cioccolato amaro

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cioccolato amaro
LIBRO
IN ASSAGGIO
CIOCCOLATO
AMARO
DI LESLEY LOKKO
Cioccolato amaro
DI LESLEY LOKKO
IN RICORDO DI MIA MADRE
Prologo
Chicago, Stati Uniti, 1999
«Sicura che non vuoi che ti accompagni?» le chiese guardandole con
attenzione il viso.
Lei scosse la testa. «No, preferisco essere da sola.»
«Andrà tutto bene» la rassicurò attirandola a sé. «Saprai che cosa fare non
appena lo vedrai.»
Lei si rifugiò nel rassicurante calore del suo abbraccio. Per un istante, non
riuscì a parlare. Di lì a un’ora, tredici anni di domande avrebbero trovato una
risposta. Abbassò lo sguardo sulle sue mani e cominciò a far girare attorno al
dito la sottile vera d’oro. «E se... non volesse parlarmi?» chiese dopo un
momento di incertezza.
«Ti parlerà. Fidati di me.»
Lei inspirò profondamente, per farsi forza. «È meglio che vada» disse,
cominciando a liberarsi dal suo abbraccio. «Ti chiamo più tardi. Quando...
quando...»
«Chiamami quando te la senti» concluse lui chinando il capo. Il bacio fu
appassionato, quasi doloroso. «Andrà tutto bene» ripeté deciso. «Vedrai.»
Lei annuì e si diresse verso la porta. Lui la stava osservando, lo stesso
sguardo calmo, attento, che aveva sempre avuto, fin dall’inizio. Gli rivolse un
sorriso rapido e uscì.
Fuori faceva freddo. Era novembre e i venti gelidi del Nord spazzavano il
lago. Lei strinse la cintura del cappotto e tirò su il bavero, infilandoci dentro i
capelli folti. Camminò lungo Willow Street, verso la Fremont, immersa nei suoi
pensieri. Che cosa avrebbe detto? Che cosa poteva dire? Come poteva
spiegare? Non riusciva a credere di averlo ritrovato.
Dopo un anno di false partenze e di false speranze dolorosamente deluse,
alla fine lo aveva ritrovato. Aveva parlato per due volte al telefono con i suoi
genitori, Howard e Geraldine. Una volta dopo la sua prima, incerta lettera, per
ringraziarli della comprensione, e la seconda poche settimane prima, per
comunicare loro che desiderava incontrano. In entrambe le occasioni erano
stati circospetti ma gentili. No, non glielo avevano mai detto, le avevano
assicurato. Oh, ci avevano pensato molto, ma sembrava che non fosse mai il
momento giusto. Ne avevano riparlato qualche mese prima. E poi,
naturalmente, era arrivata la sua lettera. Dal nulla.
Risalì Fremont Street. Le querce lungo il marciapiede erario quasi spoglie:
sotto i suoi piedi, il terreno era umido e appiccicoso per le foglie rosse e oro.
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Guardò le case. Gli Ellison dovevano essere ricchi. L’alto, imponente ed
elegante edificio di mattoni godeva di una magnifica vista su Lake Shore
Drive. Sì, erano più che benestanti: altrimenti come si sarebbero potuti
permettere lui?
All’improvviso, una raffica di vento spazzò la strada, sollevando le foglie
secche. Lei superò un minuscolo campo da basket incastrato fra due case.
Un gruppo di ragazzi stava giocando. Si fermò un secondo a guardare.
«Forza, Darrel! Prendila! »
Lei si bloccò. Un ragazzo saltò più in alto degli altri e la felpa grigia che
indossava si alzò, rivelando la pancia nuda. Restò immobile in aria per una
frazione di secondo prima di puntare al canestro. Quando atterrò, si levò un
grido e una mezza dozzina di mani si alzarono per incontrare la sua.
«Perfetto. Fantastico. Bel tiro. »
Il ragazzo ruotò su se stesso e riprese la sua posizione a bordo campo. I loro
sguardi si incontrarono per un secondo. Lui le rivolse un sorriso rapido e
spontaneo. Un paio di giocatori le fischiarono mentre si disponevano al centro
del cortile. «Ehi, bambola!» le gridò uno. Gli altri risero. Adolescenti. Un
gruppo misto, ma tutti con la solita divisa: pantaloni larghi dal cavallo basso e
felpe con il cappuccio. Praticamente indistinguibili l’uno dall’altro. Tranne uno.
Lei avvertì qualcosa agitarsi dentro di sé. Sentì il sangue colorarle le guance
e il cuore battere più veloce. Lo avrebbe riconosciuto ovunque. Ovunque nel
mondo.
1
Port-au-Prince, Haiti, 1985
In un pomeriggio caldo e afoso di maggio, senza un filo di vento, l’aria
immobile e opprimente, .Améline, la reste-avec dì casa St Lazàre, aprì la
porta del salottino, trascinando dietro di sé il secchio e gli stracci, Erano le tre
e la calura era ancora intensa. Madame St Lazàre stava facendo la sua
abituale siesta e la casa era immersa nel silenzio. Nulla si muoveva, neppure
le lancette dell’orologio del nonno nell’angolo: sj erano fermate quando il
marito di Madame, che Améline non aveva mai conosciuto, era morto.
