Untitled - Gruppo Carige

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Untitled - Gruppo Carige
Arte e Cultura
In viaggio con Lucio Fontana
di Lissia Rasetto
Vago per l’androne di Palazzo Ducale,
una scultura sospesa muta il mio orizzonte,
mette in contatto il piano della terra con
quello del cielo, tentazione ineludibile
a seguire il segno. L’arabesco al neon sulla
mia testa mi guida verso lo scalone. Oso.
“Lucio Fontana luce e colore”. Su questo non ho ancora
letto, né recensioni né articoli, uno stato di grazia che spalanca l’avventura. Libera da metri di libri sotto i piedi, via
la guida sicura della “buona formazione” oggi mi concedo
un faccia a faccia. Il brivido dell’autodidatta, la libertà dell’impressione, l’emozione: il primo livello di comprensione
dell’arte. Sarà ascolto puro, come di musica. M’involo. Fontana sarebbe d’accordo, non avrebbe inscritto un segno luminoso nell’aria se non mi avesse voluta naso nell’etere,
non sui libri.
Entro. Sulle tavole affisse leggo il leggibile, questo è approccio
diretto: “Lucio Fontana, Palazzo Ducale 22 ottobre - 13 aprile, mostra curata da Sergio Casoli ed Elena Geuna, in collaborazione con la Fondazione Lucio Fontana”.
Da collezioni private e musei internazionali esplorerò 130
opere via colore e luce, per sale monocrome. Una tinta per
ogni stanza in un viaggio suggestivo in sintonia con l’essenzialità di Fontana. Sono pronta.
Sala Nera.
Nero lo zero, esistenziale, primigenio, nudo e silenzioso, il
buio che promette la forma, il vuoto da riempire. Un buio
d’angoscia dove pescare forme inesplorate, lo spiazzamento
delle categorie, la terra dell’inconscio.
Dal surreale arabesco al neon che mi ha guidata qui, creato nel ’51 per la Triennale di Milano come “impiego spaA fronte: Lucio Fontana. Concetto spaziale, 1962.
Olio su tela cm 146x114. Fondazione Lucio Fontana.
Sopra: Lucio Fontana insieme all’arabesco di neon realizzato
per la IX Triennale di Milano, 1951.
ziale” della luce, a linee fissate in un colore concreto, fermo. Idea e atto si fanno simultanei.
Viaggiando dai “tagli”ai “buchi”, tra “pietre”, “olii”, “Venezie”
fino alla “Fine di Dio”, “teatrini”, “ellissi”, un colore alla volta le sale dell’Appartamento del Doge si fanno terre oniriche, dal non colore nero al “colore sgarbato“, giallo rosso
rosa, al bianco dei primi tagli, ancora al nero degli ambienti.
Dalla scultura alla tela alla ceramica al neon, dal pennello
al punteruolo al taglierino, mi addentro in un’arte che impone il silenzio per la vertigine della sua essenzialità, dell’instancabile tentativo di superare lo spazio e il tempo in
cui mi muovo.
Ora comprendo come e quanto funzioni l’idea guida della
mostra, l’intuizione di raggruppare per colore i linguaggi disparati di Fontana, dalla matericità dei ‘’Barocchi’’ all’essenzialità delle “Attese”, dai “Concetti” agli “Ambienti Spaziali”, passando per “Ceramiche” e “Teatrini”, in una contemporaneità disorientante e in una monocromia purissima. Il fuoco cade chiaro sulla funzione trasversale di colore e luce nell’opera intera: infondere alla materia il movimento, espanderne la superficie. Dalle tele alle sculture
di Albissola, dove poche tonalità smaltiscono la forma, agli
“Ambienti Spaziali” nero e neon, il colore resta astratto e
la sua espressività forgia e muove la materia.
