CONDOMINIO E FALLIMENTO (*)
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CONDOMINIO E FALLIMENTO (*)
CONDOMINIO E FALLIMENTO (*) di Luca Damian Le modifiche apportate dalla L. 80/2005 alla struttura della legge fallimentare, presentano per il condominio, non poche novità di rilievo, specie e soprattutto in relazione al caso di fallimento di un condomino proprietario di bene comune vista la modifica dell’art. 24 L. fall. e dell’art. 181 disp. att. c.p.c. Facciamo un breve e magari noioso punto della situazione relativa alle modifiche della L. fallimentare. La nuova struttura della legge fallimentare tende a favorire l’aumento dei compiti e delle funzioni del curatore in un’ottica che vuole affermare la rapidità (spesso mai avuta nei procedimenti precedenti) forse anche a costo di riduzione dei margini di garanzia per il soggetto passivo e per i creditori. Partendo dal presupposto che si conosca in generale la struttura del fallimento tentiamo di addentrarci nello schema classico delle possibilità del condominio in presenza di un condomino fallito. Il fallimento di un condomino, quasi certamente, si accompagna ad una situazione di morosità del condomino-fallito. In questi casi il primo problema da affrontare è la definizione del soggetto legittimato alla proposizione della domanda di ammissione al passivo anche alla luce del nuovo disposto dell’art. 93 della legge fallimentare. Partiamo da un dato certo. La legittimazione attiva alla sottoscrizione della domanda di insinuazione al passivo, che ai sensi del comma I deve avvenire entro 30 giorni prima dell’udienza fissata per l’esame dello stato passivo, è del legale rappresentante del Condominio ovvero l’amministratore (in tal senso Trib. Milano 2 marzo 2006; Corte di appello di Palermo 14 aprile 1956). La giurisprudenza, relativamente dubbiosa sulla necessità che l’insinuazione nel fallimento potesse essere domandata direttamente dall’interessato senza il ministero del procuratore in vigenza della vecchia normativa (Cass. 30 gennaio 1979 n. 661) ha oggi, con la nuova formulazione dell’art. 93 certezza assoluta su tale possibilità. L’art. 93 espressamente stabilisce nel secondo comma che «il ricorso può essere sottoscritto anche personalmente dalla parte e può essere spedito anche in forma telematica o con altri mezzi di trasmissione purché sia possibile fornire la prova della ricezione». Cosa deve contenere la domanda di ammissione al passivo del fallimento proposta dall’amministratore? La nuova legge prevede che la domanda contenga: 1) l’indicazione della procedura e le generalità del creditore; nel caso di specie trattandosi di un condominio l’indicazione del codice fiscale dello stesso condominio, le indicazioni del suo rappresentante legale-amministratore e i dati fiscali di quest’ultimo. 2) La determinazione della somma che si richiede ed, in particolare, il distinguo tra spese straordinarie e ordinarie che come vedremo hanno un diverso regime ed ordine di importanza in ordine alla distribuzione delle somme. 3) La succinta esposizione dei fatti e gli elementi di diritto che costituiscono la ragione. Trattandosi di condominio (e quindi in mancanza di prove certe tipiche dell’imprenditore quali fatture e copia autentica delle scritture contabili) per analogia al disposto dell’art. 63 disp. att. c.c. la domanda dovrà contenere copie autentiche della delibera di conferma o nomina dell’amministratore per evitare contestazione di carenza di legittimazione, copia del bilancio consuntivo e preventivo, copia del verbale di approvazione bilanci e dei relativi riparti. Ricordiamo che l’incertezza su uno dei sopramenzionati requisiti determina l’inammissibilità della domanda di ammissione al passivo. 