S.E Card. Giacomo Biffi Conversione e rinnovamento
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S.E Card. Giacomo Biffi Conversione e rinnovamento
Card. Giacomo Biffi Conversione e rinnovamento Meditazione in occasione del GIUBILEO DEI MINISTRI ISTITUITI Bologna, 27 febbraio 2000 Il Signore è instancabile, non si scoraggia mai per quanto noi possiamo essere un po’ riottosi di fronte alle sue iniziative di salvezza. E con questo Giubileo ci prova un’altra volta! Ci prova un’altra volta a cambiarci, a cambiarci di dentro, ad adeguarci meglio al suo Regno, quel Regno che non è solo annuncio, speranza ma è anche una realtà già in atto, una realtà imminente, una realtà che ci riguarda da vicino. Poco o tanto, noi lo deludiamo sempre ma per fortuna Lui non si stanca, non desiste dall’incalzarci, dal sospingerci sulla sua strada, che è la strada giusta. Ed adesso con questo Giubileo ci prova un’altra volta: questo mi pare il senso più semplice, più essenziale dell’Anno Santo che stiamo vivendo. Ed io credo che non è il caso che noi andiamo a scoraggiarci per i nostri insuccessi passati, insuccessi di conversione perché se Lui continua a crederci, ad aspettare fiducioso che ci mettiamo finalmente a fare sul serio e a vivere non solo a parole secondo la novità del Vangelo ed allora possiamo anche noi augurarci giustamente e sperare che questa sia davvero la volta buona. La conversione Convertitevi, allora! "Convertitevi perché il Regno dei cieli è vicino" (Mt 4,17). Questa è la prima parola dell’annuncio evangelico che noi raccogliamo dalle labbra di Gesù, quella da cui tutto prende inizio; è quella che poi resta come tema proposto continuamente; alla fine della sua missione terrena Gesù non si dimenticherà di indicare tra i compiti permanenti del ministero apostolico quanto la predicazione del suo nome, della conversione e del perdono dei peccati a tutte le genti. Il giorno di Pentecoste dal discorso appassionato di Pietro gli ascoltatori a Gerusalemme, ci dicono gli Atti, “si sentirono trafiggere il cuore e dissero: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”. E Pietro disse: “Pentitevi…” (At 2, 37-38). Convertitevi! Ecco di qui ha preso inizio tutta l’avventura ecclesiale e tutto questo vale ancora per noi. Anche noi dobbiamo sentirci trafiggere il cuore e anche noi dobbiamo chiederci che cosa dobbiamo fare. E la risposta è sempre la stessa: pentiamoci, convertiamoci, rinnoviamoci. Nella vita cristiana se non si comincia di qui non si comincia affatto. Senza questa autocontestazione di partenza ogni atteggiamento religioso sarebbe senza fondamento e a tutti riuscirebbe ingannevole. E badate che non è solo un atteggiamento iniziale; il pentimento deve accompagnare tutto il nostro pellegrinaggio terreno dal battesimo fino all’ingresso nella vita eterna. La conversione è una dimensione essenziale e inalienabile dell’esistenza redenta. Allora noi cerchiamo prima di tutto di capire che cosa è questa conversione alla luce della Parola di Dio e poi cerchiamo di fare delle considerazioni che attualizzino un po’ questo tema nella concretezza della nostra vita. Qual è il significato di queste parole che ritornano così spesso? La conversione, il pentimento, il pentirsi: le due parole greche metanoia (µετανοια) e metanoein (µετανοειν) (il greco è la lingua in cui il messaggio di Cristo è arrivato fino a noi). Vediamo che c’è prima di tutto un elemento positivo: la metanoia, la conversione, è un convertirsi a Dio, è un ritorno esistenziale a Lui; quindi il pentimento è sempre un movimento che include una meta in alto, una meta trascendente, non si riduce mai ad un dibattito dell’uomo con sé stesso, non è circoscritto nell’ambito della coscienza soggettiva, non è un puro rammarico per il proprio decadimento spirituale; tutte cose che ci stanno benissimo ma non sono il centro. Non è unicamente il disagio, la pena di essere venuti meno alla propria dignità; esso significa prima di tutto istituire una relazione nuova con