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Dieci…
di Francesca Romana Mascioli
Correva senza sapere dove, senza più fiato ormai, i rami le sferzavano il corpo, aveva
perso le scarpe e i piedi sanguinavano copiosamente. Avvertiva la sua presenza alle
spalle, sempre più vicino. Inciampò e la caduta fu attutita in parte dal tappeto di foglie
secche. Si escoriò un ginocchio, ne sentiva il bruciore. Si rialzò immediatamente e riprese
a correre, ma aveva perso quel poco di vantaggio. La sua mano le toccò la spalla, scattò
in avanti con quanta forza aveva ancora in corpo, e la mano di lui scivolò di lato tirandole
via l’orecchino. Urlò più forte che poteva mentre continuava nella sua corsa disperata
incurante del dolore. Persa in un labirinto di alberi e rovi il panico si era ormai impadronito
di lei. Poi si arrestò di colpo, i suoi piedi toccarono l’acqua. Il lago illuminato da una luna
piena riluceva nel buio della notte. Sentì il suo respiro, era dietro di lei. Alzò gli occhi al
cielo impotente.
La pioggia cadeva fitta sul gruppo di persone incappucciate. L’atmosfera spettrale del
bosco, la nebbia sospesa sulla riva del lago e quel corpo nudo, legato all’albero con la
testa riversa da un lato, rendevano la scena surreale. Il sangue aveva smesso di uscire
dalle ferite. Dieci coltellate inferte con ferocia. In quegli occhi sbarrati era ancora impresso
il terrore. Il capitano Merli osservava il corpo violaceo, conosceva bene la ragazza, era la
figlia del fornaio. In un piccolo paese si conoscono tutti. L’aveva sorpresa più di una volta
in macchina ad esibire le sue grazie ai giovani del paese. I suoi servizi di intrattenimento
erano ben pagati. Una vergogna per la famiglia, uno scandalo per quel piccolo paese.
“Il medico conferma la morte a causa delle 10 pugnalate”. Disse l’agente che gli andò
incontro. Merli grugnì in risposta. Le macchie di sangue nel terreno stavano sbiadendo
portate via dall’abbondante pioggia. Il freddo lo fece rabbrividire, l’umidità gli entrava nelle
stanche ossa.
La voce corse veloce tra gli stretti e ripidi vicoli, gli anziani dicevano che se l’era cercata, i
giovani rimpiangevano le notti di fuoco. La famiglia pianse la perdita di quella figlia
degenerata che aveva intrapreso la strada della perdizione. Il giornale locale trovò campo
fertile per lo scoop dell’anno. L’articolo in prima pagina riportava la cronaca dell’accaduto,
esasperato da particolari che lo rendevano ancora più cruento, e additava la ragazza
come diavolo tentatore.
Un capannello di gente si riunì davanti al civico numero 10 di via collefiorito, il giorno in cui
fecero irruzione nell’appartamento del sig. Sorpi. L’accusa di omicidio pendeva sulla sua
testa. Lo trovarono ubriaco, sdraiato in terra nella suo vomito. Non fece alcuna resistenza,
la dose di droga nel suo corpo lo aveva annullato completamente. Testimoni lo avevano
visto litigare spesso con la ragazza, strattonarla e inveirle contro. Due sere prima sulla
serranda del forno aveva lasciato la scritta muori schifosa puttana, poi aveva vagato per le
vie prendendo a calci i bidoni della spazzatura ed estirpando piante dalle fioriere. Le
imposte delle finestre venivano chiuse al suo violento passaggio. Nessuno avrebbe pianto
per il suo arresto. Ogni paese ha i suoi scheletri da nascondere.
I funerali si sarebbero tenuti nell’antica chiesa del paese. Merli si svegliò presto quella
mattina. Fece colazione e si preparò con calma. Prese l’impermeabile ed uscì di casa per
raggiungere la piazza. Il vento freddo sibilava tra i muri in pietra, il cielo plumbeo
sovrastava il piccolo borgo. Un cane sporco e rattrappito rosicchiava uno scarnificato
osso, trovato chissà dove. Merli si strinse nell’impermeabile, infilò la mano in tasca e
qualcosa lo punse. L’orecchino era rimasto lì. Gli bruciavano ancora dentro quei dieci rifiuti
categorici, nelle orecchie gli risuonavano le sue risate sarcastiche, un affondo per ogni suo
affronto. Un tuono esplose improvviso, il temporale si stava avvicinando.