solo partito superstite della
vecchia democrazia rappresentativa. Di qui il nostro secondo motivo di interesse.
Proprio questo partito, ovviamente centrale per il futuro della democrazia nel
nostro paese, ha suscitato in questi mesi sconcerto e disorientamento a causa
dell’incomprensibile linea politica adottata dopo il sostanziale insuccesso elettorale
del 25 febbraio: dapprima nella vicenda dell’elezione del Presidente della
Repubblica, poi nella formazione del governo delle larghe intese con Berlusconi, e
da ultimo nella decisione di por mano insieme a Berlusconi a profonde riforme
della Costituzione del 48.
Ho parlato di sconcerto e disorientamento. Confesso infatti di aver trovato
incomprensibili, come milioni di persone, le vicende politiche del dopo-elezioni.
Politicamente incomprensibile, innanzitutto, mi è parso il comportamento del
Partito democratico: il quale, dopo aver cercato per quasi due mesi un’alleanza di
governo con i deputati del Movimento 5 stelle, improvvisamente, su una questione
istituzionale come la scelta del Presidente della Repubblica, ha prima bruciato
l’autorevole candidatura di Romano Prodi, e poi ha rifiutato di votare, solo perché
votato dai grillini, un candidato della statura intellettuale e morale di Stefano
Rodotà, che è un simbolo non solo della sinistra, ma della nostra stessa
democrazia, e avrebbe certo svolto in maniera esemplare le funzioni di garanzia
assegnate al Presidente dalla nostra Costituzione. Ne è seguito il cosiddetto
governo delle «larghe intese» con Berlusconi, cioè esattamente il contrario di ciò
che il Pd si era impegnato a fare durante tutta la campagna elettorale e fino al
giorno prima.
Ma non meno sconcertante è stato, a mio parere, il ruolo svolto in questa
vicenda dal Presidente Napolitano, che ha esplicitamente promosso questa
maggioranza delle larghe intese al di fuori delle sue competenze. Nel nostro
sistema parlamentare, infatti, il Presidente «non è responsabile degli atti compiuti
nell’esercizio delle sue funzioni» (art. 90 Cost.), al punto che ogni suo atto deve
essere «controfirmato dai ministri proponenti» (art. 89 Cost.). Non potrebbe esserci
definizione più restrittiva dei suoi poteri. È quindi escluso che egli possa esercitare
funzioni di indirizzo politico, affidate invece alla maggioranza parlamentare e al
Presidente del consiglio da essa espresso. L’aspetto più sconfortante della vicenda
è che, a causa della piaggeria generale, questo incisivo ruolo di indirizzo politico
del Presidente della Repubblica, anziché essere censurato come indebito, è stato da
molti interpretato come espressione di grande saggezza politica e, quel che è
peggio, come un segno dell’ormai inevitabile trasformazione di fatto del nostro
sistema parlamentare in un sistema presidenziale, o semi-presidenziale, che
occorrerebbe tradurre in una trasformazione di diritto della nostra forma
parlamentare di governo.
Tutto questo è avvenuto a causa della crisi profonda che ha investito il Partito
Democratico: a causa delle sue divisioni interne, della sostanziale assenza di una
sua linea politica, della sua debole identità programmatica, della sua conseguente
vocazione al compromesso senza fermi principi, per il suo scollamento dal suo
elettorato. Di qui l’interesse che da qualche mese ha suscitato l’iniziativa di
rinnovamento del Partito democratico presa da Fabrizio Barca con il documento
che siamo chiamati a discutere.
2. Barca istituisce un nesso stretto di reciproca implicazione, che condivido
pienamente, tra la crisi odierna dei partiti, la crisi in atto della democrazia e il
malgoverno e, inversamente, tra la rifondazione dei partiti, la difesa della
democrazia e il buon governo.
Anzitutto (pp.8-16) il nesso tra il carattere arcaico e burocratico della macchina
statale, tuttora organizzata sul modello autoritario ereditato dal fascismo, e
l’involuzione dei partiti in quelli che Barca chiama “partiti stato-centrici”,
contrassegnati dalla loro crescente lontananza dalla società e dal fatto che essi
traggono legittimità non dal loro radicamento sociale e dalla rappresentanza degli
interessi e della volontà degli elettori, bensì dal loro rapporto con lo Stato, cioè dal
loro insediamento nelle istituzioni: in breve dalla loro occupazione dello Stato
(p.3) e dalle pratiche clientelari e spartitorie che ne conseguono.