un altro, un altro che è il Dio vivo e vero. Anzi è proprio questo Altro il protagonista in questa vicenda, è proprio questo Altro ad avviare nell’uomo il procedimento interiore della conversione. “Fammi ritornare ed io ritornerò perché tu sei Signore mio Dio” (Ger 31,18), questa è la preghiera di Geremia. D’altra parte è anche vero che questa personale decisione della creatura consente poi la ripresa e costituisce l’inizio di una condizione di amicizia con il Creatore perciò nel profeta Zaccaria il Signore può dire: “Convertitevi voi a me ed io mi convertirò a voi” (Zac 1,3) e tutte e due le cose hanno una loro verità. Come si vede la sostanza della conversione sta nell’aderire con tutte le forze e con tutto l’essere al Dio di Israele, a quel Dio di Israele che, come amava dire S. Paolo, per noi è il Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Paolo lo ripete continuamente però anche S. Pietro usa questa espressione: il Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Dobbiamo dunque appoggiarci soltanto su di Lui senza far conto di nessuno dei vari idoli e delle varie alleanze. Però, ed è ovvio, nella metanoia c’è anche un aspetto negativo, immancabile, necessario: è l’abbandono di tutto ciò che è sbagliato, l’abbandono di ogni viltà: la purificazione dello spirito da ciò che è incompatibile con l’amicizia divina. Questo aspetto negativo nei profeti più antichi è più che altro implicito, supposto; è invece messo in risalto da Geremia e da Ezechiele. Pentirsi vuol dire lasciare la propria via malvagia, come usa dire il profeta Geremia. E c’è perfino, per così dire, un contraccolpo grammaticale in questa evoluzione, in questo successivo arricchimento: il verbo cambia il suo complemento abituale; accanto al primitivo convertirsi "a" che è dei profeti più antichi compare il convertirsi "da" tanto che in Ezechiele quest’ultima è l’unica costruzione usata. Tanto che mi si lasci dire la dimensione negativa è la più vistosa, quella che è più agevolmente percepibile, sicché finisce col diventare prevalente nella considerazione comune del pentimento. Quando noi diciamo la conversione soprattutto pensiamo al convertirsi "da", però oggettivamente è quella positiva, il ritorno a Dio che rimane la prima e fondamentale. E tra l’altro è anche quella che spiega meglio e chiarisce l’esigenza di una conversione permanente dal momento che a Dio, a Colui che è santo, non ci si avvicina mai abbastanza; finché si è pellegrini sulla terra non ci si conforma mai a Lui in modo esauriente e definitivo. Ecco questo così ridotto molto all’essenziale è un po’ il senso di questo termine “metanoia” che noi ritroviamo nella Parola di Dio. Motivazione trascendente della conversione Ma su questo cominciamo a fare qualche riflessione e la prima molto semplice è questa: è facile o difficile convertirsi? Io credo che si possa dire che sia umanamente impossibile, perché si tratta non solo di riconoscere gli errori del proprio comportamento esteriore, ma anche e soprattutto di confessare che ci sia qualcosa di condannabile entro la propria realtà più intima e più segreta. Distaccarsi da qualche aspetto del comportamento esteriore talvolta si può ottenere; qualcuno che dica “ho sbagliato” c’è; mica tanti però e soprattutto in cose secondarie. Ma la sostanza è una specie di automutilazione dello spirito, cui lo spirito difficilmente si rassegna. Anche perché, vedete, le azioni che noi abbiamo compiuto non sono qualcosa che restano estrinseche a noi; noi siamo, per così dire, al tempo stesso i padri e i figli delle nostre azioni; siamo i padri delle nostre azioni, perché le nostre azioni sono derivate da noi, ma ne siamo anche i figli, perché per molti aspetti noi siamo derivati da loro nel senso che la nostra realtà attuale è sotto qualche profilo la somma delle nostre proiezioni anteriori, delle nostre operazioni pregresse. C’è dunque tra noi e ciò che abbiamo compiuto una connessione complicata ed inesplicabile. I nostri atti sono parte di noi e