David Bowie - The Rise And Fall Of Ziggy Stardust

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David Bowie - The Rise And Fall Of Ziggy Stardust
David Bowie - The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars
Mercoledì 11 Marzo 2009 08:13 - Ultimo aggiornamento Giovedì 04 Aprile 2013 13:23
Recensione di Carlo Bucciarelli (Miriam - Italia)
“Pushing thru the market square so many mothers sighing…” ed il mito ebbe così inizio. A
spintoni in mezzo al mercato, anticipando l’inattesa fine del mondo, con soli cinque anni rimasti
per piangere, con l’aria leggera e spaesata di chi nasce e già sa di doversene andare, eppure
forse inconsapevole di durare per sempre. Già il titolo “The Rise And Fall” coglie appieno il
senso della parabola, che contiene la fine già nell’inizio, eppure forse inconsapevole di durare
per sempre anch’essa, proprio come il mito di Ziggy Stardust. L’alieno caduto sulla terra che
sapeva suonare la chitarra era un pallido ragazzo con un solo occhio verde, già precoce talento
disperso negli spazi siderali con il suo Major Tom di “Space Oddity”, e con il best selling show di
“Life On Mars?”. Canzoni brillanti eppure articolate, come solo la prima metà degli anni ’70 era
in grado di sfornare, strutture non banali così lontane dalla modularità della musica pop, eppure
tanto facili da innamorarsene, proprio come Stairway to Heaven o The Carpet Crawlers ma
anche Yesterday o tante altre ancora prima di esse. Eppure un personaggio così totale non si
era mai visto prima: né Mick Jagger che pare lo invidiasse, né Peter Gabriel, né Bryan Ferry
riuscivano ad essere altrettanto credibili, al punto che egli stesso divenne il personaggio che
impersonava abbattendone il confine artistico fino a trasformarlo in una splendida metafora,
l’eterno sogno dell’alieno androgino caduto sulla terra portando con sè il dono verticale e
provocatorio della bellezza transgenica e della più radicale e sorprendente e volgare al tempo
stesso eleganza. Ascoltate mille volte eppure non paragonabili alle pietre miliari del passato,
ma pervase da una soprendente leggerezza che rasenta la superficialità del rock disimpegnato,
ma quante cose tutte insieme nel breve disco dell’uomo proveniente dello spazio e chiuso nella
cabina del telefono in una strada alla periferia di Londra. La citata apertura di “Five Years” è già
al cuore del disco, senza compromessi, con un fade-in di batteria, le pennate di chitarra
acustica ed il basso fino a riempire l’affresco di un mondo sottosopra, in cui capita di vedere un
poliziotto che bacia i piedi di un prete, e te dentro una gelateria a bere milk-shake lunghi e
gelati, salutando e apparendo così bello, senza sapere che saresti finito in questa canzone. Il
gesto estetico nell’attimo stesso della fine riassume in pieno la parabola di Ziggy Stardust. La
sequenza inziale di “Soul Love” sembra replicarne la struttura, mantenendo un ritmo sincopato
ed introducendo il piacevole overdrive della chitarra di Mick Ronson, leggermente risonante,
eccitante come e più di un assolo di Jimmy Page. “Moonage Daydream” vede finalmente
l’alieno sotto lo spotlight di un palco grande come un piccolo club di periferia, “fissami con il tuo
sguardo elettrico, punta il tuo raggio alla mia testa… impazzirai sognando l’era lunare ad occhi
aperti”. C’è un piccolo club di periferia nella nostra immaginazione, e ognuno ha il suo club e il
suo palco polveroso, sapendo bene che non vi sarebbe teatro o stadio al mondo altrettanto
inebriante e scenografico: e c’è una chitarra che riesce a trascinarci nel vortice di emozioni
dell’”era lunare” praticamente con un assolo di una sola nota, protesa e poi rilasciata e poi
protesa di nuovo ancora più forte fino al ritorno alla fondamentale, liberatorio come l’atterraggio
dopo un volo a testa in giù, nel luogo più siderale ed elettrico della mente. Mai un capolavoro
della musica rock era iniziato in modo tanto sbarazzino e disimpegnato, al punto che le prime
pennate di “Starman” ci ricordano di non essere di fronte ad una chicca per intenditori, ma ad
un best-seller pronto per l’era della televisione e della pubblicità, come già era accaduto per
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David Bowie - The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars
Mercoledì 11 Marzo 2009 08:13 - Ultimo aggiornamento Giovedì 04 Aprile 2013 13:23
“Changes”. Non ci libereremo mai della paura di essere stati truffati o di essere stati presi per la
gola con la storia dell’alieno e dell’astronauta disperso per sempre, incapaci di distinguere l’ego
malizioso e ambiguo dal significato stesso di una melodia o di un testo leggero e vagamente
simbolico; eppure in questi brani c’è l’embrione di tutta la new-wave, del brit-rock e di tanti
hanno creduto di stupire definendosi introspettivi ma terribilmente innamorati di se stessi. I
solchi (perché di solchi e di un 33 giri si parla), continuano a girare e la puntina a gracchiare,
quando le note di piano ci riportano trafelati dentro un club - lo stesso club di sempre - per il
brano in assoluto più bello e meno riconosciuto della discografia di Bowie, dal titolo “Lady
Stardust”. La creatura sul palco, la grazia animale ed il makeup sul suo viso, che canta canzoni
scure e sciagurate. Era “Awful Nice”, orribilmente bella, e le sue canzoni andarono avanti per
tutta la notte, al punto che sorrisi tristemente per un amore al quale non avrei potuto obbedire.
C’è in questo brano una grazia estetica e trascendente, nelle note di pianoforte e
nell’arrangiamento cadenzato della ritmica, da trascinare l’ascoltatore in una tana di velluto,
conturbante e maliziosa, volgare e altera, di difficilissima comprensione ma irresistibilmente
attraente. Chi era Lady Stardust? Chi se non il nostro ego di cui innamorarsi e deludersi ad ogni
nota di pianoforte: un brano bellissimo che svela l’essenza stessa del glam senza scadere nei
luoghi comuni più abusati e nei non necessari riferimenti ad una sessualità libera e promiscua.
Da qui in avanti, un susseguirsi impetuoso di hits, dalla title-track a “Suffragette City” fino a
“Rock And Roll Suicide”, ma il più è stato detto: le hit ci diranno chi è Bowie-Stardust,
consegandolo agli archivi prima che egli decida di farsi da parte per sempre, lasciando il posto
ad una nuova creatura dal nome Alladin Sane. A me piace immaginarlo sempre sul palco
polveroso, con il suo occhio elettrico ed il raggio puntato alla testa, e l’ombra dell’alieno Ziggy al
suo fianco, un’eredità senza pari per l’estetica e l’immaginazione e per tutta la musica
contemporanea.
2/2