“può adottare provvedimenti in ordine alle modalità di esecuzione
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“può adottare provvedimenti in ordine alle modalità di esecuzione
LA TUTELA DEI DIRITTI DEI DETENUTI E DEGLI INTERNATI LESI DA ATTI ILLEGITTIMI DELL’AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA Giuseppe Melchiorre Napoli Sommario: 1 Diritti dei detenuti e poteri dell’Amministrazione: 1.1 I diritti delle persone detenuto o internate; 1.2 I poteri dell’Amministrazione penitenziaria. 2 Il procedimento su reclamo: 2.1 Il reclamo come strumento di tutela; 2.2 I poteri decisori. 3 Il reclamo al magistrato di sorveglianza: 3.1 Interventi a tutela dei diritti del detenuto; 3.2 Verso un nuovo sistema di tutela dei diritti; 3.3 I contrasti nella giurisprudenza di legittimità; 3.4 La scelta della procedura giurisdizionale; 3.5 La tutela dei diritti: una questione ancora aperta. 1.DIRITTI DEI DETENUTI E POTERI DELL’AMMINISTRAZIONE 1.1 I DIRITTI DELLE PERSONE DETENUTE O INTERNATE Dall’art. 2 Cost. (“la repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”) e dall’art. 27, comma III, Cost. (“la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità”) si fa discendere un principio di civiltà giuridica, secondo il quale: le persone sottoposte a restrizione della libertà personale conservano intatta “la titolarità di situazioni soggettive” e vedono “garantita quella parte di personalità umana”, che la pena o la misura di sicurezza detentiva e la custodia cautelare in carcere non intaccano1. E, con riferimento ai condannati e agli internati, si precisa che la sanzione detentiva comporta una grave limitazione, ma non la privazione, totale e assoluta, dei diritti di libertà della persona, ritenendosi che quel residuo di libertà, che la detenzione lascia sopravvivere, “è tanto più prezioso, in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale”2. In altri termini, anche durante l’esecuzione di una misura limitativa della libertà personale, la dignità della persona “è protetta attraverso il bagaglio degli inviolabili diritti dell’uomo, che anche il detenuto porta con sé”3. In ossequio ai precetti costituzionali, l’art. 1, comma I, O.P., nell’enunciare il principio secondo il quale il trattamento penitenziario, oltre ad essere conforme ad umanità, deve anche assicurare il rispetto della dignità della persona, riconosce (anche se in modo implicito) l’esistenza di un ampio ventaglio di diritti dei detenuti e degli internati, che lo stato di privazione della libertà personale non intacca4. Più espliciti 1 In tal senso, Corte Costituzionale, sentenza n. 114, 25 luglio 1979. Corte costituzionale, sentenza n. 349, 24 giugno – 28 luglio 1993. 3 Corte costituzionale, sentenza n. 26, 11 febbraio 1999. 4 In materia di diritti delle persone recluse, la Raccomandazione R(2006)2 sulle Regole penitenziarie europee, adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, l’11 gennaio 2006, enuncia tre principi fondamentali. Primo: “Le persone private della libertà devono essere trattate nel rispetto dei diritti dell’uomo” (art. 1). Secondo: “Le persone private della libertà conservano tutti i diritti che non 2 sono, invece, l’art. 4 O.P. (i detenuti e gli internati esercitano personalmente i diritti loro derivanti dalla legge sull’ordinamento penitenziario anche se si trovano in stato di interdizione legale5) e l’art. 69, comma V, O.P. che, sul presupposto dell’esistenza di un insieme di posizioni soggettive giuridicamente rilevanti di cui sono titolari i condannati e gli internati, attribuisce al magistrato di sorveglianza il potere di vigilare e di intervenire, per eliminare le eventuali violazioni dei diritti6. Pertanto, quello penitenziario è un “sottosistema giuridico” che, nel regolare compiutamente tutti i momenti dell’esecuzione di una misura privativa delle libertà personale, prevede una sono stati loro tolti, secondo la legge, dal provvedimento che le condanna a pena detentiva o che applica la custodia cautelare” (art. 2). Terzo: “La mancanza di risorse non può giustificare condizioni di detenzione lesive dei diritti dell’uomo (art. 4). Analoghi principi sono ricavabili dalla Risoluzione O.N.U. sulle Regole minime per il trattamento dei detenuti (30 agosto 1955), dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con legge n. 848 del 4 agosto 1955, che vieta “pene o trattamenti inumani o degradanti” (art. 3) e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (articoli 5 e 6). 5 Parte della dottrina ritiene che l’art. 4 O.P. si riferisca non soltanto ai diritti derivanti dalla legge sull’ordinamento penitenziario, ma anche a quelli previsti in altre norme di legge “comunque disciplinanti la condizione della persona ristretta” (Grevi, Giostra, Della Casa; Ordinamento penitenziario, commento articolo per articolo, Padova, 2006, pag. 4). 6 La dottrina ha cercato di classificare, in modo organico, l’insieme dei diritti dei detenuti e degli internati, che trovano fondamento nella carta costituzionale. Così, taluni (Canepa, Merlo; Manuale di diritto penitenziario, Milano, 2004) hanno proposto una ripartizione che prevede tre macroaree: i diritti relativi all’integrità fisica (e alla salute mentale), i diritti relativi alla tutela dei rapporti familiari e sociali e i diritti relativi all’integrità culturale e morale (in senso analogo: Grevi, Giostra, Della Casa, op. cit., che individuano anche il diritto al lavoro ed il diritto ad un trattamento rieducativo). Altra dottrina (A. Pennisi, Diritti del detenuto e tutela giurisdizionale, Torino, 2002), invece, in maniera più analitica, distingue due gruppi di diritti. Dagli articoli 2 e 13 Cost., difatti, si fa discendere un primo nucleo di diritti (comune ai condannati e agli imputati) che appartengono al detenuto “in qualità di cittadino e che conserva in quanto non siano oggettivamente incompatibili con lo stato detentivo”. Tale nucleo comprende: il diritto alla libertà personale, che “opera anche nei confronti di chi è sottoposto a legittime restrizioni della libertà personale durante la fase esecutiva della pena, sia pure con le limitazioni che lo stato di detenzione comporta” (Corte cost. sentenza n. 349/93, cit.), ne discende che “l’adozione di eventuali provvedimenti, suscettibili di introdurre nuove restrizioni della libertà personale, può avvenire soltanto con le garanzie della riserva di legge e di giurisdizione, espressamente previste dall’art. 13, comma II, Cost.”; il diritto all’integrità psico-fisica (art. 32 Cost., che comprende il diritto ai trattamenti sanitari, all’autodeterminazione sanitaria, all’ambiente salubre); il diritto alla libertà di coscienza (articoli 2, 19, 21 Cost.) che, inteso come “facoltà di pensare liberamente e di potersi formare la propria concezione generale della vita”, comprende il diritto alla liberta religiosa (di professare la propria fede, di farne propaganda, di celebrarne i riti), il diritto all’istruzione; il diritto di manifestare il proprio pensiero, il diritto all’informazione; il diritto al lavoro (art. 4 e art. 36 Cost.); il diritto alla riservatezza (art. 15 Cost.); il diritto all’affettività (articoli 2, 29, 30, 31 Cost.); il diritto alla giurisdizione, per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (articoli 24 e 113 Cost.). Dall’art. 27, comma III, Cost. si fa discendere il secondo nucleo di diritti dei condannati e degli internati (non anche degli imputati), tra i quali rientrano: il diritto alla rieducazione (anche con riferimento all’art. 3, comma II, Cost., che, “tra i compiti della Repubblica, prevede quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando, di fatto, la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”); il diritto ad un trattamento penitenziario non differenziato (art. 3 Cost.). 2 serie di diritti e di interessi, che possono essere direttamente goduti e fatti valere dai detenuti o dagli internati, anche se legalmente interdetti (art. 32 c.p.)7. 1.2 I POTERI DELL’AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA L’esistenza di posizioni soggettive, giuridicamente rilevanti, di cui sono titolari i detenuti e gli internati, non esclude ovviamente, che, nell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza detentiva o della misura coercitiva della custodia cautelare in carcere, lo Stato (attraverso i suoi organi amministrativi) conservi un potere di “coazione personale”, regolato dalle norme sull’ordinamento penitenziario. Non si tratta, dunque, di un potere illimitato, bensì di una potestà pubblica che incontra precisi limiti. A riguardo, si rileva che l’Amministrazione penitenziaria “può adottare provvedimenti in ordine alle modalità d’esecuzione della pena, che non eccedano il sacrificio della libertà personale già potenzialmente imposto al detenuto con la sentenza di condanna”8e che rispettino i diritti inviolabili dei detenuti o degli internati. Da qui, il divieto di adottare provvedimenti amministrativi in grado: a) di introdurre nuove restrizioni della libertà personale, che impediscano o limitino ulteriormente i movimenti e le azioni dei ristretti9; b) di negare o comprimere il godimento di quei diritti 7 Di Gennaro, Breda, La Greca, L’ordinamento penitenziario e le misure alternative alla detenzione, Torino, 1997. In tal senso, Grevi, Giostra, Della Casa, op. cit., pag. 40: “Nell’ordinamento penitenziario (…) per la prima volta il detenuto acquista una propria soggettività giuridica, che è così sostanziale come formale. E’ sostanziale, in quanto egli viene identificato e definito quale titolare di diritti e di aspettative; ed è formale, in quanto egli viene legittimato all’agire giuridico proprio nella qualità di titolare di diritti che appartengono alla condizione di detenuto”. 8 Corte costituzionale, sentenza n. 349/93, cit.. Deve rilevarsi, peraltro, che il sacrificio imposto dalla sentenza di condanna attiene soltanto alla libertà di movimento o d’azione. Il provvedimento del giudice, difatti, determina una “degradazione giuridica”, vale a dire “una menomazione o mortificazione della dignità e del prestigio della persona, tale da poter essere equiparata a quell’assoggettamento all’altrui potere, in cui si concreta la violazione del principio dell’habeas corpus” (Corte costituzionale, n. 68, 20 giugno 1964). Nessun “sacrifico”, invece, può essere imposto, dalla sentenza di condanna, alla libertà morale, che è quell’aspetto della libertà personale consistente nella “pretesa dei singoli all’autodeterminazione ed all’integrità della propria coscienza, che non deve essere coartata, direttamente o indirettamente, con minacce o intimidazioni, al fine di annientare la volontà e rendere supinamente acquiescenti ai comandi dei governanti” (T. Martinez). 9 In tal caso, opererebbe la duplice riserva di legge e di giurisdizione, ai sensi dell’art. 13, comma II, Cost.. A riguardo, Corte costituzionale, sentenza n. 11, 19 giugno 1956: “In nessun caso l’uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà se questa privazione o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi sia provvedimento dell’autorità giudiziaria che ne dia le ragioni”. Tuttavia, nessuna pronuncia traccia, con precisione, la linea di confine oltre la quale una modalità esecutiva della pena, disposta dall’Amministrazione penitenziaria, eccede “il sacrificio della libertà personale già potenzialmente imposto con la sentenza di condanna” e si configura come restrizione aggiuntiva della libertà personale e, in quanto tale, assoggettabile alla duplice riserva di legge e di giurisdizione (art. 13, comma II, Cost.). La questione, invece, è stata affrontata da A. Pennisi, op. cit., pp. 63 – 69, il quale, prendendo spunto dalla sentenza della Corte costituzionale n. 68/64, cit., ha rilevato che “il criterio più plausibile sembra quello di far dipendere il passaggio, dall’una all’altra categoria, dal fatto che la misura in discorso, oltre che avere un contenuto derogatorio rispetto al normale trattamento penitenziario, sia il risultato di una valutazione negativa della personalità del condannato o della commissione di un fatto posto in essere dal medesimo”. Tale criterio, peraltro, potrà applicarsi sia con riferimento agli internati, al fine di individuare quelle 3 (inviolabili) dei detenuti o degli internati, posti “a tutela dei minimi spazi vitali”10; c) di incidere sulla quantità o sulla qualità della pena; d) di comportare un, “sia pur temporaneo, distacco dal carcere”11; e) di precludere o di condizionare l’applicabilità dei benefici penitenziari, che incidono sullo stato di libertà, attraverso, ad esempio, il mancato avvio o “la sospensione di ogni attività di osservazione e di trattamento del detenuto”, che è la condizione “cui la legge subordina la concessione di detti benefici”12. La competenza dell’Amministrazione, dunque, è limitata agli interventi sulle “modalità concrete di attuazione del regime carcerario, in quanto tale, e dunque già potenzialmente ricomprese nel quantum di privazione della libertà personale conseguente allo stato di detenzione”13. Nondimeno, si tratta di interventi che attengono a quegli istituti “che già nell’ordinamento penitenziario appartengono alla competenza di ciascuna amministrazione” e che consentono una variazione del regime penitenziario, necessaria per adeguare l’esecuzione della pena (della detenzione) alle esigenze rieducative del condannato o alle esigenze di sicurezza dell’istituto14. restrizioni, disposte dall’Amministrazione penitenziaria, che eccedano “il sacrificio della libertà personale già potenzialmente imposto” con il provvedimento dell’autorità giudiziaria relativo alle modalità esecutive della misura di sicurezza, sia con riferimento agli indagati e agli imputati, per l’individuazione delle restrizioni non riconducibili al novero di quelle derivanti dall’ordinanza che dispone la misura coercitiva della custodia cautelare in carcere. 