noi, per così dire, nella nostra carne, nel nostro sangue portiamo tutti i nostri comportamenti passati, perciò è così difficile dichiarare anche solo a noi stessi, direi, la malizia intrinseca e condannabile. Oppure può anche capitare all’uomo che, dovendo per forza ammettere la propria indegnità morale davanti a ciò che ha fatto, arrivi alla disperazione, alla pura ed infeconda disperazione, che non ha niente a che vedere con il pentimento. Qual è la differenza tra questo atteggiamento amaro di disperazione e la conversione? La differenza della metanoia evangelica dal semplice e sterile sfiduciato avvilimento umano è dato proprio dalla diversa motivazione che Gesù assegna alla nostra necessità di trasformarci. Gesù non ci dice “Convertitevi perché siete dei miserabili”, cosa indubbiamente vera ma che è insufficiente a condurci a un ravvedimento davvero salvifico. Gesù ci dice “Convertitevi perché il Regno dei cieli è vicino”, cioè l’energia rinnovatrice scaturisce dalla certezza che esiste questo Regno di Dio e dalla consapevolezza della sua imminenza. Quindi dall’avvenire, dal re che viene si desume la forza di mettere in discussione il proprio passato. 2 La speranza di ciò che sarà ci mette in grado di rompere con ciò che è stato. La speranza di ciò che sarà, naturalmente non perché lo costruiamo noi ma perché è il Signore che ce lo regala, ci mette in grado di rompere invece con ciò che è stato ed è stato a causa delle nostre decisioni. In questo modo il passato, quale che sia, non arriva mai a deprimerci e ad avvilirci irrecuperabilmente. E il presente, anche se meno felice, si rasserena, si apre alla gioia. Il passato non arriva mai a deprimerci, questa è una delle cose più belle del cristianesimo; qualunque cosa si sia fatta si può sempre cominciare da capo; non c’è mai un momento che uno può dire “qui, adesso io sono finito, sono irrecuperabile”; questo non si può mai dire, questo sarebbe l’unico vero atto contro la proposta di conversione che ci viene dal Signore. Quindi la spinta a trasformarci non nasce, per così dire, dal basso; nasce dall’alto. La percezione di una realtà trascendente e il regno, una realtà a cui noi siamo chiamati a partecipare, questo è il punto, ci svela sì la nostra miseria, la nostra lontananza, ci mette salutarmente in crisi, ma ci spinge anche ad una specie di transnaturazione che in sostanza è un desiderio, un tentativo, una decisione di assimilarci a ciò che sta sopra di noi. Come si vede, allora quello che impossibile all’uomo diventa possibile a Dio, perché è proprio dal Regno che ci viene questo impeto a cambiarci: il pentimento trova la sua origine nella vicinanza del Regno, nell’efficacia sorprendente della misericordia del Padre, il quale ricomincia sempre daccapo con noi, che vuol dire ricomincia sempre a creare; il Padre è sempre Creatore, è sempre all’alba della sua giornata di lavoro. Guarda che il Signore ha detto con chiarezza davanti agli scribi e ai farisei: “il Padre mio lavora sempre e anch’io lavoro” (Gv 5,17); allora si capisce come la metanoia sia anche una novità, una nuova creazione. Chi veramente si pente emerge dalla vicenda angosciosa della propria autocontestazione ed emerge come un essere nuovo. Questo è paragonabile a ciò che avviene in ogni nascita: è un travaglio, ma è un travaglio che alla fine va a dimenticarsi in un mare di gioia, per l’evento che anche Gesù conosceva. La donna che sta per avere un bambino è nel travaglio, soffre, ma poi quando il bambino è nato si dimentica il dolore per la gioia: è nato qualcosa di nuovo. Difficoltà culturali e psicologiche Qui però mette conto di osservare che la cultura in cui noi siamo immersi indubbiamente non favorisce l’insorgere in noi di un autentico pentimento. E non già perché, come si è soliti dire, oggi non c’è più il senso del peccato, che è una frase che può sì anche avere una sua verità però, secondo me, è più sbagliata che giusta. Secondo me non è mica vero che non ci sia più il senso del peccato; non