La Crisi della Giustizia Civile: scheda elaborata da Andrea Noccesi

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La Crisi della Giustizia Civile: scheda elaborata da Andrea Noccesi
VI CONGRESSO NAZIONALE
ASSOCIAZIONE NAZIONALE FORENSE
ALGHERO 10 – 13 MAGGIO 2012 HOTEL CARLOS V
L’AVVOCATO TRA LIBERTÀ E LIBERALIZZAZIONI. OGGI È GIÀ DOMANI.
DOVE E COME ESERCITARE L’EFFETTIVA TUTELA DEI DIRITTI.
La Crisi della Giustizia Civile
Scheda elaborata da Andrea Noccesi Direttivo Nazionale ANF
Legum servi sumus ut liberi esse possimus.
M.T. Cicerone
“La giustizia civile è in crisi”: questo il leit motiv che da decenni oramai si sente ripetere in
maniera più o meno tralatizia.
A questa verità si accompagnano sovente altre ripetute asserzioni, quali: “i processi civili
durano tanto a lungo perché agli avvocati conviene così: causa che pende è causa che
rende”, oppure “i processi durano a lungo perché c'è un eccesso di contenzioso, generato da
un numero eccessivo di avvocati che per campare introduce ogni tipo di controversia
giudiziale, andando così ad intasare le aule di giustizia e rendendo impossibile smaltire le
cause pendenti” ed ancora “il mancato funzionamento della giustizia civile è un freno allo
sviluppo economico del paese, che non è in grado di attrarre capitali ed investitori stranieri e
quindi occorre liberare il processo dall'eccesso di contenzioso che lo invade per rendere
giustizia laddove serve per davvero”.
Le asserzioni di cui sopra contengono sicuramente una parte di verità, ma non tutta e non
spiegano da sé le cause del dissesto della giustizia civile.
Però suddette asserzioni hanno trovato validi e convincenti assertori e pertanto sono
divenute, dapprima, vulgata e, quindi, verità inoppugnabili per il legislatore, che difatti, da
decenni (ma soprattutto, sulla scorta della crisi economica mondiale, nell'ultimo periodo) è
variamente e ripetutamente intervenuto sulle norme procedurali e, da ultimo, anche su
organizzazione del comparto giustizia e avvocati.
Gli interventi procedurali si sono succeduti sempre più frequenti a partire dal 1990 e non
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mette conto si ripercorrerli partitamente in questa sede, quanto cercare di trovare (se
possibile) fili conduttori che li accomunino.
Alcune tendenze sono rinvenibili nello spesso convulso susseguirsi di interventi (anche
perché si è spesso adoperato lo strumento del decreto legge, con conseguenti modifiche
apportate in sede di conversione).
La prima consiste nell'introduzione di una serie di decadenze e limitazioni all'attività
defensionale, sì da sottrarre lo svolgimento del processo sempre più alla disponibilità delle
parti, con l'effetto di disseminare lo stesso di una serie di trappole procedurali, che sovente
impegnano gli interpreti (avvocati e magistrati) assai più del merito della causa.
Di contro si è assistito al proliferare di riti speciali, anch'essi forieri di problemi interpretativi ed
applicativi di non poco momento.
Su questo aspetto si era, da ultimo, salutata con apprezzamento la delega contenuta nell'art.
58 L.69/09 al governo di operare una semplificazione dei vari riti, ma il risultato scaturito
(L.150/11) non si è dimostrato all'altezza delle aspettative, vuoi per i limiti della delega, ma
soprattutto per il contemporaneo fiorire di nuovi ulteriori riti in aggiunta a quelli esistenti e/o
semplificati (si fa riferimento al rito sommario introdotto dalla stessa L.69/09, oltre che al rito
previdenziale previsto dal D.L.98/11 convertito con modifiche in L.111/11 o, ancora, al
paventato nuovo rito del lavoro che dovrebbe accompagnare la riforma delle norme
sostanziali in suddetta materia).
Un'altra ricorrente linea di tendenza rinvenibile nella recente legislazione è quella di
ostacolare l'accesso alla giurisdizione, tramite l'introduzione di preventivi ed obbligatori
tentativi (onerosi) di conciliazione, prevedendo sanzioni per la parti che non vi partecipino,
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oppure introducendo il pagamento del contributo unificato in alcune materie, prima esentate,
ovvero aumentandone in misura assai elevata l'importo per le altre (addirittura raddoppiato
per le impugnazioni in Cassazione).
L'aumento del C.U. trova spiegazione nella necessità di reperire finanziamenti, ma ha anche
il – dichiarato – intento di scoraggiare la proposizione di vertenze giudiziali.
Infine si è intervenuti sugli operatori del diritto: gli avvocati ed i magistrati.