10 Corte costituzionale, sentenza n. 212, 3 luglio 1997: “Il detenuto, infatti, pur trovandosi in situazione di privazione della libertà personale in forza della sentenza di condanna, è pur sempre titolare di diritti incomprimibili, il cui esercizio non è rimesso alla semplice discrezionalità dell’autorità amministrativa preposta all’esecuzione della pena detentiva, e la cui tutela pertanto non sfugge al giudice dei diritti”. Nel caso di specie, la Corte ha riconosciuto il diritto inviolabile del condannato di conferire con l’avvocato regolarmente nominato, anche qualora non fosse pendente un procedimento esecutivo o di sorveglianza. Ma il principio va esteso a tutti quei diritti che sono posti a tutela dei “minimi spazi vitali” dei detenuti e degli internati (in assenza dei quali il trattamento penitenziario sarebbe contrario al senso d’umanità) e che, dunque, non sono affievolibili per atto dell’Amministrazione. Si pensi, ad esempio, al diritto ad un ambiente salubre, in cui scontare la pena detentiva, e ad un’alimentazione sana e sufficiente (articoli 6 e 7 O.P.), al diritto di permanere all’aria aperta per non meno di un’ora (art. 10 O.P.), al diritto di mantenere proficue relazioni con i familiari, attraverso i colloqui visivi e la corrispondenza (art. 18, commi I e III, O.P.), al diritto di informarsi attraverso la lettura di libri e periodici, in libera vendita all’esterno (art. 18, comma VI, O.P.), al diritto di professare la propria fede religiosa e di praticarne il culto (art. 26 O.P.). 11 In materia di misure di sicurezza, di misure alternative alla detenzione e di benefici penitenziari (che comportano un temporaneo distacco dal carcere) opera una riserva di giurisdizione, sempre ai sensi dell’art. 13 della Costituzione. Per la verità, tale riserva non è sempre e della tutta rispettata. Si pensi all’istituto del permesso premio, la cui concessione, pur comportando un temporaneo distacco dall’ambiente carcerario, è rimessa alla competenza di un organo della giurisdizione (il magistrato di sorveglianza), che decide però attraverso un procedimento de plano, privo dei caratteri propri della procedura giurisdizionale (ed analogo discorso vale anche per le licenze, per le quali, peraltro, non è neanche previsto un controllo successivo in sede giurisdizionale, per la liberazione anticipata, misura che incide sulla quantità della pena, e per l’ammissione al lavoro all’esterno). 12 Corte costituzionale, sentenza n. 351, 14 – 18 ottobre 1996. 13 Ibidem. 14 Corte costituzionale, sentenza n. 349/93, cit. 4 Nonostante la precisa delimitazione della sfera di competenza, rimane all’Amministrazione penitenziaria un ambito d’intervento, attinente alle modalità concrete di trattamento, nel quale può esercitare poteri amministrativi (di natura discrezionale) in grado di intaccare i residui diritti soggettivi e gli interessi legittimi dei detenuti e degli internati. Da qui, l’esigenza di individuare una qualche forma di tutela di tali posizioni soggettive, giuridicamente rilevanti, che possono essere lesi da atti illegittimi o da condotte (attive od omissive) illecite dell’Amministrazione. 2. IL PROCEDIMENTO SU RECLAMO 2.1 IL RECLAMO COME STRUMENTO DI TUTELA A garanzia dei diritti e degli interessi delle persone recluse, l’art. 35 O.P. prevede uno strumento generale di tutela, volto a sollecitare gli interventi necessari per la rimozione degli effetti lesivi derivanti da atti illegittimi o da fatti illeciti dell’Amministrazione, attivando le funzioni di controllo attribuite non soltanto ad autorità appartenenti al sistema penitenziario, ma anche ad autorità esterne. I detenuti e gli internati15, difatti, possono rivolgere istanze o reclami (orali o scritti, anche in busta chiusa): al direttore dell’istituto, al provveditore regionale, al capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria16, al ministro della giustizia, al magistrato di sorveglianza (per quanto attiene agli organi amministrativi e giudiziari che hanno competenza in materia di esecuzione delle misure privative della libertà personale); alle autorità giudiziarie e sanitarie in visita all’istituto (per quanto attiene a quelle autorità che esercitano uno specifico potere di vigilanza sugli istituti, ma che non appartengono all’organizzazione penitenziaria)17; al presidente della giunta regionale, al 15 La norma sembra riservare, in modo esclusivo, ai ristretti, il potere di presentare istanze o reclami. Tuttavia, anche a seguito dell’adozione della Raccomandazione R(2006)2 sulle Regole penitenziarie europee, cit., deve ritenersi che tale potere vada esteso ai familiari del detenuto, i quali, con reclamo scritto, possono lamentare la violazione dei diritti del congiunto recluso (regola 70, comma V), nonché al rappresentante giuridico (che agisce a nome del ristretto) o alle organizzazioni che tutelano il benessere della popolazione detenuta, sempre che l’interessato non si opponga (regola 70, comma VI). 16 L’art. 35 O.P. stabilisce che le istanze e i reclami possono essere rivolti, tra gli altri, agli ispettori e al direttore generale per gli istituti di prevenzione e di pena. Tuttavia, a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 395 del 15 dicembre 1990, le funzioni della Direzione generale per gli istituti di prevenzione e pena sono state trasferite al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al cui vertice è posto il capo del dipartimento, e le funzioni dell’Ufficio dell’ispettore distrettuale per adulti sono state trasferite al Provveditorato regionale, al cui vertice è posto il provveditore regionale. 