abbiamo mai assistito al così tanto moltiplicarsi delle accuse, delle denunce, delle indignazioni per le prevaricazioni, per le disonestà che si arrivano a scoprire; sul giornale, di solito qui denunciano tutti, tutti accusano tutti. Non c’è mai stata la ricerca delle responsabilità storiche dei personaggi delle istituzioni come in questo tempo. Beh, tutto questo cosa ci dice? Ci dice che oggi i l senso del peccato è acutissimo, ma è il senso del peccato altrui, non del nostro, che è un’attenzione che può anche essere legittima, ma che per la nostra conversione e i l rinnovamento personale non serve a niente. Il "mea culpa" sì, si può anche fare sulla pancia del vicino, ma non serve alla nostra conversione, non è un atto previsto dalla liturgia. Badate, anche pregare in genere per i peccatori. Noi supplichiamo per i peccatori, o addirittura chiediamo scusa per quello che loro hanno fatto, magari in altri tempi. Questa è un’operazione che può anche essere lodevole, ma c’è sempre un rischio: il rischio di contrapporci, di estraniarci psicologicamente dalla categoria di chi ha sbagliato, nella quale abbiamo, invece, il dovere di annoverarci. Domandare perdono per gli altri psicologicamente significa mettersi nell’atteggiamento di chi non ha sbagliato, e questo non serve alla conversione. È bene diffidare di questi atteggiamenti troppo virtuosi, perché sono innumerevoli, noi lo sappiamo, le astuzie dell’uomo vecchio per sottrarsi al fastidio del pentimento. Noi siamo bravissimi a rammaricarci sinceramente delle colpe e degli errori degli altri e a dare sempre un’interpretazione tutto sommato benevola di quello che abbiamo fatto noi, anche delle azioni sbagliate. Quando si tratta delle azioni nostre questo uomo vecchio di cui parlavo prima è astutissimo, è bravissimo a trovare i travestimenti più opportuni. Quindi se ci accorgiamo di essere stati intransigenti con i nostri fratelli fino ad essere impietosi, beh, è facile che dica: “perché in fondo sono stato coerente, 3 sono stato fedele ai miei ideali”. E viceversa, se invece scopriamo di aver ceduto, di essere arrivati al compromesso, dico: “beh, in fondo è spirito di comprensione, dialogo”. Alla fine finiamo sempre per prendere le cose dal lato migliore quando si tratta di noi. La pigrizia è presentata spesso, come la salvaguardia della prudenza, della discrezione, del non esagerare. E viceversa l’attivismo incontrollato, la fuga dalla preghiera, dalla contemplazione beh, può essere giustificato con lo zelo, con l’amore operoso per i fratelli e così via. Tutto pur di evadere dal dovere, che è un po’ un tormento, di metterci da noi stessi in discussione, di mettere in discussione noi e non gli altri, di ribaltare i nostri interessi istintivi, di riordinare le nostre abitudini sviate. È un’impresa faticosa! Chi pensa sinceramente ai casi suoi con l’intento di adeguarsi effettivamente ai voleri divini compie una fatica non da poco. La conversione, quando è reale, include, come dire, un indolenzimento dell’anima, che comporta anche una ricerca di silenzio, di solitudine, di implorazione di pace. Di solito si perde anche la voglia di occuparsi degli altri, di insegnare, di contestare le loro opinioni, di giudicare la loro condotta. È cosa che costa molto. Il pentimento quando è vero costa molto, perché vale molto al cospetto di Dio. Sul piano pratico può essere utile mettere in onore, senza ritenerlo esagerato, astratto, l’antico detto della “Imitazione di Cristo” - è un libro che una volta ci citavano continuamente, adesso sembra un po’ in eclissi nella coscienza cristiana - che dice: “Omnes fragiles sumus sed tu neminem fragiliorem te ipso tenebis” “siamo tutti fragili ma tu cercherai di considerare nessuno più fragile di te” (I,2). Questo dal punto di vista pratico, credo che sia molto efficace. E a questo proposito c’è una pagina straordinaria di S. Ambrogio – voi credevate che non citassi S. Ambrogio – è una pagina tutto sommato poco nota - come la pagina immediatamente