I tre fenomeni, in effetti – occupazione dello Stato da parte dei partiti, crisi
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della democrazia rappresentativa e malgoverno –, si alimentano a vicenda.
L’occupazione dello Stato da parte dei partiti annulla la mediazione
rappresentativa che essi dovrebbero assicurare tra Stato e società e, per altro verso,
forma il presupposto di tutte le varie forme di subordinazione dei pubblici interessi
a interessi particolari, corporativi o individuali, che si manifestano talora nella
corruzione e nel malaffare. Barca parla di “equilibrio perverso” e di “fratellanza
siamese” tra partiti statocentrici e macchina statale arcaica, tra partiti insediati
nello Stato e lontani dalla società da un lato e malgoverno dall’altro: una
fratellanza siamese che inevitabilmente preclude il perseguimento di interessi
pubblici e generali e lascia libero spazio al prevalere di interessi particolari, o
peggio personali; stabilizza il vecchio ceto politico e impedisce il ricambio
generazionale; paralizza la circolazione delle idee e l’innovazione politica.
L’indicazione di Barca, sicuramente la più rilevante della sua proposta e quella
a mio parere più giusta, è quindi netta: rompere questa fratellanza siamese tra Stato
arcaico e partiti statocentrici (p.17). Gli strumenti in grado di realizzare questa
rottura sono essenzialmente due. Richiedono entrambi una profonda riforma del
partito in senso democratico, riguardando l’uno la formazione dal basso della
volontà politica e l’altro le regole idonee a garantire la democrazia interna ai partiti
e la separazione tra partiti e istituzioni pubbliche.
3. Cominciamo dalla prima proposta: quella che Barca esprime con due indicazioni
tra loro connesse: lo sperimentalismo democratico (pp.2, 21) e la mobilitazione
cognitiva (pp.3, 35-38). Si tratta di una strategia e ancor prima di una concezione
della politica che Barca oppone alle due diverse visioni dominanti e tradizionali,
entrambe elitistiche: quella socialdemocratica e quella minimalista o liberista
(pp.18-20 e 24). Elitistiche entrambe giacché affidano le competenze e le
conoscenze richieste dall’azione politica a pochi soggetti: la visione
socialdemocratica le affida ai dirigenti politici, quella liberista ai tecnocrati.
Naturalmente – ma suppongo che su questo Barca sia d’accordo – le due
visioni non possono mettersi sullo stesso piano. La visione minimalista o liberista
si fonda in realtà sul ribaltamento del rapporto tra politica ed economia, non più la
prima sopraordinata alla seconda, ma viceversa, con la conseguente abdicazione
della politica al suo ruolo di governo e la sua tendenziale trasformazione in
tecnocrazia affidata a élites formate prevalentemente da economisti di formazione,
appunto, liberista. Ma ciò che interessa sottolineare è la concezione fortemente
anti-elitistica, e sotto questo aspetto radicalmente democratica, sia del partito che
della politica, quale risulta dalla proposta di Fabrizio Barca
Barca oppone alle due visioni, sia pure diversamente elitistiche, della politica -
quella socialdemocratica e politicista e quella liberista e tecnocratica – una tesi
forte: oggi, egli dice, “la conoscenza necessaria per assumere decisioni pubbliche
non è concentrata nelle mani di pochi” (p.20). Al contrario, essa è diffusa e
dispersa nella società, e la democrazia consiste precisamente nel promuoverne
l’emersione, realizzando la comunicazione e il confronto dei tanti saperi che
circolano e si sviluppano nei tanti mondi nei quali si articola la società, mettendo
alla prova e traducendo in sapere collettivo e in pratica politica questo immenso
patrimonio di conoscenze sociali. Barca contesta dunque la tesi corrente
dell’impossibilità o quanto meno della difficoltà di conciliare tecnocrazia, nel
senso ampio di saperi e competenze tecniche diffuse nella società, e democrazia.
Rifiuta, in breve, l’idea che il principio di maggioranza (cioè il governo di chi è
eletto) sia in contrasto con il principio di competenza (cioè il governo di chi ha le
conoscenze). E sostiene che la conoscenza è dispersa tra una moltitudine di
individui (pp.32-34), sicché la tesi corrente va rovesciata: la concentrazione delle
decisioni nelle mani di pochi contraddice non solo il principio democratico della
rappresentanza, ma anche il principio di competenza.