17 Per quanto riguarda le autorità giudiziarie, l’art. 67, comma I, lett. c), O.P. consente la visita agli istituti, senza autorizzazione (e, dunque, anche con finalità di controllo) tra gli altri: al presidente della corte d’appello e al procuratore generale della repubblica presso la corte d’appello, al presidente del tribunale e al procuratore della repubblica presso il tribunale, ai magistrati di sorveglianza nell’ambito delle rispettive competenze e ad ogni altro magistrato per l’esercizio delle sue funzioni. In ordine alle autorità sanitarie, lo stesso art. 67, comma I, lett. f), consente la visita, senza autorizzazione, al medico provinciale. Ai sensi dell’art. 11, comma XII, O.P., inoltre, il medico provinciale visita almeno due volte l’anno gli istituti di pena, allo scopo di accertarne lo stato igienico – sanitario, l’adeguatezza alle misure di profilassi contro le malattie infettive e le condizioni igieniche e sanitarie dei ristretti. Sull’esito della 5 Capo dello stato (con riferimento a quelle autorità estranee al sistema dell’esecuzione penale). Parte della dottrina ritiene che, nonostante il silenzio della legge, tra le autorità, cui il reclamo (o l’istanza) può essere inviato, devono farsi rientrare gli organismi internazionali amministrativi e giudiziari (di cui l’Italia fa parte) preposti alla tutela dei diritti dell’uomo18, ai quali i ristretti possono inviare corrispondenza epistolare, senza che questa sia sottoposta a visto di controllo (art. 18 ter, comma II, O.P.)19. Peraltro, la norma accomuna, in un’unica previsione, due istituti diversi: il reclamo, volto a lamentare la violazione di una posizione soggettiva, giuridicamente rilevante, e l’istanza, finalizzata ad una particolare richiesta, indipendentemente dalla lesione di un diritto o di un interesse. E, per agevolare il ricorso, nella forma scritta, a tali mezzi di tutela, il regolamento prevede: anzitutto, che la direzione metta a disposizione dei detenuti e degli internati, che ne facciano richiesta, l’occorrente per redigere istanze o reclami; poi, che il detenuto o l’internato, per l’invio delle istanze o dei reclami scritti, possa ricorrere al sistema della busta chiusa, provvedendo personalmente alla chiusura e opponendo, all’esterno, la dicitura “riservata” (in tal modo, si garantisce la segretezza dello scritto e si evita che, la paura di ritorsioni, possa inibire il ricorso a tale forma di tutela20); inoltre, che, qualora il mittente sia privo di fondi, alle spese di spedizione provveda la direzione dell’istituto (art. 75, commi II e III, reg. es.)21. Infine, per favorire la presentazione di reclami o di istanze orali, il regolamento impone a determinate autorità (preposte alla vigilanza e alla gestione dell’esecuzione della pena detentiva) di avere frequenti colloqui con i detenuti e gli internati, stabilendosi che “il magistrato di sorveglianza, il provveditore regionale e il direttore dell’istituto devono offrire la possibilità a tutti i detenuti di entrare direttamente in contatto con loro”, attraverso periodici colloqui (che devono essere “particolarmente frequenti per il direttore”), durante i quali i ristretti possono presentare istanze o reclami orali. Degli accessi in istituto del magistrato e del provveditore è fatta annotazione in un visita e sui provvedimenti da adottare, il medico provinciale riferisce al Ministero della sanità e a quello della giustizia, informando anche i competenti uffici regionali e il magistrato di sorveglianza. 18 In ordine alla possibilità di presentare il reclamo alla Corte europea dei diritti dell’uomo, si veda anche: Di Gennaro, Breda, La Greca, op. cit., pag. 194. 19 In dottrina, si sottolinea “l’importanza della libertà di corrispondere liberamente con la Corte europea quale canale per denunciare eventuali maltrattamenti che il detenuto abbia subito” (C. Minnella, Il prezioso contributo della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di diritti del detenuto e tutela giurisdizionale, in Rassegna penitenziaria e criminologia, settembre – dicembre 2003, n. 3, pag. 149). 20 Ai sensi dell’art. 18 ter, comma II, O.P., “qualora la corrispondenza epistolare o telegrafica sia indirizzata (…) alle autorità indicate nell’art. 35” non si applicano le disposizioni che ne consentono la limitazione o la sottoposizione a visto di controllo. Nondimeno, a tutela del diritto dei ristretti di proporre, liberamente, reclami o istanze “al direttore dell’istituto o ad ogni altra autorità competente”, la Raccomandazione R(2006)2 sulle Regole penitenziarie europee, cit., stabilisce che “i detenuti non devono essere puniti per aver presentato una richiesta o aver depositato un reclamo” (art. 70, comma IV). 21 Se diretto ad un’autorità giudiziaria e se redatto per iscritto, il reclamo (o l’istanza) deve essere trasmesso, dall’Amministrazione penitenziaria, entro tre giorni dalla presentazione. A tale conclusione si deve giungere attraverso un’interpretazione analogica dell’art. 24, comma IV, reg. es., che disciplina l’invio delle istanze relative ai provvedimenti di cui al capo VI, titolo I, della legge n. 354/75. 6 registro riservato a ciascuna autorità (nel quale si potranno indicare i rilevi emersi a seguito della visita) ed anche le udienze effettuate dal direttore sono annotate in un apposito registro (art. 75, comma I, reg. es.)22. 2.2 I POTERI DECISORI La legge e il regolamento d’esecuzione non disciplinano la procedura da attivare a seguito della presentazione dell’istanza o del reclamo, né stabiliscono la natura e l’efficacia della decisione finale. Così, in ordine a quest’ultimo punto, in modo corretto, si afferma che i poteri decisori delle autorità interpellate sono particolarmente limitati: in caso d’accoglimento dell’istanza o del reclamo, queste rivolgono le opportune segnalazioni agli organi competenti a rimuovere la situazione lesiva23, o, se ne hanno il potere, soddisfano direttamente la richiesta dell’interessato. Non solo, ma a carico delle autorità giudiziarie e sanitarie in visita all’istituto o del Presidente della giunta regionale o del Capo dello stato, non è configurabile un dovere di decidere, né un obbligo di comunicare all’interessato il contenuto del provvedimento eventualmente adottato. Soltanto con riferimento alle autorità (amministrative e giudiziarie), preposte all’esecuzione delle misure restrittive della libertà personale, il regolamento impone un obbligo di provvedere e di comunicare il contenuto della decisione finale. Difatti, sia nell’ipotesi d’accoglimento, sia in quella di rigetto dell’istanza o del reclamo (scritto od orale), il magistrato di sorveglianza e il personale dell’Amministrazione penitenziaria “informano, nel più breve termine possibile, il detenuto o l’internato dei provvedimenti adottati e dei motivi che ne hanno determinato il mancato accoglimento” (art. 75, comma IV, reg. es.). Nondimeno, la dottrina e la giurisprudenza di legittimità escludono che la decisione del magistrato sia reclamabile avanti al tribunale di sorveglianza (ai sensi dell’art. 14 ter O.P.) o impugnabile con ricorso in cassazione (ex art. 111 Cost.)24. 