precedente del “De poenitentia”, però anche questa è molto simile – dove il vescovo di Milano commenta, applicandola a se stesso, la parola che nel libro della Genesi uno dei 12 figli di Giacobbe, Giuda, riferisce a Tamar, che era la sua nuora rimasta vedova, una nuora molto intraprendente e spregiudicata nell’ottenere ciò che secondo lei era dovuto. Forse avete in mente questo episodio se no andate a leggerlo, è nel capitolo 38 della Genesi: Tamar si finge prostituta, è un episodio molto interessante! Beh, a un certo punto finisce questo episodio e Giuda dice, mentre stava per condannare la nuora :“Tamar è più giusta di me”. È interessante vedere l’applicazione che fa S. Ambrogio di questa frase. Dice: “Ogni volta che si tratta del peccato di uno che è caduto concedimi, Signore, di provarne compassione e di non rimbrottarlo altezzosamente, ma di gemere e piangere così che, mentre piango su un altro, io pianga su me stesso dicendo: “Tamar è più giusta di me”. Può darsi che sia caduta una giovanetta ingannata e travolta dalle occasioni, che sono incitamento ai peccati. Pecchiamo noi vecchi; la legge di questa nostra carne si ribella in noi alla legge del nostro animo e ci trascina prigionieri verso il peccato, così che facciamo ciò che non vorremmo. Quella giovinetta ha una scusa nella sua età, io non ne ho nessuna: essa infatti deve imparare io devo insegnare, dunque: “Tamar è più giusta di me”. Se biasimiamo l’avarizia di qualcuno cerchiamo di ricordarci se noi stessi non ci comportiamo mai con avarizia; e se ci siamo comportati così, diciamo ciascuno per conto nostro: “Tamar è più giusta di me”. Se ci siamo adirati gravemente contro qualcuno – un laico ha una responsabilità minore di un vescovo per aver fatto qualcosa in preda all’ira - però qualche volta devo arrabbiarmi anch’io – allora riflettiamo e diciamo: costui che è rimproverato da me per la sua ira, è più giusto di me; non arrossiamo di dover dire la nostra colpa più grave di quella di colui che riteniamo di dover rimproverare, dal momento che così disse Giuda che rimproverava Tamar e, ricordandosi della propria colpa, esclamò: “Tamar è più giusta di me.” (II, 73-77). Dove si vede anche la sua abilità di poeta: attraverso questo ritornello, infatti, questo concetto si conficca in noi, e forse sarà l’unica cosa che ricorderete di tutta questa riflessione: “Tamar è più giusta di me”. Il Rinnovatore si è fatto "prossimo" Bene, fino adesso noi abbiamo fatto delle considerazioni prevalentemente psicologiche, morali, ma arrivati un po’ al vertice del discorso è giusto che abbiamo un po’ a porre in rilievo il fondamento teologico della conversione e del rinnovamento. Una confessione di miseria che diventa premessa di un’esistenza diversa e più alta, un rammarico pungente che però sfoci nella gioia è 4 possibile solo laddove l’uomo non resti chiuso in se stesso, prigioniero della sua finitezza e della sua labilità, ma, al contrario sia, proprio sul piano oggettivo, sul piano dell’essere, in una comunione talmente aurorale con un principio oggettivo di redenzione, c o n una realtà così intrinsecamente nuova da avere l’inesauribile capacità di rinnovare; è ciò che viene chiamato il "Regno" nella parola di Gesù Cristo. Perciò fuori del cristianesimo, fuori della prospettiva del Regno, il pentimento, nel senso vero del termine, è praticamente inesistente, perché manca il Regno, manca il principio di rinnovamento. Ci può essere il cruccio, la depressione, la vergogna per le bassezze di cui ci si accorge; ci possono essere dei carichi frequenti di indignazione per le trasgressioni altrui, ma sono un’altra cosa, non sono il pentimento. Gesù dice: “Convertitevi perché il Regno dei cieli è vicino” (Mt 4,17). E che cosa è in sostanza questo Regno che si è accostato così tanto alla nostra miseria, alla nostra povertà al punto da poterci intimamente cambiare, trasfigurare. Nella sua verità più stretta ed esauriente il Regno è lo stesso Figlio di Dio fatto uomo, crocifisso