Quanto ai primi, si tende a creare una maggiore concorrenza tramite la liberalizzazione
(prima) e l'abolizione (recente) delle tariffe professionali (provvedimento che riguarda tutte le
professioni, per vero), nell'intento di svincolare il compenso professionale dall'attività
espletata e di trasformare l'obbligo del professionista da “di mezzi” in “di risultato”, nel
convincimento che un avvocato che veda legato il proprio compenso al risultato del cliente sia
maggiormente produttivo ed operativo e non indugi o si avventuri in iniziative improduttive
(anche per lui) e, d'altro lato, sia portato ad affrettare la conclusione di quelle (anche per lui)
produttive.
Probabilmente il ragionamento non è del tutto peregrino e sicuramente vi sono tipologie di
controversie che si prestano a pattuizioni “a risultato” o “a forfait” fra avvocato e cliente.
Resta però il fatto che, per come introdotte, le norme in questione hanno per adesso generato
più problemi di quanti si propongano di risolvere e che, consistendo l'attività giudiziale
dell'avvocato in qualcosa che non dipende interamente da lui (bensì dalla controparte, ma,
ancora di più, dall'organizzazione del servizio giustizia) tale innovazione non può certo, di per
sé, costituire la panacea di tutti i mali.
Per quanto riguarda i magistrati si segnalano alcune importanti innovazioni nel D.L. 98./11
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(convertito con modifiche in L. 111/11),che ha introdotto per i capi degli uffici giudiziari
l'obbligo di predisporre un annuale piano di smaltimento del contenzioso, collegando, al
rispetto o meno dello stesso, incentivi o penalizzazioni di natura economico - carrieristica.
Si è anche abbozzata nel provvedimento di cui sopra (recependo l'esperienza di talune prassi
virtuose) la creazione
una struttura di supporto al singolo magistrato (il cd. ufficio del
processo) nel tentativo di aumentarne la produttività.
Tale meritorio intento, purtroppo, viene a scontrarsi con la cronica carenza di risorse che
spinge il legislatore a reiterare la tristemente nota frase “senza aggravio alcuno per le finanze
dello Stato” e porta pertanto con sé, da un lato il rischio di legittimare lo sfruttamento di
giovani laureati o laureandi (per i quali non viene neppure prevista l'attribuzione di titoli
preferenziali in futuri concorsi pubblici) e, dall'altro, il noto problema delle “nozze coi fichi
secchi”.
Si sta peraltro lodevolmente cercando di reperire risorse (meglio: sfruttare più razionalmente
quelle esistenti) tramite una revisione delle circoscrizioni giudiziarie che porti ad un
ammodernamento del servizio, calibrato anche sulle moderne tecnologie in parte già adottate
o in corso di adozione (cd: processo telematico).
La tematica è scabrosa in quanto un'opera siffatta incontra svariate resistenze, talune
comprensibili e valutabili con attenzione (come la necessità di mantenere presidi di legalità in
zone contaminate dalla criminalità organizzata), ma altre francamente di natura prettamente
campanilistica e meno commendevole.
Poiché i lavori sono ancora in corso non è agevole esprimere una valutazione d'insieme su
tutte le novità intervenute a modificare il rapporto del cittadino con la giustizia civile ed il
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lavoro dell'avvocato civilista.
Per quanto attiene alle riforme strettamente procedurali, possiamo tranquillamente affermare
che le stesse non abbiano sortito gli effetti sperati.
Ciò in taluni casi è avvenuto (ad esempio per quanto attiene alle riforma dell'ormai lontano
1990) perché le stesse vennero calate in un contesto organizzativo - produttivo (ci si passi il
termine) pressoché immutato, venendo così a mancare il contesto nel quale le stesse
avrebbero potuto esplicarsi.
Altro ostacolo venne sicuramente costituito
da un modo di pensare la giustizia ancora
ancorato a vecchi modelli, che non prevedevano ad esempio il processo come un susseguirsi
di fasi tutte potenzialmente utili alla sua definizione, ma che vedeva il Giudice intervenire, di
fatto, solo nel momento della stesura della sentenza.
Questo costituisce uno dei motivi che non ha fatto decollare l'applicazione di tutti i
provvedimenti anticipatori del giudizio (che potrebbero invece, laddove valorizzati, condurre
all'anticipata definizione di un gran numero di controversie), ma ancor di più ha costituito un
insormontabile freno al pieno dispiegarsi di tutta l'attività che sarebbe da compiere nella prima
udienza di trattazione (art. 183 c.p.c.), reiterando, di fatto, un modello di trattazione
eminentemente scritto e con pronuncia differita nel tempo.
E' bene chiarire: non si propone un giudice padre-padrone del processo, bensì un giudice che
abbia anche la funzione (tramite i suoi provvedimenti in corso di causa) di incentivare le parti
a chiarire e delimitare thema decidendum e thema probandum.