4) L’eventuale diritto di prelazione vantato dal condominio. Nel caso di specie trattandosi di ammissione al passivo per crediti maturati anteriormente alla dichiarazione di fallimento bisogna distinguere tra debiti maturati su gestioni ordinarie (generali consumo-ascensore) e quelle per spese straordinarie necessarie alla conservazione dell’immobile del fallito. Per i primi il credito è meramente chirografario e quindi con poche possibilità di recupero, per il secondo il credito è privilegiato (privilegio speciale) stante il combinato disposto dell’art. 111 L. fall. e degli articoli 2770 e 2775 c.c. 5) L’indicazione del telefax, l’indirizzo di posta elettronica o l’elezione nel comune del circondario ove è posto il tribunale. Può accadere, come soventemente avviene, che il condominio per le ragioni più disparate (dalla mancata comunicazione del curatore all’ignavia dell’amministratore) non abbia presentato istanza di ammissione al passivo nei termini stabiliti (30 giorni prima dell’udienza fissata per l’esame stato passivo). In questo caso, l’art. 101 L. fall. consente la proposizione di domanda tardiva. A contrario di ciò che avviene per la domanda di ammissione al passivo ex art. 93 per il quale il ricorso può essere sottoscritto anche personalmente dalla parte, la nuova formulazione dell’art. 101 tende ad escludere la possibilità di proposizione autonoma della parte se non patrocinata con il miniARCH. LOC. E COND. 02/2007 141 stero del procuratore legale confermando un antico atteggiamento giurisprudenziale della Suprema Corte (13 ottobre 1961 n. 2127) ma, talvolta, contestato nella prassi di alcuni tribunali. Questo perché sulla domanda di ammissione tardiva si deve procedere come per l’opposizione del creditore escluso. La domanda di insinuazione tardiva apre il giudizio contenzioso in cui, ai sensi del codice di rito, il creditore deve essere rappresentato da un procuratore legale all’uopo nominato. In difetto, la domanda e il relativo procedimento sono affetti da nullità rilevabile ex officio. Il procedimento poi avviene secondo le regole dell’art. 93 e ss. e cioè, presentazione di ricorso contenente tutti i requisiti della domanda di ammissione al passivo e meglio specificati nell’art. 93 depositata in Cancelleria, a cui segue la fissazione da parte del giudice delegato di udienza di comparizione e termine per la notifica al curatore. Importante ricordarsi che il termine non è prorogabile per cui se la notifica avviene oltre il termine assegnato la domanda diviene improcedibile e non è riproponibile. Discorso diverso deve essere fatto per le spese condominiali imputabili all’immobile del fallito e generatesi successivamente alla sentenza di fallimento. Nella nuova formulazione dell’art. 111 bis i crediti prededucibili devono essere accertati con le modalità di cui al capo V, con esclusione di quelli non contestati per collocazione e ammontare, anche se sorti durante l’esercizio provvisorio, e di quelli sorti a seguito di provvedimenti di liquidazione di compensi dei soggetti nominati ai sensi dell’articolo 25; in questo ultimo caso, se contestati, devono essere accertati con il procedimento di cui all’articolo 26. Per i crediti prededucibili, sorti dopo l’adunanza di verificazione dello stato passivo ovvero dopo l’udienza alla quale essa sia stata differita, si provvede all’accertamento ai sensi del secondo comma dell’articolo 101. A contrario di ciò che avviene per la domanda di ammissione al passivo ex art. 93 la domanda di ammissione di credito condominiale maturata successivamente al fallimento dovrà essere quindi sottoscritta da un legale. Se ciò è vero in teoria, è altresì vero che nella prassi, in molti tribunali, l’ammissione di crediti condominiali è ammessa anche su istanza del curatore, il quale si limita a comunicare al giudice l’avvenuta accettazione del riparto delle spese condominiali approvato dall’assemblea del condominio. Ciò che ci si deve chiedere è se tutte le spese condominiali successive alla chiusura del fallimento siano prededucibili. Certamente lo sono le spese straordinarie. Alcuni dubbi, invece, sulle spese di gestione ordinaria. Certamente le spese di gestione ordinaria sono prededucibili quando vengono autorizzate dal giu- 142 ARCH. LOC. E