3. IL RECLAMO AL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA 3.1 GLI INTERVENTI A TUTELA DEI DIRITTI DEL CONDANNATO Tra le ipotesi di reclamo disciplinate dall’art. 35 O.P., quella al magistrato di sorveglianza assume particolare rilievo se considerata alla luce della norma che 22 La disciplina normativa è in linea con la Risoluzione O.N.U. sulle Regole minime per il trattamento dei detenuti, cit. (art. 36), in base alla quale: in materia di reclami (o istanze) orali, deve essere riconosciuto ai detenuti il diritto di avanzarli al direttore e ad un ispettore degli istituti (in quest’ultimo caso, senza la presenza del direttore o di altro personale); in materia di reclami (o istanze) scritti, va riconosciuto il diritto di inviarli, in busta chiusa, all’amministrazione penitenziaria centrale, all’autorità giudiziaria e alle altre autorità competenti e, in caso di reclamo (o istanza) indirizzato o trasmesso all’autorità penitenziaria, questa deve esaminarlo senza ritardo e rispondere al detenuto in tempo utile. 23 Canepa, Merlo, op. cit., pag. 585. 24 La mancata previsione di mezzi di impugnazione del provvedimento emesso, a seguito dell’istanza o del reclamo, non appare conforme alla Raccomandazione R(2006)2 sulle Regole penitenziarie europee, cit., in base alla quale “in caso di rigetto della richiesta o del reclamo, i relativi motivi devono essere comunicati al detenuto interessato e quest’ultimo deve poter presentare un ricorso a un’autorità indipendente” (art. 70, comma II). 7 attribuisce a tale organo della giurisdizione il potere di impartire disposizioni, nel corso del trattamento, “dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati” (art. 69, comma V, ultima parte, O.P.)25. A tal proposito, è stato rilevato come il concetto di tutela usato dalla norma sia “sufficientemente vasto e comprensivo e tale, comunque, da consentire al magistrato di intervenire ogni qual volta possono essere violati diritti del soggetto”26. Si tratta, dunque, di un intervento a garanzia del condannato o dell’internato, ispirato dai principi costituzionali, ma realizzato attraverso uno strumento inadeguato, perché inidoneo ad assicurare una tutela effettiva. Invero, il procedimento per reclamo (ex art. 35 O.P.), è privo dei caratteri propri della procedura giurisdizionale, risolvendosi in una mera doglianza rivolta al magistrato di sorveglianza, che decide senza alcuna formalità, con provvedimento inoppugnabile. Peraltro, come detto, i poteri decisori sono alquanto limitati. Ove il magistrato consideri fondata la doglianza, rivolgerà “le opportune segnalazioni ai superiori gerarchici degli operanti”; in caso contrario “informerà nel più breve termine possibile il detenuto o l’internato dei motivi che ne hanno determinato il mancato accoglimento”. 3.2 VERSO UN NUOVO SISTEMA DI TUTELA DEI DIRITTI Fuori delle ipotesi previste dagli articoli 14 ter27, 41 bis28 e 69, comma VI29, O.P., dunque, la persona privata della libertà personale può far valere i propri diritti, lesi da un atto illegittimo o da un comportamento illecito dell’Amministrazione penitenziaria, soltanto attivando una procedura (il reclamo ex art. 35) che non prevede il contraddittorio tra le parti, l’esercizio di diritti difensivi, una decisione motivata e stabile e la possibilità di impugnarla attraverso il ricorso per cassazione30. 25 Corte costituzionale, sentenza n. 212/97, cit., secondo cui “sebbene l’ordinamento penitenziario non abbia esplicitamente e compiutamente risolto il problema dei rimedi giurisdizionali idonei ad assicurare la tutela dei diritti, sta di fatto che, nel configurare (nei capi II e II bis del titolo secondo) l’organizzazione dei giudici di sorveglianza (magistrato e tribunale di sorveglianza), esso ha dato vita ad un assetto chiaramente ispirato al criterio per cui la funzione di tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti è posta in capo a tali uffici della magistratura ordinaria”. 26 Di Gennaro, Breda, La Greca, op.cit., pag. 321. 27 L’art. 14 ter O.P. disciplina il reclamo, al tribunale di sorveglianza, avverso il provvedimento dell’Amministrazione penitenziaria che dispone o proroga il regime di sorveglianza particolare. 28 Ai sensi dei commi II ter e II quinquies dell’art. 41 bis O.P., avverso il provvedimento del ministro della giustizia, che applica o proroga o non accoglie l’istanza di revoca del regime di sospensione delle regole del trattamento e degli istituti previsti dalla legge sull’ordinamento penitenziario, può essere proposto reclamo al tribunale di sorveglianza. 29 In base al comma VI, dell’art.69 O.P., “il magistrato di sorveglianza decide con ordinanza impugnabile soltanto per cassazione, secondo la procedura di cui all’art. 14 ter, sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti l’osservanza delle norme riguardanti: a) l’attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione, nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali; b) le condizioni di esercizio del potere disciplinare, la costituzione e la competenza dell’organo disciplinare, la contestazione degli addebiti e la facoltà di discolpa”. 30 La tesi, secondo la quale il procedimento per reclamo (ex art. 35 O.P.) è carente dei requisiti propri della procedura giurisdizionale, si fonda su dati normativi oggettivi e non è messa in discussione neanche da quelle pronunce della Corte costituzionale che hanno attribuito, a tale procedimento, la natura di 8 Sulla legittimità costituzionale di tale sistema di tutela dei diritti del detenuto è intervenuta la Corte costituzionale (sentenza n. 26 del 1999)31, dichiarando “l’illegittimità dell’art. 35 O.P. e dell’art. 69 O.P. nella parte in cui non prevedono una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’Amministrazione penitenziaria, lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale”, in violazione dell’art. 24, comma I, Cost. (“tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”) e dell’art. 113, comma I, Cost. (“contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi”)32. Peraltro, come precisato dalla stessa Corte, la decisione non attiene ai diritti dei detenuti che nascono da rapporti estranei all’esecuzione penale (in tal caso, si applicheranno gli strumenti di tutela generali previsti dall’ordinamento), né alle posizioni soggettive legate agli istituti che modificano la quantità o la qualità della pena (per le quali l’ordinamento ha previsto un complesso sistema di tutela giurisdizionale). Si interviene, invece, sul sistema di tutela di quei “diritti la cui violazione sia potenziale conseguenza del regime di sottoposizione a restrizione della libertà personale e dipenda da atti dell’amministrazione ad esso preposta”. In particolare, “si tratta della tutela di diritti suscettibili di essere lesi per effetto: a) del potere dell’amministrazione di disporre, ricorrendo i presupposti indicati dalla