per noi e risorto. Il Regno e Cristo si identificano; è questa l’identificazione di cui si può cogliere traccia anche nella coscienza della comunità cristiana primitiva. Ci sono dei detti del Signore, dei λογια, che esistono contemporaneamente nell’uno e nell’altro Vangelo, mentre noi troviamo che in un Vangelo il sostantivo è “Regno” e nell’altro è “Figlio dell’uomo”; il che vuol dire che non lo distinguevano, capivano che erano la stessa cosa. L’uno per esempio dice: “a causa del Regno di Dio” in una frase che in Matteo è “a causa del mio nome”. Quando Gesù entra in Gerusalemme le acclamazioni della folla nella redazione di Marco dicono: “benedetto il regno che viene” ( Mc 11,10), negli altri due dicono: “benedetto Colui che viene” (Mt 21,9; Lc 19,38). Allora questo è, abbiamo capito, il principio: colui è che si è fatto vicino è Cristo. Ed allora ancora una volta ricorriamo a S. Ambrogio in un testo che stavolta è molto famoso, “De virginitate”: “In Cristo abbiamo tutto; ogni anima gli si avvicini, sia malata per i peccati del corpo come inchiodata nei desideri mondani sia invece ancora imperfetta ma sulla strada della perfezione, ogni cosa è in potere del Signore e Cristo è tutto per noi. Se vuoi curare una ferita, Egli è medico; se sei riarso da febbre, è fontana; se sei oppresso dall’iniquità, è giustizia; se hai bisogno di aiuto, è forza; se temi la morte, è vita; se desideri il cielo, è via; se fuggi le tenebre, è luce; se cerchi cibo, è alimento” (cap. XVI, n. 99). E in virtù della croce, dell’umiliazione del Figlio di Dio, l’uomo arriva anche a superare e a trascendere ciò che nella sua condotta naturalmente sarebbe solo motivo di ignominia, di avvilimento, tramutandolo, invece, in premessa di esaltazioni. Questo è un passo del commento al Salmo 118 – “Nel tuo obbrobrio, Signore, sta la salvezza di tutti; per il tuo obbrobrio non abbiamo più motivo di vergognarci noi che ci vergognavamo, né di essere confusi noi che eravamo confusi. È Lui che si è fatto vicino, è Lui che è diventato prossimo”(In Ps 118,V,42). E qui c’è una considerazione abbastanza curiosa di S. Ambrogio; cioè il problema è quello di vedere se bisogna amare prima Dio e poi il prossimo o prima il prossimo e poi Dio; bisogna amare Gesù più del prossimo o il prossimo più di Gesù? Da che parte si comincia, insomma? S. Ambrogio dice che questo è un falso problema, perché il più prossimo - è una sgrammaticatura che lui si permette – è proprio Gesù; è il prossimo di tutti, Lui che a tutti ha elargito misericordia. Perciò il concetto di amare il prossimo, che è un segno tipico della conversione, quello della vittoria sull’egoismo, si riferisce primariamente a Lui. “Siccome nessuno è maggiormente prossimo di Colui che guarì le nostre ferite, amiamolo sì come Signore, ma amiamolo anche come prossimo, niente infatti è tanto prossimo quanto il Capo alle membra” (Esposizione del Vangelo secondo Luca VII,84). Dunque “Convertitevi perché il Regno dei cieli è vicino”, ma non è soltanto Gesù di Nazaret, unigenito del Padre e anche unigenito di Maria a essere il Regno di Dio che si è fatto vicino; è anche il Cristo totale, il “Christus totus”, cioè la Chiesa. Il Concilio Vaticano II dice mirabilmente “Ecclesia, seu regnum Christi iam praesens in mysterio” (LG 3), la Chiesa ovvero il Regno di Dio già presente mistericamente. “Convertitevi perché il Regno dei cieli è vicino” dunque vuol dire anche questo. Intanto ci è dato di risollevarci dopo ogni caduta ed anzi di rinnovarci di giorno in giorno in quanto possiamo contare sul nostro collegamento con la nazione santa che è, per così dire, il “sacramento della prossimità del Regno”. Allora si capisce che la nostra 5 purificazione permanente, la nostra santificazione, sono in noi il riverbero della santità indefettibile della Sposa di Cristo; e dunque noi a giusto titolo la riconosciamo madre nostra dal momento che quotidianamente ci genera a vita nuova. E proprio la certezza della santità della madre è per noi