Il percorso monocromo Casoli-Geuna amplifica la potenza
espressiva dell’opera, fino a creare un effetto visionario d’insieme dall’impatto emotivo rivelatore: lo spettatore è trasportato dal livore dei colori al dinamismo plastico, fino al
superamento della dimensione che dissolve la distinzione
fra i generi.
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La suggestione pura del viaggio confezionato per me mi svela l’audacia della sperimentazione instancabile di tecniche,
forme, materiali, idee lungo il percorso dell’opera testarda
e solitaria di un solo uomo.
Esco estatica, sottobraccio il catalogo nuovo di pacca, ora
per decriptare ciò che ho visto occorrono i miei libri. Spesso la saggistica legge nell’opera intenzioni che l’autore non
sa di avere, stavolta voglio ascoltarla prima da lui. Da autore a spettatore, da fonte diretta attraverso le parole scritte che ha lasciato in dono. Solo poi divorerò la critica. Pregusto il momento, lo rimando, rigiro il catalogo, passeggio,
accarezzo la copertina, tento di distrarmi per dar tempo all’opera di fermentare, finché cedo. Infilo il primo bar, cappuccino e spalanco il mio regalo: Catalogo Skira.
Ricomponendo tutte le virgolette come un collage in una
specie di puzzle - intervista, Fontana in persona mi racconta:
perché violi la superficie con segni perfetti forzandola al rapporto con la luce, come crei arabeschi d’ombra passando
la tela che da supporto si fa spazio, dell’infinito del suo maestro Adolfo Wildt tradotto in gesto definitivo che nasce non
dall’impulso ma da meditazioni invisibili.
“A volte lascio la tela appesa per settimane prima di essere sicuro di cosa farò”, svela la fatica del prima, dell’individuare il punto esatto in cui ferire la tela, racconta la radicalità del gesto e la ricerca di nuovi spazi dell’immaginazione, l’amore per la tecnoscienza, la sperimentazione
instancabile di materiali e colori.
“Il colore di fondo di queste tele è un colore stridente che
indica l’irrequietezza dell’uomo contemporaneo (..), il tracciato sottile è invece il cammino dell’uomo nello spazio, il
suo terrore di perdersi. Lo strappo è un improvviso grido
di dolore, il gesto finale dell’angoscia che diventa insopportabile”.
Dal Barocco anni ’30 all’astrattismo dei ’40, a tagli e buchi, dall’implosione della forma delle sculture alla tela punteggiata di fori e frammenti di vetro, al dinamismo Futurista degli ambienti, tutto converge nella ricerca del paradosso
del movimento attraverso la forma statica. Dalla sperimentazione dei materiali, bronzo, ceramica, neon, fino alla purezza dell’astrattismo geometrico di taglio, linea, buco, alle “Nature” meteore cadute, alle ceramiche forgiate
dal fuoco, Fontana scarica un’energia artigiana nello sfondare il muro dell’arte per toccare la realtà.
“L’evoluzione dell’arte dipende dall’evoluzione del mezzo”,
dal Manifesto Blanco dello Spazialismo, Buenos Aires 1946,
scritto dai suoi studenti in Argentina. “Gli artisti anticipano
gesti scientifici, i gesti scientifici provocano sempre gesti
artistici”.
Nella sua instancabile sperimentazione di forme, stili, materiali, gesti, Fontana coltiva la consapevolezza che la scienza riscrive culture e lingue e che la virata dell’arte oltre la
tradizione sta nell’istinto dell’uomo alla ricerca di forme in
sintonia col proprio tempo.
“Non ci può essere un’evoluzione nell’arte con la pietra e il
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colore, si potrà fare un’arte nuova con la luce, la televisione, solo l’artista creatore deve trasformare queste tecniche
in arte, ecco quindi che il colore si fa luce e questa a sua
volta scultura luminosa. Quello sviluppo luminoso della spazio attraverso il quale finito l’uomo continua l’infinito”.
