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Preludio
Quei suoni che ascolti, vibranti e solenni, pungenti e trillanti, non sarebbero gli stessi se io
non li avessi orchestrati, se non li avessi dato vita tra le fronde dei larici, fatti risuonare tra
le ventose brughiere, amplificati nel regno in cui vivi. Figlio mio, l’armonia in cui sei
cresciuto non la conoscevo quando avevo la tua età, il mondo era devastato da
dissonanze, nate dalla monotonia e dal rigido strascicarsi di vite anonime e senza
aspirazioni. Lascia che ricordi quei tempi, ascolta nel vento il mio canto, le note che
composi per la felicità tua e di tutti noi.
Lasciai la contrada di buon mattino, tra le strade già chiassose e frastornate, e mi
incamminai verso la montagna. Con il tramonto entrai in una piccola radura, rivolta verso
una profonda forra calata a picco sulla valle. Era il disgelo, la neve sfrigolava e luccicava
morente come resti di braci ardenti. Sul ciglio, cinta da un muretto pericolante di pietre
grigie, riposava una piccola baita che guardava oltre la valle. Nell’avvicinarmi mi abbracciò
un acre profumo di resina, uscente a fiotti dai muri di legno. Rubai uno sguardo alla valle,
una cappa color latte sporco si alzava dalle contrade, le luci degli edifici si mescolavano
confusamente, un lieve ronzio testimoniava il chiasso della gente, che fino a lassù riusciva
ad arrivare.
Attorno alla baita alcuni gnomi erano intenti a intagliare pezzi di legno e a incidere rozze
pietre. Al mio passaggio alzarono le teste adornate da lunghi cappelli a punta. Uno di loro,
accarezzandosi la lunga barba bianca, mi indicò la porta: “Prego, entri pure.”
Ringraziai con un cenno del capo. La porta cigolò sotto il peso del mio palmo.
“Permesso?”, la mia voce risuonò nella buia stanza.
“Avanti!”, rispose una voce scura.
Mi avvicinai cercando di abituarmi al buio.
“Prego, si accomodi.”
Udii spostarsi una sedia, a tentoni la cercai e mentre mi sedevo una fiamma esplose in un
camino, illuminando la stanza. Solo allora scorsi, nel gioco di luci, i crudi lineamenti di un
vecchio scheletrico, dal volto bruciato dal sole.
“Lei è Egil, il bardo?”
“Esatto.”
“La aspettavo.”
“Lo immaginavo.”
“Da cosa?”
“E' stato lei a scrivermi.”
“Non era scontato che accettasse il mio invito.”
Si schiarì la voce. Quando il riverbero cessò, nella stanza calò il silenzio.
“Esattamente cosa dovrei fare?”
“Ho ascoltato alcune sue composizioni: molto raffinate, eleganti. Credo sia adatto per
questo lavoro.”
Lo guardai perplesso, lui mi studiò con attenzione. Si alzò, sempre osservandomi: “Venga
con me.”
Lo seguii fuori dalla baita, dove il tramonto aveva tinto i monti di un rosso irreale.
Camminammo fino a un spiazzo erboso, dove giaceva un lungo corno alpino in legno di
larice, elegantemente ornato con motivi raffiguranti scene di caccia.
“Io sono il custode di queste valli e di questi monti, ho visto molte vite nascere e morire, ho
seguito il mondo degradarsi, confondersi, smarrirsi. Al principio tutto era ordinato, udibile,
ogni suono al suo posto plasmava la vita, la mente, i sentimenti. L’uomo non sa più
ascoltare, ora domina una babele di rumori confusi, assordanti e disorientanti.”
Respirò a fondo e appoggiò con dolcezza la mano callosa sul corno, come fosse una
donna amata. Assunse una postura nobile ma accogliente.
“E’ giunto il momento di rinascere. Quando suonerò questo corno il mondo si fermerà, e
con esso il genere umano. Zittirò ogni suono e il suo compito, mi ascolti bene, sarà quello
di scrivere la più grande composizione mai scritta, armonizzata dai suoni della natura, una
musica che ridoni ordine e pace.”
Mi porse un binocolo: “Prego, si goda lo spettacolo.”
Lo guardai perplesso. Feci per replicare, ma il vecchio mi fermò con un deciso gesto della
mano, lasciandomi con la bocca socchiusa. Portò le labbra al corno, respirò a fondo e in
un attimo tutto il regno fu scosso da un boato profondo, note gravi che mai uomo è riuscito
a riprodurre. Vidi la città fermarsi. Vidi persone bloccarsi nella posizione in cui erano. Vidi
svanire i loro volti. Vidi l'immobilità. Il boato durò cinque interminabili secondi, poi,
echeggiando tra le crode, si estinse. Con grazia e lentezza il vecchio tolse le labbra dallo
strumento, mi guardò e sorrise. Con un ampio gesto indicò il bosco, le praterie, le
montagne: “Ecco la sua orchestra. Per l'organico chieda ai miei gracchi, li può sicuramente
trovare appollaiati sulla staccionata dietro casa. Per l'esecuzione potrà certo contare sugli
gnomi.”
