Dio non e` grande

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Dio non e` grande
LIBRO
IN ASSAGGIO
DIO NON E' GRANDE
DI CHRISTOPHER HITCHENS
Dio non è grande
DI CHRISTOPHER HITCHENS
Capitolo primo
A voler essere gentili
Se il futuro lettore di questo libro volesse andare oltre il disaccordo con
l’autore e intendesse individuare i peccati e le deformità che l’hanno spinto a
scrivere (e ho sistematicamente notato come coloro che fanno pubbliche
dichiarazioni di carità, compassione e perdono siano spesso inclini a seguire
tale corso di pensiero), beh, costui o costei non se la prenda con
l’inconoscibile e ineffabile creatore che — presumibilmente — mi ha fatto cosi.
Essi denigreranno il ricordo di una donna dabbene, semplice e sincera, di
solida e rispettabile fede: il suo nome è Mrs Jean Watts.
E stata Mrs Watts, quando ero un bambino di circa nove anni e frequentavo
una scuola nel Dartmoor, nell’Inghilterra del Sudovest, a impartirmi lezioni
sulla natura e anche sulle Sacre Scritture. Ci portava a passeggio in una zona
particolarmente piacevole della mia bella contrada natale e ci insegnava a
distinguere tra i diversi uccelli, le diverse piante e le diverse erbe. La
stupefacente varietà che si poteva trovare in una siepe di arbusti; il miracolo
di un mucchietto di uova scoperto in un nido intricato; il modo in cui se le
ortiche ti pizzicavano le gambe (dovevamo portare i pantaloncini corti) c’era a
portata di mano una foglia di balsamica acetosa: tutto questo mi si era fissato
in mente, esattamente come il «museo del guardiacaccia», dove i contadini
del posto esponevano cadaveri di topi, donnole e di altri predatori e animali
nocivi, probabilmente forniti da qualche divinità meno benevola. Se provaste a
leggere le imperiture poesie rurali di John Clare, potreste cogliere la musica di
quel che desidero esprimere.
In altre lezioni ci veniva distribuita una striscia di carta stampata dal titoletto
«Esplora le Scritture», inviata alla scuola da non ricordo quale autorità
nazionale sovrintendesse all’insegnamento della religione. (Insegnamento,
insieme al rito quotidiano delle preghiere, obbligatorio e fatto rispettare dallo
stato). La striscia conteneva un versetto dell’Antico o del Nuovo Testamento e
la consegna era di analizzarlo e poi dire alla classe o all’insegnante,
oralmente o per scritto, quali ne fossero la storia e la morale. Era un esercizio
che mi piaceva e vi primeggiavo (come Bertie Wooster), e spesso prendevo
ottimo in Scrittura. E stata la mia iniziazione alla critica pratica e testuale.
Leggevo tutto quanto precedeva il versetto e tutto quanto lo seguiva per
essere sicuro di aver colto il « punto » della formulazione originale. Lo posso
ancora fare, con grande fastidio di alcuni miei nemici, e ho sempre rispetto
per coloro il cui stile è talora liquidato cone «puramente» talmudico o coranico
o «fondamentalista». E un addestramento mentale eccellente e necessario.
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Tuttavia, venne il giorno in cui la povera, cara Mrs Watts fece il passo più
lungo della gamba. Nell’ambizioso tentativo di fondere i suoi due ruoli di
istruttrice di scienze naturali e di insegnante della Bibbia, disse: «Vedete
dunque, bambini, quanto Dio sia generoso e potente. Ha fatto gli alberi e
l’erba verdi, e il verde è il colore più riposante per i nostri occhi. Immaginate
come sarebbe terribile se, invece, la vegetazione fosse tutta rossa o
arancione».
Attenti a cosa aveva combinato quella devota e sciocca vecchietta. Amavo
Mrs Watts: era una vedova affettuosa e senza figli che aveva un decrepito e
mite cane da pastore dal nome spavaldo di Rover, e ci invitava fuori orario
scolastico per delle merende nella sua vecchia casa un po’ sgangherata
vicina alla ferrovia. Se Satana la scelse per farmi cadere nell’errore, si rivelò
molto più inventivo dell’astuto serpente del paradiso terrestre. Non alzava mai
la voce e mai faceva mostra di violenza
— cosa che non si potrebbe dire di tutti gli altri insegnanti — e, in linea di
massima, era una di quelle persone il cui ritratto troviamo in Middlemarch,
delle quali si può dire che se «le cose non vanno così male per te e per voi
come sarebbe stato possibile [è] per metà merito di coloro che condussero
tenacemente una vita nascosta e riposano in tombe neglette».