legge, misure speciali che modificano le modalità concrete del trattamento di ciascun detenuto; b) di determinazioni amministrative prese nell’ambito della gestione ordinaria della vita “giudizio”, al solo fine di consentire la proposizione di una questione di legittimità costituzionale. A riguardo, la giurisprudenza costituzionale, dopo avere affermato che, “quando è posta in discussione la concreta tutela di un diritto del detenuto, che solo in quella sede possa essere fatto valere, potrà e dovrà riconoscersi al relativo procedimento natura di giudizio, nel corso del quale può essere sollevata una questione di costituzionalità” (Corte cost., sentenza n.212/97, cit.), ha poi precisato che “l’idoneità del procedimento su reclamo davanti al magistrato di sorveglianza a essere luogo di promuovimento della questione incidentale di legittimità costituzionale e quindi l’affermata sufficienza dei caratteri di giurisdizionalità, specificamente in relazione al carattere soggettivo del procedimento, ai fini della proposizione della questione stessa, non vale tuttavia affatto come riconoscimento dell’idoneità di tale procedimento sotto il diverso rispetto della garanzia del diritto costituzionale di azione in giudizio” (Corte cost., sentenza n. 26/99, cit.). 31 Corte costituzionale, sentenza n. 26, 8 - 11 febbraio 1999. La questione di legittimità posta dal giudice rimettente riguarda gli articoli 35 e 69, comma VI, O.P. nella parte in cui non prevedono una tutela giurisdizionale contro i provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria “che non consentono la ricezione, in istituto, di riviste spedite in abbonamento ovvero da parte dei familiari, in ragione del loro contenuto asseritamene osceno”, ledendo il diritto dei detenuti di “tenere, previa autorizzazione, presso di sé, i quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all’esterno” (art. 18, comma VI, O.P.). 32 In materia di tutela dei diritti del detenuto e dell’internato è intervenuta anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. IV, sentenza 11 gennaio 2005, ricorso n. 33695/96, dichiarando la violazione dell’art. 6 C.E.D.U., nella specie del c.d. “diritto ad un tribunale”, nel caso di un ricorrente (detenuto) al quale non era stata concessa la possibilità di contestare un provvedimento dell’Amministrazione penitenziaria incidente sui suoi diritti di natura civile (nella vicenda sottoposta al vaglio delle Corte, difatti, il tribunale di sorveglianza di Torino aveva respinto il ricorso, presentato da un detenuto, avverso il provvedimento dell’Amministrazione penitenziaria che ne disponeva l’inserimento nelle sezioni ad Elevato indice di vigilanza, ritenendo che si trattasse dell’esercizio di un potere discrezionale dell’Amministrazione, nel quadro dell’organizzazione della vita all’interno dei penitenziari, ed in quanto tale sottratto al suo sindacato). 9 del carcere”. A riguardo, pertanto, da un lato, si riconoscono al detenuto una serie di diritti inviolabili; dall’altro, al riconoscimento della titolarità di tali diritti, si lega “il potere di farli valere innanzi ad un giudice, in un procedimento di natura giurisdizionale”. Sotto il primo profilo ed in linea con la costante giurisprudenza costituzionale, si ribadisce che la condizione di persona privata della libertà personale non può determinare “un generalizzato assoggettamento all’organizzazione penitenziaria”, in contrasto con l’ordinamento costituzionale, “che si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti”. I diritti inviolabili dell’uomo, difatti, non sono annullati dallo stato di detenzione. Condizione, questa, che “non comporta dunque una capitis deminutio di fronte alla discrezionalità dell’amministrazione”. Peraltro, sarebbe lo stesso articolo 27, comma III, Cost. che, nel sancire il divieto di trattamenti contrari al senso d’umanità, vieta “trattamenti penitenziari che comportino condizioni d’incompatibilità con il riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro libertà”. Ma, intanto il riconoscimento di un diritto si trasforma in un vantaggio per il detenuto, in quanto l’ordinamento giuridico appresti un sistema di tutela giurisdizionale per farlo valere. Da qui, la seconda questione affrontata dalla Corte costituzionale, secondo cui “l’assolutezza, l’inviolabilità e universalità della tutela giurisdizionale esclude infatti che possono esservi posizioni giuridiche di diritto sostanziale senza che vi sia una giurisdizione innanzi alla quale esse possono essere fatte valere”. Un diritto, quest’ultimo, sancito dagli articoli 24 e 113 Cost., che “non si lascia ridurre alla mera possibilità di proporre istanze o sollecitazioni, fosse anche ad autorità appartenenti all’ordine giudiziario, destinate ad una trattazione fuori delle garanzie procedurali minime costituzionalmente dovute, quali la possibilità del contraddittorio, la stabilità della decisione e l’impugnabilità con ricorso per cassazione”. In particolare, la Corte ritiene che, in materia di tutela dei diritti del detenuto, il procedimento per reclamo, regolato dall’art. 35 O.P., sia privo dei requisiti “minimi necessari perché lo si possa ritenere sufficiente a fornire un mezzo di tutela qualificabile come giurisdizionale”. Ne discende l’illegittimità costituzionale di tale norma e dell’art. 69 O.P., nella parte in cui non prevedono una tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti, lesi da atti illegittimi dell’Amministrazione penitenziaria. La sentenza, però, non compie il passo successivo e non indica né l’organo giurisdizionale che dovrebbe essere competente a conoscere dei diritti dei ristretti, né la procedura che andrebbe attività in questi casi (il rimettente chiedeva l’applicazione dell’art. 69, con riferimento all’art.14 ter). La presenza di una vasta gamma di procedure, idonee ad assicurare una tutela giurisdizionale (e, quindi, l’assenza di un rimedio generale), difatti, ha costretto la Corte a “dichiarare l’incostituzionalità dell’omissione e contestualmente a chiamare il legislatore all’esercizio della funzione 10 normativa che a esso compete”33. Nondimeno, con la sentenza n. 526 del 2000, la Corte costituzionale è tornata sull’argomento, ribadendo il principio enunciato nella sentenza del 1999 e precisando che “mentre spetta al legislatore effettuare le scelte necessarie per disciplinare la materia, spetta ai giudici, frattanto, individuare nell’ordinamento in vigore lo strumento per concretizzare il principio affermato”34. 