Almeno, questo era ciò che Madame raccontava. Le tre e cinque minuti di un
sabato pomeriggio. Améline non sapeva se era vero o no.
Chiuse con attenzione la porta dietro di sé. Era l’unico momento in cui aveva
il permesso di entrare nel salottino. Cléones, l’anziana cuoca e cameriera,
non poteva più chinarsi, così il compito di lucidare le assi di legno era
naturalmente ricaduto su Améline. Appoggiò il secchio e prese gli stracci,
procedendo veloce tra i mobili scuri e massicci che piacevano tanto a
Madame. Sul legno bruno ogni granello di polvere risaltava come il borotalco
che a volte Améline si cospargeva sulla pelle la domenica, quando andava a
messa con Cléones. Sollevò i candelabri d’argento, da tempo senza più
candele, e vide che avevano bisogno di essere lucidati. Li rimise con cautela
al loro posto, ripromettendosi di pulirli prima che lo sguardo d’aquila di
Madame notasse che erano opachi e lei si guadagnasse un bel rimbrotto.
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Passò con delicatezza lo straccio sulle due statuette di porcellana arrivate da
un negozio di Parigi. Glielo aveva detto Laure, la nipote sedicenne di
Madame. Prima spolverò le teste dipinte, poi le lisce, rigide pieghe delle
gonne, infine i piedistalli. Fu allora che la vide sul panno verde: una busta
azzurrina della posta aerea. La fissò, le pupille dilatate per la tensione. Si
diede una rapida occhiata intorno e poi la fece scivolare nella tasca del
grembiule. Madame non sarebbe scesa prima delle cinque, quando il sole
cominciava finalmente ad abbassarsi. Laure quasi certamente si trovava nel
suo rifugio preferito, sull’albero di jacaranda fuori dalla finestra della sua
camera, sul terzo ramo da terra. Doveva portargliela, e in fretta. Prima che
Madame scendesse.
Sistemò rapidamente i cuscini, raddrizzò il plaid sul sofà e spazzò alla bell’e
meglio il pavimento. Lo avrebbe lucidato più tardi: adesso aveva qualcosa di
più urgente da fare. Uscendo, passò il piumino sopra la porta e la chiuse,
lasciando il secchio e gli stracci nel ripostiglio vicino alla cucina. Poi attraversò
la casa di corsa, prima che Cléones andasse a ispezionare il suo lavoro.
Infilò la porta sul retro e si ritrovò nel cortile, la lettera che le frusciava contro
le cosce mentre correva. Si sarebbe scatenato l’inferno quando Madame
avesse scoperto che la busta era scomparsa. Se ne sarebbero preoccupate
più tardi. Lei e Laure avrebbero inventato una scusa per giustificare il fatto
che la lettera fosse finita nelle mani della nipote: che fosse indirizzata a lei
non aveva alcuna importanza.
“Laure St Lazàre”, nella grafia di Belle St Lazàre, la madre di Laure che
viveva a Chicago. Améline si precipitò verso l’albero, agitando la busta
davanti a sé. «Lulu! Lulu! Guarda! Guarda che cosa ho trovato!»
La voce di Améline frantumò bruscamente il sogno a occhi aperti di Laure. La
ragazza sospirò. Era un sogno così piacevole... Il soggetto era, come sempre,
la sua immediata partenza da Haiti, valigia in mano: lei che attraversava una
pista d’asfalto per raggiungere un enorme aereo che l’avrebbe portata a
Chicago da sua madre, lontana dall’atmosfera soffocante della casa della
nonna e da quei pomeriggi afosi che le rendevano i capelli crespi e il naso
lucido. Sbirciò giù, attraverso i rami. «Cosa c’è?»
Améline le tendeva qualcosa, agitandola freneticamente. Laure guardò
meglio. Era una lettera. Il cuore prese a batterie forte. Una lettera? Di Belle?
Quasi non osava sperano.
«L’ho trovata per caso» bisbigliò Améline alzando la busta sopra la testa.
«Proprio adesso, mentre pulivo nel salottino. Ecco, prendila. Presto! Prima
che Cléones la veda.» Si arrampicò goffamente sul ramo più basso e gliela
tese.
Laure si sporse e l’afferrò, il cuore che le martellava nel petto. La busta
azzurrina poteva significare una sola cosa: una lettera di Belle. Una lettera di
maman. La tenne eccitata fra le mani, come se non riuscisse a crederci. Poi
abbassò di nuovo lo sguardo, ma Améline se n’era già andata. La sua
figuretta esile e forte ondeggiò nel giardino fino a scomparire dalla vista.
Laure tornò a fissare la lettera. Sì, era la grafia infantile e rotonda di sua
madre; il timbro era di Chicago.
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Guardò la data: 3 marzo 1985. Ci erano voluti due mesi perché arrivasse fino
a lei. Fissò di nuovo la busta, poi l’aprì con le dita che tremavano.
Aggiornata il lunedì 21 aprile 2008
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