COND. 02/2007 dice o dal curatore, per esempio autorizzando il fallito a risiedere nell’immobile. Alcuni dubbi nel caso in cui l’immobile sia libero e non venga autorizzato l’uso dello stesso. In questo caso la giurisprudenza maggioritaria (facendo riferimento all’esperienza della vecchia legge fallimentare) era orientata a non considerare le spese condominiali prededucibili ma semplicemente chirografarie e tardive perché non necessarie alla gestione fallimentare o a conservare il bene immobile alla sua destinazione. In questi casi, compito del buon amministratore sarà quello di far venire meno tutte le spese non necessarie per quell’immobile (es. chiudendo il riscaldamento). Ulteriore novità introdotta dall’art. 111 bis è, quella per la quale se i crediti prededucibili sorti nel corso del fallimento sono lliquidi, esigibili e non contestati per collocazione e per ammontare, possono essere soddisfatti al di fuori del procedimento di riparto se l’attivo è presumibilmente sufficiente a soddisfare tutti i titolari di tali crediti. Il pagamento deve essere autorizzato dal comitato dei creditori ovvero dal giudice delegato se l’importo è superiore a euro 25.000,00. Se l’attivo è insufficiente, la distribuzione deve avvenire secondo i criteri della graduazione e della proporzionalità, conformemente all’ordine assegnato dalla legge. In considerazione di ciò, l’amministratore condominiale può chiedere il pagamento delle spese gestionali e straordinarie senza attendere la chiusura del fallimento o la vendita dell’immobile. Pur sapendo di comunicare un’ovvietà, ricordo che l’esclusività del rito dell’accertamento del passivo esclude che l’amministratore del condominio possa avvalersi del procedimento monitorio ex art. 63 disp. att. c.c. per il pagamento degli oneri condominiali prededucibili del fallito (Trib. Palmi 18 agosto 2005). Ulteriore posizione da chiarire è il caso del fallimento di uno solo tra i tanti comproprietari di un appartamento in condominio. In questo caso, stante il disposto di cui all’art. 1292 c.c., il Condominio potrà, trattandosi di obbligazione in solido dei comproprietari, rivolgersi direttamente ad uno solo degli altri comproprietari. Ricordiamo infatti che quando più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione, l’adempimento coattivo di uno per la totalità libera gli altri fatto salvo il diritto di rivalsa. Può però accadere (si pensi all’ipotesi di scuola del marito proprietario del 50% fallito e della moglie proprietaria dell’altra metà sottoposta a pignoramento o ipoteca) che il condominio possa trovare, maggiore convenienza (es. spese prededucibili) all’insinuazione al passivo del fallimento presupponendo una liquidazione più rapida anche alla luce della nuova formulazione dell’art. 111 bis. In questo caso la circostanza che il fallito sia comproprietario di un immobile con il coniuge non impedisce al condominio di insinuarsi ad essere ammesso al passivo del fallimento per l’intero credito vantato, ai sensi dell’art. 61 L. fall. (Trib. Milano, 27 luglio 1995 - ottima nota del Prof. MASSARO). Novità assoluta anticipata nelle premesse è quella introdotta dall’art. 24 L. fall. in relazione al caso del fallimento di un condomino proprietario di quote indivise di beni immobili anche ed in relazione alla nuova formulazione dell’art. 181 disp. att. c.p.c. A questo proposito possono definirsi diverse situazioni: a) quota di bene immobile condominiale ricadente in un fallimento di un condomino e quota rimanente libera; b) quota di bene immobile condominiale ricadente in un fallimento, e quota restante sottoposta, in tutto o in parte, ad esecuzione individuale. Anteriormente all’entrata in vigore delle modifiche alla legge fallimentare le medesime possibilità ed opzioni riservate ai creditori procedenti ed al giudice dell’esecuzione, secondo la prevalente dottrina, dovevano ritenersi adottabili anche nell’ambito della procedura fallimentare, che rimandava alle norme in tema di espropriazione