E’ una tesi insolita, ma oggi più valida che mai: non solo per i maggiori livelli
di istruzione dell’elettorato rispetto al passato, ma anche per i più bassi livelli di
cultura del ceto politico. E’ una tesi, aggiungo, che mi ha fatto ricordare un celebre
passo di Aristotele, forse la prima argomentazione a sostegno della democrazia, in
Politica, 1281b: “Che la massa debba essere sovrana dello Stato a preferenza dei
migliori, che pur sono pochi, sembra si possa sostenere: implica sì delle difficoltà,
ma forse anche la verità. Può darsi in effetti che i molti, pur se singolarmente non
eccellenti, qualora si raccolgano insieme siano superiori a loro, non presi
singolarmente ma nella loro totalità, come lo sono i pranzi comuni rispetto a quelli
allestiti a spese di uno solo. In realtà, essendo molti, ciascuno ha una parte di virtù
e di saggezza e come quando si raccolgono insieme, in massa, diventano un uomo
con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con
molte eccellenti doti di carattere e di intelligenza”.
Ma allora – se questa tesi di Barca è vera, o esprime comunque un tratto
normativo della democrazia – il buon governo proviene dalla mobilitazione di tutte
le conoscenze e competenze, dal loro confronto e ancor prima dall’informazione. E
il problema consiste nella scoperta delle forme organizzative che più siano in grado
di promuovere questa mobilitazione e questo confronto: che siano idonee, in breve,
a dar vita a quello che Barca chiama il “partito palestra”, aperto alla partecipazione
attiva di tutti gli iscritti, capace di produrre e mettere in comune le conoscenze di
ciascuno necessarie all’azione pubblica (p.35). Insomma un “partito del confronto
pubblico, informato, acceso, ragionevole” (pp.3 e 36).
4. Naturalmente non bastano, per dar vita a un tale partito-palestra, gli statuti e le
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regole organizzative. Benché non sufficienti, le regole e gli statuti democratici
sono tuttavia necessari. Vengo così alla seconda indicazione suggerita da Barca e
ancor più direttamente rivolta a rompere quella da lui chiamata la fratellanza
siamese tra partiti e Stato, tra funzionari di partito ed eletti o nominati in ruoli di
governo (pp.1, 4-5, 38). Questa rottura, afferma giustamente Barca, richiede sia la
separazione tra partiti e Stato, cioè la cessazione dell’occupazione del secondo da
parte dei primi, sia una riforma del finanziamento pubblico (p.10, 39).
Sono assolutamente d’accordo: è ciò che sostengo da moltissimi anni. Su
entrambe le questioni sono tuttavia più radicale, e invito ad essere più radicale
anche Fabrizio Barca. La crisi dei partiti è a tal punto profonda, il discredito del
ceto politico è così generalizzato – dalle degenerazioni burocratiche, denunciate fin
dal primo Novecento da Roberto Michels, siamo passati in Italia al partito-azienda
e poi al partito-marchio l’uno e l’altro di proprietà di due miliardari – da richiedere
riforme profonde e radicali: riforme ovviamente in contrasto con gli interessi di
breve periodo del ceto politico e quindi difficili da attuare, e tuttavia essenziali per
radicare i partiti nella società e garantirne la sopravvivenza futura quali tramiti
della rappresentanza politica. Precisamente è necessario, al fine di una
riabilitazione della politica, che i partiti tornino ad essere organi della società: quali
strumenti offerti ai cittadini per «concorrere con metodo democratico a
determinare la politica nazionale», come dice l’art. 49 della nostra Costituzione, al
quale è perciò necessario dare attuazione con l’introduzione di adeguate garanzie
dei diritti politici.
Ma una simile attuazione e garanzia, non diversamente dall’attuazione e dalle
garanzie di tutti gli altri diritti fondamentali, richiede necessariamente l’intervento
della forza eteronoma della legge. Non possiamo certo rimetterci all’autonomia
statutaria. Nei 65 anni che ci separano dalla Costituzione i partiti non solo non
sono stati capaci di dotarsi di effettivi statuti democratici, ma sono
progressivamente degenerati fino al crollo attuale di credibilità. Sono tuttora
associazioni private che non garantiscono ai loro iscritti neppure i diritti e le
garanzie assicurate ai soci di una società commerciale. Non possiamo perciò
affidarci - perché ne siano garantiti i diritti politici degli iscritti e il loro concorso
“con metodo democratico” a determinare la politica nazionale – alla loro spontanea
autoriforma. Dobbiamo bensì richiedere l’eteronomia della legge. Occorre,
precisamente, una riforma organica basata sulla vecchia e sempre valida ricetta
montesquiviana della separazione dei poteri, che fino ad oggi è stata applicata solo
ai poteri pubblici ma che nelle società odierne, ben più complesse di quella
settecentesca, va invece applicata a tutti i poteri, pubblici e privati, politici,
economici e sociali, statali e sovrastatali.