Tuttavia, restai sinceramente sgomento per ciò che disse. I miei piccoli
sandali col cinghietto alla caviglia si torsero d’imbarazzo per lei. All’età di nove
anni non avevo di certo la nozione di disegno intelligente né della rivale
concezione dell’evoluzione darwiniana, e neppure del rapporto tra fotosintesi
e clorofilla. I segreti del genoma mi erano ignoti come lo erano peraltro a
chiunque in quell’epoca. Non avevo visitato luoghi della natura dove quasi
tutto è disgustosamente indifferente o ostile alla vita umana, se non alla vita
stessa. Semplicemente sapevo, quasi avessi accesso privilegiato a
un’autorità più alta, che la mia insegnante era riuscita a fare ben due
affermazioni sbagliate. Gli occhi si erano adattati alla natura, e non all’inverso.
Non pretendo di ricordare ogni cosa perfettamente, o in sequenza, dopo
questa epifania, ma non ci avevo messo molto a notare altre stranezze.
Perché, visto che dio era il creatore di tutte le cose, eravamo tenuti a
«lodarlo» se faceva ciò che per lui era tanto naturale? Mi sembrava una cosa
servile, a parte ogni altra considerazione. Se Gesù poteva guarire i ciechi che
per caso incontrava, perché non guariva la cecità? Cosa c’era di tanto
meraviglioso nel cacciare i diavoli, se poi questi entravano in un branco di
porci? Mi sembrava qualcosa di sinistro: una sorta di magia nera. Con tutte le
preghiere che si dicevano, perché non c’erano risultati? Perché dovevo
continuare a dire pubblicamente che ero un miserabile peccatore? Perché
l’argomento del sesso era considerato così nocivo? Simili obiezioni
claudicanti e infantili scoprii poi che erano diffusi luoghi comuni, anche perché
nessuna religione è in grado di rispondervi in modo soddisfacente. Ma se ne
presentava un’altra e più ampia. (Dico «se ne presentava» invece di «mi
veniva alla mente», perché tali obiezioni sono non solo insuperabili, ma anche
ineludibili). Il direttore, che presiedeva alle funzioni religiose e alle preghiere
quotidiane brandendo la Bibbia ed era un sadico omosessuale velato (che ho
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da tempo assolto perché accese in me l’interesse per la storia e mi fece
conoscere Wodehouse), ogni pomeriggio impartiva ad alcuni di noi una
lezioncina spicciativa. «Adesso magari non riuscite a capire il senso di tutte
queste cose della fede, — diceva. — Ma lo capirete un giorno, quando
comincerete a perdere i vostri cari».
A queste parole provavo, ancora una volta, una fitta di autentica indignazione
e insieme un senso di incredulità. Perché era come dire che la religione
poteva non essere vera, ma questo non importava, dal momento che si
poteva ricorrere a essa per trovarvi conforto. Assolutamente spregevole.
Avevo, all’epoca, quasi tredici anni e stavo diventando un insopportabile
piccolo intellettuale. Non avevo mai sentito parlare di Sigmund Freud —
sebbene mi sarebbe stato di grande aiuto per capire il direttore — ma stavo
giusto dando una scorsa al suo saggio L’avvenire di un’illusione.
Vi sto infliggendo tutto ciò perché non sono di quelli la cui opportunità di
attingere la vera fede sia andata distrutta per violenze subite nell’infanzia o
per un grossolano indottrinamento. So che milioni di esseri umani hanno
dovuto sopportare queste cose e non penso che le religioni possano o
debbano essere assolte per averle imposte. (Assai di recente, abbiamo visto
la Chiesa di Roma infamata per la sua complicità nell’imperdonabile peccato
di pedofilia ovvero, per dirla alla latina, « nessun didietro di bambino deve
essere lasciato ») Ma altre organizzazioni non religiose hanno commesso
crimini analoghi, se non peggiori.