Se a ciò si aggiunge che la cause da più lungo tempo sul ruolo passano sovente di mano a
più giudici e che, per smaltire quelle più vecchie, vennero pensate le sezioni stralcio (foriere
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di esponenziale aumento di contenzioso in sede di impugnazione), si perviene alla
conclusione che di tutti i benefici che la riforma del 1990 avrebbe potuto portare al rito
ordinario, ben pochi si sono poi effettivamente prodotti.
Altri successivi interventi di modifica delle norme procedurali (pensiamo al rito sommario),
non sono stati accolti bene dagli operatori ed occorre domandarci perché.
Ciò, in primo luogo è avvenuto perché dette novità, a fronte di una sicura perdita di
disponibilità del processo in capo alla parte ed ad un'accresciuta potestà del giudice, non
sono in grado di garantire a chi se ne avvalga sensibili benefici in termini di risparmio di
tempo e danaro.
Pertanto l'operatore pratico ha guardato e guarda con diffidenza dall'utilizzare strumenti
processuali, che lo indeboliscono da un lato, senza, dall'altro agevolarlo sotto altri profili
(senza peraltro che niente premi o incentivi un'anticipata discovery o, per converso,
disincentivi strategie meramente dilatorie.
A ciò si aggiunga che ogni modifica ha necessità di affermarsi e consolidarsi nell'uso
quotidiano, facendo forza su un apparato giurisprudenziale il più possibile coeso, che fughi le
perplessità ed i dubbi che inevitabilmente si accompagnano ad ogni novità.
Alla novella del 2009 non è stata concessa questa possibilità, in quanto si è subito succeduta
alla stessa la ben più dirompente attuazione della delega in tema di conciliazione (D.lgs 28/10
c.d. Media-conciliazione), cui hanno fatto seguito gli interventi normativi d'urgenza succedutisi
dal luglio 2011.
L'operatore pratico necessita, se non di certezze, almeno di taluni punti fermi e tutto questo
convulso ed a volte schizofrenico avvicendarsi di modifiche legislative induce lo stesso a
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trincerarsi in quelle attività che conosce meglio e non certo a sperimentare novità.
A quanto sopra si aggiunga che spesso la Suprema Corte di Cassazione viene meno al
proprio compito di nomofiliachia, adottando decisioni (anche di natura procedurale) difformi e
controverse (purtroppo talvolta anche a SS.UU.) che non incontrano neppure il plauso dei
magistrati di merito, costringendo il legislatore ad intervenire (una volta di più) per evitare il
peggio (vedasi L.218/11 di modifica dell'art.645 c.p.c. ed interpretazione autentica dell'art.
165 c.p.c. in tema di opposizione a decreto ingiuntivo).
Specie di fronte all'affastellarsi frenetico di novità sarebbe opportuno che non si andasse, da
parte della Giurisprudenza, a scalzare capisaldi oramai consolidati, e che anche
nell'interpretazione delle norme (sostanziali e procedurali) si addivenisse ad una
concertazione sia a livello di magistrati di merito che di legittimità, che, senza intaccare la
libertà ed autonomia di giudizio, tendesse ad assicurare interpretazioni tendenzialmente
univoche.
La maggiore certezza del diritto determinerebbe sicuramente diminuzione del contenzioso.
Anche l'introduzione della normativa in tema di media -conciliazione non pare abbia sortito
benefici sensibili.
Il problema principale è costituito dal costo del procedimento e dal fatto che si sia voluto,
anziché investire risorse per istituire un circuito pubblico, consentire e favorire l'iniziativa, a
fine di lucro, dei privati.
Ciò ha ingenerato sfiducia e disfavore nei confronti del pur degno istituto; sfiducia e disfavore
destinati a non essere mitigati dagli ulteriori obblighi e sanzioni che si sono introdotti a carico
dei riottosi.
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Uno degli argomenti addotti a giustificazione dell'obbligatorietà del previo tentativo di
conciliazione è che, tramite lo stesso, si sfoltirebbero le aule giudiziarie da tutta una serie di
controversie che impediscono la celere trattazione di quelle importanti per l'economia, ma tale
argomentare non convince.
Niente difatti impediva o impedisce alle imprese (che quasi sempre hanno fra sé contenziosi
di natura contrattuale) di inserire nei loro contratti clausole compromissorie o clausole di
preventiva conciliazione, che permettano di addivenire a celeri soluzioni delle loro
controversie, ma non è sinceramente dato capire perché il singolo cittadino che abbia un
contenzioso col proprio medico, con la propria banca o con la propria assicurazione debba
per forza pagare di tasca propria un tentativo di conciliazione obbligatorio prima di convenire
la controparte davanti ad un giudice dello Stato.
