L`altro mediterraneo - Provincia di Pesaro e Urbino

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L`altro mediterraneo - Provincia di Pesaro e Urbino
L’altro mediterraneo
Forse nessun luogo come il Mediterraneo è stato interpretato in modi diametralmente
opposti dalle culture che si sono sviluppate lungo le sue sponde. La “grande pianura
d’acqua”, come la definì F. Braudel, è stato il mare nostrum dei Romani, così come il
bahr-al-Rum, il “mare dei Bizantini” per gli Arabi. L’espressione latina nasce dal
carattere inclusivo della cultura romana, dal tentativo di inglobare le differenze,
uniformandole all’insegna di un solo centro politico, Roma; l’espressione araba –
oggi dimenticata – sottolineava la pericolosità di un mare in cui era possibile
incontrare l’altro, il diverso e, spesso, il nemico. Oggi, il Mediterraneo è percepito
come un luogo separato da un’invisibile, ma potentissima faglia culturale, che divide
il nord dal sud, l’Europa dall’Africa e dall’Asia, l’occidente dall’oriente. Il grande
specchio d’acqua allontana irrimediabilmente popoli e culture, creando un “al di
qua” e “un al di là”, separazioni profonde vissute, da chi vive da una parte e
dall’altra, come assolute. Ma – si chiede giustamente Valentina Colombo, curatrice di
una raccolta di racconti arabi intitolata L’altro Mediterraneo 1 - “l’altro che vive
sull’altra sponda di questo bacino è così diverso da noi? E’ davvero così estraneo?”.
E questi interrogativi retorici vengono rilanciati al lettore occidentale, il quale,
leggendo, entra tra le pieghe di vissuti complessi e insieme universali, sbirciando da
dietro la porta le stanze e i luoghi raccontati da una manciata di autorevolissimi
autori arabi, in cui si muove un’umanità a tratti dolente a tratti vitalissima, fino a che
è costretto ad uscire allo scoperto e riconoscere la consanguineità della propria
cultura con quella descritta. Tuttavia, viaggiare dentro i mille meandri dei racconti
non ci spinge tanto a dire che non esistono differenze, quanto piuttosto a riconoscere,
oltre le differenze, quei denominatori comuni dell’umanità che troppo spesso
vogliamo dimenticare quando ci riferiamo al mondo arabo-musulmano,
quell’esperienza dell’essere vivi che appartiene all’uomo tout court,
indipendentemente dalla soluzione culturale nella quale è immerso.
Emblematico, a questo proposito, è il racconto breve della scrittrice egiziana Daisy
Al-Amir Storia andalusa 2 , ambientato in una scuola per stranieri presumibilmente
inglese e che ha per protagonisti una ragazza araba e un ragazzo spagnolo. I due
studenti si incontrano davanti ad un distributore automatico di caffè e si riconoscono
come estranei in un paese che non è il loro, scambiandosi appena poche parole. Per la
ragazza, si tratta di superare le barriere culturali di origine che le fanno avvertire
come una minaccia il semplice dialogo con un coetaneo dell’altro sesso. La giovane,
dunque, deve attraversare un guado invisibile perché non condiviso dagli altri
ragazzi, per i quali non vi è nulla di minaccioso in un colloquio come quello. Per il
ragazzo, invece, l’incontro è un modo attraverso il quale recuperare la propria
identità, le proprie radici culturali, fino a riconoscersi spagnolo e insieme arabo. Il
viaggio verso la studentessa comporta una radicale messa in discussione di sé, con
l’intento di riuscire a mettere tra parentesi la diversità esteriore per poter recuperare
1
V. COLOMBO (a cura di), L’altro Mediterraneo. Antologia di scrittori arabi del Novecento, Mondadori, Milano 2004
D. AL-AMIR, Storia Andalusa, in V. COLOMBO, op. cit., pp. 267-271. La scrittrice è nata ad Alessandria d’Egitto
nel 1935 e cresciuta a Bagdad. Si è in seguito trasferita in Inghilterra, dove si è laureata in lingua inglese e araba.
2
una profonda consanguineità, simbolicamente individuata nella propria “arabicità”.