3.3 I CONTRASTI NELLA GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITA’ La sentenza della Corte costituzionale n. 26 del 1999 avrebbe dovuto aprire la strada ad un nuovo sistema di tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti o degli internati, lesi da atti illegittimi dell’Amministrazione penitenziaria. Ma così non è stato, almeno nell’immediato. In un primo momento, difatti, la Corte di cassazione non ha riconosciuto, alla procedura regolata dall’art. 35 O.P., i caratteri propri del procedimento giurisdizionale e ha ritenuto inammissibili i ricorsi presentati avverso i relativi provvedimenti conclusivi. Si è sostenuto, difatti, che la decisione del magistrato di sorveglianza, “adottata al di fuori di ogni formalità processuale e di ogni contraddittorio, è priva di stabilità e di forza giuridica cogente” e, di conseguenza, “non è soggetta ad ulteriori reclami al tribunale di sorveglianza, né a ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., consentito solo contro i provvedimenti pronunciati da organi giurisdizionali”35. In un secondo momento, invece, è emerso un orientamento giurisprudenziale più rispettoso dei principi indicati dalla Corte costituzionale, secondo il quale non è più sostenibile la tesi della “appartenenza al settore amministrativo” dei reclami, proposti ai sensi dell’art. 35 O.P., contro i provvedimenti lesivi dei diritti dei detenuti. Di qui, la diversa impostazione secondo la quale, in tali casi, si è dinanzi ad un procedimento che presenta i caratteri propri della giurisdizione ed è quindi corretta la scelta del magistrato di sorveglianza di pronunciarsi “adottando, come di norma per i provvedimenti giurisdizionali, le forme del procedimento di sorveglianza” 36. 33 A seguito della sentenza della Corte costituzionale (n. 26 del 1999, cit.), è stato presentato il disegno di legge n. 4163 (mai approvato) che avrebbe dovuto sostituire il comma VI dell’art. 69 O.P. con il seguente: “Il magistrato di sorveglianza decide con ordinanza impugnabile soltanto per Cassazione, secondo la procedura di cui all’art. 14 ter, sui reclami dei detenuti e degli internati, concernenti atti dell’amministrazione lesivi dei loro diritti”. 34 Corte costituzionale, sentenza n. 526, 22 novembre 2000. Anche la dottrina riconduce la sentenza n. 26/99 al novero di quelle “additive di principio”, che hanno forza vincolante, obbligando “i giudici di sorveglianza ad individuare, in attesa dell’intervento del legislatore, la disciplina provvisoriamente applicabile, caso per caso, nell’ipotesi di reclamo ex art. 35” (Grevi, Giostra, Della Casa, op. cit., pag. 393). 35 Cassazione, sez. I, sentenza n. 1093, 16 febbraio 2000. 36 Cassazione., sez. I, sentenza n. 22573, 27 febbraio 2002: “In mancanza di forme procedurali speciali, relative alla materia dei reclami contro gli atti dell’Amministrazione lesivi dei diritti dei detenuti, l’attuazione della tutela giurisdizionale deve necessariamente realizzarsi attraverso l’ordinario modello procedimentale delineato dall’art. 678 c.p.p., che attraverso il rinvio all’art. 666, comma 6, dello stesso codice, rende ricorribili per cassazione le ordinanze emesse dalla magistratura di sorveglianza”. 11 Il contrasto sorto all’interno della prima sezione non poteva che essere risolto dalle Sezioni Unite della cassazione, chiamate a decidere sul rimedio giurisdizionale da utilizzare contro i provvedimenti illegittimi dell’Amministrazione penitenziaria, adottati in materia di colloqui visivi e di corrispondenza telefonica e, dunque, in un settore in cui entrano in gioco importanti diritti del detenuto e dell’internato. 3.4 LA SCELTA DELLA PROCEDURA GIURSIDZIONALE Con la sentenza n. 25079 del 200337, le Sezioni Unite hanno individuato “un sistema di tutela delle posizioni soggettive connesse alla predisposizione e alla attuazione del programma di trattamento nonché alle modalità della sua esecuzione”. In particolare, sarebbe l’art. 69, comma V, O.P. (che attribuisce al magistrato di sorveglianza il potere di impartire, nel corso del trattamento, disposizioni per eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati) a riconoscere una garanzia giurisdizionale alle posizioni giuridiche collegate al trattamento rieducativo. Secondo i giudici di legittimità, difatti, questa norma “resterebbe irrimediabilmente depotenziata ove non fosse attribuito all’interessato il potere di azionare la giurisdizione proprio al fine di denunciare la violazione delle posizioni soggettive ricollegabili alle concrete modalità attuative del trattamento da parte dell’amministrazione penitenziaria”. E, davanti al magistrato di sorveglianza (che ha, dunque, “una competenza esclusiva in materia”), devono trovare tutela giurisdizionale tutte le posizioni giuridiche soggettive, legate al trattamento e lese da un atto illegittimo. I giudici di legittimità, quindi, hanno individuato nel procedimento regolato dall’art. 14 ter O.P. il rimedio da utilizzare a tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi del detenuto. La scelta di tale procedura sarebbe giustificata dalla necessità di garantire al ricorrente uno strumento di tutela agile e veloce, a fronte della più lunga e complessa procedura del rito camerale ordinario. Difatti, gli articoli 14 ter, 71 e seguenti38O.P. prevedono: il termine di dieci giorni per proporre reclamo avverso il provvedimento dell’Amministrazione; il termine di cinque giorni per la comunicazione dell’avviso dell’udienza al difensore, al pubblico ministero39; la partecipazione all’udienza, non necessaria, del difensore e del P.M.; la facoltà per l’interessato e l’Amministrazione di 37 Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 25079, 26 febbraio – 10 giugno 2003. L’art. 236, comma II, norme att. c.p.p. ha abrogato le disposizioni contenute nel capo II bis del titolo II della legge 354 del 1975 (vale a dire, gli articoli dal 71 al 71 sexies O.P.) nelle materie di competenza del tribunale di sorveglianza. Ne discende che, tali norme sono ancora applicabili nei casi di cui all’art. 69, comma VI, O.P., in quanto: si tratta di materie attribuite alla competenza del magistrato di sorveglianza (e, dunque, al di fuori dell’ambito d’operatività dell’art. 236 norme att. c.p.p.) e non ricomprese tra quelle elencate nell’art. 678, comma I, c.p.p. (per le quali è imposto il ricorso al procedimento di cui all’art. 666 c.p.p.). Di diverso avviso è, invece, quella parte della dottrina secondo la quale l’art. 236 norme att. c.p.p. ha implicitamente abrogato gli articoli del capo II bis titolo II anche con riferimento a tutti i procedimenti di competenza del magistrato di sorveglianza. 39 L’avviso dell’udienza, invece, non va comunicato all’interessato (Cass., sez. I, n.1698, 20 marzo 1995; in senso contrario, per i provvedimenti che incidono sullo stato di libertà: Cass., sez. I, n. 1201, 19 febbraio 1997). 