Quanto sopra esposto possiamo pertanto ritenere che, seppure da ultimo si intraveda
qualche lodevole intento di potenziare l'efficienza dell'organizzazione della giustizia, i rimedi
fin qui approntati non abbiano prodotto grandi risultati ed allora occorre domandarsi se le
premesse dalle quali gli stessi prendevano le mosse (le famose frasi tralatiziamente ripetute
di cui alle prime righe del presente scritto) siano corrette ed esaustive oppure no.
La risposta dello scrivente è ovviamente no.
Se difatti costituisce un'indubbia verità che una giustizia efficace ed efficiente sia condizione e
fattore di sviluppo di una sana economia (e prima ancora, di una sana convivenza civile), è
illusorio pensare che un'efficace ed efficiente giustizia si possa avere in uno Stato ove la
macchina amministrativa non funzioni a dovere.
Alla giustizia viene da anni chiesto di svolgere un ruolo improprio di ammortizzatore sociale
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(si pensi ad esempio alla normativa sulle locazioni urbane) e se questo ha sicuramente
prodotto benefici in tema di coesione sociale, ha altresì arrecato indubbi svantaggi alla
gestione dei ruoli giudiziari ed anche prodotto notevoli effetti perversi.
Basta in tal senso porre attenzione alle tante procedure giudiziali di recupero credito (che
sovente si chiudono in negativo per il creditore o comunque con cospicuo abbattimento del
proprio avere) per considerare che oramai per i debitori ciò costituisca un modo surrettizio e
certamente non commendevole di ricorso al credito.
Non si può infine tacere l'autentico scandalo delle cause di indennizzo per l'eccessiva durata
dei processi (cd. Legge Pinto) e delle cause previdenziali.
Qui siamo al paradosso di uno Stato che adempie alle proprie basilari funzioni solo a seguito
di una condanna giudiziale e, sovente, solo tramite esecuzione forzata da parte del creditore.
Francamente, affermare che il contenzioso civile aumenti perchè fomentato dall'avidità degli
avvocati, appare una boutade e nulla più.
Ed allora se quella che ci viene venduta come verità tale non è, occorre approntare nuove
strade per risolvere il problema, superando la logica degli interventi emergenziali e
pervenendo ad una riforma di sistema.
Le semplificazioni sono spesso suggestive, ma possono anche fuorviare; ciò non di meno,
alcune direttrici virtuose possono e debbono essere trovate.
Occorre implementare e potenziare gli interventi sugli aspetti organizzativi del sistema
giustizia, proseguendo con determinazione e convinzione nel solco tracciato dagli ultimi
provvedimenti (programmazione, informatizzazione, meritocrazia, strutture di supporto),
pervenendo a snellire e velocizzare le procedure di avvicendamento nei ruoli dei magistrati ed
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incentivando gli stessi a definire i procedimenti loro affidati anche prima della sentenza (onde
evitare il pernicioso passaggio di mano dei fascicoli).
Occorre altresì prevedere ed incentivare meccanismi processuali tesi a scoraggiare, non
tanto la proposizione di domande giudiziali, quanto la pervicace ed infondata resistenza alle
stesse soprattutto da parte dei cd. debitori seriali o istituzionali.
Occorre, in altre parole, sanzionare tutti quei comportamenti neghittosi, che tendono
artatamente a procrastinare l'adempimento di un obbligo con condanne a risarcire il danno
penitenziale o per abuso del processo (riempiendo finalmente di significato concreto una
disposizione di fatto desueta come l'art. 96 c.p.c.).
Occorre pensare ad un circuito di giurisdizione laica che si affianchi (con proprie prerogative e
garanzie, ma anche con precisi obblighi qualitativi e di terzietà) a quella togata, come parte
integrante della giurisdizione pubblica (a tal fine gli Ordini degli Avvocati potrebbero svolgere
compiti significativi).
Occorre incentivare momenti di raccordo fra i magistrati (sia di merito che di legittimità) onde
pervenire ad una maggiore uniformità di pronunce, che di per sé comporterebbe minore
incertezza del diritto e minore contenzioso (ad es. imponendo al magistrato che di discosti dal
consolidato orientamento un plus motivazionale, laddove lo stesso gli verrebbe risparmiato –
consentendogli di motivare per relationem – qualora si conformasse all'orientamento
maggioritario).
Infine e non da ultimo (ma questo rischia veramente di rimanere un auspicio) occorrerebbe
migliorare la qualità della normazione (processuale, ma anche e soprattutto sostanziale)
perché norme ben scritte meno si prestano ad interpretazioni ambigue e contraddittorie, ed
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occorrerebbe che le modifiche procedurali venissero inserite in una quadro di insieme
anziché procedere a strappi sulla scorte delle emergenze (vere o supposte) di volta in volta
da fronteggiare.
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