Entrambi i protagonisti, quindi, devono essere disposti ad eccedere i loro significati, a
travalicare le proprie categorie: da un lato, la ragazza deve superare se stessa, la sua
ritrosia, le sue difficoltà di comunicare con un mondo e con individui che le
sembrano lontani, inarrivabili e, in parte, alieni; dall’altro, il ragazzo deve
riconoscersi come vicino, al di là dei segni di superficie che marcherebbero una
incolmabile distanza. La “terra straniera” nella quale si incontrano, dunque, si
connota di significati universali, divenendo l’allegoria di un mondo in cui nessuno
può dirsi mai veramente a casa e rassicurato. Rappresenta la complessità nel suo
doppio risvolto di impedimento, di barriera, di incomprensibilità e, insieme, di
possibilità, nel senso che, sembra dire Al-Amir, solo se si è disposti ad avvertirsi
stranieri vi è una possibilità per incontrarsi davvero. Ma, riconoscersi come estranei
in una terra inospitale, conduce a prendere coscienza anche del fatto che l’incontro
comporta un viaggio di conoscenza, in cui è possibile perdere tutto, il proprio
passato, la propria appartenenza, i propri valori, senza sapere con certezza se si
acquisterà qualcosa in cambio. “Il passato è prezioso perché deve essere
dimenticato 3 ”, afferma la giovane araba, cosciente di quanto sia ineluttabile che
qualcosa di sé e del proprio mondo si infranga quando entra in contatto con realtà
altre. Viaggiare, quindi, significa anche correre il rischio di dimenticare, di perdere
qualche briciola della propria visione del mondo per far posto ad altri orizzonti. E
questo aspetto del viaggio di conoscenza è forse il più tremendo perché comporta uno
sconfinamento in territori foschi e inesplorati, di cui non si conoscono i sentieri o,
addirittura, possono essere scambiati per sentieri anche semplici venature della terra.
E così, quando la ragazza crede di ravvisare l’arabicità del giovane nei suoi modi
decisi, il ragazzo le confessa che sta per partire, per recarsi in un’altra nazione, dalla
quale sarebbe presto ripartito per far ritorno alla sua “Andalusia”. Il mondo costruito
e rinnovato nel semplice dialogo dei due giovani entra in una nuova fase di
turbolenza, di instabilità, che diviene il simbolo dell’indecifrabilità del destino
umano. Quello spazio interiore creato per ospitare il confronto con l’altro sembra
essere stato un inutile tentativo di fermare il dinamismo degli eventi; quella parte di
sé sacrificata per lasciare spazio ai significati sussurrati del giovane pare essere stato
un inutile tributo versato all’insensatezza e alla vacuità del mondo. Ma non è così: la
ragazza araba riscopre nei discorsi del ragazzo che le parla del suo paese e dei suoi
problemi, ma anche delle sue personali aspirazioni, dei suoi dolori e delle sue
speranze, i problemi, le aspirazioni, i dolori e le speranze universali: “ed era come se
si chinasse verso un arabo del suo paese (…) 4 ”. Ciò che si è apparentemente
cancellato di sé nel tentativo di lasciare posto alla rivelazione dell’altro ha prodotto
nella ragazza la capacità di cogliere, a sua volta, la consanguineità di lui, il suo essere
innanzi tutto vicino e universale, al di là delle distanze inscritte nelle culture. Allora
gli occhi le si riempiono di lacrime, perché non sa cosa fare né dove andare. “L’unica
cosa che sapeva era che avrebbe aggiunto nel cassetto dei ricordi una storia
andalusa”.
3
4
D. AL-AMIR, op. cit., p. 268
Ib., p. 270
Lo stesso tema, trattato da un’angolazione diversa, meno lirica e più serratamene
filosofica, ritorna anche nel racconto intenso e toccante dello scrittore yemenita Amin
Ba Giunaid: “Attenzione!” 5 , nel quale due uomini discutono in modo acceso se il
colore bianco sia da preferire al nero o viceversa. Il lettore viene catapultato in media
res senza conoscere il contesto della conversazione, quasi fosse un passante
indiscreto che origlia il dialogo acceso di due amici. Da subito, però, si comprende
che si stanno confrontando due posizioni ideologiche molto ben delineate e
contrastanti. La prima coincide con quella dello strenuo difensore del colore bianco,
il quale ammette che è lecito per l’altro preferire il nero al bianco, ma lo ritiene
comunque sbagliato. Il nero – afferma – è indifendibile: è il colore della notte,
dell’oscurità, del tempo in cui si commettono “delitti e crimini”. E’ quindi un colore
da vietare all’uomo di sani principi e occorre fare il possibile per salvare l’ingenuo
dalle sue lusinghe. Viceversa – egli afferma – il bianco non ha necessità di essere
difeso, perché la sua superiorità è autoevidente: è quindi lecito preferire il nero al
bianco, ma non è giusto!