figli peccatori la ragione di ogni speranza. Nella storia delle professioni di fede, dei simboli apostolici e anche dei simboli ecclesiali, c’è un fenomeno che, secondo me, non è ancora stato rilevato in modo sufficiente. La Chiesa compare sempre nei simboli apostolici con diverse qualifiche; quella più completa è quella del niceno-costantinopolitano, il simbolo della Messa, dove noi abbiamo quattro qualifiche: una, santa, cattolica e apostolica. Ma è molto interessante vedere tutti i simboli più antichi, nella recensione occidentale e nella recensione orientale, che hanno qualifiche diverse; chi ne ha una, chi ne ha due, chi ne ha tre; l’unica che non manca mai, che compare subito e non ha mai eclissi, è la qualifica di “santa”: la Chiesa è santa; questo vuol dire che la comunità cristiana antica sapeva che questa era la cosa più importante da sapere della Chiesa. “Non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa”, questa preghiera che il sacerdote dice nell’imminenza della comunione deve essere la nostra implorazione abituale, questo deve essere lo stato d’animo con cui intendere correttamente la nostra conversione. Ogni volta, ad ascoltare alcune elucubrazioni sulla Chiesa, verrebbe di pensare che la preghiera che dicono sia “non guardare ai peccati della tua Chiesa, ma guarda alla nostra fede”. Guardate che non è così che la Chiesa, la liturgia ci insegna a pregare! Se la Chiesa è peccatrice noi siamo rovinati, perché se è peccatrice anche lei non abbiamo il principio di rinnovamento, cioè non abbiamo più il Regno di Dio che si è fatto prossimo e che ci dà la spinta a convertirci. Allora ancora una volta viene a proposito l’insegnamento di S. Ambrogio (è l’ultima!): “Se disperi di ottenere il perdono per dei peccati gravi – dice – serviti della Chiesa affinché essa preghi per te; guardando a lei il Signore accorda quel perdono che a te potrebbe rifiutare. (cfr. Commento al Salmo 36) Sia lei a piangere per te, sia lei a versare lacrime sui tuoi peccati.”. Conclusione: la “Preghiera del ritardatario” Bene, io ho cominciato dicendo che questo è un tentativo che il Signore fa ancora per cambiarci, per convertirci in questo Giubileo; e ciascuno di noi, specialmente quelli che come me sono giovani da tanto tempo, cominciano un po’ a preoccuparsi: qui gli anni continuano a passare e la nostra conversione radicale non arriva mai! Quasi si entra nella vecchiaia e badate che è illuminante ciò che diceva Trotzkij della vecchiaia: niente arriva più inaspettato della vecchiaia! Ma è verissimo. Io sono stato sempre troppo giovane per far tutto: quando ero in seminario ero troppo giovane per essere ordinato prete; poi mi hanno mandato ad insegnare Teologia alla Facoltà Teologica, ma ero troppo giovane per un incarico come quello; poi sono andato a fare il parroco in una grossa parrocchia, ma ero troppo giovane … poi sono diventato vescovo, ma ero troppo giovane…Insomma sono sempre stato troppo giovane e adesso sono vecchio! Ma allora dov’è il centro della vita? Niente viene più inaspettato della vecchiaia! È con grande piacere che cito Trotzkij per dimostrarvi che S. Ambrogio non è l’unico santo Padre che cito! Allora quando si entra nella vecchiaia si è tentati di temere che il Signore potrebbe anche stancarsi dei nostri indugi, ma non bisogna perdere mai la fiducia nella sua paziente misericordia. Casomai, se ci punge il pensiero dei nostri ritardi, può essere utile allora ricorrere alla “Preghiera del ritardatario”, che io vi suggerisco come conclusione di questa meditazione. È un testo abbastanza insolito che la Liturgia Ambrosiana propone nella Settimana Santa; un testo curioso perché arditamente ci si mette nei panni della vergine stolta. Il testo dice così: Non chiudere la tua porta anche se ho fatto tardi. Non chiudere la tua porta, sono venuto a bussare. A chi ti cerca nel pianto, apri, Signore. Accoglimi al tuo convito, donami il pane del Regno. 6 Testo trascritto dalla registrazione, non rivisto dall'Autore 7