Di fronte ai tagli “Attese”, alle “Fine di Dio”, sotto la cui potente suggestione silenziosa e rivoluzionaria ho indugiato
per un tempo immobile, si intuisce un totale ripensamento dell’arte, che con la tela squarcia la tradizione in un gesto essenziale e definitivo, come la sua visione di realtà. Per
chi ama l’arte come estetica interfacciarsi con un “taglio”
non è naturale, ma Fontana vive l’azzardo come condizione necessaria di ogni evoluzione. Penso al coraggio di un
uomo solo con la sua idea radicale, di fronte ad una sacra
tradizione che offre una materia impenetrabile in cui scrivere forme chiuse, a quando la impugna e “taglia”. Allora
lo spazio davanti e dietro la tela si unisce attraverso il varco fisico e l’artista ferma il suo grido nella materia in un fendente, in un colpo, futurista nella rapidità dell’atto, spazialista
nel superamento delle dimensioni, antinaturalistico nel colore che interferisce con la luce espandendo la materia. La
contemporaneità è iniziata.
Una modernità essenziale, dove il colore è forma, la luce
è vibrazione, il gesto è contingenza.
“La scoperta del cosmo è una dimensione nuova, è l’infinito: allora io buco questa tela”.
Di fronte alla tela, come alla pagina bianca, si perde la testa e Fontana, invece di temerlo, celebra questo disorientamento che è quello dell’arte e dell’uomo, di fronte
al nuovo, al vuoto, alla consapevolezza che il cambiamento è un atto solitario. Svelando un vuoto ancora più oscuro con un gesto distruttivo che crea traiettorie siderali, fessure che perforano la tradizione. Col taglio costringe l’occhio oltre la tela, col foro indica l’’infinito, il supporto resta
piano nudo che promette inespresse Attese. I buchi non
appartengono alla superficie.
“Buco questa tela alla base di tutte le arti e ho creato una
dimensione infinita. Io buco, passa l’infinito di lì, passa la
luce, non c’è bisogno di dipingere”.
Lo squarcio è un atto mentale, quando l’idea diventa materia, la tela è uno spazio da superare in nome di un nuovo spazio davanti e dietro l’opera, prima e dopo, nella contingenza dell’istante creativo e nella sua eterna durata.
“Ho provato a mettere più colori sulla tela ma il taglio non
li sopporta”, sulla scia della monocromia delle tele e della
ricerca su luce e colore Fontana continua l’esperimento,
anche sulla scultura fino alla ceramica che scultura resta,
per la sua duttilità di materiale puro.
“Sono scultore e non ceramista. (…) Ho in uggia merletti
e sfumature. (…) Io cerco altro. Ho cercato e studiato la
forma. Ho modellato metamorfosi che pesavano quintali e
le ho dipinte con forti coloriture. La mia forma plastica non
è mai dissociata dal colore. La materia era attraente, potevo modellare e imprimere un colore vergine e compatto
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che il fuoco amalgamava. Era una specie di intermediario,
perpetuava forme e colore. Si parlò di ceramiche primordiali. La materia era terremotata ma ferma. I critici dicevano ceramica, io dicevo scultura. Seguivo l’oscillazione di
quei ritmi che mi si andavano formando dentro con un urgenza che non ammetteva vagheggiamenti. Le mie ricerche plastiche continuavano senza lusinghe”.
Le prime ceramiche degli anni ’20 in Argentina, proseguono
negli anni ‘30 ad Albissola e Sèvres, dove Fontana unisce
la tecnica locale ai linguaggi contemporanei dell’arte rispettando la storia dei luoghi. Nell’ acquario pietrificato della stanza delle ceramiche, una cinquantina di pezzi tra alghe, farfalle, fiori, coccodrilli, aragoste emergono lucide come bagnate, dal suo mare di Savona, Varigotti, Albissola,
Finale. L’artista sfrutta la plasticità del materiale a gran fuoco animandolo sotto la forza dissolvente della luce, crea la
forma dai riflessi, il movimento dai contrasti. Immola la linea alla luce, la materia al movimento, finché la forma non
si libera dalla ceramica. La materia non è più linea ma spazio, la quarta dimensione è trovata.