immobiliare con l’art. 105 L. fall. Pertanto il curatore fallimentare poteva instare per la separazione in natura (BOZZA, La liquidazione di quota indivisa di beni immobili, ne Il Fallimento e le altre procedure concorsuali 1989, 465) e il giudice delegato poteva disporlo solo nel caso in cui tutti i comproprietari fossero presenti nel giudizio fallimentare. In realtà il giudizio di scioglimento della comunione doveva essere introdotto se non con la notificazione di una domanda giudiziale nei modi ordinari da parte del cu rato re falli ment are ai comproprietari. Non solo, la domanda di divisione giudiziale doveva essere iniziata nel luogo dove era presente il bene condominiale che poteva essere diverso da quello della sede legale dell’imprenditore fallito. Oggi tutto è cambiato. Per i fallimenti che si sono aperti a decorrere dall’1 luglio 2006, è venuto meno il richiamo che l’art. 105 L. fall. faceva alle norme dell’esecuzione individuale. Peraltro, il più ampio margine di manovra riconosciuto al curatore dall’art. 107 L. fall. (modificato dall’art. 94 del D.L.vo n. 5 del 9 gennaio 2006) gli permetterà comunque di optare per la soluzione che gli sembri più conveniente fra la vendita della quota indivisa e lo scioglimento della comunione. Ulteriore particolarità è che il curatore nella scelta tra la vendita della quota condominiale e la divisione non è soggetto alle regole e alla presunzione di disfavore espresso per la vendita della quota indivisa di cui all’art. 600 comma 2 c.p.c., per cui ogni valutazione di convenienza è rimessa al prudente apprezzamento del curatore, ciò perché come abbiamo già detto è venuto definitivamente meno il richiamo alle norme dell’esecuzione individuale di cui al vecchio testo dell’art. 105 L. fall. In definitiva la vendita della quota indivisa, non dovrà più necessariamente passare per l’asta pubblica (con o senza incanto), obbligatoria nel previgente sistema giusta il vecchio testo dell’art. 108 L. fall. Se invece si opta per lo scioglimento di comunione si deve rammentare che il nuovo testo dell’art. 24 L. fall. non riporta più l’esclusione della competenza del tribunale fallimentare per le azioni reali immobiliari; il che comporterà che la divisione – dovunque si trovi l’immobile – potrà svolgersi davanti al tribunale fallimentare nelle forme del giudizio camerale previsto dagli artt. da 737 a 742 c.p.c., con il giudice delegato nella veste di giudice relatore. Infatti, pur dovendosi riconoscere che la possibilità di intraprendere la causa di divisione si trovava già nel patrimonio del fallito comproprietario, avendo questi un diritto potestativo allo scioglimento della comunione, è evidente che la necessità della liquidazione della quota di sua spettanza, attuabile per l’appunto con la divisione, sorge solo con la procedura concorsuale e che essa incide sulla composizione della massa attiva; dal che appare sostenibile l’applicabilità dell’art. 24 L. fall. (in precedenza escluso stante la natura di azione reale immobiliare della divisione). Oltre a ciò con la modifica dell’art. 181 disp. att. c.p.c. è intervenuta la scomparsa del limite della competenza territoriale. La modifica dell’art. 181 disp. att. c.p.c., facilita la trattazione del giudice di divisione da parte del giudice delegato, anche per beni siti al di fuori del circondario di competenza del tribunale fallimentare. (Tale modifica è immediatamente applicabile alle procedure in corso, salvo che vi sia già stata disposta la vendita). Per i fallimenti aperti a decorrere dall’1 luglio 2006 si rammenta che la competenza del tribunale fallimentare nelle forme del giudizio camerale rende più agile la causa di divisione iniziata in quest’ambito dal curatore, rispetto a quella instaurata dai creditori nell’ambito dell’esecuzione individuale. (*) Intervento svolto al XVI Convegno Coordinamento legali della Confedilizia tenutosi a Piacenza il 9 settembre 2006. ARCH. LOC. 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