Restano ancora quattro inaggirabili obiezioni nei confronti della fede religiosa:
distorce completamente le origini dell’uomo e del cosmo; riesce — proprio a
causa di tale errore — a combinare il massimo della servilità con il massimo
del solipsismo; è sia l’esito che la causa della dannosa repressione sessuale;
e, infine, si fonda sulla credenza in ciò che si desidera sia vero.
Non penso di essere presuntuoso se dico di avere scoperto (come di avere
notato il fatto più ovvio e comune, cioè che la religione è utilizzata da chi
detiene il potere temporale per ammantarsi di autorità) queste quattro
obiezioni prima di cambiare voce. Sono moralmente certo che milioni di
persone siano giunte a conclusioni assai simili alle mie e nello stesso identico
modo, e da allora ne ho incontrate ovunque nei paesi più diversi. Molti non
hanno mai creduto e molti hanno abbandonato la fede dopo una difficile lotta.
Altri hanno avuto folgoranti insorgenze di incredulità, istantanee proprio come
Saul di Tarso sulla via di Damasco, per quanto meno epilettiche e
apocalittiche (in ogni caso, più razionalmente e moralmente giustificate). E
proprio questo il punto, per quanto riguarda me e chi la pensa come me. La
nostra fede non è una fede. Non intendiamo basarci esclusivamente sulla
scienza e sulla ragione, perché queste sono elementi necessari piuttosto che
sufficienti, ma diffidiamo di qualsiasi cosa contraddica la scienza o offenda la
ragione. Possiamo non essere d’accordo su molte cose, ma rispettiamo la
libera ricerca, la spregiudicatezza e il perseguimento delle idee per il loro
intrinseco valore. Non rimaniamo dogmaticamente attaccati alle nostre idee: il
disaccordo tra il professor Jay Gould e il professor Richard Dawkins riguardo
all’e evoluzione punteggiata» e ai punti lacunosi della teoria post darwiniana è
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ampio e profondo, ma lo si potrà risolvere con prove e ragionamenti e non
con reciproche scomuniche. (La mia irritazione nei confronti di Richard
Dawkins e di Daniel Dennet, per la loro imbarazzante proposta secondo la
quale gli atei dovrebbero presuntuosamente definirsi come «gli intelligenti»,
rientra in un contenzioso di lunga data). Non siamo immuni dalle lusinghe del
meraviglioso, del mistero e del timore reverenziale:
abbiamo la musica, l’arte e la letteratura, e troviamo che Shakespeare,
Tolstoj, Schiller, Dostoevskij e George Eliot affrontano assai meglio i gravi
dilemmi etici che non i miti morali dei libri sacri. La letteratura, e non la Sacra
Scrittura, nutre la mente e — visto che non esiste un’altra metafora —
l’anima. Non crediamo nel paradiso e nell’inferno, ma nessuna statistica
riuscirà a dimostrare che, senza simili blandizie e minacce, commettiamo più
crimini di avidità e violenza dei credenti. (In realtà, se potesse mai essere
fatta un’indagine corretta in proposito, sono convinto che sarebbe vero
l’opposto). Siamo rassegnati a vivere una volta sola, salvo che tramite i nostri
figli, ai quali siamo assolutamente felici di fare spazio. Incliniamo a
considerare quanto meno probabile che, una volta accettato il fatto di una vita
breve e travagliata, si finirebbe con il comportarsi meglio gli uni verso gli altri,
e non peggio. Crediamo senza titubanze che una vita etica possa essere
vissuta senza religione. E diamo per ovviamente vero il corollario: che la
religione ha fatto si che innumerevoli individui non solo non si siano
comportati meglio degli altri, ma ha concesso loro il permesso di comportarsi
in modi che farebbero sollevare il sopracciglio di una tenutaria di postriboli o
di un appassionato di pulizia etnica.
E, cosa più importante di tutte, noi infedeli non abbiamo bisogno di alcun
meccanismo di rinforzo.
Aggiornata il giovedì 17 aprile 2008
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
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