L’arte di contaminare astratto e figurativo, inaudita fino agli
anni ’40, è un talento che forse si radica nella sua cultura
mista di Fontana, sudamericano di nascita e italiano di memoria. Una doppia radice che innesta una memoria culturale europea, sulla linea dal Barocco al Futurismo, con
la versatilità sudamericana e l’attitudine all’ibridazione.
Naturale allora nasce l’abbandono del figurativo in nome
di un’apertura verso l’astrattismo geometrico e dinamico,
Lucio Fontana. Concetto spaziale. Attese, 1961.
Idropittura su tela, cm 60x 50. Collezione privata.
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come esplorazione di tecnologia, materiali e spazi nuovi,
con l’urgenza dell’arte: “Né telefono, né radio possono essere scaturite dalla mente dell’uomo senza l’urgenza che
dalla scienza va all’arte”.
Da qui la ricerca che va dai grandi palloni delle “Nature”
di terracotta e i “Teatrini” di tela monocroma a sfondo di
cornici a mo’ di palco, fino al lampadario di neon bianchi
e azzurri per il cinema Duse di Pesaro del ’60, un apparato barocco di materia nuova che pesa sullo spettatore come un movimento luminoso nell’aria. Col neon, quarta dimensione dell’architettura, sostanza luminosa e malleabile, Fontana crea la scultura di barre luminose che sezionano l’oscurità e reciprocamente s’illuminano senza ombre, oscillando su cornici di metallo in un surreale cubo luminescente.
Dopo luce e colore Fontana testa le percezioni umane dello spazio. Con i “Quanta”, tele diversamente sagomate tra
loro, supera il limite della cornice per suggerire allo spettatore ipotesi diverse di composizione della tela, offrendogli sempre nuove possibilità. Nove poligoni su tela rossa con
tagli e buchi, stravolgono il concetto di quadro coinvolgendo
lo spettatore in una ricomposizione personale delle parti.
Nel tentativo di descrivere ciò che non si è ancora visto in
uno spazio di enorme libertà Fontana approda agli “Ambienti Spaziali”, prime installazioni dell’arte contemporanea,
in cui definitivamente l’arte trova una forma al mondo che
la scienza ha cominciato. L’opera diventa interattiva, include
lo spettatore e da lui è intaccata e modificata, diventa dinamica, performance. Nell’ambiente nero costellato di lucine Fontana ti molla a te stesso, creando un buio sulla cui
soglia lascia sola la tua immaginazione. Quando ho aperto incautamente la borsa, due ore fa, nell’Ambiente e i colori via etere hanno svegliato il contenuto, che si è fatto fosforescente come le maniche della mia camicia, ho compreso il significato dell’esperimento: trasformarmi da osservatore ad opera, contaminare l’opera con i miei colori,
gesti, sensazione spaziali.
Un unico “concetto spaziale” dell’arte, oltre la materia ferma e la forma chiusa. Colore e luce fusi in movimento sono la nuova arte, iniziata da un uomo che viola le apparenze, taglia, tasta, segna, stucca, frantuma, strappa il piano fino a spiare un’altra visione del vero. Un’arte tra istinto e pensiero, impulso e ragione, urgenza e ripensamenti,
fino a forme nate dal subconscio e filtrate dalla testa, senza mai abbandonare il controllo dell’atto artistico.
L’ho seguito come una bambina lungo le sale della mostra
convogliare instancabilmente linguaggi diversi, idealisticamente stili e gusti, azzerare il segno, uscire dalla cornice,
ingoiarmi negli Ambienti. Ho assistito ad una testarda dichiarazione di fede nella scienza e nell’arte come campo
infinito di sperimentazione.
Fuori è sera, il quarto cappuccino è freddo, intorno a me
la gente è cambiata ed io non sono mai uscita da quella
mostra.
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