38 12 presentare memorie (senza diritto di partecipazione)40; la possibilità, per il pubblico ministero e l’interessato, di proporre ricorso per cassazione, entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento del giudice. Eppure, la conclusione cui è giunta la suprema corte non ha convinto parte della dottrina, secondo la quale “l’unica procedura esecutiva conforme ai precetti costituzionali è quella prevista dal codice di procedura penale e disciplinata dagli articoli 666 e 678”41. E, a tal proposito, qualche autore ritiene che, senza l’intervento del legislatore (che garantisca l’uniforme applicazione del diritto), i magistrati di sorveglianza potrebbero correttamente attivare la procedura ordinaria e non quella indicata dalle Sezioni Unite42. 3.5 LA TUTELA DEI DIRITTI: UNA QUESTIONE ANCORA APERTA Al di là della scelta della procedura più rispettosa dei principi costituzionali, deve rilevarsi che la sentenza delle Sezioni Unite risolve solo parzialmente il problema della tutela giurisdizionale dei diritti delle persone recluse. Infatti, legando tale tutela esclusivamente alle posizioni soggettive connesse alla predisposizione, all’attuazione e alle modalità d’esecuzione del programma di trattamento, si lasciano privi di protezione (se non ex art. 35 O.P.) quei diritti non connessi al trattamento e che, di frequente, sono lesi da atti illegittimi dell’Amministrazione penitenziaria. In conformità ai principi enunciati dalla Corte costituzionale, invece, si sarebbe dovuta affermare la regola secondo la quale: la tutela giurisdizionale può essere attivata in ogni momento, anche nell’ipotesi in cui l’atto illegittimo violi diritti o interessi dei ristretti, derivanti dal 40 In tema di garanzia del contraddittorio, non è mancato chi si è chiesto se, quando si affrontano questioni attinenti ai diritti soggettivi e agli interessi legittimi del detenuto, “ci si possa accontentare di un contraddittorio monco o debba esigersi la partecipazione del detenuto”. A tal proposito, si sono distinte due ipotesi. Quella in cui l’atto dell’Amministrazione penitenziaria “si limiti a toccare delle problematiche in diritto, senza riflessi in fatto”, rendendo superflua la presenza dell’interessato nel corso dell’udienza”. E quella in cui, invece, si debba discutere “su una questio facti, per cui diventa essenziale il contributo del detenuto nel corso dell’udienza” (C. Minnella, Le Sezioni Unite intervengono sulla caotica situazione in materia di tutela giurisdizionale dei diritti del detenuto, in Rassegna penitenziaria e criminologia, maggio-agosto 2004, n. 2, pag. 151). Ed analoga è stata la posizione di parte della giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. I, n. 1201, 26 marzo 1997), che riconosce il diritto dell’interessato a partecipare all’udienza, nell’ipotesi di reclamo (ai sensi dell’art. 14 ter O.P.) avverso un provvedimento dell’Amministrazione penitenziaria che incida sullo stato di libertà del detenuto (nel caso affrontato dalla Corte, si trattava di reclamo avverso il provvedimento che applicava la sanzione disciplinare dell’esclusione dall’attività in comune). 41 Alcuni autori, prendendo spunto dalla sentenza della Corte costituzionale n. 53 dell’8 – 18 febbraio 1993, sostengono l’illegittimità costituzionale del procedimento regolato dall’art. 14 ter O.P., affermandosi che “l’unica procedura esecutiva conforme ai precetti costituzionali è quella prevista dal codice di procedura penale e disciplinata dagli articoli 666 e 678. E’, pertanto, questa procedura che va applicata a tutte le materie esecutive che per il loro oggetto richiedono una tutela giurisdizionale: e quindi anche per la tutela dei diritti dei detenuti”. A tal fine, si ritiene che, a seguito dell’introduzione dell’art. 236 norme att. c.p.p., il rinvio al capo II bis del titolo II della legge sull’ordinamento penitenziario, contenuto nel comma IV dell’art. 14 ter O.P., deve intendersi come un richiamo non degli articoli 71 e seguenti O.P. (ormai abrogati), bensì degli articoli 666 e 678 c.p.p. (A. Pennisi, Diritti del detenuto e tutela giurisdizionale, cit., pag. 254). 42 F. Fiorentin, A. Marcheselli, Ordinamento Penitenziario, Milano 2005, pag. 42. 13 regime di sottoposizione a restrizione della libertà personale e non direttamente connessi alla predisposizione e all’attuazione del programma di trattamento. Inoltre, non è mancato chi ha sottolineato come anche il sistema di tutela individuato dai giudici di legittimità sia privo di effettività43. Non è stato, difatti, risolto il problema della natura dell’intervento del magistrato di sorveglianza. A riguardo sono prospettabili tre opzioni. Ove si riconosca la natura di giudizio di annullamento su atti amministrativi (in relazione ai tre vizi tipici), il magistrato potrebbe accertare “la legittimità del provvedimento della pubblica amministrazione e eventualmente annullarlo”, ma nessun intervento gli sarebbe concesso quando a ledere le posizioni soggettive dei detenuti fossero meri comportamenti o mere “situazioni materiali”44. Nel caso si propenda per la natura di giudizio d’accertamento e condanna, il magistrato potrebbe non solo annullare l’atto, ma anche “ordinarne la rimozione”, e la sua decisione “costituirebbe titolo esecutivo contro la P.A.” (a parte le difficoltà nell’individuazione dell’eventuale procedura d’ottemperanza da seguire, si sottolinea come tale possibilità sia scartata dalla giurisprudenza). Infine, se si ritiene che quello dinanzi al magistrato di sorveglianza sia un semplice giudizio di accertamento, la decisione che dichiara l’illegittimità dell’atto dell’Amministrazione “non avrebbe effetti diretti dal punto di vista esecutivo”. E’ evidente, dunque, che nonostante le sentenze costituzionali e l’autorevole pronuncia della Corte di cassazione, il sistema penitenziario è ancora carente di una procedura giurisdizionale che consenta al magistrato di sorveglianza di intervenire (in qualsiasi momento) a tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi dei detenuti e degli internati, dichiarando l’illegittimità di un atto o l’illiceità di un comportamento dell’Amministrazione penitenziaria e ordinando la rimozione degli effetti pregiudizievoli. 43 Alberto Marcheselli, La tutela dei diritti del detenuto alla ricerca dell’effettività, http://www.diritto.it/all.php?file=20931.pdf, novembre 2005. 44 “Nella ricostruzione della Corte, l’art. 35 viene ad assumere un valore residuale, ovvero continua ad operare nei confronti delle violazioni delle posizioni soggettive non prodotte da uno specifico atto amministrativo”, giungendosi “all’assurdo di avere diritti soggettivi meno tutelati di interessi legittimi” (Grevi, Giostra, Della Casa, op. cit., pag. 394). 14