La prima separazione che una legge di garanzia dei diritti politici dovrebbe
introdurre è la separazione invocata da Barca tra partiti e istituzioni statali, ossia tra
i poteri politici istituzionali anche di tipo elettivo e i poteri sociali organizzati nei
partiti: in breve fra gli eletti e i partiti che li hanno candidati, i primi quali
rappresentanti e i secondi quali rappresentati. Le cariche di partito dovrebbero così
diventare incompatibili con le cariche pubbliche, anche elettive. Solo così si
assicurerebbe il ricambio dei gruppi dirigenti e, soprattutto, si realizzerebbe
l’alterità tra rappresentanti e rappresentati che forma il presupposto elementare sia
della rappresentanza, sia della responsabilità politica. Il segretario del partito e i
dirigenti che decidono di candidarsi al Parlamento o ad altre istituzioni pubbliche
dovrebbero lasciare le loro cariche di partito ad altre persone, le quali avrebbero
così un ruolo di controllo sugli eletti, inclusi i loro vecchi dirigenti. I partiti
dovrebbero non già governare, ma formulare i programmi di governo, selezionare i
candidati alle elezioni con metodi democratici come le primarie convenientemente
disciplinate, criticare l’operato degli eletti e chiamarli a rispondere del loro operato
al momento delle candidature alle successive elezioni. Solo così, eliminando
l’interesse personale a coprire le cariche pubbliche e insieme la confusione tra
controllori e controllati e i conseguenti conflitti di interesse, i partiti
recupererebbero credibilità, autorevolezza e soprattutto capacità di attrazione e di
aggregazione, come i luoghi nei quali si forma la volontà democratica e come gli
indispensabili tramiti della mediazione rappresentativa.
Una simile misura dovrebbe d’altro canto inserirsi in una più ampia riforma
dei partiti, in attuazione dell’art. 49 della Costituzione; il quale, configurando i
partiti come strumenti della partecipazione politica dei cittadini “con metodo
democratico» alla vita politica, impone chiaramente che essi garantiscano ai loro
iscritti la democrazia interna. Una legge sui partiti dovrebbe perciò imporre ai
partiti uno statuto democratico come condizione non soltanto per ricevere il
finanziamento pubblico, ma anche, almeno per quanto riguarda requisiti minimi di
democraticità, per accedere alle elezioni: un certo numero di iscritti; regole sul chi
e sul come delle decisioni idonee a garantire lo svolgimento di assemblee di base
con funzioni decisionali; organi dirigenti eletti nei congressi con le normali
garanzie del voto libero e segreto; garanzie del pluralismo delle opinioni e della
formazione di minoranze; divieto di discriminazioni o di emarginazioni del
dissenso; disciplina delle primarie o di altre forme di selezione democratica dei
candidati alla rappresentanza politica; non rieleggibilità oltre un certo numero di
mandati; trasparenza delle entrate e delle spese e pubblicazione dei bilanci.
Sull’attuazione e sul rispetto di tali garanzie dovrebbero vigilare specifiche autorità
indipendenti di garanzia: autorità esterne, onde evitare giudizi in causa propria, alle
stesse istituzioni elettive, come quelle istituite in Messico i cui controlli hanno
posto fine ai 70 anni di ininterrotto governo del Partito rivoluzionario istituzionale.
C’è poi una seconda e non meno importante separazione che occorrerebbe
assicurare: la separazione fra politica ed economia, tra sfera pubblica e affari, fra
poteri politici e poteri economici, che fa parte del costituzionalismo profondo
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anche se non sempre espresso dello Stato moderno. In questa prospettiva si
richiede evidentemente una legge elettorale in grado di impedire effettivamente e
radicalmente i conflitti di interessi attraverso una rete complessa e articolata di
incompatibilità e di cause di ineleggibilità. Per limitarci qui alla riforma dei partiti,
tuttavia, la separazione che soprattutto si richiede è quella tra denaro e
organizzazioni politiche, tra partiti e poteri economici. Bisogna recidere i legami
fra i partiti e le grandi lobbies economiche, garantendo che gli eletti rispondano
solo ai cittadini, e non ai loro finanziatori più o meno occulti, e perciò proibendo i
finanziamenti privati oltre una certa cifra o ad opera di enti o società commerciali.