Il mattino seguente lasciai una lista dell’organico ai gracchi, che subito volarono in tutte le
direzioni intrecciandosi con destrezza senza mai scontrarsi. Mentre attendevo il loro
ritorno feci una passeggiata nel bosco, per cercare l’ispirazione tra le fessure delle rocce, i
ruvidi tronchi, i sentieri battuti. Nel vento mi giunse il dolce ruggito del bosco, un’immensa
melodia, fluita dai canti liquidi dei cardellini, tsuitt-uitt-uitt, seguiti dai controcanti dei cuculi,
Ku-ku Ku-ku, ritmati dallo scalfire sui tronchi dei picchi, tu-tu-tu-tu-tu, accompagnati dal
sottofondo del vento, wuuu-wuuu, arricchiti dallo scroscio increspato dei ruscelli, sfroschsfrosch. Ascoltavo il mio passo scricchiolare sui rami secchi e impastarsi nel morbido
terreno.
Quando tornai alla baita i gracchi erano già tornati, sul prato erano sparpagliati sassi, aghi
di pino, cortecce, muschi, oltre a una moltitudine di piccoli animali e un rappresentante dei
venti dell’ovest.
“Bene, ottimo lavoro, mettiamoci all'opera.”
Seduto su un masso presi carta e penna e trascrissi tutto ciò che la natura sapeva
esprimere.
Il giorno seguente piovve. Annotai le impressioni sulla pioggia e i suoni da essa prodotta.
Ora pastosi come acqua bollente, quando calava dolcemente sulle foglie secche; ora
metallici quando precipitava sulle nude pietre; ora frizzante come il soffio di un camoscio
mentre si distendeva sui pascoli erbosi. Non ero mai riuscito a separare i suoni, mi stupivo
di come un singolo elemento potesse scindersi in diverse sfumature, ognuna con una
propria voce. In quei giorni imparai ad ascoltarmi, a suddividere me stesso, trovai
equilibrio e serenità, il silenzio interiore e i suoni ordinati della natura.
Passai giorni interi a camminare per sentieri, sotto il sole e sotto la pioggia, interrogai
donnole, pernici e scoiattoli, seguii i venti, ascoltai i ruscelli. Annotavo tutto, il pezzo
prendeva forma, l’orchestra era ormai completa. Gli gnomi spesso mi accompagnavano.
Erano fonte di consigli su come orchestrare al meglio il bosco e su come impastare e
sfumare le armonie portate dal vento. Da loro imparai a misurare le parole e a modulare
l'altezza della voce, in modo che non fosse mai invadente. Imparai a dare forma e
significato alle parole. Di notte, bivaccando, riuscivo persino a sentire il mugolio delle
stelle. Dal fuoco schioppettante si innalzava un canto che il vento portava a morire tra le
ombre del bosco. All'estinguersi della brace il buio si faceva più cupo, e mi immergevo nel
silenzio dell'oscurità.
Giunse il giorno dell'esecuzione. Gli gnomi erano in posizione, accordavano i loro
strumenti naturali, chi con sassi e cortecce alle percussioni; chi coi venti nella sezione
degli archi; usignoli, cardellini e allodole al coro. Al mio arrivo tutti tacquero in rispettoso
silenzio, attendendo il mio attacco. Respirai a fondo, le mie mani tremavano
impercettibilmente. Cercando di mantenere la calma alzai le braccia, e la musica partì.
All'inizio il mio gesto era apatico, poi, mentre le note fluivano, divenne più spontaneo. Tutto
il bosco vibrava alle melodie che si incanalavano tra i larici. Il vento fluttuava nell'aria tra gli
orchestrali, raccolse i suoni e li portò in alto, poi lo vidi dirigersi fino a valle. Lo udii tuffarsi
e spargersi lungo i canali, i torrenti, le strade. I volti della gente si riplasmarono, contorni
sinceri e puliti; i paesani si mossero, straniti si guardavano, percependo l'energia che fluiva
in loro. Si misero a ballare. Uno, dieci cento; quadriglie, gighe, mazurke. Tutto il paese era
in festa: bambini che respiravano l'aria limpida, donne e uomini che si sorridevano e si
abbracciavano.
Presi parte a questa gioia. Mi lascia trascinare dalla musica, ormai era lei a condurre me.
Poi mi fermai, l'orchestra si zittì. Mancava solo una nota perché l'opera fosse compiuta,
l'ultima, quella da cui tutto nasce, tutto si ferma, tutto muore. La nota che racchiude ogni
nota e dona la pace.
Così tutto fu silenzio.
Ecco, figlio mio, la mia storia. Il mio tempo sta per scadere, ti lascio questi suoni, fanne
buon uso e custodiscili. Educa i popoli al canto e all'ascolto, cammina tra le contrade e
lungo i sentieri e insegna l'armonia che sta nei suoni e nel silenzio. Vivi così, in semplicità
e pace, impara dalla natura melodiosa e sarai felice.