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Riflessioni sulla Memoria politica di Fabrizio Barca.
di Francesco Maselli
La forma partito è, nella Memoria di Fabrizio Barca, centrale e quasi assorbente rispetto al
ragionamento politico sviluppato dall’ormai ex Ministro della Coesione Territoriale. Richiamando
la disposizione Costituzionale dell’art 49, si sottolinea l’importanza fondamentale dei partiti politici
nella vita pubblica e partecipativa dello Stato, considerati come unica forma di organizzazione in
grado di guidare una delle attività umane più complesse: il governo della Cosa Pubblica. Infatti “né
corpi intermedi della società rappresentativi di interessi del lavoro, o dell’impegno civile, pur
fondamentali, né la Rete (il web, internet), pure piattaforma potente dello sperimentalismo
democratico, possono sostituire i partiti come interfaccia fra società e governo della cosa pubblica.”
Partendo da questo presupposto la Memoria analizza il fallimento dei partiti politici da due visuali:
da una parte si critica la degenerazione verso il “partito Stato-centrico”, immaginato come una
piovra che occupa sempre più spazi pubblici, e che dilapida, mancando spesso di visione politica di
ampio respiro, le grandi risorse di cui dispone nel governo dello Stato, senza apportare alcun
beneficio ai contribuenti; dall’altra parte si analizzano le politiche economico sociali su cui l’azione
dei partiti s’è incardinata: il minimalismo e la socialdemocrazia, auspicandone il superamento.
Per contrastare lo iato tra partiti e società e ritrovare il valore fondamentale della rappresentatività
effettiva nel nostro sistema democratico, l’addendum propone di utilizzare il metodo dello
sperimentalismo democratico nei processi decisionali, unico modo per superare con “una mossa del
cavallo” sia il minimalismo che la socialdemocrazia. Fabrizio Barca sostiene che la conoscenza
necessaria per governare i processi politici di un paese come l’Italia, sia frantumata in una miriade
di soggetti “ognuno dei quali possiede frammenti di ciò che è necessario sapere”; la macchina
pubblica per prendere decisioni deve essere in grado di mettere in rete i vari attori, sia per aggregare
ed utilizzare le conoscenze preesistenti, sia per crearne di nuove. Collettore di queste esperienze
dev’essere il nuovo partito, non pensato come una struttura che dialoga con soggetti esterni per
estendere la propria influenza e far valere la propria egemonia culturale, sulla falsariga del PCI, ma
come soggetto in grado di far sintesi tra i vari frammenti di conoscenza per concretizzarli in
un’azione di governo.
L’occupazione di incarichi pubblici da parte dei funzionari di partito ha invece favorito ed
enormemente accelerato, come detto prima, la degenerazione del nostro sistema di rappresentanza
politica. Per cambiare il paradigma organizzativo del “partito Stato-Centrico”occorre effettuare
un’assoluta separazione tra partito ed istituzioni, predisponendo da un lato dei limiti e delle ipotesi
di incandidabilità, e dall’altro un’adeguata formazione e retribuzione per i “funzionari e volontari
che a livello territoriale intendono svolgere funzioni di guida e animazione della mobilitazione
cognitiva”. C’è dunque l’idea di strutturare un’adeguata classe dirigente, impiegando funzionari a
tempo pieno sul modello, questo è innegabile, dei partiti comunisti o socialisti del novecento. Da
questo punto di vista un primo risultato la Memoria l’ha sicuramente raggiunto, siccome uno dei più
accesi dibattiti all’interno del PD è, al momento, la separazione tra la figura del segretario e quella
del candidato Premier.
Queste due soluzioni prospettate da Barca sono foriere di alcune contraddizioni e difficoltà. Da un
lato lo sperimentalismo democratico va messo alla prova della “legge ferrea dell’oligarchia”, citata
da Marco Revelli nel suo ultimo libro, che si trova tra l’altro nella prima nota della Memoria.
Bisogna capire infatti se il partito rigido, composto da funzionari a tempo pieno e con una struttura
fortemente gerarchizzata, possa riuscire a fare sintesi senza cadere nel fisiologico errore di
accentrare le decisioni all’interno di una ristretta cerchia di “optimates”, conferendo ogni potere
effettivo a pochi capi. Fa parte delle dinamiche umane delegare vasti aspetti della vita pubblica a
figure di riferimento, che spesso però finiscono per perdere il contatto con il senso comune,
rendendo nei fatti di difficile realizzazione la mobilitazione cognitiva attraverso lo sperimentalismo
democratico e l’osmosi di conoscenze.
Inoltre, nell’organizzazione tratteggiata, diventa problematico inserire quelle figure competenti
“esterne” di cui auspica il coinvolgimento Barca, posto che è già successo spesso che il Partito
Democratico candidasse, o attraesse presso di sé, personalità di assoluta competenza senza che
queste riuscissero ad avere, tranne in rare eccezioni, un peso specifico nei processi decisionali
davvero rilevante. Se da un lato avere una struttura composta da professionisti della politica (a
tempo determinato pare di capire) costituisce senza dubbio un vantaggio formidabile nella forma
organizzativa, dall’altro la comunicazione e lo scambio tra i vari livelli del movimento politico
inteso nella sua totalità può risultare problematico.
Vista la riforma costituzionale del 2001 che ha modificato il Titolo V, dando un ampio spazio alle
competenze delle Regioni, prefigurando un’evoluzione in senso federalista della nostra forma di
Stato, stupisce che non trovi spazio a livello organizzativo un ragionamento di stampo federale del
partito. Si parla piuttosto di “territori” o “livelli regionali”, ma un’inversione di tendenza rispetto al
partito centralizzato è solamente accennata e poco approfondita, forse anche al fine di evitare
un’eccessiva copiosità del documento. Alcuni esponenti politici, in particolare Chiamparino e
Cacciari, hanno più volte proposto un cambiamento orientato in questo senso, per riuscire ad
intercettare le due questioni, quella “settentrionale” e “meridionale” quanto mai presenti in Italia, e
spesso riuscire a farlo significa compiere un gran passo in avanti nelle competizioni elettorali.
L’addendum rappresenta dunque una proposta di reale cambiamento della forma partito, anche
controtendenza se si vuole, visto il forte richiamo a reimpostare la vita pubblica intorno a soggetti
“liquidi” come quelli americani, in grado di essere pronti per una campagna elettorale e poi
ridimensionarsi, basti pensare all’organizzazione messa in campo da Matteo Renzi alle primarie di
novembre: fondi privati, struttura leggerissima, consenso relativamente ampio. Resta da vedere se le
spinte contrare e le incrostazioni che hanno reso così rigido e dannoso il sistema politico, potranno
essere superate da uno sforzo organizzativo oltre che intellettuale, come quello proposto da Fabrizio
Barca.
Francesco Maselli