Occorre dunque abolire il finanziamento dei partiti, come fece un referendum
di molti anni fa, ma – si badi – cominciando dai finanziamenti privati.
Diversamente da quanto propone tutta la variegata demagogia populista, una
disciplina della questione dovrebbe in primo luogo proibire il finanziamento
privato che non provenga da iscritti e simpatizzanti, riducendolo a un massimo di
poche migliaia di euro all’anno per le persone fisiche e abolendolo del tutto per le
persone giuridiche, come le società per azioni e i grandi gruppi industriali, sia
privati sia pubblici, taluni dei quali hanno finanziato a pioggia tutti i partiti più
importanti; in secondo luogo, ridurre drasticamente il finanziamento pubblico,
imponendo i rendiconti delle spese e il loro controllo da parte di organi pubblici
indipendenti come la Corte dei conti. È infatti chiaro che le società e i gruppi
industriali non hanno alcuna motivazione ideale per le loro donazioni, ma solo
l’aspettativa di qualche futuro e indebito beneficio; e che, d’altro canto, un qualche
finanziamento pubblico è indispensabile, se si vuole permettere di fare politica ai
comuni cittadini, e non solo ai miliardari.
Insomma, è soprattutto il grande finanziamento privato da parte di persone
giuridiche, come le grandi società commerciali, che deve essere proibito, se
vogliamo che alle elezioni non si vada a votare, più che per i partiti e per i
candidati, per i loro finanziatori; e che non siano questi, anziché le forze politiche,
a vincere in realtà le elezioni. Non è necessario fare l’esempio degli Stati Uniti,
dove per esempio, nonostante le stragi nelle scuole, non si riesce a varare una legge
che renda più difficile l’acquisto di armi da parte di pregiudicati o di malati di
mente a causa dell’opposizione di un gruppo di senatori finanziato dalla lobby
delle armi; oppure ricordare il caso del Messico, dove le campagne elettorali di
forze politiche e di candidati sono state spesso finanziate dai narcotrafficanti.
Anche da noi si calcola che una parte rilevante e soprattutto in crescita dell’intera
economia sia occulta, illegale, controllata da mafie e, ben più dell’economia legale,
alla ricerca di referenti politici.
5. Infine un’ultima questione, che di questi tempi non può essere elusa: le riforme
istituzionali e il progetto di una profonda alterazione della nostra Carta
costituzionale. Non entrerò nel merito delle proposte avanzate. Farò solo due
osservazioni sulle quali sarebbe interessante conoscere l’opinione di Fabrizio
Barca.
La prima considerazione riguarda la linea sconcertante del Partito democratico
di cui ho parlato all’inizio. Dopo una campagna elettorale nella quale il Pd – e non
solo il Pd – ci aveva promesso il cambiamento, abbiamo avuto il governo della
massima continuità: la stessa strana (ma forse non tanto strana) maggioranza di
governo, la stessa sostanziale mancanza di opposizione, lo stesso Presidente della
Repubblica, rieletto dalle stesse larghe intese da lui stesso promosse, la solita
politica di rigore contro i soggetti più deboli. Ebbene: ciò che è sorprendente è che
la sola cosa che si vuole cambiare – di nuovo, come sempre, da oltre vent’anni - è
la Costituzione, e addirittura la forma di governo, da parlamentare in presidenziale
o semipresidenziale: nell’evidente tentativo del ceto politico di far ricadere sulla
nostra carta costituzionale la responsabilità della propria inettitudine.
La seconda considerazione riguarda la legittimità di questa riforma. Una simile
riforma che secondo il disegno di legge costituzionale proposto dal governo
dovrebbe investire gran parte della seconda parte della Costituzione, equivarrebbe
in realtà a una nuova costituzione, in contrasto con la Costituzione vigente. Ma la
nostra Costituzione ammette, nel suo art.138, soltanto un potere di revisione, che
non è un potere costituente ma un potere costituito, il cui esercizio può consistere
perciò soltanto in singoli e specifici emendamenti. E certamente un simile potere
costituito non può essere trasformato, dal suo stesso esercizio, in un potere
costituente quale è quello di emanare una nuova costituzione. Aggiungo che solo
emendamenti specifici e univoci consentono che il successivo referendum
confermativo previsto dall’art.138 avvenga, come ha più volte richiesto la Corte
costituzionale, su singole e determinate questioni e non si tramuti in un plebiscito.