La risposta del suo interlocutore, l’unico dei due di cui si conosce il nome, Abd alRahim, è, invece di segno opposto e rappresenta la seconda linea ideologica del
dialogo. Per al-Rahim è indubbio che le diversità tra i due colori siano incolmabili,
ma, sostiene, “per non trasformare la differenza alla quale non v’è scampo in una
lotta, in un conflitto, oppure in una guerra fredda su tutti i fronti, bisogna ammettere
ed essere convinti della libertà di preferire questo a quello”. Occorre, quindi, mettere
a tema che ci siano ragioni ignote al sostenitore del bianco che rendono il nero
preferibile per il sostenitore di tale colore. E’ necessario, dice al-Rahim, essere in
grado di pensare che esistano delle motivazioni che eccedono le proprie capacità di
comprensione e, perché no, la propria intelligenza, quasi nel senso etimologico di
intus legere, di leggere dentro le cose. Prima ancora di giudicare e di dividere il
mondo secondo traiettorie di valori unilaterali, per al-Rahim è necessario scoprirsi
umili davanti alla complessità di un mondo che va oltre la propria capacità immediata
e mediata di comprenderlo nella sua interezza. Bisogna affidarsi al “dubbio”, dice
l’uomo, ossia alla capacità di interrogare, che non coincide tanto con un dubitare
dell’altro, ma che comporta anche il coraggio di dubitare di sé, fino a poter ravvisare
la ragione dell’altro. Anche in questo frammento narrativo, dunque, emerge il rischio
dell’incontro, il pericolo che nasce dal mettersi in discussione bruciando ogni schema
classificatorio, quando si determinano situazioni-limite che non vanno sottovalutate.
L’incontro con l’altro è sempre una minaccia, quindi, perché comporta una
contropartita che non è affatto certa e che potrebbe addirittura coincidere con la
nullificazione di sé. Ma è un rischio che occorre affrontare e sfidare se non si vuole
restare imprigionati dentro le gabbie di una sorta di imperialismo conoscitivo che
tenta sempre di conciliare l’incomprensibile del mondo con le proprie categorie.
Conoscere significa sentirsi minacciati, ma vuol dire anche comprendere che solo
quella è la via che ci conduce fuori da una rigida autoreferenzialità; è l’unico modo
5
AMIN BA GIUNAID, Attenzione!, in V. COLOMBO, op. cit., pp. 260- 264. Lo scrittore è nato a Mukalla, nello
Yemen, nel 1947. Dopo essere stato per anni giornalista radiofonico, ora lavora presso l’amministrazione dell’istruzione
nella sua città natale.
che ci permette di evitare l’equivoco di sentirci gli unici “intelligenti”al mondo. Amin
Ba Giunaid, quindi, non vuole rassicurare circa la difficoltà del dialogo in presenza di
differenze marcatissime; non prospetta soluzioni facili e immediate. Indica una strada
che comporta il desiderio, la volontà e la pertinacia di mettersi in discussione, mossi
dal convincimento di fondo che – per usare le parole di Geertz 6 – il mondo è troppo
complesso per saltare velocemente alle conclusioni.
Nelle parole dello scrittore yemenita, dunque, traspare un invito al relativismo
conoscitivo, inteso – ed è bene ripeterlo – non come un negare valori assoluti
abbracciando un nichilismo da quattro soldi; quanto piuttosto nel senso del negare
valore assoluto alle proprie capacità di comprendere, di contenere in sé tutti i
significati. La via del dialogo sembra per Ba Giunaid un sentiero in salita, difficile e
per nulla piacevole, ma anche l’unico percorribile se si vuole evitare che la nettezza
delle differenze divenga un moltiplicatore di tensione o, peggio, una causa di
conflitto, e finisca col trasformarsi nell’alibi che ci impedisce di cogliere l’umanità
universale della persona. E il Mediterraneo è, in senso figurato, ma anche reale, un
luogo in cui si intersecano differenze che da troppo tempo si sono dimenticate di
confrontarsi, perseguendo l’idea di fondo che ignorare il valore dell’altro significhi
gerarchizzarlo e non riconoscerlo come consanguineo.
6
Cfr. C. GEERTZ, Antropologia e filosofia. Frammenti di una biografia intellettuale, Il Mulino, Bologna 2001, p. 61.